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L'uomo Di Fronte A Dio

Il documento di G. Battista Guzzetti esplora la relazione dell'uomo con il divino attraverso una storia delle dottrine e dei culti, analizzando le pratiche religiose dalle culture primitive fino al cristianesimo e oltre. Viene discussa l'importanza del culto, delle espressioni di venerazione e dei sacrifici, evidenziando le diverse motivazioni e significati attribuiti a queste pratiche nel corso della storia. Infine, il testo si propone di esaminare l'atteggiamento da assumere nei confronti del sovrumano, ponendo le basi per una morale religiosa che integra ragione e rivelazione.

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L'uomo Di Fronte A Dio

Il documento di G. Battista Guzzetti esplora la relazione dell'uomo con il divino attraverso una storia delle dottrine e dei culti, analizzando le pratiche religiose dalle culture primitive fino al cristianesimo e oltre. Viene discussa l'importanza del culto, delle espressioni di venerazione e dei sacrifici, evidenziando le diverse motivazioni e significati attribuiti a queste pratiche nel corso della storia. Infine, il testo si propone di esaminare l'atteggiamento da assumere nei confronti del sovrumano, ponendo le basi per una morale religiosa che integra ragione e rivelazione.

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G.

BATTISTA GUZZETTI
L'UOMO DI FRONTE A DIO
______________

INDICE GENERALE

INTRODUZIONE

PARTE PRIMA
CENNO DI STORIA DEI FATTI E DELLE DOTTRINE

Cap. I. - I primitivi e il culto

Cap. II. - Il culto nel mondo classico


§ 1. Il culto nel mondo greco
§ 2. Il culto nel mondo romano

Cap. III. - Il culto nel mondo ebraico


§ 1. La concezione teoretica
§ 2. Gli atteggiamenti morali

Cap. IV. - Gesù e il culto


§ 1. La concezione teoretica
§ 2. Gli atteggiamenti pratici

Cap. V. - Gli Apostoli e il culto


§ 1. La posizione teoretica
§ 2. Gli atteggiamenti pratici.

Cap. VI. - I secoli della patristica e il culto


§ 1. Le posizioni teoretiche.
§ 2. Gli atteggiamenti morali.

Cap. VII. - L'Islamismo e il culto

Cap. VIII. - Il Protestantesimo e il Concilio di Trento


§ 1. Il Protestantesimo
§ 2. Il Concilio di Trento

Cap. IX. - Dalla Controriforma alla ripresa religiosa


§ 1. Sforzo di ricostruzione delle forze religiose
§ 2. Laicizzazione della cultura e della vita

Cap. X. - La ripresa religiosa e i problemi del nostro tempo


Conclusione della prima parte

PARTE SECONDA

SINTESI DELLA CONCEZIONE CRISTIANA DEL SOVRUMANO

Cap, unico. - Sintesi della concezione teoretica cristiana


PARTE TERZA

LA SOLUZIONE CRISTIANA

Sez. I. - LA NORMA.

Libro I. - L'uomo di fronte a Dio

Cap. I. - Il contenuto del culto

Cap. II. - Le espressioni del culto


§ 1. Le espressioni del culto in generale
§ 2. Le forme del culto in particolare: la devozione
§ 3. Le forme del culto in particolare: il sacrificio

Cap. III. - I Tempi del culto

Cap. IV. - Gli uomini del culto: il sacerdozio

Cap. V. - I luoghi del culto

Cap. VI. - Il culto al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo

Libro II.
L'uomo di fronte al sovrumano non divino
Cap. I. - L'uomo di fronte alla Madonna

Cap. II. - L'uomo di fronte ai santi

Cap. III. - L'uomo di fronte agli angeli

Sez. II. - LA DEVIAZIONE: IL PECCATO.

Cap. I. - Considerazioni generali

Cap. II. - Accenno a qualche peccato in particolare.

Sez. III. - LA RIPARAZIONE DEL PECCATO.

PARTE QUARTA
QUESTIONI PARTICOLARI

Cap. I. - Noi e la fede


Cap. II. - La speranza
Cap. III. - La carità
Cap. IV. - Indice dei libri proibiti
Cap. V. - Giuramento.
Cap. VI. - Voto.
Saggio bibliografico

______________
INTRODUZIONE

L'uomo trova di fronte a sé un gruppo di realtà cui dà il nome di cose: gli esseri
inorganici, i vegetali e gli animali; inoltre trova accanto a sé altri esseri della sua
stessa natura, ossia degli uomini.
Accanto al problema del come comportarsi di fronte a se stesso si pone certamente
il problema del come comportarsi di fronte alle cose e come comportarsi di fronte
agli altri uomini. Già. tre capitoli o tre parti o tre trattati: atteggiamento da
assumere con se stesso, atteggiamento da tenere con le cose (morale economico-
sociale). e atteggiamento da tenere di fronte agli altri uomini (morale sociale-
politica).
Esiste qualche altro settore della realtà? Esiste qualche altro mondo? E per
conseguenza esiste qualche altra parte della morale?
Anche quest'ultimo problema può essere affrontato e risolto o solo coi mezzi
razionali o anche con l'ausilio della rivelazione.
La scienza che vuol risolvere il problema indicato, mediante la ragione e la
rivelazione, si dice morale religiosa 1.
Da quanto s'è detto appaiono subito alcuni punti che vorremmo sottolineare:
1. Anche qui, come dovunque, la morale ha come suo oggetto proprio la ricerca
dell'atteggiamento da assumere, della condotta da tenere, del criterio con cui
giudicare quando si fa bene e quando si fa male, a che cosa si ha diritto e a che cosa
si è obbligati. Anche qui come altrove la morale non ha per scopo di descrivere gli
atteggiamenti che si son tenuti o si tengono riguardo al sovraumano, ma la ricerca
dell'atteggiamento da tenere.
2. Però a differenza di quanto avviene per gli altri trattati qui è
___________________________
1 Si noti che anche qui non procediamo aprioristicamente. Stabiliamo delle idee (la
parte della morale che studia secondo la ragione e la rivelazione l'atteggiamento da
assumere di fronte a Dio); poi ad esse diamo un nome: «morale religiosa»,
8
necessario fermarsi alquanto a dimostrare l'esistenza di un mondo sovraumano.
Mentre per gli altri trattati il termine, verso cui si chiede qual è l'atteggiamento da
assumere, è dato, qui invece non lo è.
3. Inoltre anche qui, come altrove, il problema non è nuovo. Già altri se l'è posto
prima di noi. È bene che noi prendiamo conoscenza delle soluzioni date e degli
atteggiamenti effettivamente assunti per non correre il pericolo di risolvere male dei
problemi che l'umanità forse ha risolto bene da tempo. Qui, come dovunque,
bisogna guardarsi dai pericoli connessi con certi «cartesianismi», tendenti a porre i
problemi come se nessuno se ne fosse occupato prima di noi o nessuno se ne
occupasse accanto a noi. Per questa via si evitano certo i pericoli di un culto
eccessivo della tradizione e si sfugge indubbiamente ai pregiudizi ch'essa ha
accumulato nel suo cammino secolare; ma nel tempo stesso ci si priva delle
conquiste ch'essa ha raggiunte.
4. Di qui allora già tre parti della nostra trattazione:

PARTE PRIMA: Cenno di storia dei fatti e delle dottrine riguardo al sovraumano.
PARTE SECONDA: Cenno sulla dimostrazione dell'esistenza e sulla natura del
sovraumano.
PARTE TERZA: La condotta da assumere verso il sovraumano.
Ad esse aggiungeremo una PARTE QUARTA nella quale riprenderemo con maggior
libertà e maggior ampiezza alcune questioni particolari.
Evidentemente delle diverse parti la più importante è la terza.
La prima e la seconda sono in funzione di essa: ci chiediamo che cosa han pensato e
come si son comportati gli uomini lungo i secoli per trarre vantaggio dalla loro fatica
e forse dai loro errori. L'indugio poi sulla dimostrazione dell'esistenza e della natura
di Dio è per porre le basi stesse del problema: se risultasse infatti che Dio non esiste
si porrebbe non più un problema etico - ossia il problema del come comportarci di
fronte al sovrumano - ma un problema psicologico; dovremmo cioè domandarci non
come dobbiamo comportarci di fronte a Dio, ma come mai l'umanità è giunta a
porre l'esistenza di un essere sovrumano e a dargli tanta importanza,
PARTE PRIMA
CENNO DI STORIA DEI FATTI E DELLE DOTTRINE

CAPITOLO I
I PRIMITIVI E IL CULTO

I primitivi ammettono una realtà estra-mondana dalla quale derivano, dalla quale
dipendono ed alla quale devono rendere conto delle proprie azioni1.
Le concezioni sono assai varie, ma molto rozze. Sostanzialmente è presente l'idea
monoteista, anche se le forme sono fortemente politeiste.
I rapporti nostri con loro sono assai stretti. I primitivi «si mettono in rapporto con
questi Esseri Supremi riconoscendo la propria molteplice dipendenza da essi e
l'importanza di essi per la propria sorte buona o cattiva. Ne sono altrettante prove il
timore dei loro castighi, che li induce a tralasciare quanto gli Dei proibiscono e ad
osservare quanto essi comandano; inoltre il rispetto e la simpatia dei racconti mitici,
che descrivono la potenza e l'assistenza di questi Esseri Supremi; il rispetto col quale
è pronunciato il loro nome, la cura di non pronunciarlo inutilmente; in fine il
significato stesso di tale nome, specialmente quello di «padre» e di «creatore». Tutti
questi sono atti di omaggio e di venerazione, che quei popoli non dedicano a nessun
altro essere.
Ma noi troviamo nei popoli delle culture primitive anche atti di deferenza verso
l'Essere Supremo che esprimono una vera e propria venerazione, e precisamente
anche atti di comunicazione diretta tra l'uomo e l'Essere Supremo, come da persona
a persona, dall'«io»
_________________________
1 Per l'ulteriore sviluppo di codesti argomenti vedi le storie delle religioni; vedi
anche G. SCHMIDT, Manuale di storia comparata delle religioni, trad. ital., III ed.,
Morcelliana, Brescia 1943, pp. 373-415. Si noti che Schmidt parla delle attuali
culture primitive.
12
al «tu», che costituiscono una religione vera e propria, perché vivamente sentita.
Tali sono le preghiere, i sacrifici e le solenni cerimonie” 2. Vediamo qualcosa del
sacrificio.
Esso è prevalentemente offerta delle primizie dell'agricoltura, della pesca e della
caccia e «di piccole parti del cibo prima di gustarne, In tutti questi casi si tratta di
sostanze alimentari, cioè di mezzi coi quali si conserva la vita, che, secondo le
credenze di quelle tribù, sono proprietà assoluta dell'Essere Supremo, il quale, come
ha dato la prima volta all'uomo la vita, così dà ora agli uomini anche i viveri, in
proprietà o godimento, a condizione che se ne servano con ordine, discrezione e
rispetto, allo scopo di sostentare la vita. Molto interessante è in proposito, nel ciclo
culturale artico, il sacrificio primiziale del cranio e delle ossa lunghe degli animali da
caccia (orsi, renne), che si offrono senza aprirli, cioè contenenti ancora la parte più
preziosa, il cervello, il midollo” 3.
La vittima è costituita solitamente da esseri non umani. Indubbiamente non
mancano casi di codesto genere. In certi momenti drammatici non si esita a
sacrificare alla divinità anche i propri figli. Ma non sono che casi eccezionali.
Gli scopi fondamentali del sacrificio sembrano i seguenti:
A) Latreutico. - Il sacrificio è atto di riconoscimento della propria dipendenza dalla
divinità. Anche presso quei popoli (es. Mesopotamici, Ittiti, ecc.) che talvolta
concepirono il sacrificio come un pasto offerto agli dei (pensati molto
antropomorficamente), sorse subito il concetto che l'uomo ha il dovere di un tributo
più o meno grande alla Divinità, tributo che rende mediante il sacrificio.
B. Eucaristico. - Lo scopo di ringraziamento è evidente nell'offerta alla divinità di
una parte dei beni raccolti, del bottino dopo una vittoria, ecc.
C) Impetratorio. - È lo scopo più evidente e più diffuso. Il sacrificio viene offerto per
ottenere il favore degli dei. Esso è considerato il mezzo più adatto per interessarli ai
casi degli uomini in particolari necessità (come caccia, pesca, guerre, costruzioni,
ecc.) per ottenere la pioggia, un buon raccolto, la vittoria sui nemici, ecc.
_______________________
2 G. SCHMIDT, l. c., p. 397.
3 G. SCHMIDT, l. c., p. 401 s.
13
D) Espiatorio. - Anche questo scopo è evidente, soprattutto nel sacrificio cruento.
«Al rombar del tuono, che è la voce dell'Essere Supremo Kari, i Pigmei Semang della
Malacca si incidono con un coltello di bambù una piccola ferita al ginocchio,
mescolando il sangue che ne esce con acqua e lanciano la miscela da una ciotola
verso il cielo, chiedendo contemporaneamente perdono dei loro peccati, che poi, se
il temporale dura lungo tempo, confessano uno per uno ad alta voce»4. Presso gli
antichi Germani «il costume di sacrificare i prigionieri, o i delinquenti, o le vittime, in
generale, non era ... un semplice atto di vendetta e di crudeltà, ma un'azione
espiatoria compiuta in onore degli dei su quelli che, secondo la credenza popolare,
avevano attirato sul paese l'ira divina» 5.
Infine, il sacrificio si presenta come una sostituzione dell'uomo e tende verso
l'offerta della cosa migliore.
Il sacrificio è un segno. «L'animale rappresenta realmente l'offerente. "L'agnello è il
sostituto dell'umanità.
"Egli (l'offerente) ha sacrificato l'agnello per la sua vita.
"Egli ha offerto la testa dell'agnello per la testa dell'uomo.
"Egli ha offerto il petto dell'agnello per il petto dell'uomo" ...
Poiché l'agnello o l'animale sgozzato sostituisce l'offerente, in realtà è questi che
dona la sua vita al suo dio».
Il sacrificio tende verso l'offerta della cosa migliore. Si offrono infatti primizie,
oggetti di valore, la parte più bella del bottino; le vittime devono essere senza difetti
(come presso i Babilonesi), pure ed integre *** (come presso i Greci), non devono
avere difetti fisici né aver mai sopportato il giogo (presso i Romani).
__________________
4 Q. SCHMIDT, l. c., p. 401.
5 B. VIGNOLA, La religione degli antichi Germani, in P. TACCHI-VENTURI, S. J., Storia
delle religioni, II ed., U.T.E.T., Torino 1944, p. 31.
6 G. BOSON, La religione sumero-accadiana e babilonese-assira, in P. TACCHI-
VENTURI, S. J., Storia delle religioni, II ed., U.T.E.T., Torino 1944, p. 197.
Probabilmente è questa la spiegazione di certi sacrifici umani presso i Cananei. Dice
il Furlani: «Probabilmente si trattava... di sostituzioni di bambini e qualche volta
anche di adulti ad intere popolazioni che qualche demone voleva distruggere o
danneggiare. Se un demone o un dio cattivo, più vicinò ad un demone che a un vero
dio, attaccava qualche famiglia o qualche città nell'intento di danneggiarla gli si
offriva in riscatto di sì grande numero di persone la vita di un bambino e in casi
veramente eccezionali quella di qualche adulto, allo scopo di rabbonirlo e muoverlo
a desistere dalle sue insidie ...» (La religione dei Cananei, in P. TACCHI-VENTURI, S.J.,
l. c., p. 97).
14

CAPITOLO II

IL CULTO NEL MONDO CLASSICO

§ 1. Il culto nel mondo greco.

I. - La concezione teoretica del sovrumano nel mondo greco è troppo nota perché
sia necessario esporla qui analiticamente, tanto più che - come osserva giustamente
il De Marchi - «all'esposizione anche succinta della meravigliosa fioritura mitica della
Grecia, quale venne svolgendosi attraverso i secoli appena basterebbe un volume ...
È il rigoglio e l'esuberanza di una foresta vergine dove le piante si confondono e si
soverchiano e che sorprende con la sua massa densa, piena di luci, di misteri, di voci
più o meno distinte. Il medesimo dio pigliò talvolta, secondo i tempi, le regioni e le
stirpi, fattezze e attitudini diverse così da non parere più lo stesso; ogni città gli dava
una storia sua, ogni tempio ne narrava leggende locali, e spesso era in una località
massimo dio quello che altrove era negletto o ignorato» 1.
II. - Il culto nel mondo greco. Assai diffusa nel mondo greco è la preghiera. Senza di
essa «non si incominciava nessun atto pubblico o privato d'importanza; la preghiera
accompagnava i banchetti e le sedute di Consiglio, gli spettacoli teatrali e le
assemblee di popolo, la battaglia e il giudizio, e la parola "theòi" (gli dei) scritta in
testa agli atti pubblici suonava come una breve invocazione, che metteva sotto la
protezione divina la cosa deliberata»2.
___________________
1 Gli Elleni nelle istituzioni e nel costume, nell'arte e nel pensiero, II ed., Vallardi,
Milano 1924, p. 46 s.
2 Gli Elleni ..., p. 82.
15
Il loro contenuto è facilmente immaginabile. Nei Memorabili di Senofonte è detto
come Socrate insegnasse che si doveva pregare: «agli dei rivolgeva solamente la
preghiera di concedergli il bene, ben conoscendo gli dei quale bene fosse; e quelli
che chiedevano oro, argento, potere ed altre cose simili stimava non differire per
nulla da quelli che chiedessero giuochi di dadi o battaglie o altre cose di tal genere,
manifestamente incerte nel loro esito». «Ma l'insegnamento del filosofo» - nota
anche il De Marchi - «non doveva trovare molti ascoltatori fra i preganti di Zeus... e
se Luciano fa dell'esagerazione satirica in quel suo dialogo in cui finge che Zeus in
ascolto delle preghiere dei mortali non ne raccolga che di siffatte: "fammi crescere
l'aglio e le cipolle", "fa che presto muoia mio padre"..., vero è che l'interesse
materiale ispirava la maggior parte delle preghiere informate per lo più al principio
del do ut des» 3.
Le forme esteriori del culto sono diverse. «Frequente tra le formule di preghiera fu
certamente la litania, in cui il dio era invocato con tutti i suoi epiteti, e di cui può
essere un esempio il principio dell'inno così detto omerico, ad Are: "Are,
strapotente, gravator di cocchi, dall'aureo elmo, d'audace animo, clipeato, scotitor
di città, vestito di bronzo, dalla salda mano, instancabile, forte nell'asta, muro
d'Olimpo, padre della ben combattente Vittoria, aiuto di Temide, per gli avversari
tiranno, guida dei giusti...". A capo scoperto, ritto in piedi e a voce alta pregava di
solito il greco e questo atteggiamento pare espressione dell'uomo e della religione
se pensiamo all'orientale che si prostrava e al romano che si copriva la testa col
lembo della toga. Alzavano le mani al cielo pregando quando si invocavano gli dei
superi, o le protendevano verso l'onde invocando gli dei del mare, e verso terra nella
preghiera agli inferi, anche inginocchiandosi e toccando il suolo. Passando dinanzi ad
un'immagine sacra il pio faceva l'atto del proskunein, ossia gli mandava il bacio con
la mano. Ma la più lieta caratteristica della greca religione era l'inno ...» 4.
Assai diffuso era il sacrificio. Le vittime variavano di specie, di sesso, di età e di
colore secondo il dio, la festa e il tempio. Ecco ad esempio, quali vittime erano
prescritte nella celebrazione dei
____________
3 Ibid., p. 82.
4 L. c., p. 84.
16
misteri di Andania: «Gli animali che è necessario aver pronti prima di iniziare i
misteri sono: due agnelli bianchi, un ariete di bell'aspetto per la purificazione, tre
porchetti per la purificazione in teatro, cento agnelli per i primi iniziati, una scrofa
pregna per la processione a Demetra, una vitella di due anni e una scrofa per le
Grandi Dee (Demetra e Persefone), un ariete per Erme, un capro ad Apollo Carni o,
una pecora alla Santa (Persefone)»5. In ogni caso però dovevano essere vittime
scelte, senza difetti e non animali da lavoro. Talvolta non si esitò nemmeno a
ricorrere a vittime umane: «Più frequenti nei tempi antichi, furono via via sostituite
da forme simboliche più consone ai mutati costumi, ma del tutto non cessarono
mai: vi ricorse Epimenide, sacerdote famoso per pietà e scienza divina, quando fu
chiamato da Creta a purificar Atene dalla strage dei partigiani di Cilone; vi ricorse,
benché riluttante, Temistocle quando fu indotto a far sacrificio di alcuni prigionieri
persiani prima della battaglia di Salamina; e ancora nel secondo secolo dopo Cristo
vittime si offrivano come sacrificio ordinario a Zeus Liceo. Accenna ad avvenuta
sostituzione il mito del sacrificio di Ifigenia a cui, nel punto di essere sacrificata,
Diana sostituì una cerva; ma più chiaramente ne parla il curioso rito di Tenedo, dove
si nutriva una vacca pregna, e quando s'era sgravata la si curava come una puerpera,
mentre il vitellino calzato di scarpe lo si conduceva come un bambino all'altare ed
era sacrificato da un sacerdote che doveva però, compiuto il rito, fuggire inseguito a
colpi di pietra dalla folla» 6.
Siamo così al discorso sul sacerdozio. Codesto istituto era, in Grecia, assai fiorente.
Il sacerdote «conosce la scienza del rito e quella del responso; sa le formule con le
quali il dio si placa o concede le sue grazie; dall'adempimento esatto dei suoi doveri
dipende la fortuna dello stato; dall'esatta interpretazione dei segni divini la fortuna
di una battaglia; dal rito che egli solo può compiere la quiete di una cittadinanza» 7.
Al sacerdozio si arrivava o «per diritto gentilizio, o per elezione o per sorteggio o per
compera. Come insigne esempio del sacer-
____________________
5 DE MARCHI, l. c., p. 90.
6 DE MARCHI, l. c., p. 93.
7 DE MARCHI, l. c., p. 77 ss.
17
dozio gentilizio basti citare i due supremi gradi del sacerdozio di Eleusi, lo jerofante
e il daduco, di cui quello doveva essere scelto dalla schiatta degli Eumolpidi, l'altro in
quella dei Licolmidi: tradizione che forse si fa risalire a tempi remoti ne' quali certi
culti erano solo di una gente prima di essere di uno stato. Il sistema elettivo
parrebbe già in uso nei tempi omerici, poiché nell'Iliade è detto di Teano che «lei
fecero i Troiani sacerdotessa di Atena»; e fu nei tempi storici applicato nelle
democrazie che volevano affidata al popolo la nomina ai pubblici uffici: certamente
l'elezione doveva essere condizionata a certi requisiti che non potevano
scompagnarsi dall'esercizio del sacerdozio. Questo si dica anche per il sorteggio che
Platone raccomandava come il mezzo migliore di scegliere il ministro del dio, perché
lasciava a questi la facoltà della scelta. Ma in più forte contrasto con la dignità
dell'ufficio pare a noi il modo del pubblico incanto de' sacerdozi usato da alcune
città specialmente dell'Asia, quale ci è attestato da parecchie iscrizioni. Una sola
iscrizione di Eritre ricorda la vendita all'incanto di circa quaranta sacerdozi i cui
prezzi variano da un minimo di 10 dramme per il sacerdozio della dea Terra, a un
massimo di 4610 dramme per il sacerdozio di Ermes Agoreo» 8.
Il sacerdote greco è solo un funzionario pubblico: suo compito è di compiere
scrupolosamente il sacrificio e di recitare le preghiere. Non è affatto banditore di
una dottrina, nemmeno, rigorosamente, è tutore di un ordine morale.
Quanto ai luoghi del culto va detto che «gli antri, i boschi, gli alberi, le cime dei
monti, le cavità esalanti vapori, le fonti, dovunque un solenne o misterioso
fenomeno di natura destasse un più profondo o pauroso senso di riverenza, ivi gli
antichissimi Greci sentirono primamente e adorarono la presenza del nume. Anche
quando sorsero i più splendidi templi di marmo, quei naturali recessi del dio non
cessarono di esser onorati di culto, e ne sono notevoli esempi, le grotte di Dikte e
dell'Ida in Creta, sacre al culto di Zeus dalla più remota antichità giù giù attraverso i
secoli fino all'età romana»9. Quanto al tempio greco poi «ci limiteremo ad osservare
che esso, a differenza della chiesa cristiana, è piuttosto
_____________________
8 DE MARCHI, l. c., p. 78 s.
9 DE MARCHI, l. c., p. 70.
18
il soggiorno, la sede del dio, che non l'ecclesia ossia il luogo per l'assemblea dei
fedeli; meta e centro di processioni e di feste anniversarie, non accoglie
giornalmente le turbe dei fedeli; non è rifugio sempre aperto alle anime pie o
smarrite; fatto più per il culto cittadino che per la mistica preghiera dei devoti» 10

§ 2. Il culto nel mondo romano.

I. - La concezione teoretica del sovrumano nel popolo romano è pure così nota che
non ha bisogno di essere esposta qui analiticamente. Solo facciamo notare che
«mentre il dio greco pigliò forme e passioni umane ed ebbe ricchezze di miti, il dio
romano visse per secoli come astrazione, vivo piuttosto nel rituale e nella coscienza
che nella fantasia, essenza divina, ma incorporea, dei fenomeni e delle cose. La
facoltà e la tendenza a concepire e adorare questa quasi anima divina delle cose
nella sua astrazione fu uno dei caratteri salienti della religione romana. Non solo
l'uomo ebbe il suo Genio, ma d'ogni luogo, d'ogni atto, d'ogni momento della vita, si
concepì per astrazione lo spirito e lo si invocò propizio nelle singole occasioni. Così lo
sviluppo di un bambino era circondato da una coorte di potenze divine protettrici:
Vagitano, nel suo vagito, Cunina nelle sue culle, Rumina (ruma = poppa) per
l'allattamento, Potina ed Edua per il suo primo cibo dopo lo svezzamento, Ossipago
per il formarsi delle sue ossa, e perciò anche la prima arte religiosa è arte
d'importazione etrusca e greca e solamente in seguito a questi contatti stranieri le
ombre divine di Roma pigliarono saldezza di persona. Questa azione rinnovatrice nel
campo religioso romano esercitò più che ogni altro popolo la Grecia» 11.
Quanto al contenuto del culto «nulla o poco ci è rimasto dei libri rituali romani, nei
quali erano scritte le preghiere che secondo le occasioni il sacerdote o il magistrato
dovevano recitare; ma è certo che la preghiera ufficiale non ebbe mai carattere
mistico, ma
___________________
10 Ibid., p. 70. Per una prima conoscenza delle Feste religiose greche vedi, ad es., DE
MARCHI, l. c., pp. 99-110.
11 A. DE MARCHI-A. CALDERINI, I romani nelle istituzioni e nel costume, nell'arte e
nel pensiero, Vallardi, Milano 1931, p. 33.
19
rigore di formole... mirava all'esatto adempimento di un atto che non prestasse
ragione a un rifiuto da parte del dio» 12.
Quanto al modo «il romano di solito pregava ritto in piedi, alzando le mani con le
palme aperte, ma a differenza del greco pregava a capo coperto buttando cioè sulla
testa un lembo della toga, piccolo indice anche questo di una più severa e raccolta
religiosità. Nelle preghiere ardenti e desolate si buttava anche carponi innanzi alle
statue degli dei e ne abbracciava le ginocchia o toccava con la fronte la soglia del
tempio; ma l'atto comune dell'inginocchiarsi pregando fu dei riti orientali. Dione
Cassio narra perfino di Cesare e di Claudio che nei loro trionfi salissero in ginocchio
la gradinata del tempio di Giove, ma di quell'atto si sarebbe altamente meravigliato
un antico romano se fosse rivissuto o almeno l'atto gli avrebbe ricordate talune
circostanze particolari in cui i magistrati e il popolo celebravano le cosiddette
supplicazioni» 13.
Con la preghiera «si offrivano agli dei profumi d’incenso e di erba odorosa, libazioni
di vino, di latte, prodotti della terra, focacce, miele, primizie di cibi..., monete sotto
forma di elemosina che veniva data al tempio o al sacerdote o gettata p. es. in una
sacra fonte: esempio tipico la stipe votiva delle Acque di Vicarello o Aquae
Apollinares sul lago Sabbatinus o di Bracciano che consisté di 1688 monete ripescate
nel lago che attestano un culto di secoli. Ma l'atto più solenne era il sacrificio di una
vittima ...» 14.
Il sacerdozio romano comprende diversi gruppi. Innanzi tutto il Collegio dei
pontifices: si occupava di tutto ciò che concerne le relazioni fra gli uomini e gli dei.
Come il Senato si occupava degli affari civili e politici, così essi si interessavano delle
cose religiose, avevano la suprema vigilanza sul culto, sulla celebrazione dei sacrifici,
ecc. In principio il collegio dei pontifices constava di 3 membri, poi di 5, poi di 9, poi
di 15 sotto la presidenza del Pontifex maximus. Inizialmente vi potevano accedere
solo i patrizi; poi, in seguito alla lex Ogulnia, vi furono ammessi anche i plebei.
L'elezione era fatta inizialmente dai loro collegi; Domizio Enobarbo ottenne che
l'elezione fosse fatta dal popolo.
I Flamini. Erano sacerdoti addetti al culto di una determinata
___________________
12 Ibid., p. 86.
13 L. c., p. 88.
14 L. c., p. 89 s.
20
divinità15; dovevano curare in modo particolare i sacrifici regolari al loro dio. Erano
15: 3 maggiori e 12 minori16. Mentre i primi 3 (il flamen Dialis. il f. Martialis ed il f.
Quirinalis addetti rispettivamente al culto di Giove, di Marte e di Quirino)
mantennero sempre il loro prestigio, gli altri dodici finirono a poco a poco
nell'ombra o caddero del tutto nell'oblio con la divinità a cui erano addetti. I Flamini
erano caratterizzati dalla punta del cappello contornata da un filo di lana. Erano
eletti dal popolo nei comizi curiati ed erano inaugurati dal Pontefice Massimo
mediante la cerimonia del captio.
Gli Auguri. Avevano il compito di interpretare la volontà degli dei riguardo ad una
determinata azione che si stava per intraprendere. I segni erano diversi: c'erano i
signa ex caelo (lampi, tuoni, ecc.), i signa ex avibus (corvo, picchio, avvoltoio, ecc.), i
signa ex tripudiis (dal modo con cui inghiottivano il becchime), ecc. Affini agli Auguri
erano gli Aruspici che interpretavano la volontà degli dei dalle viscere degli animali
immolati.
Gruppi di minore importanza erano ad esempio i Feciali, i Salii, i Lupercali, ecc.
Degne di particolare menzione sono le Vestali.
Senza entrare anche qui in ulteriori dettagli ricordiamo che anche a Roma «il
sacerdozio non ha posizioni dottrinali da tutelare, né una dottrina o una legge
religiosa da diffondere tra la gioventù e il popolo»17
______________________
15 L'esclusività del culto a cui erano addetti fece sì che fossero chiamati Flamini
anche i sacerdoti addetti al culto dei singoli imperatori: f. Julianus, f. Augustalis,
Claudialis, Commodianus, ecc.
16 Di dieci soltanto abbiamo il nome: f. Carmentalis, Cerialis, Falacer, Floralis,
Furrinalis, Palatualis, Pomonalis, Portunalis, Volcanalis, Volturnalis.
17 N. TURCHI, Sacerdozio, in «Enciclopedia Italiana», 30, 398. Per una prima
cognizione delle feste religiose e dei luoghi sacri vedi, ad es., DE MARCHI-CALDERINI,
l. c., pp. 108-121 e 64-71.
21

CAPITOLO III
IL CULTO NEL MONDO EBRAICO

§ 1. La concezione teoretica.

In Israele1 troviamo, ovviamente, l'ammissione dell'esistenza di Dio. Non abbiamo


presso gli Ebrei nessun caso di ateismo teorico. L'idea di Dio anzi occupa un posto
importantissimo. Tutte le prove che troviamo nel Vecchio Testamento (che si
fondano sulla grandezza e la bellezza ordinata del creato, sulla miracolosa
protezione del popolo nella sua storia, sul valore degli oracoli divini) sono dirette a
stabilire non l'esistenza di Dio, ma piuttosto le sue proprietà, specialmente contro i
pagani.
La conoscenza di Lui però è fortemente limitata sia dalla nostra pochezza, sia dalla
grandezza sua. La massima rivelazione che troviamo nel Vecchio Testamento è
quella di «Jahweh», l'essere operante e personale. Tutti gli altri appellativi stanno ad
indicare le diverse proprietà che derivano dal suo essere: «El», «Elohim», «Eloah»
(esprimenti l'idea di potenza), l'«Altissimo», il «Dio potente», «Adonai» (il Signore),
ecc.
Le sue proprietà più importanti sono:
1) Unicità. - Il Dio d'Israele è il solo Dio; non ce ne sono altri.
Il Decalogo inizia con le parole: «Io, Jahweh, sono il tuo Dio; non devi avere altro dio
all'infuori di me» (Es. 20, 2. 3). In 2 Maccabei, 1, 24-29 si prega così: Signore Iddio,
che sei il creatore di
______________________
1 Consideriamo le posizioni teoriche e pratiche di Israele a modo di unità, come se il
mondo ebraico avesse avuto sempre e dovunque le stesse concezioni e gli stessi
atteggiamenti.
22
tutte le cose, il terribile e il forte, giusto e misericordioso, il solo sovrano e benefico,
il solo provveditore, il solo giusto e onnipotente ed eterno, colui che salva Israele da
ogni male, che assunse a suoi eletti i padri e li santificò ...». E in Isaia:
«Prima di me non fu alcun dio, e dopo di me non ce ne sarà.
Io, io sono il Signore e fuori di me non c'è salvatore.
Io ho predetto e portato a salvezza mi son fatto sentire io ...»2.
«Sono io, Jahweh, e non altri: fuori di me non v'ha dio» 3.

2) Trascendenza. - Egli è l'Altissimo4, il Signore dell'universo5; i suoi consigli sono


impenetrabili6; è il Creatore e il conservatore di tutto7, è colui al quale le creature
non possono aggiungere nulla8. Chi potrà descrivere la sua grandezza?9. «Noi
potremmo dire ancora molte cose e non giungeremmo mai alla fine; sia questa la
conclusione del discorso: Egli è tutto»10. Dinnanzi a Lui i popoli sono «come la
goccia nel secchio, come un pulviscolo sul piatto della bilancia»11; l'uomo è come
«un soffio che va e non torna»12 come un «nulla»13. Egli è tanto grande che noi
non ne possiamo pronunciare il nome. E che nessun profano abbia l'ardire di varcare
la soglia della sua dimora!

3) Potenza. - Egli è potentissimo. «Non vi è nessuno che possa sfuggire al suo


dominio»14
______________
2 43, 10-12.
3 45, 5. Codesta proprietà di Dio è affermata polemicamente contro il politeismo ed
è forse il motivo per cui nel Vecchio Testamento non venne rivelata, almeno
chiaramente, la trinità delle persone.
4 Cfr. Gn.14, 18-20, 22; Num.24, 16.
5 Cfr. Gn.24, 3. 7; Mich.4, 13; Salm.95, 4. 5.
6 Salm.92, 6.
7 Gn.45, 5; Deut.8, 18; 1 Re 9,1 ss.; Giob.12, 13; Salm.109, 19; 126,1; Prov.10, 22;
Is.26,15, ecc.
8 Giob.22, 2. 3; 35, 7; Prov.9,12; Salm.2,4.
9 Eccli.18, 5.
10 Ibid. 43, 29.
11 Is.40,15.
12 Salm.77,39; Giob.7,16; Salm.143,4.
13 Salm.38, 6.
14 Tob.13,2. Si veda anche la preghiera di Mardocheo in Ester 13,9, il Cantico di
Giuditta (16,14 ss.), Giobbe 8, 1-13; 12, 11,25; Ger.10, 11-16, ecc.
22
«La voce del Signore sopra le acque, il Dio della maestà ha tuonato, il Signore sopra
le acque immense. La voce del Signore è potente.
La voce del Signore è maestosa.
La voce del Signore spezza i cedri; sì, il Signore spezza i cedri del Libano.
Ei fa traballare il Libano come un vitello, e il Sarion come un bufalotto.
La voce del Signore schizza lampi di fuoco. La voce del Signore agita il deserto, il
Signore agita il deserto di Cus; la voce del Signore travolge le querce e spoglia le
selve, e nel tempio di Lui è tutto un dire: Gloria!» 15
«Una parola del Signore creò i cieli, e un soffio della sua bocca li ornò tutti. Egli
raccoglie come le onde marine e pone come in serbatoi le acque degli abissi.
Egli dice ed è fatto,
Egli comanda e tutto esiste.
Il Signore sventa i disegni delle genti, manda a vuoto le trame dei popoli»16.
«Il Signore è re, esulti la terra, si rallegrino le tante isole.
Densa nube lo circonda, giustizia e diritto ne sorreggono il trono. Un fuoco gli va
innanzi
E abbrucia i suoi nemici all'intorno. I suoi lampi rischiarano il mondo; la terra vede e
ne trema ...»17

Ride e si fa beffe dei popoli e degli individui che insorgono contro di lui:
«Si sollevano i re della terra e i principi congiurano insieme contro Dio e contro il suo
Messia: "Spezziamo i loro legami e scotiamo da noi le loro catene".
_______________
15 Salmo 29 (28).
16 Salmo 33 (32), 6-10.
17 Salmo 97 (96).
24
siede nei cieli ne ride, il Signore se ne fa beffe.
Poi loro parla con ira e col suo sdegno li sgomenta ...»18
Si dice nel cantico di Giuditta:
«Guai alle nazioni che si levano contro il mio popolo! Il Signore onnipotente li punirà
nel dì del giudizio, mettendo fuoco e vermi nelle loro carni ed essi piangeranno di
dolore per sempre».19.

4) Sapienza. - Dio conosce se stesso e tutto ciò che è esistito ed esiste. «Egli vede
sino all'estremità della terra e vede tutte le cose che sono sotto il cielo. Quando Egli
determinò l'impeto per il vento e stabilì l'acqua con misura, quando Egli stabilì una
legge per la pioggia, come pure la via per le sonanti procelle, allora Egli la vide (la
sapienza che a Lui serviva di modello) e l'annunziò; la stabilì e la investigò»20. Egli
scruta i cuori degli uomini prima che vengano al mondo; la sua scienza abbraccia i
futuri e i futuribili. «Egli, che formò il loro cuore, scruta tutto il loro agire»21; «ciò
che prima avvenne, tu hai fatto e ciò che più tardi si verificò, tu avevi pensato e
sempre avvenne ciò che tu volesti»22. «Lo spirito del Signore abbraccia tutta la terra
e colui che tutto abbraccia ha conoscenza di ogni discorso» 23.

5) Santità e giustizia. - Egli è il «santo d'Israele» e santo è tutto ciò che a Lui in
qualche modo si riferisce: il luogo in cui abita (il cielo; cfr. Salm.11,4), i posti in cui si
è manifestato (il roveto; cfr. Es. 3,5), quelli in cui è adorato (il monte santo di
Gerusalemme, cfr. Is.27, 13; il tempio, cfr. Es. 26,33; gli altari, cfr. Es.29,37; 30,10), i
giorni destinati al culto (il sabato, cfr. Gn.2,3; i giorni di festa, cfr. Es.12,16; Lev.23,4
ss.), ecc.
Egli manifesterà la sua giustizia su tutti i popoli: «Il Signore degli eserciti sarà grande
nel giudizio e il Dio Santo si rivelerà come santo nella giustizia»24
___________________
18 Salmo 2, 2-5 (trad. Vaccari).
19 Giuditta 16, 17.
20 Giobbe 28, 24-27; cfr. anche Eccli.23,20; Salm.147, 4-5.
21 Salm.33,15.
22 Giuditta 9,4.
23 Sap.1,7.
24 Is.5,16.
25
«I giudizi di Dio sono veraci tutti informati a giustizia, da tener cari molto più
dell'oro, dell'oro finissimo, più gustosi del miele, del miele vergine»
"Rimbombino il mare e quanto è in esso il mondo coi suoi abitanti, i fiumi battano le
mani, i monti tutti insieme applaudiscano alla presenza del Signore, perché viene a
giudicar la terra. Giudicherà il mondo con giustizia, e i popoli con equità»26.

«Giusto sei tu o Signore» - dice Tobia nella sua preghiera - «e tutte le opere tue e
tutte le tue vie sono misericordia e pietà. E tu giudichi conforme a verità e giustizia
sempre» 27. E Baldad in Giobbe 8, 3: «Può forse Iddio dare iniqua sentenza e
l'Onnipotente pervertir la giustizia"».

6) Provvidenza e misericordia. - Amando la virtù, Dio non può non amare i buoni e
proteggerli; avendo orrore del peccato non può sopportare i cattivi.
«Non un Dio favorevole all'iniquità sei Tu non trova posto presso di Te il malvagio,
non reggono al tuo cospetto gli arroganti,
Tu odii tutti i malfattori, mandi a male i bugiardi; gli uomini sanguinari e frodolenti
Tu li abomini, o Signore»28.
«Il Signore prova il giusto e il malvagio; ma chi ama la prepotenza Egli l'odia di cuore.
Pioverà sui malvagi brace di fuoco; zolfo e vento avvampante è la loro parte della
colpa.
Poiché giusto è il Signore, ed ama le giuste azioni; i retti vedranno il volto di Lui»29.

Si occupa delle sue creature e soprattutto dell'uomo: «Non vi è


__________________
25 Salm.19 (18),10 s.; cfr. anche Salm.75 (74).
26 Salm.98 (97), 7-9.
27 Tob.3,2.
28 Salm.5, 5-7.
29 Salm.11 (10). Vedi anche il Salm.9 e 34 (33).
26
alcun dio all'infuori di Lui che di ogni cosa abbia trepida cura»30 «Gli occhi di tutti
sempre guardano a Te e Tu dispensi loro il nutrimento a suo tempo e sazi tutto ciò
che vive di benedizione»31.
In particolare - per un alto disegno di provvidenza per l'intera umanità e senza
trascurare gli altri popoli - si occupa del popolo ebraico; con lui stipula un'alleanza
con delle promesse di protezione da parte divina e un impegno di fedeltà da parte
del popolo, di cui è segno la circoncisione32. Alla fedeltà a questo patto Dio lega la
sua protezione e quindi la felicità del popolo stesso:

«O Dio, l'udimmo con le nostre orecchie ce lo hanno raccontato i nostri padri,


quanto facesti ai loro giorni, ai tempi antichi.
Tu di tua mano hai estirpate le genti e piantati i nostri, hai distrutto le nazioni e
propagati essi, poiché non con la loro spada conquistarono il paese, né il loro
braccio diede ad essi vittoria; ma la tua mano e il tuo braccio, e la serenità del tuo
volto, perché li favorivi ...
Eppure ci hai respinti e coperti di vergogna e più non esci in campo coi nostri
eserciti! Ci fai indietreggiare dall'avversario e saccheggiare dai nostri nemici.
Ci esponi al macello come pecore e ci hai dispersi fra le nazioni.
Vendi il tuo popolo per un niente ...»33

«Per il cielo» - dice Giuda Maccabeo - «non fa differenza salvare con molti o con
pochi, perché il vincere una battaglia non sta nel numero dei soldati, ma dal cielo
viene la forza» 34.
E l'abbandono di Dio è dovuto al peccato: il popolo pecca; Dio l'abbandona; di là le
sventure.
______________
30 Sap.12, 13.
31 Salm.145, 15-16.
32 Cfr. Gn.12, 1-3; 15, 1-21; 17, 1-22, ecc.
33 Salm.44 (43), 1-4. 10-13. Cfr. anche Neemia 9, 6-31; Ger.2,17; 16,11, ecc.
34 1 Macc.3,19. Quando il popolo fa bene, ha Dio con sé e diventa invincibile: si
veda il ragionamento di Achior ammonita alla consulta di Oloferne; il ragionamento
si conclude così: «Se questo popolo è reo di qualche fallo in offesa del suo Dio, e
scopriamo che vi è in esso questo intoppo, assaltiamoli che li vinceremo; ma se sulla
loro gente non pesa alcuna trasgressione, ci passi sopra il mio padrone, che per
avventura il loro Signore e Dio non ne prenda le difese, e noi diventiamo il ludibrio di
tutta la terra» (Giuditta, 5, 20-21),
27
«Triste e squallida è la terra, languisce squallido il mondo; languiscono le sommità
della terra, della terra profanata dai suoi abitanti, perché hanno trasgredita la legge,
violato lo statuto, rotto il patto sempiterno!
Perciò la maledizione divora la terra, e gli abitatori ne pagano il fio ...» 35.

Da questa certezza dell'assistenza divina nasce in Israele una grande fiducia e un


grande abbandono a Lui anche quando non se ne comprendono i disegni 36.
«Dio è per noi rifugio e forza, aiuto ognor pronto nelle difficoltà; perciò non
temiamo, ancorché si sconvolga la terra e precipitino i monti in seno al mare;
fremano e ribollano le sue onde, tremino i monti alla sua fierezza.
Il Signore degli eserciti è con noi, nostra rocca è il Dio di Giacobbe» 37

E Davide, fuggendo dinnanzi ad Assalonne, suo figlio (2 Sam. 15-16), grida al suo Dio
38.
«Signore, come sono numerosi i miei nemici!
Tutti insorgono contro di me!
Tanti dicono della mia vita: "Non ha più scampo in Dio!".
Ma Tu, Signore, mi fai scudo attorno; mia gloria, per Te levo alta la fronte. Con le
mie grida invoco il Signore ed Egli mi esaudisce dal sacro suo monte. Io mi coricai e
dormii; mi risvegliai, perché il Signore mi sostiene. Non temo le migliaia di gente,
che intorno mi assediano.
Levati, o Signore; salvami, o mio Dio, Tu, che smascellasti i miei nemici, rompesti i
denti ai malvagi.
_____________________
35 Is.24, 4-6. È l'idea dominante dei Paralipomeni. Cfr. anche Esdra 5, 12.
36 Cfr. Salm.91, 7; 16, 8; 17, 2-3; 26, 1; 30, 2, ecc. Is.30, 15; 28, 16.
37 Salm.46 (45), 1-4.
38 Salm.3; vedi anche Salm.6; 7; 13 (12); 17 (16); 22 (21); 54 (53); 55 (54); 56 Gi5);
57 (56); 59 (58); 69 (68), ecc.
28
Al Signore la salvezza; sul popolo tuo la tua benedizione».

Anche il peccatore - purché pentito - può sperare nella misericordia di Dio; l'amore
di Lui è più grande di quello dei genitori39 e non ha limiti di tempo; Egli è il Dio delle
consolazioni:
«Eccelso e santo sto assiso ma insieme accanto all'oppresso ed umiliato, per
ravvivare lo spirito degli umili, e per ravvivare il cuore degli oppressi.
Quindi non starò sempre a contestare né senza fine sarò sdegnato; perché da me lo
spirito ha l'esistenza, e le anime le ho create io.
Per l'iniquità che gli fu fatale mi sdegnai, e sdegnato lo percossi nascondendomi a
lui; ed egli, rivoltato se n'andò per la via di suo gusto.
Vidi i suoi andamenti e lo lasciai andare, ora gli rendo consolazioni ...» 40.
«Come uno è consolato dalla propria madre, così voi da me sarete consolati e in
Gerusalemme riceverete conforto» 41

§ 2. Gli atteggiamenti morali.


I. - Il contenuto del culto. - Già dalla considerazione delle proprietà divine discende
l'obbligo del culto e soprattutto dell'adorazione e della preghiera. Tale obbligo è poi
continuamente ribadito soprattutto nel senso che l'adorazione deve essere
attribuita a Dio solo. Si può dire che tutta la storia d'Israele è una lotta per
l'affermazione di questo principio: «Io sono il Signore Dio tuo».
«Io sono il Signore Dio tuo» - si dice nell'Esodo - «che ti trassi dalla terra d'Egitto,
dalla casa di schiavitù. Non avrai altri dei dinanzi a me ... Io sono il Signore Dio tuo,
forte e geloso, che vendico l'iniquità dei padri sopra i figli, fino alla terza e quarta
generazione di coloro che mi odiano: e faccio misericordia in mille generazioni a
coloro che mi amano e osservano i miei comanda-
_______________________
39 Salm.27 (26), 10.
40 Is.57, 15-18.
41 Ibid. 66, 13,
29
menti. Non prendere in vano il nome del Signore Dio tuo: poiché il Signore non terrà
per innocente chi avrà preso in vano il nome del Signore Dio suo» 42.
E per scongiurare il pericolo dell'idolatria si proibisce di far statue di qualsiasi
genere: «Non ti farai alcuna scultura, né alcuna rappresentazione di quel che è lassù
in cielo, o quaggiù in terra; o nelle acque sotto terra. Non adorerai tali cose, né
presterai loro culto» 43. Dove è da notare che non si vuol escludere solo il culto
idolatrico, ma anche la fabbricazione di immagini attribuendo ad esse un culto solo
relativo. Certamente codesta proibizione non era del tutto rigida se Dio ordina a
Mosè di fare dei cherubini d'oro battuto da porre sull'arca (Es.25, 17-21; Num.1,89)
e Salomone a sua volta farà scolpire due altri cherubini in olivo selvatico di dieci
cubiti di altezza le cui ali spiegate riempivano il santuario (2 Re 6, 23) e la lettera agli
Ebrei parla a sua volta di cherubini (11, 5) che coprivano con la loro ombra il
«propiziatorio»; era però una proibizione reale, che trovò dopo l'esilio soprattutto al
tempo dei Maccabei un'applicazione assai rigida.
Per lo stesso motivo la Sacra Scrittura non ricorda nessuna forma di culto ai santi,
nemmeno ai patriarchi.
Il culto si concreta soprattutto in un atteggiamento di fede, di speranza, di amore e
di timore.
Fede: scaturisce dal rigido monoteismo ed è rafforzata dallo studio della creazione e
della storia del popolo, ricca di miracoli
_____________
42 Es. 20, 1 ss. Cfr. anche 7, 4-6; 8, 18; 12, 2. 3. 30; 13, 2-19, ecc. Vedi anche, ad
esempio, Salm.81 (80), 9-11 e Salm.106 (105), 4-6. Nel Salmo 81 si dice: «Ascolta,
popolo mio, che ti voglio ammonire;
Israele, me solo devi ascoltare.
Non dar luogo ad altro dio, né ti prostrare a divinità straniera. Io, il Signore, sono il
tuo Dio, colui che ti trassi dal paese d'Egitto ...».
E nel Salmo 106:
«... grande è il Signore, e degno di somma lode Egli è da temersi più che tutti gli dei;
ché tutti gli dei delle genti sono idoli vani, il Signore, invece, è il creatore del cielo.
Maestà e splendore è nella sua presenza, forza e bellezza nel suo santuario» (vv. 4-
6).
43 Es. 20, 45. Cfr. anche Deut.5, 7-9. Si noti bene che ciò che interessa non è tanto il
termine adorare che è usato spessissimo anche riguardo a creature (Cfr. Gn.18,2;
19,2; 23,7, ecc.), ma il concetto.
30
e di profezie; la difesa di essa impegna lo sforzo di tutti e dei profeti in particolare e
costituisce l'orgoglio dei discendenti di Abramo.

Speranza: si nutre nella fede in Dio buono e provvidente e si esprime in una


profonda fiducia - messa spesso a dura prova - sia individuale che collettiva. Per la
fiducia individuale si veda, per esempio, Susanna (Dan. 13, 35), i tre fanciulli nella
fornace (Dan. 3) e Daniele nella fossa dei leoni (Dan. 6). Per la fiducia collettiva si
veda per esempio il guado del mar Rosso (Es. 14, 13. 31) e soprattutto gli assedi e gli
esili.
Amore: è espressamente esigito nel Deut.: «Tu devi amare Jahweh, tuo Dio, con
tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze» (6, 5) e costituisce
il tema fondamentale del Cantico dei Cantici.
Timore: «Israel, che cosa chiede da te Jahweh, tuo Dio? Che tu tema Jahweh, tuo
Dio e cammini rettamente sulle sue vie ...» (Deut.10,12). Il motivo del timore è anzi
talmente sottolineato da costituire veramente la caratteristica prevalente del
Vecchio Testamento e lo stimolo principale dell'osservanza della legge divina - «Il
principio della sapienza è il timore di Dio» (Eccli.1,14) - anche se non mancano
nemmeno nel mondo ebraico i richiami all'amore divino.

II. - Culto interno e culto esterno. - Non mancano però le manifestazioni esterne.
Ricordiamo, a titolo d'esempio il sacrificio.
Dio accetta il sacrificio; accetta ad esempio quello di Abele fatto bene e con
devozione (Gn.4,4), quello di Noè fatto di animali e uccelli mondi (Gn.8,20).
Egli interviene anzi a fissarne le modalità. Si rileggano i primi capitoli del Levitico44.
________________
44 Ci restringiamo a ricordare che «con Mosè la legislazione sacrificale si precisò. I
sacrifici cruenti si distinguevano in quattro categorie. 1) Olocausto... in cui la vittima
era totalmente consumata dal fuoco sull'altare; il più frequente era "l'olocausto
perpetuo", agnello di un anno che si immolava due volte al giorno, mattino e sera. 2)
Sacrificio salutare o pacifico... in cui la carne della vittima era poi mangiata dai
sacerdoti e dagli israeliti in stato di purezza. 3) Sacrificio espiatorio, che era doppio:
"per il peccato" ... in espiazione delle colpe, e, comportava vittime diverse secondo
che veniva offerto per il sommo sacerdote, per l'assemblea d'Israele, per un capo,
per un privato; "per la trasgressione" ... per mancanze dovute a errore o a fragilità,
in cui la vittima era sempre un ariete» (A. ROMEO, Il sacerdozio di Israele, in
Enciclopedia del sacerdozio ..., p. 401).
Nel Vecchio Testamento dunque Dio accetta sostanzialmente i sacrifici in uso in quel
tempo, purificandoli e stabilendo un cerimoniale più perfetto adatto alla mentalità
degli Ebrei.
31
Purtroppo anche presso gli Ebrei l'elemento esteriore prese sempre più il
sopravvento fino a far consistere talvolta il sacrificio nell'offerta come tale. E questo
provocò una forte reazione nei profeti e nei salmisti che non si stancarono mai di
ricordare al popolo che più che i sacrifici delle vittime legali a Dio piace la volontà
pronta alla esecuzione dei suoi comandi 45.
«Di sacrifizio e d'oblazione non Ti sei compiaciuto, me lo hai scolpito nell'orecchio;
olocausti e vittime espiatorie non hai domandato.
Allora dissi: "Ecco, io vengo con un libro per me scritto: di fare il tuo piacere, o mio
Dio, mi compiaccio e la tua legge mi sta fitta nel cuore"»46.
«Ascolta, mio popolo, che vo' parlarti, Israele, ti ho da ammonire: il Signore, il tuo
Dio, son io.
Non ti rimprovero per i tuoi sacrifizi; i tuoi olocausti sempre li ho presenti. Non ti
tolgo di casa il giovenco, né dall'ovile i tuoi capretti; perché mio è ogni animale del
bosco, mia la selvaggina dei monti più erti. Ho a mente tutti gli uccelli dell'aria, e alla
mano le bestie della campagna.
- Se avessi fame, non lo direi a te; perché mio è l'universo con quel che contiene.
Mangio forse le carni dei tori, o bevo il sangue de' capretti?
Offri a Dio sacrifizi di lode, e sciogli all'Altissimo i tuoi voti; e poi invocami nella
sventura; io ti camperò, e tu mi renderai onore».
Ma al malvagio dice Dio:
Che stai a recitare i miei statuti, e hai sempre in bocca il mio patto? Ma tu aborri la
disciplina e ti getti le mie parole dietro le spalle, se vedi un ladro ti metti con lui, e
cogli adulteri fai comunella.
_______________
45 Cfr. 1Sam. 15,22; Mich.6, 6-8; Is.1, 10-20; Os.6,6; Salm.40 (39), 7-9; 50 (49), 6 ss.;
51 (50), 18-19, ecc.
46 Salm.40 (39), 7-9.
32
La tua bocca sfreni al male, e la tua lingua aggioghi alla frode.
Ti trattieni a sparlare del tuo fratello, e sul figlio di tua madre getti il disonore. Tanto
facesti e io dovrei tacere?
Credi tu, che io somigli a te?
Ti sgriderò, te lo metterò sotto gli occhi. Intendetela bene, o dimentichi di Dio,
perché Io non faccia scempio senza scampo. Chi mi offre la lode, quegli mi onora; e
chi tiene la buona via, gli darò a vedere la divina salute» 47
E nel Salmo 51 (50) - il «Miserere» - si dice: «Poiché non Ti piace il sacrificio; volessi
offrirti un olocausto, non lo gradiresti; il mio sacrifizio, o Signore, è uno spirito
contrito; un cuore contrito e affranto, o Signore, Tu non lo disprezzi ...» 48
E in altri passi:
«... poco rivela ogni sacrificio di gradevole odore e minima cosa è tutto il grasso degli
olocausti a Te offerti mentre chi venera il Signore per ogni verso è grande» 49.
«Sacrificare il mal tolto è oblazione di scherno; e non sono gradite le offerte degli
ingiusti.
Non gradisce l'Altissimo le oblazioni degli empi; e non per le molte vittime perdona i
peccati»50.
«Chi osserva la legge fa molte oblazioni; offre sacrifizio salutare chi adempie i
precetti.
Chi usa riconoscenza, offre fior di farina; e chi pratica la beneficenza, fa sacrifizio di
lode.
Ciò che piace al Signore è ritirarsi dal male, e ciò che lo placa è cessare
dall'ingiustizia.
Non comparire innanzi a Dio a mani vuote, perché tutto questo si fa in grazia del
precetto.
Il sacrificio del giusto impingua l'altare, e il profumo ne sale all'Altissimo.
L'oblazione dell'uomo giusto è accettevole e non se ne perderà la memoria.
________________
47 Salm.50 (49), 6 ss.
48 Salm.51 (50), 18-19.
49 Giuditta, 16, 16.
50 Eccli.34, 18-19.
33
Con animo generoso onora il Signore e non lesinare le primizie che presenti.
Per ogni cosa che dai, rasserena il volto e con l'allegrezza consacra la tua decima.
Dona a Dio com'Egli donò a te, con animo generoso, secondo le tue facoltà» 51
«Udite la parola del Signore, o principi di Sodoma; ascoltate l'insegnamento del
nostro Dio, o gente di Gomorra.
"Che ho da farne di tanti vostri sacrifizi?" dice il Signore.
«Sono stucco d'olocausti di montoni e del grasso d'animali impinguati, e il sangue di
tori, d'agnelli, di capri io non lo gradisco.
Quando mi comparite innanzi, chi da voi ciò richiede?
Finitela di calcare le mie soglie, di recare una vana oblazione; è per me un
abbominio, Novilunio, sabato, sacra adunanza sopportare non posso, né digiuno o
solennità.
I vostri noviluni, le vostre feste detesta l'animo mio; mi sono di peso, sono stanco di
sostenerle.
Quando voi stendete le palme, io chiudo gli occhi per non vedervi; e anche se
moltiplicaste le vostre suppliche, io non ascolto.
Le vostre mani grondano sangue; lavatevi, mondatevi; togliete le sozzure delle
vostre azioni dalla mia vista.
Cessate di mal fare, avvezzatevi a fare il bene; ponete studio nella giustizia,
sovvenite all'oppresso; fate ragione all'orfano, difendete la vedova» 52
_____________
51 Ibid.35, 1-9.
52 Is.1, 10-17; cfr., anche Is. 58, 1 ss.; 66, 1-3.
34
«Che mi fa l'incenso venuto da Saba e la canna odorosa portata da lontane regioni? I
vostri olocausti non sono di gradimento, e le vostre vittime non mi piacciono»53.

III. - Tempi del culto. - Quanto ai tempi del culto meritano di essere ricordati il ciclo
annuale, il ciclo mensile e il ciclo settimanale. Nel primo abbiamo le feste di Pasqua,
pentecoste, i tabernacoli e, più tardi, il giorno dell'espiazione, i purim e le encenie.
Nel secondo ciclo abbiamo la celebrazione del novilunio (in particolare quello del
settimo mese). Nel terzo ciclo abbiamo il sabato.
La festa di Pasqua cadeva in primavera - celebrandosi il 15 di Nisan e nei sette giorni
successivi -; ricordava la liberazione dall'Egitto e propiziava per il buon andamento
delle culture 54.
La festa di pentecoste (o delle settimane o della mietitura) cadeva sette settimane
dopo Pasqua; si ringraziava Dio del raccolto del grano e si ricordava la
promulgazione della legge 55.
La festa dei tabernacoli cadeva in autunno - celebrandosi il 15 del settimo mese e
nei sette giorni successivi; era la festa del raccolto; ricordava la protezione accordata
da Dio al popolo durante il viaggio di trasferimento verso la Terra Promessa (si
denominava «dei tabernacoli» a ricordo del fatto che allora il popolo abitava nelle
tende) 56.
Il «giorno dell'espiazione» cadeva in autunno, il 10 del settimo mese; era
caratterizzato dal sacrificio espiatorio e dalla confessione dei peccati, mentre veniva
osservato il più assoluto riposo e il più rigoroso digiuno 57.
La festa dei purim (o delle sorti) cadeva alla luna di febbraio, il 14 o il 15 di Adar;
ricordava la liberazione dalla morte decretata per istigazione di Aman 58.
La festa della dedicazione del Tempio (o delle encenie): cadeva
________________
53 Ger.6,20.
54 Cfr. Es.12 (istituzione); Es. 23, 15; 34, 18 (comando della celebrazione); Num.9,
10-14; 28, 16-25; Deut.16, 1-8 (rito della celebrazione). Solo eccezionalmente sotto
Ezechia venne celebrata al secondo mese (2 Par., 30).
55 Cfr. Lev.23,15-21; Num.28,26-31; Deut.16, 9-12 (rito della celebrazione).
56 Cfr. Es. 23, 16; Lev.23, 33-43; Num.28, 26-31; Deut.16, 13-15. Una innovazione
scismatica si ha con Geroboamo che istituisce una festa analoga al quindicesimo
giorno dell'ottavo mese (1 Re 12, 32).
57 Cfr. Es. 30, 10; Lev.16, 1-34; Num.29, 7-11.
58 Cfr. Est. 3,7; 9,26.
35
alla luna di dicembre, dal 25 di Kesleu per 8 giorni consecutivi; ricordava la
purificazione del tempio fatta da Giuda Maccabeo nel 164 a.C. 59.
Ogni mese gli Ebrei avevano la festa del novilunio (o delle neomenie) nella quale
s'invocava la protezione del Signore su tutto il mese, con particolari sacrifici
prescritti in Num.28, 8-15 (60). Il novilunio del settimo mese, inizio del nuovo anno
civile, era celebrato con particolare solennità61.
Come giorno festivo settimanale si venne a poco a poco62 fissando il sabato ossia
l'ultimo giorno della settimana; tale giorno fu poi confermato espressamente da
Dio63.
Il sabato era giorno di culto, giorno di riposo e giorno di gioia.
Innanzitutto giorno di culto: «Ricordati di santificare il giorno di sabato» si dice in Es.
20, 8; «Osserva il giorno di sabato per santificarlo come il Signore Dio tuo ha
comandato»; «santificate il giorno di sabato come ho comandato ai padri vostri». Il
sabato è anche giorno di riposo: «Per sei giorni lavorerete» - si dice in Lev.23, 3 -; «il
settimo giorno, perché è il riposo del sabato, sarà chiamato santo; non farete in esso
alcun lavoro»64. E il termine stesso «sabato» (da *** = cessare da qualche cosa)
indica riposo. Codesto aspetto, infine, è sottolineato anche dal fatto che è ricordo
del «settimo giorno», ossia del giorno in cui Dio riposò dalla creazione. In tal giorno
è proibito arare e mietere (cfr. Es. 34, 21), accendere il fuoco nelle abitazioni (cfr. Es.
35, 3), raccogliere legna (Num.15, 32-35), pigiare, portar fasci, caricare vino, uva,
fichi e ogni sorta di pesi sugli asini, commerciare (2 Esd.13, 15-21), far passar pesi
dalle porte delle città, far uscire fardelli di casa, ecc. Dice Ger.17,21 s.: «Non
caricatevi di alcun carico nel giorno di sabato per introdurlo nelle porte di
Gerusalemme; né portate alcun carico fuori delle vostre case il giorno di sabato; né
fate alcun
________________
59 Cfr. 1 Macc.4,59; 2 Macc.10, 1-8.
60 Cfr. 2 Sam. 20, 5; 2 Re 4, 23.
61 Cfr. Lev.23,24. 25; Num.29, 1-6.
62 Il sabbato esiste precedentemente alla promulgazione del decalogo. Dice R.
NORTH: «The Sabbath-law is not presented as a new obligation; and in fact pnor to
the decalogue theophany the sabbath is already presumed in observance Ex. 16, 23»
(The derivation of Sabbath, in «Biblica», 36 [1955], p. 183).
63 Cfr. Es. 16; Deut.5; Num.15, 32; Neemia 9,14; Ezech.20, 12. 13. 16. 21. 24.
64 Cfr. anche Gn.8,22; Es. 16, 25-27; 20, 9-11.
Sul significato preciso di «Sabato» vedi R. NORTH, S. J., The derivation oi Sabbath, in
«Biblica», 36 (1955), pp. 182-201.
36
lavoro; ma santificate il giorno di sabato come io ho comandato ai padri vostri».
L'obbligo poi era universale: valeva anche per gli stranieri, anche per gli animali 65,
anche per il tempo della mietitura 66. Inoltre era assai rigoroso: la sua infrazione era
punita con la pena di morte 67. Neemia fa derivare molte delle sventure toccate al
popolo dall'inosservanza del sabato68 e in 1Macc. 1,43 si cita come esempio di
grande delitto la «violazione del sabato». Infine il sabato è giorno di gioia: il digiuno
era proibito. Di Giuditta si dice che «digiunava tutti i giorni della sua vedovanza,
meno i sabati, i noviluni, le feste e le ricorrenze liete per il popolo d'Israele»69; e
quando il popolo piange alla lettura della legge, Esdra e Neemia dicono: «Oggi è
giorno sacro al Signore, Dio vostro; non vi rattristate, né piangete ... Andate,
mangiate grassi manicaretti, e bevete dolci liquori, e mandatene parte a chi non ne
ha in pronto, perché oggi è giorno sacro al Signore»70.
Dei tre aspetti indicati quello che a poco a poco prese il sopravvento fu il secondo: il
sabato divenne sempre più giorno di riposo, sia definitivo, sia momentaneo71.
E su codesto aspetto si sbizzarrì amplissimamente la casistica72 provocando la
reazione dei profeti.
________________
65 Es. 20, 9-11.
66 Es. 24, 21.
67 Es. 31, 15; Num.15, 32.
68 Neemia 13, 18.
69 Giuditta 8, 6.
70 Neemia 8, 9-12. Dalla Mischna (Schabb. 16, 2) sappiamo che al Sabato gli Ebrei
usavano fare tre pasti: «Triplici bus iisque conquisitissimis epulis pro sua quisque
facultate sabbatum honestant. ..» (BUXTORFIUS, Synag, iud., c. 15, cit. in M. HAGEN,
S. J., Lexikon biblicum, III, p. 807).
71 Quanto al motivo della scelta del sabato alcuni pensano che sia stato il «riposo. di
Dio dopo la creazione (cfr. Gn.2,3). Così ad es. O. FANTIN, S. D. B., Memento ut diem
sabbati sanctifìces ... in "Revista eclesiastica brasileira», 11 (1951), p. 872 s.
Altri invece pensano che il lavoro di organizzazione del mondo da parte di Dio fu
distribuito secondo lo schema della settimana ebraica. Così ad es. Rémy: «Au
moment où le rédacteur bìblique écrit, la division de la semaine en six jours avec le
sabbat pour la terminer, jour de repos pour I'homme et le bétail et surtout de culte
rendu à Dieu, était admise comme établie par Dieu luì-mèrne. On sait d'ailleurs
qu'en ces temps lointains, pour donner plus de poids à des institutions sociales ou à
des préceptes d'hygiène générale, on les appuyait sur l'autorité souveraine de la
divinité. C'est donc pour appuyer cette très sage institution sociale du repos
sabbatique que la tradition avait divisé artificiellement tout ce «travail.
d'organisation du monde par le Créateur en six jours et ceux-là, bien de 24 heures,
en comptant à partir de chaque soir, selon la coutume du temps ...» (G. RÉMY De la
création à l'ère atomique, Paris 1950, p. 70).
72 Per avere qualche saggio della casistica rabbinica si veda per es. J. BONSIRVEN, S.
J., Textes rabbiniques des deux premiers siècles chrétiens pour servir à l'intelligence
du Nouveau Testament, Roma, P. Istituto Biblico, 1955, alla voce Sabbat.
37
Quanto all'osservanza effettiva abbiamo indicazioni opposte. Quando gli israeliti
fecero per sette giorni di seguito il giro delle mura di Gerico, dovettero rompere il
sabato eppure l'autore sacro non mostra preoccupazione o meraviglia (Gios.6, 2-20).
Neemia dovette perfino far chiudere le porte della città per impedire il commercio
in sabato (Neem. 13, 15-22).
Parecchi secoli più tardi, invece, all'epoca dei Maccabei, mille giudei si lasciano
massacrare piuttosto che opporre la minima resistenza in giorno di sabato (2, 29-
38).

IV. - Ministri del culto. - Del sacerdozio premosaico non abbiamo notizie precise.
Probabilmente le funzioni sacerdotali venivano esercitate dagli stessi capifamiglia73.
A Socoth Dio chiede a Mosè che gli vengano riservati per il culto i primogeniti74. Più
tardi, sul Sinai, ai primogeniti viene sostituita la tribù di Levi75: la famiglia di Aronne
doveva dare i sacerdoti76, le altre i leviti; nella famiglia di Aronne il primogenito era
sommo sacerdote.
Tutti venivano solennemente consacrati al culto. Però in modo diverso: i leviti
venivano aspersi con acqua lustrale; radevano tutti i peli a cui aderiscono
immondizie; lavavano le vesti; quindi offrivano alcuni sacrifici; da ultimo i capi delle
tribù imponevano loro le mani. I sacerdoti e i pontefici venivano consacrati col rito di
propiziazione e di offerta.
_______________
73 Cfr. Gn.8,20 (Noè); 12,8 (Abramo); 14,18 (Melchisedec); 26,25 (Isacco); 33,20
(Giacobbe); Es.2,16 (Ietro).
74 Es. 13, 2.
75 Num.3, 6-8. 12. 40-43; 8, 16-19.
76 Ricordiamo il quadro genealogico della tribù di Levi.
C'erano quindi tre gruppi di leviti a seconda che provenivano da Gersone, da Caat o
da Merari.
Si capisce inoltre perché i sacerdoti fossero chiamati anche figli di Aronne.
38
I compiti erano i seguenti:
a) I leviti avevano in genere l'ufficio di aiutare i sacerdoti; quindi: portare l'arca,
portare gli utensili coperti da un velo, preparare il necessario per il sacrificio,
preparare i pani della proposizione, ecc.
b) I sacerdoti dovevano: 1) nell'atrio: offrire il sacrificio perpetuo, custodire il fuoco
sacro con cui fu consumato il primo sacrificio di Aronne; 2) nel santuario: rinnovare
ogni sabato i pani della proposizione, bruciare due volte al giorno l'incenso
sull'altare detto appunto dell'incenso, ecc.; 3) fuori del santuario: dovevano
mondare i lebbrosi, le puerpere, ecc., giudicare le cause di divorzio e di zelotipia,
interpretare la legge di Dio e istruire gli altri, pregare per il popolo.
c) Il sommo sacerdote oltre le funzioni comuni a tutti i sacerdoti doveva; 1) entrare
una volta all'anno nel «sancta sanctorum» ed offrire un sacrificio di espiazione per
tutti i peccati commessi dal popolo durante l'anno, consultare Jahweh nei casi dubbi
di maggiore importanza e ricevere da lui il responso, curare il culto divino, ungere i
re, ecc.
I sacerdoti dovevano avere una mondezza maggiore: dovevano avere legittimi
natali, dovevano essere privi di difetti corporei notevoli, dovevano astenersi dai
rapporti coniugali e dal vino durante l'ufficio; non dovevano aver contatto con
morti11.
Più grande ancora era la mondezza chiesta al sommo sacerdote.
Per esempio: poteva sposare solo una vergine ed una israelita; era quindi dispensato
dalla legge del levirato.

V. - Luoghi del culto. - E veniamo, finalmente, ai luoghi del culto.


Al tempo dei patriarchi non si hanno particolari luoghi di culto.
I patriarchi erigono altari dove c'era stata qualche manifestazione di Dio78, o
all'ombra di piante79, o su alture80.
Particolari luoghi di culto non si hanno nemmeno in Egitto. Dall'alleanza stretta con
Jahweh fino all'anno undecimo di Sa-
________________
77 Potevano curare solo funerali di parenti stretti (genitori, fratelli e sorelle, figli).
78 Cfr. Gn.12,7; 13,4; 26,25; 35,1. 3. 7.
79 Cfr. Gn.21,33.
80 Cfr. Gn.22,9; 31,54.
39
lomone quindi per tutta la peregrinazione nel deserto e dopo fino all'anno undecimo
di Salomone - luogo del culto fu il tabernacolo costruito secondo il modello
manifestato a Mosè sul Sinai 81: constava di un recinto sacro o atrio e di una tenda
sacra all'interno del recinto. Il tabernacolo era il centro di tutta la vita religiosa degli
Ebrei; negli accampamenti occupava il centro. Dal tempo di Giosuè sino a Saul
rimase prima a Gilgala poi a Silunte. Durante il regno di Saul fu a Nob; con Davide e
Salomone fu portata a Gibeon.
Con l'undicesimo anno del regno di Salomone il luogo centrale del culto divenne il
tempio di Gerusalemme 82. Il Signore, che ha sede più degna nel cielo, sulla terra si
è scelto una dimora sul monte santo di Sion, dove si trova il suo tabernacolo
(Salm.48, 10) e da dove esaudisce le preghiere (Salm.3, 5) e manda il suo aiuto
(Salm.20, 3). Per il suo zelo per la casa del Signore il salmista è fatto bersaglio degli
obbrobri dei nemici e degli amici stessi (Salm.69, 8-10), egli si rivolge verso il tempio
lontano (Salm.5, 8) e se, per avventura, si trova nei suoi atri volge le braccia e la
faccia verso la parte più intima di esso dove sa che abita Jahweh (Salm.28, 2); egli
ama il tempio (Salm.26, 8; 27, 1) e il suo più grande desiderio è di potervi abitare
(Salm.27, 4-5); si strugge di non potervi restare continuamente (Salm.84, 2. 6. 11) e
invidia perfino gli uccelletti che possono fare il loro nido sotto le grondaie del luogo
santo, vicino all'altare del Dio degli eserciti (Salm.84, 4); e quando i pellegrini, dopo
la loro permanenza di qualche giorno, sono costretti a lasciare gli atri e le cerimonie
del tempio, pare quasi che vogliano affidare i loro cuori ai leviti perché li presentino
al Signore (Salm.134, 1-2; 135, 1-3). Si comprende allora facilmente come il più
grande dolore del pio ministro del santuario nel suo esilio sia il ricordo delle belle
funzioni nel tempio (Salm.42, 35) e giorno e notte si strugga dal desiderio di tornare
a vedere quel santo luogo (Salm.43, 3-4; 63, 2-3); si capisce anche il grande dolore
per la profanazione del luogo santo (Salm.74, 3-7; 79, 1-3; 1Macc. 4, 36 ss.).
_________________
81 Cfr. Es. 25, 40; 26, 30. Le sue forme, le misure e l'arredamento sono descritti
minutamente in Es. 25-31 e 38-40. Il termine ebraico con cui si designa solitamente
è «tenda»; ma non mancano altri termini.
82 Però anche dopo l'erezione del tempio non mancano esempi di sacrifici sulle
alture. Cfr. 2 Re 12, 4; 14, 4; 15, 4; ecc.
40

CAPITOLO IV

GESÙ E IL CULTO

§ 1. La concezione teoretica.

Gesù riprende alcuni concetti fondamentali del Vecchio Testamento: Dio è unico
(Marc. 12, 29; Giov.17, 3); è spirito (Giov.4, 24); è onnipotente e onnisciente
(Matt.19, 26; Marc.10, 27; 14, 36; Luc.1, 37; 18, 27), è buono (Matt.5, 45; 19, 17,
ecc.), è creatore del cielo e della terra (Matt. 13, 19), è libero di disporre delle sue
cose come vuole (Matt. 20, 14-15), è provvido (Matt. 6, 25-34; 10, 29 s.; Luc. 12, 6 s.,
22-31). Senza di Dio non possiamo far nulla (Giov.15, 5). Da soli non siamo
nemmeno in grado di accrescere di un millimetro la nostra statura; non siamo
nemmeno padroni dei nostri capelli (Matt. 5, 36; 6, 27; 10, 30; Luc.12, 4-7, 27-31).
In Cristo però il concetto di Dio si allarga nella manifestazione della Trinità e
dell'Incarnazione: pur essendo uno nella natura Dio è trino nelle persone - Padre,
Figlio e Spirito Santo -: di esse una - il Verbo - ha assunto la nostra natura ed è
diventato in tutto simile a noi tranne nel peccato 1.
Per quanto riguarda i rapporti di Dio con noi il Nuovo Testamento sottolinea assai
fortemente il fatto che Dio ci ama, che è Padre, che si preoccupa di noi assai più di
quanto noi crediamo. «Guardate gli uccelli del cielo; non seminano, non mietono,
non
________________
1 Per la dimostrazione e lo sviluppo di queste parti rimandiamo ai trattati di
teologia dogmatica. Si possono ad ogni modo vedere i seguenti passi: Matt, 3, 16; 10
20; 171 5; 281 19; Luc.4, 18; Giov.3,35; 14,16; 15,26; 16, 3-7, ecc.
41
raccolgono in granai e il vostro Padre celeste li nutre. Or non valete voi più di loro?...
E perché darsi tanta premura per il vestito? Guardate come crescono i gigli del
campo: non lavorano, né filano; eppure vi assicuro che nemmeno Salomone, in tutta
la sua gloria, fu mai vestito come uno di loro. Ora se Dio riveste in questa maniera
l'erba del campo, che oggi. è e domani vien gettata nel forno, quanto più vestirà voi,
gente di poca fede. Non vogliate dunque angustiarvi, dicendo: che cosa
mangeremo? Che cosa berremo? di che ci vestiremo? .... Il Padre vostro celeste sa
che avete bisogno di tutto questo» 2. «Qual è quell'uomo fra voi che darà una pietra
a suo figlio che chiede un pane? O se chiede un pesce gli dia una serpe? Se dunque
voi, cattivi come siete, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il vostro
Padre che è nei- cieli concederà cose buone a coloro che gliele chiedono» 3.

§ 2. Gli atteggiamenti pratici.

Quanto alla condotta che dobbiamo tenere verso Dio, Gesù ricorda e riafferma che
si deve adorare Dio soltanto. «Adorerai il Signore Dio tuo e servirai a Lui solo» 4 dice
a Satana. Ma accetta volentieri di esser Lui pure adorato. Inoltre invita a
contemperare il rispetto e il timore che dobbiamo avere verso il Creatore, con
l'amore che dobbiamo nutrire verso il padre. «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il
tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutto il tuo spirito. Questo è il massimo e
primo comandamento» 5.
Dobbiamo amare anche Lui, Cristo, e per farlo veramente dobbiamo osservare i
suoi comandamenti: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti6. L'osservanza
dei precetti è il segno vero dell'amore e la via al cielo: «Non tutti quelli che mi
dicono: Signore, Signore entreranno nel regno dei cieli: ma colui che fa la volontà del
Padre mio, che è nei cieli, questi entrerà nel regno dei cieli. Molti mi diranno in quel
giorno: Signore, Signore, non abbiam noi profetato nel nome tuo e non abbiamo noi
nel nome tuo
________________
2 Matt. 6, 22-32.
3 Matt. 7, 9-11.
4 Matt. 4, 10; Luc.4,8; cfr. anche Giov.4, 21-24.
5 Matt, 22,37 s.; Marc.12, 29 s.; Lc.10, 25-Z7,
6 Giov.14, 15, 21, 24; 15, 9, ecc.
42
fatto molti miracoli? E allora io protesterò ad essi: Non vi ho mai conosciuti;
ritiratevi da me, voi tutti, operatori di iniquità»7.
In modo tutto particolare Gesù insiste sulla necessità e sull'efficacia della preghiera.
«Gesù si trovava un giorno in una certa località e stava pregando. Quando ebbe
terminato la sua orazione, uno dei discepoli gli disse: "Signore, insegnaci a pregare,
come ha insegnato Giovanni ai suoi discepoli". Egli disse loro: "Quando pregate,
dite: Padre, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro
pane quotidiano; e rimetti a noi i nostri peccati, perché anche noi rimettiamo ad
ognuno che ci è debitore, e non c'indurre in tentazione". Disse loro ancora: "Chi fra
voi, se ha un amico che a mezzanotte va da lui e gli dice: amico, prestami tre pani
perché è arrivato un amico da un viaggio e non ho che cosa offrirgli da mangiare,
quello di dentro gli risponde dicendo: non mi dar noia; la porta è già chiusa; i ragazzi
sono a letto con me ed ora non posso alzarmi e darteli. Io vi assicuro che se anche
non si volesse alzare e darglieli, perché amico, almeno per la sua importunità si
alzerà e gliene darà quanti ne ha bisogno. Or io vi dico: chiedete e vi sarà dato;
cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto ...» 8.
Quanto all'oggetto della preghiera, dobbiamo chiedere innanzitutto il regno di Dio
(Matt. 6, 33). Quanto al modo occorre molta spontaneità e naturalezza: Dio è padre
e sa già che cosa ci occorre; non sono necessarie molte parole (Matt. 6, 7). Inoltre
occorre essere perseveranti9, perdonare al nostro prossimo10 e appoggiarci ai
meriti di Cristo: «Qualunque cosa domanderete al Padre nel nome mio, la farò;
affinché sia glorificato il Padre nel Figliuolo. Se alcuna cosa mi domanderete nel
nome mio, io la farò»11; «Se vi terrete in me, e rimarranno in voi le mie parole,
________________
7 Matt. 7, 21-23.
8 Luc.11, 5-13. Cfr. anche Luc.18, 1-8; Marc.11, 24; Matt. 7, 7-11. Si vedano anche gli
episodi della Cananea (Matt. 15, 21-28; Mare. 7, 24-30), dell'emorroissa (Marc.5, 25-
34), ecc. Com'è noto esistono due formole del «Pater»: quella di Matt. 6, 9-13 è più
lunga. Poiché il «Pater» è la grande preghiera insegnata da Gesù è stato
ripetutamente commentato. Una raccolta di commenti di Padri si trova in
HAMMAN, O. F. M., Le Pater expliqué par les Pères, Paris 1952 (trad. ital.: Il Padre
nostro spiegato dai Padri della Chiesa, Edizioni di Comunità, Milano 1954).
9 Cfr. Matt. 7, 7-11; Luc.11, 5-13; 18, 1-8.
10 Cfr. Marc.11, 25-26; Luc.18, 9-14.
11 Giov.14, 13 s.
43
qualunque cosa vorrete, la chiederete, e vi sarà concessa» 12; «non siete voi che
avete eletto me; ma io ho eletto voi e vi ho destinati affinché facciate frutto; e il
frutto vostro sia durevole; onde qualunque cosa chiederete al Padre in nome mio, a
voi la conceda» 13; «In verità, in verità vi dico che qualunque cosa domandiate al
Padre nel nome mio, ve la concederà. Fino ad ora non avete chiesto nulla nel mio
nome: chiedete e otterrete, affinché il vostro gaudio sia compiuto» 14.
Quanto alle espressioni esteriori, pur non escludendo la formola esterna - anzi,
come abbiam visto, ne ha addirittura insegnata una: il «Pater» - Gesù richiama
fortemente all'interiorità. Vuole che preghiamo, ma «quando pregate» - ci dice -
«non moltiplicate vane parole, come i pagani che credono di essere esauditi a forza
di parole. Non siate simili a loro poiché il Padre vostro sa di che cosa avete bisogno
prima che gliela chiediate»15. E ci ammonisce: «Non chi dice Signore, Signore,
entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» 16.
Riguardo ai tempi del culto - e in particolare riguardo al sabato - Gesù si sottomette
alla legislazione giudaica; frequenta di sabato la sinagoga e vi insegna17. Però non è
schiavo del sabato, ma «padrone» (Matt. 12, 8); anzi l'ha riportato al suo primitivo
significato soprattutto per quanto riguarda il riposo: in tal giorno è lecito, se è
necessario, cogliere spighe per mangiarle, ossia è consentito provvedere alle
necessità proprie (Mt.12, 1-8; Mc.2, 23-28; Lc 6, 1-5); è lecito lavorare per venir in
aiuto degli altri (Mt.12, 9-13; Mc.3, 1-6; Lc.6, 6-11; 13, 10-16; 14, 3-6), ecc.
Gesù richiama fortemente all'interiorità anche riguardo ai luoghi del culto. Si veda
l'episodio della samaritana e la risposta di Cristo alla domanda se si deve adorare
Dio sul monte Garizim o a Gerusalemme: «Credimi, donna, è venuta l'ora in cui né su
questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre ... È venuta l'ora, ed è questa,
nella quale i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito
___________
12 Giov.15,7.
13 Giov.15,16.
14 Giov.16, 23-27.
15 Matt.6, 6 s.
16 Matt.7, 21.
17 Cfr. Lc.4, 16; Mc.1,21; 6,2.
44
e verità. Dio è spirito, e quelli che lo adorano, in spirito e verità lo devono
adorare»18.
Quanto alla preghiera dunque, ai tempi e ai luoghi del culto pare che Gesù non
abbia introdotto modificazione alcuna: solo ha fortemente richiamato all'interiorità
contro le esagerazioni e gli esteriorismi farisaici. Nel tempo stesso ha fortemente
collegato il culto e l'amor di Dio all'amor del prossimo: «Se stai per fare la tua offerta
all'altare e ti viene in mente che tuo fratello ha qualcosa contro di te, posa lì la tua
offerta davanti all'altare; va prima a riconciliarti con tuo fratello; poi ritorna a fare la
tua offerta»19.
Novità invece Gesù porta nel campo del sacrificio e dei ministri del culto.
Quanto al primo Egli parla spesso dell'offerta della sua vita in sacrificio per i peccati
nostri: «Il Figliuol dell'uomo è venuto ... per dare la sua vita in redenzione per molti»
20; «Questo è il sangue mio del Nuovo Testamento» - dice nell'ultima Cena - «il
quale sarà sparso per molti per la remissione dei peccati» 21. «Come Mosè innalzò
nel deserto il serpente, nella stessa guisa fa d'uopo che sia innalzato il Figliuol
dell'uomo affinché chiunque in lui crede non perisca, ma abbia la vita eterna» 22.
Quanto ai ministri del culto innanzi tutto Gesù pone se stesso in una posizione del
tutto peculiare. Dice che «chi crede in Lui avrà la vita eterna» 23; dice di essere la
porta della salvezza: «Io sono la porta. Chi per me passerà sarà salvo; ed entrerà, ed
uscirà e troverà pascoli ...» 24. Dice che va a prepararci il posto 25; di es-
_______________
18 Giov.4, 21-23.
19 Matt. 5, 23 s.
20 Matt. 20, 28.
21 Matt. 26, 28. Si vedano anche i passi paralleli in Marco, 14, 24 («Questo è il
sangue mio del nuovo testamento, il quale sarà sparso per molti») e in Luca 22, 19 s.
(«Questo è il mio corpo, il quale è dato per voi: fate questo in memoria di me...
Questo calice è il nuovo testamento nel sangue mio, che per voi si spargerà».
22 Giov.3, 14 s. Per l'analisi e l'approfondimento di codesti passi rimandiamo ai
trattati di teologia dogmatica.
23 Giov.6, 44.
24 Giov.10, 8 s.
25 «Non si turbi il cuor vostro. Credete in Dio e credete in me ... Vado a preparare il
posto per voi. E quando sarò partito e avrò preparato il posto per voi, verrò di nuovo
e vi prenderò con me, affinché dove sono io, siate ancor voi». (Giov.14, 1-3).
45
sere la via, la verità e la vita, e nessuno va al Padre se non per lui26 e ci invita a
pregare nel suo nome; egli stesso pregherà il Padre per noi 27.
Inoltre Gesù istituisce un corpo di persone destinate a continuare la sua missione
sia sul piano sacrificale, sia sul piano magisteriale, sia sul piano ministeriale. Li
sceglie infatti e li manda a insegnare il suo Vangelo a tutte le creature così che chi
ascolta loro ascolterà Lui e chi non ascolterà loro non ascolterà Lui28, promettendo
loro di non abbandonarli, ma di esser con loro fino alla fine
______________
26 Giov.14, 6.
27 Giov.14, 16. «La spiritualizzazione del culto del Nuovo Testamento ha il suo fulcro
e la sua espressione nel sacerdozio di Gesù Cristo, realtà sovrumana ed eterna, di
somma efficacia salvifica, in cui si compendiano i misteri dell'incarnazione, passione
e morte e risurrezione del Figlio di Dio divenuto Figlio dell'uomo.
Il sacerdozio giudaico fu dai discepoli di Gesù Cristo considerato perento ed abolito
con la fondazione della nuova religione, attuatasi nel sacrificio redentore di Gesù, da
cui promana il "nuovo testamento", legame che vincola per sempre l'umanità intera
a Dio assicurandole la salvezza ...
... La nuova religione del Cristo comportava un nuovo sacerdozio. Il Cristianesimo
escluse i sacrifici visibili e cruenti delle vittime simboliche e pose al centro della sua
fede e del suo culto un unico sacrificio: la crocifissione di Gesù, e un unico
sacerdote: Gesù che immola se stesso per la redenzione dei peccatori. La redenzione
è presentata nel Nuovo Testamento come. un sacrificio, un atto di culto di valore
infinito (1Cor. 6, 20; 7, 23; 2Cor. 5, 14-21; 1Pietr, 1, 18-19). Gesù è insieme la vittima
e il sacerdote del suo sacrificio» (A. ROMEO, Il sacerdozio cristiano, in Enciclopedia
del sacerdozio ..., p. 511).
Non occorre che ricordiamo che Gesù è sacerdote nella sua natura umana. «Il
sacerdozio è un dono del Padre all'umanità di Cristo, poiché appena il Verbo si fece
carne, il Padre celeste rimirò il figliuol suo con infinita compiacenza; lo riconobbe
come unico mediatore tra il cielo e la terra: Pontefice in eterno. Come Uomo-Dio,
Gesù avrà la prerogativa di concentrare in se stesso l'umanità intera per purificarla,
santificarla e ricondurla all'amplesso della divinità, e renderà così al Signore una
gloria perfetta nel tempo e nell'eternità. La sua missione di mediatore e di pontefice
il Figlio l'ha ricevuta fin dal primo istante dell'Incarnazione ...
Qui giungiamo al fondo del mistero. Per mezzo dell'unione ipostatica, il Verbo
penetra e possiede l'anima e il corpo di Gesù e li consacra. Quando il Figlio di Dio si
fece carne, s'impadronì totalmente di questa umanità: quindi il momento della
consacrazione sacerdotale di Gesù fu quella dell'incarnazione: proprio in
quell'istante Cristo fu segnato indelebilmente come unico ed eterno mediatore tra
l'uomo e Dio» (C. MARMION, Cristo ideale del Sacerdote, trad. ital., Vita e Pensiero,
Milano 1953, p. 469).
28 «È stata data ogni potestà in cielo e in terra. Andate adunque, istruite tutte le
genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando
loro a osservare tutto quello che io vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi per
tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli» (Matt. 28, 18-20).
«Chi riceve voi riceve me e chi riceve me riceve colui che mi ha mandato. Chi riceve
un profeta, riceverà la mercede del profeta ...» (Matt. 10, 40 s.).
«Chi ascolta voi ascolta me; e chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me,
disprezza colui che mi ha mandato» (Luc.10, 16). «In verità, in verità vi dico: chi
riceve colui che io avrò mandato riceve me e chi riceve me riceve colui che mi ha
mandato» (Giov.13, 20).
46
del mondo29. A loro dà obbligo di amministrare i sacramenti30, di sciogliere e di
legare31. Quanto alla sorte che li attende ed alle doti che si chiedono basterà
ricordare Matt. 10, 7 ss.: «Andando annunziate e dite: Il regno dei cieli è vicino.
Rendete la sanità ai malati, risuscitate i morti; mondate i lebbrosi, cacciate i demoni;
date gratuitamente quello che gratuitamente avete ricevuto. Non vogliate avere né
oro, né argento, né denaro nelle vostre cinture; né bisaccia per il viaggio, né due
vesti, né scarpe, né bastone12: poiché merita l'operaio il suo sostentamento. E in
qualunque città o castello entrerete, informatevi chi in essa sia degno; e fermatevi
presso di lui sino a che ve ne andiate. All'entrar poi nella casa, salutatela con dire:
Pace sia a questa casa. E se quella casa ne sarà degna, verrà sopra di essa la vostra
pace; se poi non è degna la vostra pace tornerà a voi. E se alcuno non vi riceve, né
ascolta le vostre parole: uscendo fuori da quella casa o da quella città, scuotete la
polvere dai vostri piedi... Ecco io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate
adunque prudenti come serpenti e semplici come colombe. Guardatevi però dagli
uomini: perché vi faranno comparire nelle loro adunanze e vi frusteranno nelle
sinagoghe ... Ma quando sarete posti nelle loro mani, non vi mettete in pena del che
e del come abbiate a parlare: perché vi sarà dato in quel momento quello che
abbiate da dire. Perché non siete voi che parlate, ma lo Spirito del Padre vostro è
quegli che parla in voi»,
_________________
29 Vedi il passo di Matt. 28, 18-20.
30 Per il battesimo vedi il passo di Matt, 28, 18-20. Per l'Eucarestia vedi il racconto
dell'ultima cena in Luca.
31 Vedi ad esempio Matt, 18, 18: "tutto quello che legherete sulla terra sarà legato
anche in cielo e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto anche in cielo».
32 Qualche differenza esiste fra i diversi evangelisti. Mentre Matteo non permette il
bastone e i sandali, Marco Ii permette; Luca proibisce solo il bastone.
La divergenza è più formale che sostanziale e si spiega tenendo presente che gli
evangelisti più che alle parole precise del Maestro guardano al suo pensiero. Ed il
pensiero è che i discepoli debbono essere staccati dalle cose della terra.
47

CAPITOLO V

GLI APOSTOLI E IL CULTO

Gli Apostoli riprendono e sviluppano l'insegnamento di Cristo.


Vediamo qualcosa di essi, insistendo soprattutto su S. Paolo.

§ 1. La posizione teoretica.

Quanto alla natura di Dio e ai suoi rapporti con noi S. Paolo ripete le posizioni di
Cristo, con una più forte sottolineatura della divinità di Lui. «Non c'è che un solo
Dio», dice nella 1Cor. 8, 4. L'unico Dio però contiene tre persone uguali e distinte -
Padre, Figlio e Spirito Santo - una delle quali ha assunto la nostra natura ed è
diventata simile a noi tranne che nel peccato1.

§ 2. Gli atteggiamenti pratici.

Dio dev'essere adorato e Lui solo. Dobbiamo quindi fuggire l'idolatria2. I pagani
sono colpevoli perché «avendo conosciuto Dio non l'hanno glorificato né ringraziato
come a Lui si conviene»3.
A Dio dobbiamo essere grati perché da Lui tutto abbiamo ri-
________________
1 Anche qui per la documentazione e lo sviluppo di codeste parti rimandiamo ai testi
di teologia dogmatica. I passi di maggior interesse sono i seguenti: Col. 1, 12-15,
Gal.4, 4, Rom. 8, 3, Ebr.1, 1-14, Rom. 9, 5 per la divinità di Cristo; 1Cor. 12, 4-11 per
lo Spirito Santo.
2 1Cor. 10, 14.
3 Rom. 1, 18-20.
48
cevuto. «Che cos'hai che non abbia ricevuto? E se lo hai ricevuto perché te ne glorii
come se non l'avessi ricevuto?» 4. «Per tutte le cose rendete grazie, poiché tale è la
volontà di Dio in Cristo Gesù riguardo a tutti voi» 5.
Dio lo dobbiamo pregare con insistenza: «assidui nell'orazione» dice l'Apostolo nella
lettera ai Romani6, ed esorta i Colossesi perché siano «perseveranti nell'orazione,
vegliando in essa con rendimenti di grazie»7 e dice ai Tessalonicesi: «Pregate senza
intermissione; per tutte le cose rendete grazie»8.
In modo particolare S. Paolo sviluppa la dottrina che i vecchi sacrifici e il vecchio
sacerdozio sono stati aboliti e il loro posto è occupato da Cristo (Ebr.4-10).
Gesù è sacerdote; il suo sacerdozio è superiore a quello levitico e perché è secondo
Melchisedec e perché dura in eterno e perché offre se stesso, e una volta sola, e
perché è mediatore di un testamento nuovo. Ricordiamo solo qualche passo: in
antico «molti sono stati sacerdoti, perché la morte non permetteva loro di durare
sempre. Ma questi, perché dura in eterno, ha un sacerdozio che non passa. Onde
ancora può in perpetuo salvare coloro che per mezzo suo si accostano a Dio:
vivendo sempre al fine di supplicare per noi» (Ebr.7,23 s.). «Entrando nel mondo
(Gesù) dice: Non hai voluto ostia, né oblazione; ma a me hai fornito un corpo; non ti
sono piaciuti gli olocausti per il peccato. Allora io dissi: Ecco io vengo (come nella
testata del libro è scritto di me) per fare, o Dio, la tua volontà. Avendo detto sopra:
Non hai voluto le ostie e le oblazioni e gli olocausti per il peccato, né ti sono piaciute
le cose che si offrono secondo la legge: allora dissi: Ecco io vengo per fare, o Dio, la
tua volontà: toglie il primo per stabilire il secondo. E per questa volontà siamo stati
santificati mediante l'oblazione del corpo di Gesù Cristo (fatta) una volta. E mentre
ogni sacerdote sta in piedi tuttodì ministrando e offrendo sovente le stesse ostie, le
quali non possono mai togliere i peccati: questa invece offerta una sola ostia pei
peccati, siede per sempre alla destra di Dio, aspettando del resto il tempo che i suoi
nemici siano posti sgabello ai suoi
_______________
4 1Cor. 4, 7.
5 1Tess. 5, 18.
6 12, 12.
7 Col. 4, 2.
8 1Tess. 5, 17.
49
piedi. Poiché con una sola oblazione rese perfetti in perpetuo quelli che sono
santificati...» (10, 5-14)9.
Abbiamo dunque un sacrificio nuovo: quello di Cristo sulla croce perpetuato
nell'Eucarestia; un sacerdozio nuovo: quello di Gesù continuato nel sacerdozio
cristiano.
Quanto ai riti e alle cerimonie antiche S. Paolo nella lettera ai Romani dice che la
circoncisione vera è quella del cuore e l'astensione da ogni peccato: «La
circoncisione giova se osservi la legge; ma se tu sei prevaricatore della legge, tu con
la tua circoncisione diventi un incirconciso. Se adunque uno non circonciso
osserverà i precetti della legge, non sarà egli questo incirconciso reputato come
incirconciso? E colui che per nascita è incirconciso, osservando la legge, giudicherà
te, che con la lettera e con la circoncisione trasgredisci la legge? Giacché il giudeo
non è quegli che si scorge dal di fuori; né la circoncisione è quella che apparisce nella
carne. Ma il giudeo è quello che è tale interiormente; e la circoncisione è quella del
cuore secondo lo spirito, non secondo la lettera: questi ha lode non presso gli
uomini, ma presso Dio»10; E nella prima lettera ai Corinti: «Ciascuno secondo quel
modo che il Signore gli ha dato e ciascuno secondo che Dio lo ha chiamato, in quel
modo cammini, conforme io pure insegno in tutte le chiese. È stato uno chiamato,
essendo circonciso? Non procuri di apparire incirconciso. È stato uno chiamato
essendo incirconciso? Non si circoncida. Non importa niente l'essere circonciso e
non importa niente l'essere incirconciso, ma l'osservare i comandamenti di Dio
...»11.
Anzi nella lettera ai Galati dice addirittura che chi si attacca alle pratiche della legge
si distacca da Cristo: «Io Paolo vi dico che se vi circoncidete, Cristo non vi gioverà
niente. E faccio di nuovo sapere a qualunque uomo che si circoncide che egli è
debitore dell'osservanza di tutta la legge. Non siete più nulla riguardo a Cristo voi
che cercate la giustizia nella legge: siete decaduti
________________
9 E nella prima lettera a Timoteo afferma che «uno è Dio, uno anche il mediatore tra
Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù: il quale diede se stesso in redenzione per tutti,
testimone nel debito tempo» (1Tim, 2, 5 s.).
10 Rom. 2, 25-29.
11 1Cor. 7, 17-19; cfr. anche Gal.5,6; 7,15.
50
dalla grazia»12. Non solo dunque la circoncisione non è necessaria, ma può essere
addirittura un pericolo13.
Quanto al sacerdozio nuovo S. Paolo sottolinea fortemente l'aspetto di
rappresentanza e di continuazione di Cristo. «Ognuno» - dice nella prima lettera ai
Corinti - «ci consideri come ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio ... Nei
dispensatori si ricerca che siano trovati fedeli ...»14. Nella stessa lettera a proposito
di verginità e matrimonio distingue nettamente fra ciò che comunica a suo nome e
ciò che dice a nome del Signore15. E nella lettera ai Galati insiste nel dire che ciò
ch'egli ha insegnato non è opera sua, ma rivelazione di Cristo16. Nella prima lettera
ai Corinti poi insiste nel dire che la funzione più importante dell'apostolo e quindi
del sacerdote di Cristo non è quella di battezzare, ma di insegnare17.
Per tale motivo - dirà S. Paolo in 2Tim. 2,4 - «nessuno ascritto alla milizia di Dio
s'impiccia dei negozi del secolo al fine di piacere a colui che lo ha arruolato».
Proprio perché si consacra totalmente ai fedeli il sacerdote ha diritto di essere
mantenuto dai fedeli. S. Paolo ha ricordato con molta chiarezza il principio, anche
s'egli personalmente ha rinunciato a farlo valere. «Non abbiamo noi facoltà di
mangiare e di bere?» afferma nella prima lettera ai Corinti. «Non abbiamo noi
facoltà di condur con noi una sorella, come gli altri apostoli e i fratelli del Signore e
Cefa? Forse che io solo e Barnaba non abbiamo facoltà di far questo? Chi è che militi
a proprie spese? Chi pianta la vigna e non mangia del frutto di essa? Chi pasce il
gregge e non si ciba del latte del gregge? Forse in questo parlo da uomo? E non dice
questo anche la legge? Infatti nella legge di Mosè sta scritto: non metterai la
musoliera al bue che trebbia il grano. Forse che Dio si prende cura dei buoi? Non lo
dice forse principalmente per noi? Infatti ciò è stato scritto per noi: perché e chi ara
deve arare con la speranza e chi trebbia con la speranza di par-
_________________
12 Gal.5, 1-4.
13 Analoghe osservazioni vanno fatte anche per il giorno del culto, ossia per il
sabato. Ma di questo parleremo più avanti.
14 1Cor. 4, 1.
15 Ibid. 7, 10. 12.
16 Gal.1, 11 s.
17 1Cor, 1, 17.
51
tecipare del frutto. Se noi abbiamo seminato per voi semenza spirituale è forse gran
cosa se mieteremo del vostro temporale? Se altri godono di questo diritto sopra di
voi, perché non piuttosto noi? Ma non abbiam fatto uso di questo diritto ...»18. E
subito dopo: «Non sapete che quelli che lavorano nel tempio, mangiano di quello
del tempio e quelli che servono all'altare con l'altare hanno parte? Così pure ordinò
il Signore a quelli che annunziavano il Vangelo, di vivere del Vangelo»19.
Nella prima lettera a Timoteo l'Apostolo traccia un quadro del vescovo e del
diacono: «Occorre che il vescovo sia irreprensibile, che abbia preso una sola moglie,
sobrio, prudente, modesto, pudico, ospitale, capace d'insegnare, non dedito al vino,
non violento, ma modesto; non litigioso, non interessato, ma che ben governi la
propria casa, che tenga subordinati i figliuoli con perfetta onestà. (Ché se non sa
governare la propria casa come mai avrà cura della Chiesa di Dio?). Non neofito,
affinché levandosi in superbia non cada nella dannazione del diavolo. Fa d'uopo
ancora che egli sia in buona riputazione presso gli estranei, affinché non cada
nell'obbrobrio e nel laccio del diavolo.
Similmente i diaconi pudichi, non di due lingue, non dati al molto vino, non portati
ai sordidi guadagni; che portino il mistero della fede in una coscienza pura. E anche
questi prima si provino; e poi esercitino il ministero, essendo senza reato. Le donne
parimente pudiche, non date alla detrazione, sobrie, fedeli in ogni cosa. I diaconi
abbiano presa una sola moglie; e regolino bene i propri figliuoli e le proprie case»20.
Pur esigendosi, dunque, un notevole rigore morale ed una spiccata esemplarità di
condotta, non abbiamo ancora il celibato ecclesiastico.
Quanto alla pratica religiosa poi sia consentito ricordare Ebr.10, 25 dove S. Paolo si
lamenta per la noncuranza delle adunanze: «Non disertiamo le adunanze com'è uso
da alcuni di fare».
_______________
18 1Cor, 9, 4-12.
19 Ibid. 13-14. Cfr. anche 1Tess. 2, 7-9; 2Tess. 3, 8 s. né fa difficoltà quanto si dice in
Atti 20, 33 («faticando così bisogna sostenere i deboli»). Il termine «bisogna», in
quel brano indica non un dovere vero e proprio, ma una convenienza. Cfr. su questo
punto J. L. D'ARAGON, S. J., Saggio di storia dell'esegesi sul testo «In tutti i modi vi
mostrai che, faticando così bisogna sostenere i deboli», in «La scuola cattolica», 83
(1955), pp. 225-240.
20 1Tim, 3, 2-13. Cfr. anche Tit.1, 6-9.
52
In S. Pietro troviamo due importanti accenni riguardo al sacerdozio. Infatti nella sua
prima lettera dice: «I sacerdoti, che sono tra voi, li scongiuro, io consacerdote e
testimone dei patimenti di Cristo, e chiamato a parte di quella gloria che sarà un
giorno manifestata: pascete il gregge di Dio, che da voi dipende, governandolo non
forzatamente, ma di buona voglia secondo Dio, non per amore di vil guadagno, ma
con animo volonteroso; né come per dominare sopra l'eredità (del Signore), ma fatti
sinceramente esemplare del gregge ...»21.
Nel cap. II poi v. 4 s. 9 dice rivolto ai fedeli: «Accostatevi a lui, pietra viva, rigettata
dagli uomini, ma eletta e onorata da Dio; e voi pure come pietre vive siete edificati
sopra di lui, (per essere) casa spirituale, sacerdozio santo, per offrire vittime
spirituali, gradite a Dio... Voi, stirpe eletta, sacerdozio regale, gente santa, popolo di
acquisto»22. Che cosa vogliono dire esattamente queste righe? Intendono
affermare che il potere sacerdotale appartiene a tutti indistintamente? Il problema
si ripresenterà più tardi e si chiarirà sempre più. Già a questo punto però possiamo
dire che l'interpretazione affermante il sacerdozio universale dei fedeli contraddice
a tutto il pensiero apostolico.
Un accenno ai problemi che ci stanno occupando lo troviamo pure in S. Giacomo:
«Religione pura e immacolata nel cospetto di Dio e del Padre è questa: visitare i
pupilli e le vedove nella loro tribolazione e conservarsi puro da questo secolo» 23.
L'Apostolo dunque insiste sull'aspetto interiore del culto contro tutte le esagerazioni
esterioristiche.
Infine negli Atti degli Apostoli abbiamo un episodio assai significativo sulla chiamata
alla funzione di continuatore dell'opera di Cristo: è l'elezione di Mattia. La comunità
presenta dei nomi, ma la scelta è fatta da Dio. «Ne nominarono due, Giuseppe detto
Barsaba, soprannominato il Giusto, e Mattia. E fecero orazione, dicendo: Tu, o
Signore, che vedi i cuori di tutti, dichiara quale di questi due abbi eletto a ricevere il
posto di questo ministero e apostolato, da cui traviò Giuda, per andare al suo luogo.
E tirarono
______________
21 1 Pietro 5, 1-3.
22 Ibid. 2, 4 s. 9.
23 Giac.1, 27.
53
a sorte, e toccò la sorte a Mattia ed egli fu aggregato agli undici Apostoli»24.
Un altro fatto assai significativo è l'istituzione dei diaconi: «Aumentando in quei
giorni il numero dei discepoli, si levò un mormorio degli Ellenisti, perché nella
distribuzione quotidiana le loro vedove erano trascurate. E i Dodici, convocata la
moltitudine dei discepoli, dissero: non è bene che noi lasciamo di predicare la parola
di Dio per servire alle mense. Dunque, tra voi, fratelli, scegliete sette uomini di
buona riputazione. pieni di Spirito Santo e di sapienza, ai quali noi commetteremo
tale ufficio. Noi invece ci applicheremo alla preghiera e al ministero della parola» 25.
Gli Apostoli dunque considerano essenziale. e prevalente la funzione di predicazione
e di orazione; qualora le altre funzioni - ivi compresa quella della carità materiale e
dell'assistenza - costituiscano un ostacolo a quelle funzioni le abbandonano
tranquillamente.
_____________
24 Atti 1, 23-26.
25 Ibid. 6, 1-4.
54

CAPITOLO VI
I SECOLI DELLA PATRISTICA E IL CULTO

Dall'insegnamento e dalla posizione degli Apostoli passiamo ora ai primi secoli


cristiani. Per comodità li raccogliamo sotto l'unica denominazione di «secoli della
patristica», senza con questo riesaminare e prender posizione riguardo alla
patristica e alla sua estensione. Vogliamo dire soltanto e assai brevemente che cosa
hanno pensato e che cosa hanno fatto gli uomini di quei secoli relativamente ai
problemi di cui ci stiamo occupando.
Daremo un brevissimo cenno dei problemi teoretici, poi ci fermeremo un po'
analiticamente su alcuni autori per passare subito all'evoluzione verificatasi in alcuni
campi (giorno del culto, luoghi del culto, ecc.).

§ 1. Le posizioni teoretiche.

I principali centri di interesse teoretico nei primi secoli cristiani sono


l'approfondimento della natura di Dio e della figura di Cristo.
L'affermazione rivelata dell'unità di Dio e della sua trinità non poteva non colpire i
primi pensatori cristiani, tanto più che si trovavano di fronte ad un mondo - quello
ebraico - che se affermava chiaramente l'unità di natura non accettava la trinità di
persone e ad un mondo - quello classico - che se accettava facilmente la molteplicità
delle persone non accoglieva affatto l'unità di natura.
Nella riflessione e nell'approfondimento alcuni si lasciarono gui-
55
dare soprattutto dal desiderio di chiarezza e di intelligenza e finirono per
compromettere o la trinità delle persone facendo di esse dei modi o dei momenti
dell'unità personale divina (deformazioni a carattere monarchico o patripassiano o
modalista o sabelliano) o per compromettere l'unità di natura facendo della trinità
quasi una forma di triteismo (eresie ariane, pneumotomache, ecc.). Altri invece
tennero fermo il dato della rivelazione concludendo alla natura «misteriosa» di tale
affermazione. Quest'ultima è stata la via della riflessione teologica ortodossa
arrivando così a chiarire sempre più la natura di «mistero» dell'essere divino.
Andamento analogo ebbe la riflessione sulla natura di Cristo.
Non mancò chi affermò talmente l'unità di Cristo da negare in Lui la duplicità delle
nature (eresie monofisite) e chi affermò talmente la distinzione da ammettere
addirittura la duplicità di persone (eresie a sfondo nestoriano). Altri invece, fedeli
alla rivelazione, tennero fisse sia l'unità di persona sia la dualità di natura anche se
non sempre era facile vedere come le due affermazioni si conciliavano fra loro 1.

§ 2. Gli atteggiamenti morali.

A proposito della morale i padri di questi secoli, soprattutto i padri dei primi secoli,
insistono nel ricordare l'opposizione al giudaismo. I punti in cui tale opposizione si
verifica maggiormente sono l'importanza e il posto del culto esterno, la mediazione
di Gesù, il sacrificio, il sacerdozio, il sabato.
Dice ad esempio S. Ignazio ai Magnesii: «Coloro che vivevano nell'antico ordine di
cose si sono rivolti alla nuova speranza e non osservano più il sabato, ma celebrano
la domenica, giorno in cui spuntò l'astro della nostra vita per mezzo del Cristo e della
sua morte ...»2. E più avanti: «Non rimaniamo dunque insensibili dinanzi alla sua
bontà! ... Facendoci suoi discepoli, impariamo a vivere secondo il Cristianesimo. Chi
si chiama con altro nome, fuori
__________________
1 Per la documentazione e l'ulteriore approfondimento di tutto questo travaglio di
pensiero rimandiamo alle trattazioni di patristica e di storia del dogma trinitario e
del dogma cristologico.
2 Cap. 9.
56
di questo, non è di Dio. Gettate via il cattivo fermento, quello vecchio e rancido, e
trasformatevi nel fermento nuovo che è Gesù Cristo. Di Lui divenite sapidi, affinché
nessuno si corrompa, poiché dall'odore sarete giudicati. È assurdo aver Cristo sulle
labbra e poi vivere secondo il Giudaismo. Poiché non fu già il Cristianesimo a
convertirsi alla fede giudaica, ma il Giudaismo a credere nel Cristianesimo...»3.
«Non credo» - dice l'A. della Lettera a Diogneto - «che tu abbia bisogno del mio
ammaestramento intorno ai loro scrupoli per certi cibi, alla superstizione relativa al
sabato, al loro vantarsi della circoncisione, alla finzione del digiuno e del novilunio»
4.
I digiuni degli Ebrei non sono veri digiuni graditi a Dio. - L'autore nell'Epistola di
Barnaba nel cap. 3 cita Isaia 58, 4-10 dove si dice che i veri digiuni non sono quelli
dell'astinenza da certi cibi, ma quelli dell'astinenza dalle opere inique e riferisce ai
cristiani l'invito al sacrificio spirituale. Nel cap. 7 dimostra che il digiuno e il capro
espiatorio sono figure di Cristo. Nel cap. 8 fa vedere che la vacca rossa è figura di
Cristo, ecc. 5.
All'opposizione di fronte all'ebraismo Giustino dedica tutto il dialogo contro Trifone.
L'apologista sostiene espressamente che la legge vecchia è abrogata e sostituita da
una legge nuova valida per tutti (cap. 11). Il vero digiuno non sta nell'astinenza da
certi cibi, ma nell'astensione dal peccato (cap. 15). Solo per gli ebrei sono necessari
la circoncisione (cap. 19), l'astinenza da certi cibi (c. 20), l'osservanza del sabato
(cap. 21), i sacrifici e le offerte (cap. 22). La salvezza viene ora da Cristo (cap. 28).
_________________
3 Cap. 10. Un altro punto assai importante nelle lettere di S. Ignazio è la posizione
del vescovo di fronte ai fedeli e di fronte a Cristo. «Gesù Cristo ..., principio
inseparabile della vostra vita, è il pensiero del padre, proprio come i vescovi, stabiliti
fino alle estreme parti della terra, sono una cosa sola con il pensiero di Gesù Cristo»
(Lettera agli Ejesini, c. 3°). «Perciò è vostro dovere essere d'accordo con il pensiero
del vescovo. Infatti il vostro venerabile collegio sacerdotale, degno di Dio, è
armonicamente unito al vescovo come le corde alla cetra ...» (Ibid. c. 4°). «Bisogna
considerare il vescovo come Dio stesso» (Ibid. c. 6°). E ai Magnesii scrive: «La
giovane età del vostro vescovo non deve essere per voi pretesto di trattarlo con
soverchia familiarità; dovete invece tributargli ogni riverenza, venerando nella sua
persona la potenza di Dio ... Per rispetto dunque a quel Dio che ci ama, noi
dobbiamo obbedire senz'ombra di finzione; poiché non s'inganna questo vescovo
visibile, ma si mentisce a quello invisibile ...» (Ibid. c. 3°).
4 Cap. 4, 1.
5 Quanto al significato spirituale del precetto del digiuno si veda anche ERMA, Simil.,
5. 1,
57
Intanto però affiorano altri elementi di notevole interesse per gli sviluppi successivi.
Vediamone qualcuno.
S. Giustino, ad esempio, nel cap. 67 della prima Apologia ha una descrizione vera e
propria della domenica: «Nel così detto giorno del sole si fa l'adunanza di tutti nello
stesso luogo, dimorino in città o in campagna, e, finché il tempo lo permette, si
leggono le memorie degli apostoli e gli scritti dei profeti. Appresso quando il lettore
ha finito, chi presiede con un sermone fa degli ammonimenti e delle esortazioni per
imitare sì belli esempi. Poi ci leviamo tutti insieme e innalziamo preghiere, e, come
sopra dicemmo, quando cessiamo dalla preghiera, si offre pane, vino ed acqua, e
l'antistite, con tutto il fervore di cui è capace, eleva preghiere e insieme azioni di
grazia, e il popolo acclama dicendo l'Amen, e si fa la distribuzione a ciascuno delle
cose consacrate, e si manda agli assenti per mezzo dei diaconi. Gli agiati poi, se
desiderano, danno, ciascuno a suo beneplacito, quel che vogliono, e la colletta è
depositata presso l'antistite; ed egli soccorre orfani, vedove, chi per malattia od
altra causa è bisognoso, quelli che sono in prigione, gli ospiti forestieri, e senza
eccezione ha cura di tutti quelli che si trovano in bisogno. Il giorno del sole ci
raduniamo tutti insieme, poiché è il primo giorno nel quale Dio, mutando la tenebra
e la materia, creò il mondo, e Gesù Cristo nostro salvatore nello stesso giorno
risuscitò dai morti; infatti la vigilia del giorno di Saturno lo confissero in croce, e il
giorno dopo il Saturnio, che è il giorno del sole, apparso ai suoi apostoli e discepoli
insegnò queste cose, che abbiamo presentato anche alla vostra considerazione» 6.
La prima lettera di Clemente contiene una grande formola di preghiera7.
Nel Martirio di Policarpo abbiamo già un'indicazione chiarissima sulla natura del
culto delle reliquie e dei santi: gli ebrei non vogliono che il corpo del martire sia
concesso ai cristiani perché non «comincino a prestare culto a costui, lasciando da
parte il crocifisso»8. E il narratore commenta: «essi ignoravano che noi non potremo
mai abbandonare il Cristo, che ha sofferto per la salvezza di tutti coloro che sono
salvati nel mondo intero, (vittima)
_________________
6 Trad. di P. Balconcini.
7 Cap, 59-61.
8 Cap. 17, 1
58
innocente (sacrificata) per i peccatori, né prestar culto ad un altro. Noi infatti
adoriamo Lui, perché è Figlio di Dio; i martiri invece li veneriamo degnamente, come
discepoli e imitatori del Signore, per l'attaccamento inseparabile che essi ebbero
verso il loro re e maestro. Oh potessimo anche noi diventare loro compagni e
condiscepoli» 9.
A proposito dell'origine del culto a Dio Atenagora osserva: «Il creatore e padre di
questo universo non ha bisogno né di sangue né di odor di carni rosolate, né di
fragranze di fiori e di aromi; egli è la perfetta fragranza che di nulla necessita e basta
a se stesso» 10.
Tertulliano nel De idololatria insiste assai sulla necessità di non partecipare in
nessun modo al culto idolatro; quindi neanche di costruire gli idoli, nemmeno di
frequentare le feste degli idolatri; tanto più che i cristiani hanno le loro feste 11.
Quanto alla domenica Tertulliano sottolinea assai l'aspetto di gioia: «Il giorno del
sole noi concediamo alla gioia» 12
______________
9 Cap. 17, 2-3.
10 Supplica per i cristiani, c. 13.
11 Cap. 14.
12 Apol. 16, 10. Si vedano anche i seguenti passi del De oratione, 23, 23-25).
59
Di S. Ambrogio ricordiamo un passo relativo ai sacrifici ed un fatto relativo al culto
dei martiri. «Anticamente si offrivano agnelli e vitelli, ora si offre Cristo, ma si offre
come uomo, quasi sofferente; e si offre Egli stesso, quasi come sacerdote, per la
remissione dei nostri peccati; qui in immagine, là in realtà, dove innanzi al Padre
intercede per noi, quasi avvocato»13. II fatto è questo: a Bologna raccoglie reliquie
di S. Vitale ed Agricola e le porta alla vedova Giuliana di Firenze che aveva fatto
erigere una chiesa; e dice: «Vi ho portato doni, che raccolsi io stesso con le mie
mani, cioè trofei della Croce, la cui virtù voi conoscete dai fatti. I demoni stessi la
riconoscono. Altri accumuli oro ed argento, lo estragga da vene nascoste, faccia
raccolta di preziose collane: questi sono tesori caduchi e spesso nocivi a chi li
possiede. Noi abbiamo raccolto i chiodi di un martire ...» 14.
Senza indugiare ulteriormente nella raccolta analitica degli elementi e nello studio
dei singoli autori, vediamo, a titolo di esempio, l'evoluzione che si verificò in alcuni
campi. Precisamente: l'evoluzione del giorno del culto, dei luoghi del culto, dei
destinatari del culto.
I. - Il giorno del culto dei primi secoli cristiani. - Abbiamo innanzi tutto uno
spostamento del giorno. L'evoluzione si può fissare nei seguenti punti:
A) Inizialmente si conserva l'usanza ebraica, soprattutto nelle comunità di origine
giudaica. Giacomo e Paolo continuarono a frequentare la sinagoga in giorno di
sabato15; Paolo predica per tre sabati di seguito ad Antiochia di Pisidia16; pure di
sabato Paolo predica a Filippi17, a Tessalonica18 e a Corinto19.
B) Poi poco a poco si fa avanti la domenica. Già in Atti 20, 7 si dice: «E il primo
giorno della settimana, essendoci adunati per spezzare il pane ...». E in 1Cor.16,2:
«Ogni primo giorno della settimana ognuno di voi metta da parte ...». In Apoc.1,10
_________________
13 De officiis, I, 239.
14 Exhortatio virginitatis, n. 9.
15 Atti 13, 27; 15, 21.
16 Atti 13, 14. 42. 44.
17 Atti 16, 13 ss.
18 Ibid. 17, 2.
19 Ibid., 18, 4.
60
incontriamo le parole «giorno del Signore». Verso la fine del secolo cade il
sostantivo «giorno» (***) e l'aggettivo (***) diventa la parte più importante; per
esempio S. Ignazio scrivendo ai Magnesii (c. 9) dice che i discepoli di Gesù «...
celebrano la domenica»,
C) Anzi a poco a poco la domenica prende il sopravvento sul sabato fino al punto
che in qualche periodo l'adesione al sabato venne considerata quasi un fatto
ereticale. Già S. Paolo in 2 Col. 16, 17 dice: «Nessuno vi giudichi a condanna per cibo
o bevanda o per ragioni di festa o di novilunio o di sabato, le quali cose sono l'ombra
delle future, ma il corpo è Cristo»20. «Coloro» - dice S. Ignazio ai Magnesii nel passo
già ricordato - «che vivevano nell'antico ordine di cose si sono rivolti alla nuova
speranza e non osservano più il sabato, ma celebrano la domenica, giorno in cui
spuntò l'astro della nostra vita per mezzo del Cristo e della sua morte» 21. Più forte
è la Lettera di Barnaba: al cap. 15 vuol dimostrare che il sabato vero non è quello
giudaico; un giorno infatti per Dio sono mille anni; sei giorni sono dunque seimila
anni; il mondo quindi durerà seimila anni; allora il sabato che Dio ha santificato è il
«secolo futuro». E conclude: «per questo noi trascorriamo l'ottavo giorno nella
gioia, perché in questo giorno Gesù risorse dai morti e, dopo esser apparso visibile,
salì ai cieli».
Inoltre abbiamo una modificazione nel contenuto del giorno del Signore. E
precisamente: una maggior sottolineatura del culto in confronto col riposo, uno
sviluppo del culto a Dio uno e creatore mediante il culto a Gesù e alla Trinità, una
sostituzione dei sacrifici antichi col sacrificio eucaristico, una più marcata
affermazione dell'amore del prossimo e del carattere di gioia.
___________________
20 È assai significativo che il Concilio di Gerusalemme non dica nulla del sabato e
non conservi delle tradizioni giudaiche che l'astensione «dalle cose immolate agli
idoli e dal sangue e dal soffocato e della fornicazione» (Atti 15, 29).
21 Per qualche tempo dunque festeggiare il sabato significa continuare ad aderire al
giudaismo e quindi negare la redenzione di Cristo. Questa opposizione al sabato
doveva però cadere man mano che entravano nella Chiesa persone che col sabato e
con l'ebraismo non avevano nessun legame. Allora la domenica raccolse l'eredità del
sabato, almeno per quanto riguarda l'aspetto di culto.
Va anche detto che celebrazioni del sabato continuarono anche dopo qua e là.
Per esempio, le Costituzioni Apostoliche contemplano la visita della chiesa al sabato
e il riposo, quantunque riconoscano maggior dignità alla domenica (cfr. 2, 59; 3, 171-
173). Anche nella proibizione di digiunare al sabato c'è qualche traccia gi
sabbatismo.
61
Innanzi tutto - abbiam detto - si ha una maggior sottolineatura del culto in
confronto col riposo. In principio anzi la domenica non fu giorno di riposo. Giorno di
astensione dal lavoro per tutti quelli provenienti dall'ebraismo era il sabato, per
quelli provenienti dal paganesimo era il giorno di Saturno, perché, essendo Saturno
profeta di malaugurio, si riteneva che le opere fatte in quel giorno fossero fatte
sotto cattiva stella e quindi si rimandavano. Non sarebbe nemmeno stato possibile
astenersi dal lavoro in giorno di domenica date le condizioni economiche
dell'impero romano e il fatto che molti dei nuovi convertiti erano schiavi.
A poco a poco però il riposo s'introdusse anche nella domenica.
Già nel sec. III - stando a Tertulliano (De orat., c. 23) - in Africa si riposava. Più tardi
con il radicarsi del cristianesimo, soprattutto in seguito alla pace costantiniana, il
riposo si diffuse assai. Costantino, nei suoi rescritti imperiali, ordinava che «tutti i
giudici, il popolo della città e gli artigiani d'ogni mestiere riposassero la domenica.
Tuttavia» - aggiungeva - «gli agricoltori potranno continuare il loro lavoro, perché
accade spesso che non c'è più un giorno in cui si possa seminare in condizioni
migliori e il raccolto dipende assai dalle variazioni di temperatura» 22. Subito
seguirono le prime leggi particolari della Chiesa. Ad esempio un Concilio. di Laodicea
(381?) prescrisse: «I fedeli preferiscano la domenica al sabato e riposino da cristiani,
tutte le volte che lo possono fare»23. Nelle Lettere spirituali di Barsanufo e di
Giovanni si dice: «Interrogato sulla questione se è un peccato lavorare di domenica,
Giovanni profeta risponde: non è un peccato per quelli che lavorano per orgoglio,
per cupidigia, per avarizia ... È buona cosa, nei giorni di domenica, nelle feste di
Cristo e degli Apostoli, astenersi dal lavoro e andare in chiesa: questa è la tradizione
degli Apostoli»24.
Col secolo VI la legislazione diventa più precisa. «Noi stabiliamo» dice il terzo
Concilio di Orléans (538) «che si può continuare a fare la domenica ciò che era già
permesso altra volta: ma ci si asterrà dai lavori agricoli» 25.
________________
22 Cit. in G. CERIANI, Il riposo festivo, in Il giorno del Signore, Morcelliana, Brescia
1953, p. 142.
23 Ibid., p. 142.
24 Ibid., p. 143.
25 Ibid., p. 143 s. Rimane però sempre che l'aspetto di culto prevale sull'aspetto di
riposo. In tal senso soltanto si può accettare ciò che dice Jungmann: «la domenica
non è la continuazione, nello spirito del Vecchio Testamento, del sabato ebraico,
vale a dire la consacrazione di un giorno della settimana; e neppure un adattamento
al tipo della festività giudaica, in modo però da distinguerla da quest'ultima. L'idea
del "giorno del riposo", fondamentale nel giudaismo, non esisteva presso i cristiani,
anzi si dileggiavano gli ebrei che passavano in ozio un giorno della settimana... Per i
cristiani lo scopo della domenica era quello di mantener viva, oltre la Pasqua, l'idea
fondamentale della dottrina cristiana, e cioè che noi siamo stati redenti da Cristo»
(G. A. JUNGMANN, S. J., La messa come offerta della comunità cristiana, p. 32).
62
Uno spostamento avviene anche - sempre per quanto riguarda il contenuto del
«giorno del Signore» - nei destinatari. La domenica non è più solo ricordo della
creazione, ma anche e soprattutto ricordo della risurrezione26, anzi secondo S.
Ireneo l'uso di star in piedi è proprio a ricordo della risurrezione di Cristo 27.
Conseguentemente è anche celebrazione di Cristo e quindi della Trinità. La
domenica non è solo celebrazione e culto di Dio creatore, ma anche e soprattutto
ricordo e dedizione al Redentore e quindi ricordo e culto alla Trinità.
Un'altra innovazione - sempre per quanto riguarda il contenuto del giorno del
Signore - è la sostituzione del sacrificio eucaristico ai sacrifici del Vecchio
Testamento. Dice il Dublanchy: «Alla fine del primo secolo la Doctrina duodecim
apostolorum raccomanda a tutti i fedeli di riunirsi per l'azione di grazie e la frazione
del pane... All'inizio del secolo II, in oriente S. Ignazio parla della solennizzazione
della domenica al posto del sabato giu-
_________________
26 Gregorio di Tours indica con la frase «dies resurrectionis» non solo la Pasqua, ma
anche la domenica (cfr. J. DES GRAVIERS, L'expression «dominicae resurrectionis
dies» dans les oeuvres de Saint Grégoire de Tours, in «Ephem, Liturgicae», 48
(1934), pp. 289-300.
Presso i russi la domenica si dice ancor oggi giorno della risurrezione.
27 «Non flectere autem genu Dominico die symbolum est resurrectionis, qua per
Christi gratiam et a peccatis et a morte, quae in illo interfecta est, liberati sumus»
(Fragmenta, VII, M. G., 7, 1234). Così anche S. Basilio De Spiritu Sancto,M. G., 32,
188 A, 192 B.
63
daico ... In occidente S. Giustino nella sua Prima Apologia ricorda che nel giorno del
sole, primo della settimana e giorno della risurrezione del Salvatore, tutti i cristiani
di una stessa città o dello stesso contado si raccolgono nello stesso posto per una
funzione liturgica che non può essere se non la Messa ... Numerosi testi di Padri dei
secoli II-IV ci parlano dell'abitudine dei cristiani di raccogliersi il giorno di festa per la
celebrazione del sacrificio eucaristico... Tuttavia non abbiamo ancora in questo
periodo un obbligo preciso di assistere alla Messa in giorno di domenica... Tale
obbligo si incontra nel secolo VI...» 28.
Un altro aspetto della domenica è l'amore del prossimo: la festa diventa anche il
giorno dell'amore dei fratelli; in tale giorno i cristiani si ricordano più fortemente che
formano una famiglia sola; si comunicano le notizie delle altre chiese29; si fanno le
collette per i poveri30, ecc.
Per tutti codesti elementi la domenica assume una spiccata caratteristica di giorno
di gioia. «Trascorriamo l'ottavo giorno nella gioia» dice Barnaba, nel brano
soprariferito. Manifestazione caratteristica di questo aspetto di gioia è la proibizione
del digiuno31 e di pregare in ginocchio 32
__________________
28 Dimanche, in «D. Th. Cath.», 4, cc. 1334 s.
29 Cfr. EUSEBIO, Storia eccles. 4, 23, 11.
30 Cfr. GIUSTINO, Apol. I, c. 67, 6.
31 MELCHIADES PAPA, Epistola ad omnes Hispaniae episcopos, in MANSI, II, 431. -
Canones Apostolorum, can. LXV, in MANSI, I, 43; - Conc. Cartaginese, 4, can. 64, in
MANSI, III, 956).
Nel Vallicellianum II, contenuto nel manoscritto C. 6 del sec. XI, conservato nella
Biblioteca vallicelliana di Roma, proveniente dall'antichissima abbazia di San Eutizio,
presso Norcia (Umbria), il can. 75 dice: «Chi deliberatamente digiuna alla domenica,
sia scomunicato. Chi lavora alla domenica, faccia penitenza per sette giorni. Chi avrà
disprezzato il digiuno indetto dalla chiesa, faccia penitenza per 40 giorni» (citato in
FABIO FABBI, La confessione dei peccati nel Cristianesimo, Edizioni Pro Civitate
christiana, Assisi 1947, pag. 130).
32 Die Dominico» - dice Tertulliano nel De corona (cap. 3) - «ieiunium nefas
ducirnus, ve de geniculis adorare. Eadem immunitate a die Paschate in
Pentecostem». Nei Canoni di penitenza di S. Pietro Alessandrino (c. 15) si dice: «... in
quo (die) nec genua quidem flectere accepimus». È anche per questo che la
domenica noi recitiamo ancora l'Angelus in piedi. Si tenga presente il seguente can.
del Conc, di Nicea: «Quoniam sunt quidam, qui in die dominico genu flectant, et
ipsis diebus pentecostes, ut omnia similiter in omnia parochia serventur, visum est
sanctae synodo, ut stantes Deo orationes effundant» (Conc. di Nicea, can. 20, in
MANSI, II, 678, HEFELE, I, p. 618).
64
Via dunque ogni segno di tristezza in domenica33. E S. Gregorio di Nazianzo ricorda
che sua madre quando sopraggiungeva la domenica toglieva le vesti di lutto. E i
monaci alla domenica portavano abiti più gioiosi34. E i padri del deserto in tal giorno
si permettevano pasti più abbondanti.
Una profonda modificazione abbiamo dunque sia nel giorno del culto, sia nel suo
contenuto. Donde tale trasformazione?
Per quella parte del contenuto che riguarda la sostituzione del sacrificio eucaristico
ai sacrifici antichi deriva certamente dalla volontà di Cristo. Per la sostituzione della
domenica al sabato?
Un motivo di spostamento fu senza dubbio il fatto che nel giorno dopo il sabato si
erano verificati i grandi avvenimenti della nuova religione: la risurrezione di Cristo, le
apparizioni agli apostoli, alle donne, ai discepoli di Emmaus, la discesa dello Spirito
Santo e quindi l'inizio della Chiesa: «Noi trascorriamo nella gioia l'ottavo giorno» -
dice Barnaba nel passo soprarriferito - «perché in questo giorno Gesù risuscitò da
morte».
C'è stato anche un ordine di Cristo?
Alcuni - per es. Eusebio di Cesarea e Sporer35 - lo affermano; generalmente lo si
nega36; qualcuno distingue fra la periodicità settimanale e il giorno della settimana
e afferma che la conservazione della periodicità settimanale sia di volontà divina,
mentre
_______________
33 Tertulliano, Apol. 16, 11.
34 Vita di Pacomio, 22.
35 «Loco die Sabbati in Nova Lege ad Deum colendum institutum est dies Dominica,
idque ipso iure divino, ut colligitur ex Scriptum, et certissime constat Traditione
Apostolica et Ecclesiastica" (Theologia Moralis Super Decalogum, tr. III, c. IV, n. 3).
«C'est donc Notre Seigneur lui-mème qui a désigné le dimanche, qui l'a consacré
comme le jour de ses fidèles. C'est lui qui a, pour ainsi dire, donné à ses disciples
l'habitude de se réunir ce jour-là pour l'attendre» (J. FROGER, Origines et histoire du
dimanche, in Le Huitième jour ..., p. 505).
36 «Observatio dominicae non obligat ex praecepto decalogi nisi quantum ad hoc
quod est de dictamine legis naturae: taxatio enim illius diei est ex institutione
Ecclesiae volentis resurrectionem Christi... in iugi memoria esse " (In III Sent. Dist.
37, a. 5, sol. III, ad 3um), E in IIa IIae, q. 122, a. ad 4um: «Observantia diei dominicae
in nova lege succedit observantiae sabbati, non ex vi praecepti legis, sed ex
constitutione Ecclesiae et consuetudine populi christiani».
65
la determinazione del giorno della settimana, ossia della domenica anziché ad
esempio del venerdì, sia di volontà della Chiesa37. Con-
_______________
37 «Tantum ex praecepto Ecclesiae retenta est determinatio septimi diei ad
divinum cultum et eodern iure mutata est a sabbato in dominicam» (SUAREZ, De
religione, tr. 2, I. 2, c. 4, n. 5). Quanto all'immutabilità Suarez afferma:
«Respondetur, simpliciter loquendo, et quasi de potentia absoluta Ecclesiae seu
Pontificum, tale praeceptum mutabile esse ...; tamen practice ac moraliter, dici
posse aliquo modo immutabile licet ecclesiasticum sit. Quaedam enim sunt
ecclesiastica praecepta tam propinqua, tamque similia divinis institutionibus, et tam
conformia legi naturali, et tot rationibus honestatis ac religionis munita, et tam
vetusta, ac universali consuetudine firmata, ut, simpliciter loquendo, secundum
ordinatam potentiam abrogari et omnino tolli non possint» (ibid.).
«Ipsius diei dominicae electio, imo septimi cuiusque recurrentis diei sanctificatio
non iam ex lege divina, sed ex ecclesiastica Cristitideles obligat» (A. LEHMKUHL, S. J.,
Theol. mor., I, n. 544).
66
seguentemente dicono - o dovrebbero dire38 - che la Chiesa non può accettare la
sostituzione di un altro giorno alla domenica, op-

_______________
Sulla stessa linea sembra essere anche il Ceriani. Scrive infatti: "Per il fatto di diritto
divino, provato nei documenti biblici - che la domenica deve essere ebdomadaria -
ogni altra periodicità che non fosse ebdomadaria non potrebbe mai essere
introdotta per ragioni economiche, politiche, ecc. dal potere temporale; anche
introdotta non potrebbe mai sostituire la domenica cristiana» (G. CERIANI, Il giorno
del Signore nella S. Scrittura, in Il giorno del Signore ..., Morcelliana, Brescia 1953, p.
63).
«La legge antica comandava la santificazione del sabato, e gli ebrei in detto giorno
dovevano astenersi da ogni lavoro e per solvere i riti prescritti. La legge nuova ha
abrogato la vecchia, perciò anche la santificazione del sabato. Cristo nulla stabilì in
proposito, ma rimise tutto il potere di legislatura alla Chiesa, la quale in forza di
questa potestà ricevuta, sostituì la domenica col sabato e stabilì che venisse
santificata mediante l'astinenza dalle opere servili e l’assistenza al divin sacrificio»
(TEODORO DA TORRE DEL GRECO, O. F. MIN. CAPP., Teologia morale, III ed. Edizioni
Paoline, Alba 1955, p. 184, n. 185).
"Nell'Antico Testamento la precisazione (dei giorni da dedicare a Dio) fu fatta per
mezzo della legge cerimoniale promulgata da Dio. Nel Nuovo Testamento Dio affidò
alla sua Chiesa la cura di dare disposizioni più particolareggiate» (E. JONE, O. F. M.
CAP., Compendio di teologia morale ..., n. 193).
38 Non tutti infatti tirano o sembrano disposti a tirare le conseguenze della propria
posizione.
67
pure che la Chiesa potrebbe - se lo ritenesse necessario - abbandonare non solo la
domenica, ma anche il ciclo ebdomadario, oppure che la Chiesa potrebbe
abbandonare la domenica, ma non il ciclo ebdomadario.
Senza affrontare completamente la questione, sembra che si debba esser cauti
prima di stabilire un intervento della rivelazione. Indubbiamente Gesù ha influito
non poco sullo spostamento del giorno del culto dal sabato al giorno successivo, ma
altro è dire questo ed altro è dire che la sostituzione del sabato con la domenica - o
anche solo la conservazione del ciclo settimanale - è di diritto divino 39.
Anche su altri punti la tradizione è incerta. Per esempio, non tutti concordano
sull'esatta ubicazione della domenica nella settimana. Per molti infatti, soprattutto
nei primi tempi, la domenica è il primo giorno della settimana sabbatica, è la prima
sabbati con cui gli evangelisti avevano datato la risurrezione di Cristo; in termini
romani è la feria prima, onde il lunedì è la feria secunda. Per altri invece la domenica
è l'ultimo giorno della settimana, essendo succeduto al sabato che chiudeva il ciclo
ebdomadario. Per altri infine è l'ottavo giorno. Abbiam visto, per esempio, in
Barnaba che i sei giorni della creazione diventano il tempo; il «settimo giorno» è il
«secolo futuro», che - per uno spostamento - diviene l'ottavo giorno, onde
conclude: «per questo noi trascorriamo l'ottavo giorno nella gioia ...». Lo stesso
pensiero ritorna presso gli Alessandrini per i quali i sette giorni della settimana sono
un simbolo di tutto il tempo ossia della durata di questo mondo; l'ottavo - ossia la
domenica - è simbolo della vita futura40. Essa verrebbe a costituire - o dovrebbe
costituire - un
_______________
39 «Si discute qualche volta se la domenica sia di istituzione divina o ecclesiastica.
Possiamo dire che essa è, se si vuole, l'una e l'altra cosa. Gesù Cristo l'ha istituita
tacitamente facendo cadere in quel giorno la sua Resurrezione e le sue prime
apparizioni; la Chiesa da parte sua ha collaborato a questa istituzione in quanto ha
autorizzato una consuetudine che prima non era che un fatto provvidenziale» (P.
DALOS, O. P., La domenica nella teologia cattolica, in «L'assistente ecclesiastico», 21
(1951), p. 34).
40 Dice giustamente A. M. Henry: «D'un certain point de vue, le dimanche est le
premier jour, puisqu'il est le lendemain du sabbat. D'un autre point de vue, il est le
septième jour puisqu'il est l'héritier du sabbat. Mais ces chiffres ne le désignent pas
encore en ce qu'il a d'originai et de transcendant. En lui donnant un rang parmi les
sept jours de la semaine, ils voudraient en faire un jour comme les autres. Mais il est
d'un autre ordre. Il est comme la vie du chrétien en ce monde,
68
anticipo di quello che si fa già dai beati e si dovrà fare da tutti in cielo: una parentesi
paradisiaca nel tempo.
Possiamo quindi concludere: i primi secoli cristiani hanno cercato propri tempi di
culto, configurandoli secondo gli elementi propri della rivelazione cristiana,
distaccandosi sia dalla tradizione ebraica, sia dalla tradizione classica. Quanto al
mondo ebraico i primi secoli cristiani non hanno accettato il sabato; quanto al
mondo classico non accolsero la settimana planetaria. Se non disdegnarono talvolta
la denominazione pagana di «giorno del sole» fu per il simbolismo di Cristo «sole di
giustizia» e «luce del mondo». Scriveva già Giustino: «Noi ci riuniamo tutti nel giorno
del sole, perché è il primo giorno nel quale Dio, traendo dalle tenebre la materia,
creò il mondo, e perché nello stesso giorno Gesù Cristo, Nostro Salvatore, risuscitò
dai morti»41. E Tertulliano: «Se noi affidiamo alla gioia il giorno del sole lo facciamo
per un'altra ragione che per rendere culto al sole ...» 42.
II. I luoghi del culto nei primi secoli cristiani. - Una notevole evoluzione si è verificata
- sempre nei primi secoli cristiani - anche riguardo ai luoghi del culto.
Anche a questo riguardo i primi cristiani seguirono notevolmente l'uso ebraico.
Sappiamo dagli Atti che, pur costituitosi dopo la Pentecoste il primo nucleo di fedeli,
gli Apostoli continuarono a frequentare il tempio per la preghiera ufficiale.
Per la celebrazione dell'Eucarestia invece, in mancanza di un proprio luogo di culto,
i nuovi fedeli si raccoglievano or in una or in altra delle loro case: «Ogni giorno di
comune accordo erano assidui al tempio e spezzando il pane di casa in casa,
prendevano cibo con gioia e semplicità di cuore, lodando Dio e avendo il favore di
tutto il popolo» 43.
_________
à la fois terrestre et céleste. S'il dure seulement vingt-quatre heures de la révolution
terrestre, il est le symbole et le type, le sacramentai d'une nouvelle durée qui ne se
mesure pas par les révolutions astrales. Car le Christ ressuscité des morts et monté
aux cieux est vivant... Les dimanches... sont une prélibation du terme du pèlerinage,
ils montrent le but et font goùter le bienheureux repos. C'est pourquoi nous devons
ce jour-là nous réconforter spirituellement en vivant déjà comme en ciel... C'est
pour désigner ce sabbat spirituel que les Pères ont nommé le dimanche le huitème
jour» (Le huitième jour ..., p. 499 s.).
41 Apol. l. c. 67, 7.
42 Apol. 16, 2; Ad Nationes, 1, 13.
43 Atti 2, 46.
69
«È facile supporre che essi scegliessero, a tale scopo, quella parte della casa, detta
dai Greci *** o ***, la quale soprastava al pianterreno, ed è, ancora oggidì, in
Oriente, la sala riserbata alle grandi feste familiari. Quivi infatti troviamo raccolti gli
Apostoli al momento della discesa dello Spirito Santo; quivi pure si legge che si
ritirasse S. Pietro a pregare (Atti 10, 9); qui ancora S. Paolo celebrò a Troade i divini
misteri (Atti 20, 46; l'adunanza in questa occasione si tenne al terzo piano della casa,
perché Eutichio cadde de tertio coenaculo deorsum)» 44.
Alcune anzi di queste chiese domestiche sono più volte ricordate negli Atti e nelle
Lettere paoline: a Gerusalemme quella di Maria, madre di Marco (Atti 12, 12), ad
Efeso quella di Tiranno (Atti 19, 9), a Corinto quella di Tito (Atti 18, 7), a Colossi
quella di Filemone (Filem.2), a Laodicea quella di Ninfa (Coloss.4, 15), a Roma quella
di Aquila e Priscilla (1Cor. 16, 19; Rom. 16, 3-5).
A poco a poco però arrivarono a templi propri, soprattutto quando fu concesso il
libero esercizio del culto. Molti templi pagani anzi furono trasformati in chiese
cristiane.
III. - I destinatari del culto nei primi secoli cristiani. - Una notevole evoluzione si
ebbe anche riguardo ai destinatari. Per non diffonderci troppo diamo qualche
semplice accenno all'adorazione di Cristo, al culto dei santi e delle immagini.
Quanto all'adorazione dell'umanità di Cristo basterà ricordare le controversie ariane
e nestoriane e gli anatematismi di Cirillo45 e gli anatematismi a riguardo dei tre
Capitoli46: ivi si afferma chiaramente che l'umanità di Cristo deve essere adorata
con un'adorazione unica non duplice.
Quanto ai santi è noto che il loro culto «incomincia con quello
__________
44 M. RIGHETTI, Storia liturgica, vol. I, Ancora, Milano 1945, p. 323.
45 Ecco il testo degli Anatematìsmì di Cirillo che ci interessano: […] (D. 120).
46 Ecco il testo: […] (D. 221).
70
dei martiri e solo dopo chiuso il periodo delle persecuzioni si incominciò a venerare
sul luogo della loro sepoltura i vescovi più illustri, per benemerenze e fama di
santità, poi i monaci e i personaggi divenuti celebri nel paese» 47. Sempre però si
sostenne che il loro culto ridondava su Dio stesso: «onoriamo i servi» - dice S.
Gerolamo - «affinché l'onore dei servi ridondi sul padrone»48.
E S. Agostino: «Quando noi offriamo il sacrificio presso i sepolcri dei martiri, non è
forse a Dio che l'offriamo? Senza dubbio i santi martiri hanno un posto d'onore.
Notatelo: nelle letture fatte davanti all'altare di Cristo, di essi vien fatta una
menzione onorevole. Tuttavia essi non sono adorati al posto di Cristo. Avete mai
inteso dire presso la memoria di S. Teogene da me o da uno dei miei fratelli e
colleghi o da un prete qualunque: io ti offro il sacrificio, o S. Teogene? ovvero: io ti
offro il sacrificio, o Pietro; ovvero: io ti offro il sacrificio, o Paolo? Voi non avete mai
inteso espressioni simili, perché ciò non si fa e non è permesso»49. E altrove: «Non
ai martiri ma a Dio noi innalziamo gli altari. Quello che noi offriamo è offerto a Dio
che corona i martiri»50.
Anche a riguardo dei destinatari del culto la Chiesa ha trovato dunque subito una
sua strada lontana sia dal rigorismo veterotestamentario che non ammetteva né
santi, né immagini, sia dalla deviazione politeista che attribuiva culto vero e proprio
a chi non lo meritava affatto.
Senza addentrarci poi nell'analisi dei motivi che determinarono codesta evoluzione
ci restringiamo a dire: «La storia dello sviluppo liturgico ci dimostra che esso ha
seguito di pari passo le vicende dello svolgimento dommatico. Quando il dogma si
precisa nella speculazione scientifica e nell'insegnamento dottrinale, ovvero esce
_________________
47 C. VAGAGGINI, Santi, in «Enciclopedia cattolica», 10, 1854.
48 Ep. 109, 1.
49 Sermo 273.
50 Contra Faustum 20, 21. Per il culto delle immagini e l'iconoclastismo rimandiamo
alla storia della Chiesa.
71
vittorioso dopo una grande controversia teologica, subito una formala se ne fa eco
od una cerimonia lo traduce e lo fissa nel rituale.
Nel sec. IV l'Arianesimo prende pretesto dalla formula dossologica indirizzata al
Padre per Christum Dominum nostrum per negare la divinità di Gesù Cristo, e tosto
apparisce nell'uso liturgico la seconda conclusione qui tecum vivit et regnat in
unitale Spiritus Sancti Deus... I Pelagiani negano la necessità del soccorso della
grazia, ed ecco moltiplicarsi l'uso del versetto: Deus in adiutorium meum intende;
Domine, ad adiuvandum me festina; accusano i cattolici di credere che il battesimo
non cancelli tutti i peccati, e la liturgia visigota, come protesta, inserisce nella
formula del simbolo apostolico: Credo... remissionem peccatorum. I Predestinaziani
respingono l'universalità della redenzione di Cristo, e nel Canone romano vengono
aggiunte le parole pro nostra omniumque salute. I Manichei contestano la
legittimità dell'uso del vino nell'Eucarestia, e Leone I aggiunge nel Canone alla
menzione del sacrificio di Melchisedecco: Sanctum sacrificium, immaculatam
hostiam. Non appena Nestorio, l'impugnatore della divina Maternità di Maria SS. è
condannato ad Efeso (431), nei Dittici romani viene aggiunta la clausola Dei genitrix
...» 51.
________________
51 M. RIGHETTI, Storia liturgica, I, p. 16 s.

CAPITOLO VII

L'ISLAMISMO E IL CULTO
Un fenomeno religioso di grande importanza del quale non si può non dire una
parola è l'Islamismo. Accenneremo assai brevemente alla concezione del sovrumano
ed al culto.
Il concetto islamico di Dio è rigorosamente monoteista. Non abbiamo la trinità delle
persone. Dio è assoluta potenza; è il creatore che ha fatto ogni cosa dal nulla;
giudicherà i buoni e i cattivi; premierà i primi e punirà i secondi. Gesù Cristo è
«inviato e parola di Dio»; è nato per opera dello Spirito Santo da Maria Vergine
sorella di Aronne e figlia di Imran. Non è affatto figlio di Dio nel senso cristiano.
Quanto alla pratica religiosa sono noti i cinque pilastri dell'islamismo: 1) la
professione di fede; 2) la preghiera canonica o rituale; 3) il digiuno del mese di
ramadan; 4) l'imposta canonica; 5) il pellegrinaggio alla Mecca. La preghiera
canonica - per dire qualcosa di codesto pilastro - «è un puro atto di obbedienza ai
precetti che Dio ha impartito in questa materia; essa si compie con parole e
movenze determinate nel modo più meticoloso, sotto pena di nullità ed è valida
soltanto in determinati periodi della giornata; essa presuppone che il credente,
quando si accinge a compierla, abbia formulato dentro di sé l'intenzione di farla, ma
non implica alcun particolare senso di devozione che sgorghi dal cuore. La preghiera
libera, quella che scaturisce spontanea da un animo intimamente religioso, o che si
rivolge a Dio per supplicarlo o chiedergli perdono, è cosa completamente diversa
dalla preghiera rituale ...; è un di più che non sarebbe nemmeno lecito
inframmezzare alla preghiera canonica, Prima condizione fondamentale per
73
questa è di trovarsi in stato di purità legale, ossia fisica, ottenuta mediante abluzioni
(mani, viso, avambracci, piedi) o lavanda completa del corpo, secondo il grado
d'impurità in cui il fedele si trova; altrettanto indispensabile è la purità del luogo su
cui egli si colloca per pregare (quindi l'uso di stuoie e tappeti mai calpestati da suole
sporche, ecc.). Altra condizione preliminare di validità è che l'orante abbia il viso
rivolto alla quiblah, ossia in direzione del santuario della Ka'bah che trovasi alla
Mecca; è necessario inoltre che non siano anticipati né sorpassati i limiti di tempo
entro i quali, nei diversi periodi della giornata, la preghiera canonica ha valore. La
prima posizione dell'orante è l'eretta; seguono, accompagnati di volta in volta da
formule e recitazioni di testi prescritte esattamente, inchini di mezzo il corpo,
prosternazioni sino a toccar la terra con la fronte, sessione sulle gambe
inginocchiate; questo insieme di atti... si dovrebbe compiere cinque volte al giorno:
subito dopo il mezzogiorno vero locale, a circa mezzo pomeriggio, al tramonto del
sole, alla sera e al primo mattino» 1.
In particolare, nell'Islam manca un sacerdozio vero e proprio.
Le figure che vi si incontrano - per es. l'ulema, l'imano e il muezzin - non hanno
carattere rigorosamente sacerdotale. L'ulema (detto anche in alcuni casi muitt e in
Persia mullah) non è che un interprete dell'islamismo ed a lui si rivolge il musulmano
nei suoi dubbi di coscienza. L'iman, che si trova solo nelle moschee principali,
presiede alla preghiera. Il muezzin non è che un funzionario subalterno incaricato di
annunciare ai fedeli la preghiera dall'alto del minareto. Dice ancora il Nallino: «Un
fatto di capitale importanza è che l'Islamismo, pur tendendo a dominare con
precetti positivi minuziosissimi tutte le manifestazioni della vita dei credenti, anche
nei lati che a noi parrebbero i più lontani dal campo della religione, ignora l'esistenza
d'una chiesa gerarchicamente costituita da persone rivestite di carattere sacro e al
cui vertice stia un capo supremo, moderatore sommo dell'organismo ecclesiastico e
decidente in ultima istanza in materia di dogma e di rito. Maometto non istituì
sacramenti, né sacerdoti o ministri del culto; alle pratiche cultuali ogni musulmano
può attendere direttamente una
_______________
1 C. A. NALLINO, Islamismo, in «Enciclopedia Italiana», 19, p. 612. Non occorre
molta riflessione per notare l'esteriorismo del culto islamico. La legge della
cadaverizzazione del culto ha qui un'applicazione di prim'ordine.
74
volta che le abbia apprese, e anche alle cerimonie di culto che si tengono in comune
(per es., la preghiera canonica pubblica del venerdì) può presiedere qualsiasi
credente esperto del rito. La moschea stessa ha carattere rigorosamente sacro
soltanto per rapporto agli infedeli; per i musulmani essa serve anche a scopi profani
purché non siano indecorosi. Onde è che un clero nel senso europeo, distinto dal
laicato come nelle due chiese cattolica e grecoortodossa, non esiste nell'islamismo;
quello che talvolta viene chiamato il clero musulmano nel linguaggio amministrativo
d'alcune colonie europee è l'insieme delle persone incaricate in modo permanente
di funzioni nelle moschee, alle quali potrebbe attendere qualsivoglia fedele
idoneo»2.
Il giorno settimanale del culto è il venerdì3.
__________________
2 Art. cit., p. 605.
3 Da questo fatto il venerdì ha tratto il suo nome: yawm al-gum' ah (giorno
dell'adunanza).

CAPITOLO VIII

IL PROTESTANTESIMO E IL CONCILIO DI TRENTO

§ 1. Il Protestantesimo.

Tralasciando di seguire passo passo l'evoluzione religiosa nei secoli cristiani, ci sia
consentito di dire qualcosa della reazione protestante e del Concilio di Trento.
I riformatori attaccano fortemente l'aspetto sacrificale della Messa, il valore del
sacerdozio cristiano, la liceità del culto alla Madonna, ai santi, alle immagini, la
liceità del giuramento, ecc. «De cultu sanctorum» - si dice nella Confessio fidei
exhibita invictissimo Imperatori Carolo V Caesari Augusto in comitiis Augustae anno
MDXXX - «docent, quod memoria sanctorum proponi potest, ut imitemur fidem
eorum et bona opera iuxta vocationem, ut Caesar imitari potest exemplum David in
bello gerendo ad depellendos Turcas a patria. Nam uterque rex est. Sed scriptum
non docet invocare sanctos seu petere auxilium a sanctis, quia unum Christum nobis
proponit mediatorem, propitiatorem, pontificem et intercessorem. Hic invocandus
est et promisit se exauditurum esse preces nostras et hunc cultum maxime probat,
videlicet ut invocetur in omnibus afflictionibus» 1.
Del matrimonio dei sacerdoti la stessa Confessione dice: «Qui non sunt idonei ad
caelibatum, debent contrahere matrimonium. Nam mandatum Dei et ordinationem
Dei nulla lex humana, nullum votum tollere potest. Ex his causis docent sacerdotes
sibi licuisse
________________
1 Die Bekenntnisschrijten der evangelisch-lutherischen Kirche ..., Deutsches
Evangelisches Kirchenbundesamt, Berlin-Charlottenburg 1930, p. 81.
76
uxores ducere. Constat etiam in ecclesia veteri sacerdotes fuisse maritos. Nam et
Paulus ait, episcopum eligendum esse, qui sit maritus. Et in Germania primum ante
annos quadringentos sacerdotes vi coacti sunt ad caelibatum, qui quidem adeo
adversati sunt, ut archiepiscopus Moguntinus, publicaturus edictum Romani
Pontificis de ea re, paene ab iratis sacerdotibus per tumultum oppressus sit...» 2.
Dell'aspetto sacrificale della Messa e della ripetizione di essa, si dice: «De his
opinionibus nostri admonuerunt, quod dissentiant a scripturis sanctis et laedant
gloriam passionis Christi. Nam passio Christi fuit oblatio et satisfactio non solum pro
culpa originis, sed etiam pro omnibus reliquis peccatis, ut ad Hebraeos scriptum est:
Sanctiftcati sumus per oblationem Jesu Christi semel. Item: Una oblatione
consummavit in perpetuum sanctificatos. Item scriptura docet nos coram Deo
iustificari per fìdem in Christum, cum credimus, no bis remitti peccata propter
Christum. Jam si missa delet peccata vivorum et mortuorum ex opere operato,
contingit iustificatio ex opere missae, non ex fide, quod scriptura non patitur» 3.
«Unicum tantum in mundo fuit sacrificium propitiatorium, videlicet mors Christi» -
ricalca la Apologia Confessionis Augustanae - «...Maneat ergo hoc in causa, quod
sola mors Christi est vere propitiatorium sacrificium»4.
A fondamento della loro tesi i riformatori citano la lettera agli Ebrei dal cap. IV al X
dove si oppone al Vecchio Testamento con la moltitudine dei suoi sacerdoti, la
ripetizione dei suoi sacrifici, l'insufficienza delle sue vittime, il Nuovo Testamento
con un sacerdote unico che offre, una volta per sempre, il suo sangue ... «Se la
Messa è un sacrificio non può che far torto al sacrificio della croce a cui si
giustappone e che sostituisce. Calvino, per esempio, si sforza di provare che questa
Messa, nonostante i suoi ornamenti, i suoi "belletti", disonora assai il Cristo,
opprime e seppellisce la sua croce, pone in dimenticanza la sua morte, ci toglie il
frutto che a noi ne proveniva. Nella Messa, secondo Calvino, un sacerdote mortale si
sostituisce al Sacerdote eterno, un altro sacrificio si aggiunge a
___________
2 Ibid., p. 86 s.
3 Ibid., p. 93 s.
4 Ibid., p. 355 s,
77
quello della Croce considerato come imperfetto, una nuova redenzione e una
remissione diversa da quella della Croce ci vengono proposte» 5.

§ 2. Il Concilio di Trento.

La violenta negazione protestante non poteva non provocare una pronta reazione
della Chiesa. Tralasciando altre cose, ci restringiamo qui a ricordare il Concilio di
Trento. Ecco che cosa si dice ad esempio nella sessione XXII del 17 settembre 1562 a
proposito del sacerdozio e dell'aspetto sacrificale della Messa: «Sacrosancta
oecumenica et generalis Tridentina Synodus in Spiritu Sancta legitime congregata,
praesidentibus in ea eisdem Apostolicae Sedis legatis, ut vetus, absoluta atque omni
ex parte perfecta de magno Eucharistiae mysterio in sancta catholica Ecclesia fides
atque doctrina retineatur et in sua puritate, propulsatis erroribus atque haeresibus,
conservetur: de ea, quatenus verum et singulare sacrificium est, Spiritus Sancti
illustratione edocta, haec quae sequuntur, docet, declarat et fidelibus populis
praedicanda decernit.
Quoniam sub priori Testamento (teste Apostolo Paulo) propter Levitici sacerdotii
imbecillitatem consummatio non erat, oportuit (Deo Patre misericordiarum ita
ordinante) sacerdotem alium secundum ordinem Melchisedec surgere, Dominum
nostrum Iesum Christum, qui posset omnes, quotquot sanctificandi essent,
consummare et ad perfectum adducere. Is igitur Deus et Dominus noster, etsi semel
se ipsum in ara crucis, morte intercedente, Deo Patri oblaturus erat, ut aeternam illis
redemptionem operaretur: quia tamen per mortem sacerdotium eius
exstinguendum non erat, in coena novissima, qua nocte tradebatur, ut dilectae
sponsae suae Ecclesiae visibile (sicut hominum natura exigit) relinqueret sacrifìcium,
quo cruentum illud semel in cruce peragendum repraesentaretur eiusque memoria
in finem usque saeculi permaneret, atque illius salutaris virtus in remissione eorum,
quae a nobis cotidie committuntur, peccatorum applicaretur: sacerdotem secundum
ordinem Mel-
________________
5 CH. JOURNET, La croce e la messa, trad. ital., Libreria editrice fiorentina, Firenze
1953, p. 13.
78
chisedec se in aeternum constitutum declarans, corpus et sanguinem suum sub
speciebus panis et vini Deo Patri obtulit ac sub earumdem rerum symbolis Apostolis
(quos tunc Novi Testamenti sacerdotes constituebat), ut sumerent, tradidit, et
eisdem eorumque in sacerdotio successoribus, ut offerrent, praecepit per haec
verba: «Hoc facile in meam commemorationem etc ...». Nam celebrato veteri
Pascha ... novum instituit Pascha, se ipsum ab Ecclesia per sacerdotes sub signis
visibilibus immolandum in memoriam transitus sui ex hoc mundo ad Patrem,
quando per sui sanguinis effusionem nos redemit eripuitque de potestate
tenebrarum et in regnum suum transtulit.
Et haec quidem illa munda oblatio est, quae nulla indignitate aut malitia
offerentium inquinari potest, quam Dominus per Malachiam nomini suo, quod
magnum futurum esset in gentibus, in omni loco mundam off erendam praedixit, et
quam non obscure innuit Apostolus Paulus Corinthiis scribens, cum dicit, non passe
eos, qui participatione mensae daemoniorum polluti sint, mensae Domini participes
fieri, per mensam altare utrobique intelligens. Haec denique illa est, quae per varias
sacrificiorum, naturae et Legis tempore, similitudines figurabatur, utpote quae bona
omnia per illa significata veluti illoruni omnium consummatio et perfectio
complectitur.
Et quoniam in divino hoc sacrificio, quod in Missa peragitur, idem ille Christus
continetur et incruente immolatur, qui in ara crucis semel seipsum cruente obtulit:
docet sancta Synodus, sacrificium istud vere propitiatorium esse ...” 6.
«Il Concilio di Trento comincia dunque con l'appellarsi al testo della lettera agli
Ebrei, in cui è detto che nostro Signore Gesù Cristo, Sacerdote della nuova Alleanza,
soffrendo una volta per sempre sulla Croce, ci ha ottenuto una redenzione eterna.
E tuttavia, subito dopo, il Concilio afferma due cose. La prima è che nell'ultima Cena
il Cristo offrì a Dio suo Padre il suo corpo e il suo sangue, sotto le apparenze del
pane e del vino: il che significa che l'ultima Cena fu, contrariamente alla dottrina di
tutti
________________
6 Denz. 937-940. E nel can. 1: «Si quis dixerit in Missa non afferri Dea verum et
proprium sacrificium, aut quod afferri non sit aliud quam nobis Christum ad
manducandum dari: A. S.» (D. 948).
79
i Riformatori, un'offerta, un sacrificio. La seconda è che oggi, nella Messa, viene
offerto a Dio un sacrificio vero e proprio.
Se nella nuova Alleanza non c'è che un solo sacrificio, quello della Croce, come
poteva l'ultima Cena essere un sacrificio? Non c'è che una risposta: la Cena non fu
un sacrificio diverso dal sacrificio della Croce, allora già iniziato, e reso presente,
come doveva esserlo per il futuro sotto le apparenze del pane e del vino.
E se nella nuova Alleanza non c'è che un solo sacrificio, quello della Croce, come
può la Messa essere un vero sacrificio? Non c'è, anche questa volta, che una
risposta: la Messa non è un sacrificio diverso da quello della Croce. Il sacrificio, qui e
là, è identico essenzialmente: perché qui e là identico è il sacerdote e identica è la
vittima. Non differisce che accidentalmente: perché là il Cristo, presente sotto le
apparenze proprie, si offrì in modo cruento e senza l'uso di alcun ministero; e qui il
Cristo, presente sotto apparenze a lui estranee, si offre in modo incruento, usando il
ministero dei preti.
È dunque impossibile che il sacrificio della Messa entri in concorrenza con quello
della Croce».
____________
7 CH. JOURNET, l. c., p. 17 s. Abbiamo conservato il termine «concorrenza»
quantunque possa suonare un po' male.
80

CAPITOLO IX

DALLA CONTRORIFORMA ALLA RIPRESA RELIGIOSA

I secoli successivi alla riforma ed al Concilio di Trento manifestano abbastanza


chiaramente due fenomeni diversi: da una parte la Chiesa concentra le sue forze
maggiori nell'opera di ricostruzione della santità e dello slancio apostolico del clero,
degli ordini religiosi e della gioventù; dall'altra la vita civile, economica e politica
subisce un processo sempre crescente di laicizzazione e talvolta addirittura di
avversione e di opposizione al Cristianesimo.
Accenniamo brevemente ai due fatti, rimandando per un'esposizione più ampia e
una documentazione più abbondante alla storia della Chiesa.

§ 1. Sforzo di ricostruzione delle forze religiose.

È noto che il protestantesimo trova il clero e gli ordini religiosi in una situazione
spirituale non del tutto conforme alle esigenze della morale e dell'ascetica cristiana.
In considerazione di ciò la Chiesa concentra le sue energie nella riforma del clero,
degli ordini religiosi e in genere della vita cristiana rallentando alquanto la sua opera
di predicazione missionaria, di fermentazione cristiana della cultura, di guida
religiosa della vita sociale e politica, ecc.
Un primo fenomeno assai importante di codesta riforma della vita ecclesiastica è ad
esempio la fondazione di nuovi ordini che
81
hanno appunto per scopo precipuo la formazione degli. aspiranti al sacerdozio e alla
vita religiosa. Sono i cosiddetti chierici regolari: i «chierici regolari della Madre di
Dio» fondati da S. Giovanni Leonardi in S. Maria della Rosa a Lucca nel 1574, i
«chierici regolari minori» (Caracciolini) sorti per iniziativa di p. Giovanni Andorno, di
S. Francesco Caracciolo e di Fabrizio Caracciolo dei principi di Marsiconovo e
approvati da Sisto V il 9 aprile 1589; i «chierici regolari poveri della Madre di Dio
delle Scuole pie» (Scolopi), fondati da S. Giuseppe Calasanzio nel 1617 a Roma, i
«teatini», fondati nel 1524 e approvati nello stesso anno; i «barnabiti», fondati nel
1530 e approvati nel 1533, i «gesuiti», fondati nel 1534 e approvati nel 1540, i
«somaschl», fondati nel 1528 e approvati nel 1540, i «ministri degli infermi», fondati
nel 1582 e approvati nel 1586. A tali ordini vanno aggiunte quelle associazioni di
chierici e di laici viventi in comunità che sorgono sulla fine del sec. XVI e nel sec. XVII,
fra le quali ricordiamo ad esempio i «filippini».
Un altro fatto assai importante della controriforma e dei secoli successivi è la
revisione radicale dei metodi di preparazione al sacerdozio.
Il compito di formare gli aspiranti a tale nobilissima missione «si presentò sin dai
primi tempi, quando l'organizzarsi delle comunità richiese il contributo di persone
capaci e sperimentate per l'esercizio dei diversi ministeri»1; tale compito però
pesava direttamente sui vescovi, ai quali, specie nelle città più popolose e civili,
importava crearsi un corpo clericale ben preparato anche a vantaggio delle
comunità minori; essi vi provvidero in molti luoghi con il radunare i chierici intorno a
sé in vita comune o con il ricorrere ai monaci, appena l'istituto monastico, durante il
sec. IV, cominciò ad acquistare credito e diffusione»2.
In seguito al Concilio di Trento si dà inizio o almeno impulso a quel tipo di
formazione che si dice «seminaristica» e che permette ad ogni diocesi di avere un
clero ben preparato.
_______________
1 P. PASCHINI, Seminario, in «Enciclopedia cattolica», 11, 278.
2 Ibid.
82
§ 2. Laicizzazione della cultura e della vita.

Mentre da una parte la Chiesa è intenta in questa colossale opera di ricostruzione


interna, si accelera il processo di formazione o di consolidamento dei grandi stati
nazionali, lo spostamento del fulcro della vita economica e politica del Mediterraneo
agli stati rivieraschi e a poco a poco dagli stati cattolici agli stati protestanti
soprattutto all'Olanda e all'Inghilterra. In altre parole prende l'avvio una cultura ed
una vita estranea al Cristianesimo, quando non anche ad esso ostile.
Ciò non poteva non riflettersi anche nel culto: alla visione cattolica del Dio trinitario,
Padre, Figlio e Spirito Santo, di cui il Figlio assunse la natura umana, si sostituì a poco
a poco il concetto e la visione del Dio unico; si passò anzi a poco a poco alla
concezione deista per finire nella concezione laicista noncurante di Dio o negatrice
di Lui. Al centro di tutto è l'uomo, buono per natura, capace di svelare tutti i misteri
e dì raggiungere tutte le mete.
«Io credo» - dice Rousseau nella Professione di fede del Vicario Savoiardo - «che il
mondo è governato da una volontà potente e saggia, lo vedo o piuttosto lo sento...
L'Essere che- vuole e che può, l'Essere attivo per se stesso, l'Essere infine, qualunque
sia, che muove l'universo e dà ordine a tutte le cose io lo chiamo Iddio. Aggiungo a
questo nome l'idea dell'intelligenza, di potenza, di volontà, che ho fuse e quella di
bontà che ne è un seguito necessario, ma non conosco perciò meglio l'Essere a cui le
ho attribuite, perché si nasconde parimente ai miei sensi e al mio intelletto e più vi
penso, più mi confondo. So certamente che esso esiste per forza propria, so che la
mia esistenza è subordinata alla sua, e che tutte le cose note a me sono
assolutamente sue. Vedo Iddio dappertutto nelle opere sue, lo sento in me, lo vedo
attorno a me, ma appena lo voglio contemplare in lui stesso, appena voglio cercare
dove è e ciò che è, e quale è la sua sostanza, mi sfugge e il mio spirito turbato non
scorge più nulla... Mi esercito alle sublimi contemplazioni, medito sull'ordine
dell'universo, non per spiegarlo con vani sistemi, ma per ammirarlo
incessantemente, per adorare il saggio Autore che vi si fa sentire. Converso con lui,
penetro tutte le mie
83
facoltà della sua divina essenza, mi intenerisco ai suoi benefici, lo benedico dei suoi
doni; ma non lo prego. Che gli domanderei? Che cangi per me il corso delle cose e
faccia dei miracoli a favor mio? Io che devo amare l'ordine stabilito dalla sua
saggezza e mantenuto dalla sua provvidenza, vorrei che quest'ordine fosse turbato
per me? No, questo voto temerario meriterebbe piuttosto di essere punito che
esaudito. Io non gli domando nemmeno il potere di ben fare; perché dovrei
domandargli ciò che già mi ha dato ...» 3.
Procedendo in questa direzione si arriva a passi rapidissimi alla figura del
«galantuomo» ottocentesco che rispetta la religione, ma non la pratica, ammette la
preghiera e l'osservanza cultuale nella donna e nel fanciullo, non nell'uomo e
nell'adulto, nel povero e nel misero, non nel sano e nel ricco. Per essere onesto il
«galantuomo» dell'ottocento non ha bisogno di inginocchiarsi e di pregare, di
ascoltare la Messa e di rispettar la festa.
A maggior ragione non è necessario un culto pubblico. La società non ha doveri
verso Dio. Ammette la religione come un fatto puramente privato, del quale si
disinteressa totalmente.
Su un piano puramente privato, mette pure la Chiesa: per il «galantuomo» del
secolo scorso è una società puramente umana che vive spesso sulla superstizione e
l'ignoranza, anche se reca innegabili servigi soprattutto in quanto tiene a freno le
classi popolari.
________________
3 Emilio, I. IV. Si vedano anche Toland e i deisti.
CAPITOLO X

LA RIPRESA RELIGIOSA E I PROBLEMI DEL NOSTRO TEMPO

I due fatti sopra ricordati sembrano conclusi verso la metà del secolo scorso. Da una
parte la ricostruzione delle forze religiose della Chiesa è completa, con un
pontificato ed un episcopato altamente esemplare, con un clero profondamente
devoto al proprio dovere ed un complesso di ordini e di congregazioni religiose
fortemente tese verso la conquista cristiana in tutti i campi.
Ha inizio allora una fase nuova della vita della Chiesa: quella di lievitazione della vita
interna ed esterna, sociale, culturale e politica.
Dati gli scopi che qui perseguiamo ci fermiamo al campo strettamente cultuale e
agli ultimi decenni con particolare riguardo all'opera di Pio X, di Pio XI e di Pio XII.
Per chiarezza raccoglieremo le discussioni e le innovazioni attorno ai seguenti punti:
giorni di precetto, contenuto del giorno festivo, la Messa, il sacerdozio, ecc.
Giorni di precetto. L'aumento del numero dei giorni festivi e gli inconvenienti ad
esso collegati avevano già indotto Urbano VIII ad apportare qualche riduzione. Con
la Constit. Universa del 24 settembre 1642 fissò il numero dei giorni festivi a 36 oltre
le domeniche.
Pio X col Motu proprio Supremi Disciplinae ecclesiasticae custodes del 2 luglio 1911
1 li ridusse ad 8 e precisamente: Natale,
________________
1 Cfr. "A. A. S.», 3 (1911), p. 305-307.
85
Circoncisione, Epifania, Ascensione, Immacolata, Assunzione, Santi Pietro e Paolo e
Ognissanti. La festa di S. Giuseppe veniva rimandata alla prima domenica successiva
al 19 marzo, quella di S. Giovanni Battista alla domenica precedente SS. Pietro e
Paolo, quella del Corpus Domini alla domenica dopo la Trinità. Il Codice di Diritto
Canonico accolse anche le feste di S. Giuseppe e del Corpus Domini, portando così le
feste non domenicali a dieci 2.
Quanto al contenuto del giorno festivo le discussioni riguardarono sia
l'impostazione del riposo, sia la presenza alla Messa.
A riguardo del riposo festivo - soprattutto a proposito delle «opere servili» - si fece
notare da più parti che una profonda mutazione è avvenuta o sta avvenendo sia
nell'esecuzione delle «opere servili» e delle «opere liberali», sia nella percezione
della dignità operaia e contadina. È noto infatti che le opere servili classiche
richiedono sempre meno erogazione di energie fisiche e sempre maggior
preparazione professionale: il contadino che zappa o «vanga» la terra è ben diverso
dall'agricoltore che guida la motoaratrice e l'uomo che lega il grano curvo sotto il
sole di luglio non ha nulla a che vedere col tecnico che conduce la mieti-trebbiatrice.
D'altra parte il segretario di oggi diviso fra il telefono e la macchina da scrivere si
logora in misura assai maggiore del segretario d'un tempo. E dov'è oggi l'insegnante
che fa solo qualche ora di lezione la settimana?
Si aggiunga l'accresciuta sensibilità operaia - e in parte anche contadina - a riguardo
del proprio lavoro. Si sottolinea sempre più fortemente e da parti sempre più
numerose che il lavoratore che trasforma la materia non è uno che ne partecipa la
bassezza e l'ignobilità, ma uno che collabora all'opera creatrice di Dio, contribuisce
alla redenzione, nobilita la materia dandole qualcosa di se stesso. Non è la materia
ad abbassare l'uomo, ma l'uomo ad innalzare la materia. E perché allora questi
lavori dovrebbero esser proibiti e gli altri no?
___________
2 Can. 1247.
3 L'attuale legislazione sul riposo festivo «rispecchia una situazione sociale che non
è più la nostra. Essa ci porta ad un ambiente storico superato da secoli; quelle
direttive potevano andar bene ... nei primi secoli della Chiesa, nell'ultimo periodo
dell'impero Romano, oppure nell'età feudale o forse ancora nel 1500, ma non
certamente nel secolo XX» (R. BURZIO, Una discussione sul lavoro festivo, in «Ri-
86
Qualche modificazione dunque sembra si debba introdurre nell'attuale legislazione
sulle opere servili e sul riposo festivo.
Quale? Ecco qualche suggerimento: «In un clima sociale, in cui l'operaio prende
sempre più coscienza di sé e della sua elevazione, sembra opportuno spiegare il
significato più profondo del termine di «opera servile», sancito dal Diritto Canonico,
come opera che tende ai fini terrestri, in vista del guadagno. Di conseguenza si
potrebbe chiedere, nell'azione pastorale che, a titolo di consiglio, si eviti di
domenica anche il lavoro intellettuale, fatto in vista di uno stipendio»4. «La nuova
norma potrebbe essere questa: nei giorni festivi ci si astiene dalle occupazioni
abituali della settimana»5.
Discussioni assai vivaci si son fatte e si fanno anche a riguardo della Messa. E
precisamente su tre punti: sull'ora della celebra-
________________
vista del clero", 35 [1954], p. 142). In altre parole: «È noto che ogni norma morale,
nel pensiero cattolico, ha un aspetto immutabile e uno mutabile. L'aspetto
immutabile è la sua parte essenziale, che è una formulazione metastorica, valida
cioè per tutti i tempi e tutti i luoghi; l'aspetto mutabile è invece la concretizzazione
della norma: è cioè la calata della legge in una situazione storica determinata: è la
legge che si adatta agli uomini che vivono in una determinata società e in una
determinata epoca. Ed è anche chiaro perché debba essere così: le norme morali
devono regolare l'agire umano: ora l'uomo vive sempre in una concreta situazione
storica. Nel caso del terzo comandamento avremo quindi un aspetto essenziale, cioè
intangibile, ed un aspetto storico e quindi modificabile, se necessario. Ora, qual è
l'aspetto essenziale di questo precetto? Anzitutto viene imposta una astensione dal
lavoro abituale della settimana (salvo casi da determinare per esigenze sociali). In
secondo luogo il tempo libero deve essere dedicato al riposo, alla ricreazione (nel
suo autentico significato etimologico) e soprattutto al culto divino. Questo sembra
l'essenza della norma. L'aspetto storico è invece la precettistica che determina quali
sono i lavori permessi, quali sono i minimi doveri religiosi da compiere per attuare il
culto divino, ecc. Ora è avvenuto questo fatto: che a) per ragioni storiche e b) per
una insufficiente elaborazione del concetto di lavoro, l'astensione dal lavoro servile
è venuta a far parte dell'aspetto essenziale della norma, mentre in realtà fa parte
solo del suo aspetto storico ... Bisognerà tentare di elaborare una nuova norma che
sostituisca le vecchie. E la nuova norma potrebbe essere questa: nei giorni festivi ci
si astiene dalle occupazioni abituali della settimana (salve sempre le dovute
eccezioni)» (ibid., p. 143 s.).
4 Conclusioni della settimana di orientamento pastorale, in Il giorno del Signore,
Morcelliana, Brescia 1953, p. 303.
5 R. Burzio, o. c. Il secondo congresso nazionale francese di pastorale liturgica
tenuto a Lione dal 17 al 22 settembre 1947 nella conclusione XVII dice: «Quant aux
oeuvres serviles interdites par l'Église, nous formulons le voeu que les moralistes
consultent le plus possible la coutume vivante et qu'ils tiennent comte avec grand
soin des réalités de la vie ouvrière en ce qui concerne les occupations de détente.
Nous demandons qu'au titre de conseil et non de précepte, les travaux
professionnels réputés intellectuels soient évités le dimanche» (Le jour du Seigneur,
Laffont, Paris 1948, p. 375-376),
87
zione, sulla struttura e sulla disposizione delle sue parti, sull'ordine delle Messe
nell'anno liturgico.
A riguardo dell'ora della celebrazione si è fatto notare che il criterio della
celebrazione antimeridiana accolto anche dal Codice rende difficile a molti
l'osservanza del precetto festivo. Non sono pochi infatti quelli che regolarmente
lavorano anche la mattina della domenica; inoltre anche quelli che in tale giorno non
lavorano sono spesso talmente assorbiti e logorati nei giorni feriali da aspettare
volentieri la domenica per riposare un po' di più o per attendere alla casa ed alle
altre occupazioni. Perché non venir loro incontro e consentire qualche Messa anche
al pomeriggio?
A proposito della struttura interna della Messa si propone, ad esempio, da alcuni la
revisione delle lezioni scritturistiche così da fornire al fedele, in cicli relativamente
brevi e ricorrenti, una formazione sostanzialmente completa.
Ritocchi si propongono anche al calendario liturgico, così da accentuarne l'aspetto
cristologico.
Di tali discussioni e proposte la più importante accolta sinora è quella riguardante
l'ora della Messa. Infatti la costituzione Christus Dominus del 6 gennaio 1953
concede «agli Ordinari dei luoghi di permettere la celebrazione della Santa Messa
nelle ore vespertine, la quale, tuttavia, non può avere inizio prima delle sedici, nelle
feste di precetto, non escluse quelle soppresse, nei primi venerdì del mese, e in
quelle altre solennità che vengono celebrate con grande concorso di popolo, e una
volta durante la settimana»6. Modificazioni minori sono quelle accolte col Decreto
generale della S. Congregazione dei Riti del 23 marzo 1955 7 sulla semplificazione
delle rubriche e del Decreto del 16 novembre della stessa Sacra Congregazione sul
Triduo della Settimana Santa8.
________________
6 In «A. A. S.», 45 (1953), p. 31.
7 Cfr. «A. A. S.», 47 (1955), pp. 218-224.
8 Cfr. «A. A. S.», 47 (1955), p. 838. Non occorre che ricordiamo fra gli interventi del
Magistero, l'Enciclica Mediator Dei del 20 novembre 1947. Essa consta di
un'introduzione e di tre parti. Nella prima Pio XII parla della natura, dell'origine e del
progresso della liturgia; dimostra che «la ... liturgia è ... il culto pubblico che il Nostro
Redentore rende al Padre come Capo della Chiesa, ed è il culto che la società dei
fedeli rende al suo Capo, e, per mezzo di Lui, all'Eterno Padre; è, per dirla in breve, il
culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e delle sue membra»
ed afferma che la liturgia è regolata dalla Gerarchia Ecclesiastica. La seconda parte si
occupa del sacrificio eucaristico di cui il Papa richiama
88
Discussioni assai vivaci e interventi notevoli si ebbero anche riguardo al sacerdozio.
Ecco qualche punto.
La preghiera del sacerdote. A questo riguardo ricordiamo la Costituzione Apostolica
Divino afflatu di Pio X O sulla nuova disposizione del salterio nel breviario romano. Il
Papa riordinava e riformava profondamente il breviario e il messale. Altri interventi
si ebbero con Pio XII che il 14 marzo 1945 10 introdusse una nuova versione dei
salmi fatta sul testo ebraico e il 23 marzo 1955 semplificò le rubriche.
Formazione del sacerdote. Fra i molti atti relativi al riordino ed alla riorganizzazione
della formazione seminaristica ricordiamo la Costituzione Deus scientiarum Dominus
del 24 maggio 1931 11 che rielaborava e riordinava l'ordinamento degli studi nelle
Università e negli Istituti scientifici.
Inoltre ricordiamo il vasto fermento di rinnovazione nei metodi di formazione
mediante l'introduzione di un anno di approfondimento filosofico fra il liceo e la
teologia e di un anno di preparazione all'esercizio della vita pastorale mediante
l'aggiunta di un quinto anno di teologia 12.
Sacerdozio e laicato. Senza entrare anche qui nelle complesse questioni riguardanti
il rapporto fra laicato e sacerdozio, basterà ricordare l'impulso e la posizione data,
per esempio, da Pio XI all'Azione Cattolica. Scrivendo all'Episcopato argentino il 4
novem-
_______________
la natura, fa vedere la partecipazione dei fedeli, indugiando poi sulla comunione e
sull'adorazione eucaristica. La terza parte si occupa dell'ufficio divino e dell'anno
liturgico. Nella quarta parte il Papa dà alcune direttive pastorali. Sempre il Papa ha
presente l'errore di quelli che esagerano l'importanza della liturgia, o del sacerdozio
regale dei fedeli, o del ritorno alle formule liturgiche antiche.
9 Cfr. «A. A. S.», 3 (1911), pp. 633-638. Seguono le Rubricae in recitatione divini
officii et in Missarum celebratione servandae ad normam constitutionis apostolicae
«Divino affiatu», a pp. 639-651.
10 Cfr. «A. A. S.», 37 (1945), pp. 65-67.
11 Cfr. «A. A. S.», 23 (1931), pp. 241-262.
12 I documenti più importanti sul sacerdozio e la sua santificazione sono
l'Esortazione al clero Haerent animo di Pio X del 4 agosto 1908, l'Enciclica Ad
catholici sacerdotii di Pio XI del 20 dicembre 1935, l'Esortazione Menti nostrae di Pio
XII del 23 settembre 1950. Nella prima parte l'Esortazione Menti nostrae insiste sulla
santità della vita sacerdotale, nella seconda insiste sulla santità nel sacro ministero;
nella terza parte dà norme pratiche per la formazione del clero, la cura delle
vocazioni; nell'ultima parte si occupa di alcuni problemi di attualità e soprattutto del
clero e; dell'azione sociale.
89
bre 1931, il Papa affermava che «lo scopo dell'A. C. coincide col fine stesso della
Chiesa». Sotto il pontificato di Pio XI si ebbe anzi un primo tentativo di
organizzazione internazionale con l'ufficio eretto a Roma e denominato Actio
Catholica.
D'altra parte però ha sempre reagito fortemente contro ogni tentativo di
aggiudicare ai fedeli il potere sacerdotale. «Ai soli apostoli» - dice l'Enc. Mediator
Dei - «ed a coloro che, dopo di essi, hanno ricevuto dai loro successori l'imposizione
delle mani, è conferita la potestà sacerdotale» 13
90

CONCLUSIONE DELLA PRIMA PARTE


È giunto ormai il tempo di tirar qualche conclusione da codesta rapida corsa lungo i
secoli. Oltre che a vedere più chiaramente il divenire dei fatti e delle dottrine, ci
permetterà di porre più concretamente i problemi.
I. - Universalità della credenza religiosa e del fatto cultuale. - «Tutti gli uomini e tutti
i popoli, naturalmente religiosi, sono per innata tendenza orientati al
sovraterreno»1.
II. - Varietà delle dottrine sull'esistenza e sulla natura del sovrumano. - Sulla
esistenza e sulla natura del sovrumano abbiamo concezioni diverse: andiamo dal
monoteismo al politeismo, dall'unipersonalismo alla Trinità, dalla pura trascendenza
alla pura immanenza. Nel mondo extraebraico ed extracristiano prevalgono le
concezioni politeistiche; nel mondo ebraico abbiamo una fortissima sottolineatura
della trascendenza - pur senza negare la presenza di Dio nel mondo - e
dell'unipersonalità (senza negare la Trinità). Nella rivelazione cristiana abbiamo
l'affermazione dell'esistenza di Dio, della Trinità, della trascendenza e
dell'immanenza:
Dio è creatore e Padre.
III. - Tendenziale prevalenza della preghiera sulle altre componenti del culto. -
Quanto ai contenuti del culto incontriamo una notevole prevalenza della domanda
sull'adorazione e sul ringraziamento: gli uomini si ricordano più facilmente di Dio e
ricorrono più spesso a Dio quando hanno bisogno di Lui che non quando non ne
hanno bisogno o pensano di non averne.
_________________
1 A. ROMEO, in «Enciclopedia ciel sacerdozio», p. 393,
91
Nella stessa domanda prevale certamente la richiesta di beni materiali che non di
beni spirituali: basta scorrere le formule di preghiera tramandateci dall'antichità e
quelle ancora in uso nel mondo; basta entrare in un santuario e dare uno sguardo
alla lunga teoria di ex-voto. Non si chiedono forse con maggior insistenza i beni del
corpo: la salute, il successo, il benessere?
Nella stessa domanda di beni materiali prevalgono i casi eccezionali e disperati che
non i casi normali e umanamente solubili: più abitualmente la gente ricorre a Dio
quando non esiste più alcuna soluzione umana che non quando il problema può
esser risolto con le forze e con gli accorgimenti umani 2.
Il culto manifesta quindi una notevole tendenza egoistica e materialistica. L'uomo si
rivolge a Dio per chiedere, per avere e soprattutto per chiedere e per avere cose
materiali e beni di questo mondo. E se non ottiene, più d'una volta reagisce
crudamente. Quante volte si sente dire: «Dio è cattivo»; «ho chiesto e non ho
ottenuto»; «Dio non è giusto», ecc.
Per ciò stesso l'eliminazione del bisogno e la conquista della sicurezza rende meno
facile il ricorso spontaneo alla preghiera 3.
IV. - Universalità delle manifestazioni cultuali esterne, soprattutto del sacrificio. -
Anche il sacrificio si trova presso tutte le religioni, in tutti i tempi e presso tutti i
popoli. Solo il buddismo alle origini, l'Islam, il giudaismo moderno e il
protestantesimo non hanno il culto sacrificale. A maggior ragione questo va
affermato delle manifestazioni cultuali esterne in genere. Le troviamo dovunque e
sempre anche se non sono dappertutto le stesse.
V. - Universalità del pericolo di esteriorismo – Soprattutto
________________
2 Ecco un esempio classico: «Sprovvisto di umano aiuto, il senato volse agli dei le
preghiere del popolo: fu dato ordine che tutti con le mogli e i figli si recassero alle
pubbliche preghiere per placare gli dei. E chiamati per pubblica autorità a fare ciò a
cui ciascuno era spinto dai propri mali riempirono tutti i templi. Si videro qua e là
madri prostrate a terra che, spazzando con le chiome i templi, invocavano il perdono
dell'ira celeste e la fine dell'epidemia» (TITO LIVIO, Deche, III, 8).
3 In tal senso nel Radiomessaggio del 24 dicembre 1955 Pio XII dice: «La
desuetudine... della preghiera nella cosiddetta era industriale è il sintomo più
rilevante della pretesa autosufficienza, di cui si gloria l'uomo moderno. Troppi sono
coloro che oggi non pregano più per la sicurezza, ritenendo superata dalla tecnica la
domanda che il Signore pose sulle labbra degli uomini: "Dacci oggi il nostro pane
quotidiano" (Mt 6,11), oppure la ripetono a fior di labbra, senza un'intima
persuasione della sua perenne necessità».
92
però notiamo dovunque e sempre una forte tendenza a sopravvalutare le forme
esterne, onde tutte le riforme hanno per obbiettivo precipuo di ricondurre
all'interiorità. Per quanto in modi e in dimensioni diverse troviamo presso tutti i
popoli e in tutte le religioni la tendenza all'esteriorismo: il gesto rituale, la formula
del culto tende a prevalere sull'interno sentimento e sulla interna devozione. La
preghiera tende a diventare qualcosa che si «dice»; il sacrificio della Messa tende a
divenire qualcosa che si «ascolta», un rito che si «celebra» o uno spettacolo cui si
«assiste» 4.
Per tale motivo, si è detto, tutte le riforme sottolineano assai il ritorno all'interiorità
fino a dare talvolta l'impressione o a cadere addirittura nel pericolo di negare la
necessità delle manifestazioni esterne del culto.
VI. - I tempi del culto. - Quanto al tempo del culto troviamo prassi diverse. Assai
diffuso è l'uso di dedicare a Dio un giorno su sette. Tale divisione settimanale è oggi
così profondamente radicata da poter difficilmente pensare ad un'altra
distribuzione. Al ciclo settimanale si aggiungono poi altre feste ed altri giorni di
culto.
VII. - Il sacerdozio: sostanziale universalità del fatto e varietà delle forme. - Come
ministro del sacrificio, e quindi come rappresentante della collettività nei suoi
rapporti con Dio, troviamo presso quasi tutti i popoli il sacerdote. Indubbiamente «vi
sono religioni che non hanno sacerdozio, perché o non hanno sacrificio o non
annettono al sacrificio importanza fondamentale. L'Islam non ha alcun sacerdozio ...
poiché non impone sacrifici obbligatori. Il Buddismo, nel suo tenore originale, e
ancor oggi nella maggior parte delle sue sette, non ha né sacrificio né sacerdozio. Il
Giudaismo postcristiano, da quando fu distrutto il tempio unico di Gerusalemme,
non ha più il sacerdozio, ma si riferisce spesso all'antico sacerdozio levitico-aronitico
nei suoi ricordi e spera nella sua definitiva restaurazione al tempo del Messia. È
molto incerto se possano dirsi sacerdoti i membri di varie classi che promuovono il
culto in varie religioni di Estremo Oriente. Tra le varie sette cristiane che si di-
________________
4 "Non poca gente arriva così ad assistere ad una messa, ad un battesimo o ad un
matrimonio, come se assistesse ad una cerimonia pubblica, ad una riunione
protocollare, ad un ricevimento mondano. Per loro è un ingrato lavoro che bisogna
subire da persone educate» (L. DE GRANDMAISON, S. J. La religione personale, pag.
33),
93
cono protestanti, la gran maggioranza nega che vi sia nel Cristianesimo un
sacerdozio esercitato da uomini, e con Lutero ammette il solo sacerdozio di Gesù
che offrì il sacrificio di sé sul Calvario. Anche le regioni, però, che negano il sacrificio
e il sacerdozio, praticano un culto ed hanno i loro "ministri del culto". Nel Giudaismo
odierno il culto è affidato ai rabbini; nell'Islam agli iman che sono i direttori della
preghiera, e al khatib che predica sul pulpito (mimbar) delle moschee; nelle varie
"chiese" protestanti ai "pastori". Il Buddismo ha un gran numero di monaci, di
teologi, di custodi dei templi. Dovunque, implicito o esplicito affiora un sacerdozio in
senso molto largo, esercitato da uomini che fungono da intermediari o da mediatori
tra il mondo visibile e invisibile» 5.
Il sacerdozio si trova però in forme profondamente diverse e quanto alle persone
chiamate ad esercitarlo e quanto ai modi di chiamata e quanto alle funzioni.
Troviamo sacerdozio maschile e sacerdozio femminile6, sacerdozio elettivo e
sacerdozio ereditario, sacerdozio non magisteriale e sacerdozio magisteriale7, ecc.
___________________
5 A. ROMEO, Il sacerdozio nell'umanità, in Enciclopedia del sacerdozio ..., p. 303 s.,
cfr. anche p. 293-294. In questo senso dice Pio XI nell'Enciclica Ad catholici
sacerdotii:«Il genere umano sentì sempre il bisogno di avere dei sacerdoti, degli
uomini cioè che per missione ufficiale loro affidata fossero i mediatori fra Dio e gli
uomini, e di questa mediazione, cui sono interamente consacrati, facessero il
compito della loro vita: deputati ad offrire a Dio pubbliche preghiere e sacrifici a
nome della società, che pur essa, in quanto tale, ha l'obbligo di rendere a Dio culto
pubblico e sociale, di riconoscere in Lui il suo supremo Signore e primo principio,
tendere a Lui come ad ultimo fine, ringraziarLo, propiziarLo. Difatti presso i popoli, di
cui conosciamo gli usi, purché non costretti dalla violenza ad andare contro le leggi
più sacre della natura umana, si trovano dei sacerdoti, quantunque spesso al servizio
di false divinità: dovunque si professa una religione dovunque si ergono altari, là vi è
anche un sacerdozio, circondato da speciali manifestazioni di onore e di
venerazione».
6 Nell'antichità «il sacerdozio era affidato ai due sessi; le donne ne erano escluse
solo presso gli Ugro-Finni e pochi altri popoli. Vi erano sacerdotesse per le divinità
femminili, come per Hathor e Neith in Egitto, Atena e Afrodite in Grecia, Balaat in
Biblos, Vesta e Cerere a Roma ...; ma anche per varie divinità maschili, come per
Amòn in Egitto, per Poseidon e Heracles a Thespe (Beozia); viceversa molte divinità
femminili, come Atena avevano anche sacerdoti. Talora la sacerdotessa è moglie del
sacerdote. In molti luoghi, sacerdoti e sacerdotesse erano obbligati a praticare la
continenza durante il tempo in cui erano addetti al culto; l'esempio più noto in
proposito è quello delle Vestali» (A. ROMEO, Il sacerdozio nell'umanità, in
Enciclopedia del sacerdozio ..., p. 299).
7 In genere il sacerdozio pre ed extracristiano non è magisteriale. Questo è vero in
parte anche del sacerdozio ebraico. "L'ufficio proprio del sacerdozio è in primo luogo
cultuale» ... anche se "dopo le funzioni sacre del culto, uno dei compiti più gravi del
sacerdozio era di istruire il popolo nella legge santa ... rivelata da Dio per mezzo di
Mosè» (A. ROMEO, Il sacerdozio di Israele, m Enciclopedia del sacerdozio ..., p. 460).

PARTE SECONDA

SINTESI DELLA CONCEZIONE CRISTIANA DEL SOVRUMANO

CAPITOLO UNICO

SINTESI DELLA CONCEZIONE TEORETICA CRISTIANA

Giunti a questo punto dovremmo passare subito alla ricerca e alla esposizione della
soluzione cristiana. Senonché c'è qui una difficoltà che negli altri trattati non c'era.
Non c'è nessuno infatti, o almeno non è facile trovare chi neghi l'esistenza di «cose»
o di «uomini»: per conseguenza si poteva assumere l'esistenza di «cose» e di
«uomini» come un «dato» e passar subito a chiederci che comportamento
dobbiamo assumere a loro riguardo. Qui invece non è immediatamente evidente
l'esistenza di una realtà oltre l'universo; è quindi necessario che ci fermiamo un
momento a dimostrarla 1.
Le vie razionali per arrivarci, come ognuno sa, sono le seguenti: il carattere di
perfettività dell'universo, il carattere d'indeterminazione, il fatto del miracolo.
L'universo infatti è passato da forme imperfette a forme perfette, da condizioni in
cui la vita non esisteva ad una condizione in cui la vita è presente, da condizioni in
cui l'uomo non c'era a una condizione in cui esercita una funzione sempre più
importante. Ora un mondo che si presenta con codesti caratteri non si spiega da
solo, ma esige l'esistenza di uno che gli abbia dato l'esistenza. C'è quindi qualcuno
oltre l'universo, uno dal quale il mondo ha ricevuto l'esistenza. A quest'Uno diamo il
nome di Dio. Quindi esiste Dio.
_______________
1 È ovvio che qui intendiamo dare solo le linee di una dimostrazione. Per una
trattazione completa di questo punto, ossia per la dimostrazione dell'esistenza di
Dio, per l'esposizione del concetto di Lui, dei Suoi rapporti con noi e col mondo, per
l'esposizione della natura di Cristo, ecc. rimandiamo ai trattati di teologia dogmatica.
98
Secondo l'attuale concezione della natura, il nostro mondo rappresenta una scelta
fra tanti mondi possibili secondo il medesimo schema di leggi: le stesse leggi con
altre costanti avrebbero dato un mondo notevolmente diverso. Ora un mondo che
rappresenta una scelta esige uno che abbia operato la scelta. Quindi il nostro mondo
suppone uno che abbia scelto fra i moltissimi mondi possibili dentro il medesimo
schema di leggi.
Nel mondo esistono fatti che non si spiegano a sufficienza con le forze naturali,
nemmeno con quelle ignote. Esiste quindi un operatore estraneo all'universo al
quale diamo il nome di Dio.
In base alla rivelazione poi sappiamo che Dio pur essendo uno nella natura è trino
nelle persone: Padre, Figlio e Spirito Santo. L'affermazione contenuta
sostanzialmente nelle pagine del Vangelo è stata chiarita a poco a poco nei primi
secoli cristiani contro tutte le correnti che tendevano a sottolineare talmente l'unità
di Dio da fare della trinità non una trinità di persone vere e proprie ma di modi di
essere della stessa ed unica persona divina e nel tempo stesso contro tutte le
correnti che sottolineavano talmente la distinzione fra le persone da cadere
sostanzialmente in forme più o meno larvate di triteismo. Di fronte alle due correnti
la tradizione cattolica ha affermato incessantemente l'unità di Dio nella trinità delle
persone e la trinità delle persone nell'unità divina, ammettendo il carattere
sovrarazionale di tale affermazione.
Inoltre la tradizione cristiana ha sempre affermato che una delle tre persone si è
fatta uomo, assumendo la nostra stessa natura, nel seno di Maria di Nazaret.
Inoltre la cristianità ha sempre affermato l'esistenza di un mondo di spiriti puri a cui
ha dato il nome di angeli.
Infine la tradizione cattolica ha sempre affermato che di alcuni uomini sappiamo
che sono giunti alla salvezza: sono i «santi».
Dimostrata l'esistenza di un sovrumano e precisamente di Dio Uno e Trino, degli
angeli e dei santi si pone subito un problema: come dobbiamo comportarci di fronte
a Dio, di fronte al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, di fronte alla Madonna, di
fronte agli angeli e ai santi?
È l'argomento della Parte terza: nella sezione prima studieremo la norma, nella
sezione seconda la deviazione dalla norma, nella
99
terza la riparazione della deviazione. La sezione prima sarà divisa in quattro libri: il
primo si occuperà dell'atteggiamento da assumere di fronte a Dio, il secondo
dell'atteggiamento da assumere di fronte alla Madonna, il terzo dell'atteggiamento
da assumere di fronte agli angeli, il quarto della condotta da tenere di fronte ai
santi.
Le fonti cui attingere sono state ampiamente illustrate nella Morale Generale: le
leggi (naturale, rivelata, ecclesiastica e civile) e i modelli (Gesù, la Madonna, i santi,
ecc.).
100

PARTE TERZA

LA SOLUZIONE CRISTIANA

_____________
SEZIONE PRIMA

LA NORMA

LIBRO PRIMO
L'UOMO DI FRONTE A DIO

CAPITOLO I

IL CONTENUTO DEL CULTO

Come ci si deve comportare di fronte a Dio? Quando si fa bene?


Quando si fa male? Che diritti e che doveri abbiamo in questo campo? La risposta
discende facilmente da quanto abbiam detto nella parte generale: facciamo bene
quando rispettiamo le esigenze della legge naturale, della legge rivelata e della legge
umana, ecclesiastica e civile; oppure quando imitiamo i modelli: Gesù, la Madonna, i
Santi, ecc. Di fronte a Dio ci comporteremo bene quando rispetteremo le esigenze
della legge naturale, le indicazioni della rivelazione e le determinazioni della legge
umana (in questo caso, ecclesiastica), oppure quando imiteremo Gesù, i Santi, ecc.
Anche qui, come abbiam fatto negli altri volumi, tralasceremo quasi completamente
l'esposizione di ciò che han fatto i modelli per fermarci a ciò che dicono le leggi, con
particolare riguardo alla legge naturale e rivelata.
Incominciamo dalla legge naturale. Secondo tale legge facciamo bene quando ci
comportiamo secondo la nostra natura idealmente considerata. Ora di fronte a Dio:
A) noi siamo nulla da noi mentre Egli da sé è tutto1 onde Egli ci sovrasta in misura
infinita. Volendo
________________
1 Si noti bene l'espressione. Noi non diciamo che l'uomo sia nulla, ma ch'egli è nulla
da sé, L'uomo è certamente parecchio. S'è detto anzi a suo luogo ch'è il fine
dell'universo materiale. Qui si vuol semplicemente far notare che tutto ciò l'uomo
non lo è da sé, ma da Dio.
104
infatti sezionare ciò che noi siamo arriviamo facilmente ai seguenti piani: a)
esistenza, b) durata nell'esistenza, e) attività; ebbene: l'esistenza ci viene da Dio
mediante la creazione; la durata nell'essere ci viene pure da Dio mediante la
conservazione; l'attività ci viene da Lui mediante ciò che si dice il «concorso». Tutto
dunque ci viene da Lui. Non c'è nulla in noi che sia da noi e non provenga da Lui. Noi
propriamente da noi siamo nulla: «totum quod sumus ei debemus tamquam
Creatori»2. Potremmo anche dire così: indubbiamente noi siamo parecchio - siamo
infatti esseri viventi, senzienti, razionali e capaci di accedere, mediante la grazia,
all'ordine stesso di Dio -; tutto ciò lo siamo però da Dio; da noi siamo nulla3; non
abbiamo nulla che provenga da noi. Per l'opposto Dio da sé è tutto. Aggiungendo a
Lui le creature non si ottiene un essere più grande, non si ha un accrescimento di
essere. Egli è tutta la realtà. È questa la parte di verità del panteismo. Una volta che
si accetta che le creature esistono - questa è la parte falsa del panteismo - non si
devono avere difficoltà ad ammettere ch'Egli è tutto l'essere. Dio quindi ci sovrasta
in modo infinito; supera noi come il tutto supera il nulla. La distanza sua da noi è
incommensurabile essendo la distanza fra il tutto e il nulla4.
Facciamo bene quindi quando riconosciamo questa distanza infinita, quando
ammettiamo il tutto di Dio e il nulla nostro5.
______________
2 In Boéth, De Trinit, q. 3, a. 2 c.
3 È un punto su cui insiste tanto Malebranche nelle sue Conversations chrétiennes:
«Le rapport du fini avec l'infini ne peut mieux s'exprimer que par zero. Il compte
pour rien Adarn et tout cet Univers quand je le compare avec Dieu» (Entret. II; cfr.
anche Entret. VI; vedi anche di Malebranche Méditations sur l'humilité et sur la
pénitence).
4 Due quindi sono le vie che si possono percorrere per conoscere le cose e Dio: la
prima è quella che parte dalle cose, cerca di approfondirle sempre più; mano a
mano che questo avviene si vede l'inanità di esse e quindi la necessità dell'esistenza
di uno che sia tutto. La seconda via parte da Dio e ne contempla sempre più
compiutamente il tutto e per riflesso l'inanità delle cose.
La prima via è quella naturale ed è quella percorsa dai filosofi; la seconda è un dono
della grazia ed è la via dei mistici.
Si noti inoltre che parliamo di «distanza infinita» in senso improprio. Propriamente
infatti non c'è distanza fra il tutto e il nulla. Tuttavia, indulgendo ad un qualche
antropomorfismo, possiamo dire che questi due estremi - l'uomo e Dio, il nulla e il
tutto - distano infinitamente.
5 Diciamo «riconoscere», «ammettere» perché il dovere non sta nell'atto razionale
con cui «conosciamo» che Dio è Tutto, ecc., ma nell'atto libero con cui
«riconosciamo»: si tratta non di conoscere: ma di riconoscere (evidentemente dopo
aver
105
Tale riconoscimento lo indichiamo col termine «adorare». Possiamo quindi
concludere: primo fondamentale dovere nostro riguardo a Dio, secondo la legge
naturale, è quello di adorarLo.
Anzi: adorare Lui solo. Infatti il rapporto «Tutto - nulla» di cui abbiam parlato è
esclusivo di Dio: Lui solo è il «Tutto»; solo di fronte a Lui noi siamo «nulla». Non c'è
nessun altro essere di fronte al quale noi siamo nel rapporto col quale siamo con
Dio. Non solo quindi dobbiamo adorare Dio, ma dobbiamo adorare Lui solo, così che
facciamo male non solo non adorandoLo, ma anche adorando altri oltre Lui.
B) Riprendiamo ora l'analisi. Se è vero, come abbiamo detto, che da sé l'uomo è
nulla, è anche vero che di fatto è ed ha moltissimo: è corpo, vivente, senziente,
razionale, chiamato a partecipare, mediante la grazia santificante, della natura
divina e della sua felicità, signore e fine della realtà puramente materiale. Tutto ciò
però noi siamo dalla libera e amorosa decisione divina. Diciamo innanzi tutto a)
«dalla libera volontà divina». Dio non fu affatto costretto a crearci. Non ci fu nulla in
Lui, né - tanto meno - fuori di Lui che Lo potesse costringere a creare. Lo stesso si
dica della conservazione: Dio non è affatto necessitato a mantenerci nell'essere:
potrebbe, se volesse, farci ricadere nel nulla da cui proveniamo. Lo stesso si dica, e a
maggior ragione, dell'elevazione all'ordine soprannaturale: questa è
concettualmente gratuita. Tutto ciò che siamo lo siamo dalla «libera volontà di Dio».
Anzi, aggiungiamo, dalla b) «amorosa» decisione divina. Non si tratta solo di
decisione che poteva esserci e non esserci, ma di decisione che non fu causata dal
desiderio di dare a sé qualcosa di cui si manca, o di conservare a sé qualcosa che si
ha e si potrebbe perdere, bensì di decisione che tende esclusivamente ad arricchire
la creatura. Dio infatti essendo la totalità dell'essere, essendo perfezione assoluta,
non può né perdere né acquistare nulla; possiede tutto l'essere nella puntualità del
________________
conosciuto); si può conoscere senza riconoscere. Dice Suarez (De virtute religionis,
tr. I, 1. 2, c. 1, n. 2): «Dico ... interiorem actum religionis esse actum voluntatis, qui
supponit Superioris rationis iudicium... Nam ad cultum debitum Deo reddendum,
duo necessaria sunt. Unum est agnoscere tale debitum, ideoque iudicare Deo esse
reddendum. Aliud est voluntas solvendi tale debitum, exhibendo cultum illi
proportionatum... Primum pertinet ad intellectum... In ilio autem actu non consistit
religio, sed est praevius ad religionem ... Potest quis recte indicare de cultu Deo
reddendo, et illum non reddere»
106
suo atto di esistere. La sua decisione di creare non poteva aver come fine il desiderio
di aggiungere qualcosa alla propria perfezione, ma solo di comunicare ad altri la
ricchezza del proprio essere e questo non già privandosene personalmente, ma solo
facendo sorgere altri esseri che partecipassero in qualche modo la sua ricchezza. In
tale generosa ed amorosa donazione Dio è giunto, come s'è già accennato, fino a
comunicare la possibilità di partecipare la sua natura, mediante la grazia
santificante, e quando questa andò perduta per la colpa di Adamo, Dio mandò il
Verbo nella nostra natura per riaprirci la possibilità di averla.
Dobbiamo quindi riconoscere che tutto siamo ed abbiamo dalla libera ed amorosa
volontà di Dio.
Se indichiamo tutto ciò col termine «ringraziamento» possiamo concludere: un
secondo fondamentale dovere riguardo a Dio è di ringraziarlo; e possiamo
aggiungere: di ringraziare a quel modo Lui solo, dal momento che non esiste nessun
essere dal quale riceviamo tanto quanto riceviamo da Dio con altrettanta libertà ed
uguale amore. Se, indubbiamente, anche altri esseri ci danno - si pensi, ad esempio,
ai genitori! - non ci danno però nella misura in cui Dio ci dà e con l'amore con cui Egli
lo fa.
Ancora una volta, pecchiamo sia non ringraziando Dio nel modo indicato, sia
ringraziando - sempre «in quel modo» - altri che Lui.
C) E riprendiamo ancora l'analisi: questo rapporto di DONATORE-DONATO non vale
solo per il passato, vale anche per il futuro: ossia, da noi noi siamo nell'assoluta
incapacità di continuare ad esistere e ad operare; senza l'aiuto divino non possiamo
continuare ad esistere nemmeno un istante, non possiamo compiere nemmeno
l'azione più piccola6. D'altra parte noi abbiamo il dovere di conservare e sviluppare
armonicamente tutte le nostre facoltà. Dobbiamo quindi chiedere continuamente a
Dio che ci conservi l'esistenza e ci aiuti a svilupparla. Se indichiamo tale
atteggiamento col termine «preghiera», possiamo concludere: un terzo
fondamentale atteggiamento riguardo a Dio è di «pregarlo»; anzi - rifacendoci alle
considerazioni fatte sopra riguardo all'adorazione e
____________________
6 Per un più ampio sviluppo di codesti concetti rimandiamo a qualche corso di
filosofia scolastica.
107
al ringraziamento - di pregare in quel modo Dio solo, così che pecchiamo sia non
pregando Dio in quel modo sia pregando - sempre «in quel modo» - altri che Lui.
D) Se ora guardiamo l'uomo come storicamente si presenta dobbiamo dire che c'è
anche un rapporto di «offensore» a «offeso». Ognuno di noi infatti - ad eccezione
della natura umana di Cristo e della Madonna - ha commesso qualche peccato. Ne
abbiamo parlato nel volume primo e non vogliamo ripeterci7. Per conseguenza
ognuno è tenuto a chieder perdono a Dio ed a prestar qualche ossequio a titolo di
riparazione8. Se indichiamo questo nuovo atteggiamento col termine
«propiziazione» dobbiamo concludere: un quarto fondamentale atteggiamento
riguardo a Dio è di propiziarlo; anzi - nella linea di ciò che fu ripetuto tanto spesso -
di propiziare, in quel modo, Dio soltanto.
E) Infine, se guardiamo avanti, già in base ad una considerazione naturale dobbiamo
dire che Dio è il nostro fine, Colui nel quale potremo trovare riposo e felicità
secondo l'agostiniano «Ci hai fatti per te e senza requie è il nostro cuore finché non
abbia requie in te»9. Possiamo trarre allora un'altra conclusione: noi dobbiamo
tendere a Dio come a nostro fine. Se indichiamo questo nuovo atteggiamento con la
parola «amore», possiamo concludere: già in base alla legge naturale dobbiamo
amare Dio e in un modo che si addice a Lui solo, così che facciamo male sia non
amandoLo sia amando - nel modo accennato - altri che Lui.
Raccogliendo questo primo gruppo di considerazioni relative alla legge naturale,
possiamo concludere: secondo la legge naturale abbiamo il diritto e il dovere di
adorare Dio, di ringraziarLo, di pregarLo, di adorarLo e di amarLo. C'è anzi, già
secondo la legge naturale, un modo di ringraziare, di pregare, di propiziare e di
amare che possiamo attribuire solo a Dio, così che si pecca sia non facendolo sia
attribuendolo ad altri che a Lui10.
______________
7 Vedi vol. I, pp. 199-201.
8 Vedi vol. I, pp. 240-247.
9 Confess.1. l, c. 1.
10 Senza della religione «l'uomo non è pienamente se stesso, non è cioè nell'ordine
della sua razionalità e della sua attività libera quello che è nell'ordine ontologico:
essere in tutto dipendente da Dio, come causa formale e come causa finale della sua
esistenza, ma che deve altresì colla sua attività andare a Lui, nella continua ricerca
dei mezzi, di cui ha bisogno per il suo cammino. Ancora una volta, come sempre,
108
Riflettendo ulteriormente sulla distanza infinita che intercorre fra Dio e noi, sul
fatto che tutto ciò che noi siamo ed abbiamo lo ricaviamo dalla sua libera volontà e
sul fatto che non possiamo continuare ad esistere ed operare senza il suo aiuto non
può non nascere in noi un profondo senso di timore: Dio appare come colui che
domina totalmente il nostro essere, come colui che lo tiene totalmente nelle sue
mani11. Invece riflettendo sul fatto che Egli non può agire che per il nostro bene non
può non derivare un grande senso di fiducia e di dedizione a Dio, ossia un grande
amore a Lui. Perciò potremmo anche enunciare le conclusioni della ragione in
questo modo: già in base alla legge naturale dobbiamo temere Dio ed amarlo 12.
Passiamo ora alla legge rivelata. Le conclusioni della ragione sono ampiamente
confermate dalla rivelazione. E ciò in due modi: innanzi tutto confermando i fatti da
cui abbiamo dedotto razionalmente la necessità del culto; poi affermando codesta
necessità in maniera esplicita. Vediamo qualcosa brevemente del primo e del
secondo modo.
I. - Riaffermazione dei fondamenti del culto. - Dice la Scrittura:
«Tutte le nazioni sono davanti a lui come un niente, come un vano niente devono
reputarsi davanti a lui»13.
«Ecco, voi siete dal niente, e un niente è l'opera vostra; è un abominio chi vi
elegge»14
_________________
l'essere traccia la via al dovere. Riconoscere questa condizione di dipendenza e
questo dovere di ricerca vuol dire riconoscere il dovere di adorare, di ringraziare, di
chiedere. Dovere da cui neanche Dio può dispensare, perché ontologicamente
connesso con la condizione di creatura ragionevole ...» (A. LANZA-P. PALAZZINI,
Principi di teologia morale. Vol. II: Le virtù, Studium, Roma 1954, p. 76).
11 In base a questa considerazione si può veramente parlare di un'angoscia delle
creature.
12 «Il y a donc de l'exagération dans l'opinion selon laquelle l'amour de Dieu devrait
ètre considéré comme une invention et un monopole du christianisme. En fait le
christianisme l'a merveilleusement cultivé et intensifié, en l'actualisant dans l'amour
filial du Père céleste et en faisant de lui le premier des préceptes de sa morale. Mais
on ne saurait dire qu'il l'ait vraiment inventé» (E. BAUDIN, Cours de philosophie
morale, De Gogord, Paris 1936, p. 532). «L'ascenseur de l'amour» in opposizione a
«le rude escalier de la crainte» (Lettres, CCXXIX, p. 435) domina tutto
l'insegnamento di S. Teresa del Bambino Gesù.
13 Is.40, 17.
14 Is.41, 24,
109
«Ecco, lunghi un palmo facesti i miei giorni, e la mia vita è come niente al tuo
confronto. Ah! sì, l'uomo non dura che un soffio!
Sì, qual fantasma si muove l'uomo» 15.
«Come l'erba sono i giorni dell'uomo; come il fiore della campagna, così egli fiorisce.
Appena il vento vi passa sopra, già non è più, e nemmeno si riconosce il suo posto.
Invece la bontà del Signore dura eterna per i timorati di Lui...» 16.

Per l'opposto, Dio è tutto e può tutto: «Spedisce la luce ed essa parte; la chiama ed
essa tremante ubbidisce» 17.
«I cieli periranno, ma tu rimani sempre il medesimo. tutte le cose invecchieranno,
come una veste, come un mantello le cambierai e saranno mutate. Ma tu sei sempre
il medesimo, e gli anni tuoi non avranno fine» 18.
«I miei giorni dileguano come fumo, e le mie ossa sono seccate come sarmenti... I
miei giorni passano come l'ombra ed io sono seccato come il fieno. Ma tu, o Signore,
duri in eterno, e di generazione in generazione vive la tua memoria» 19.
Sulla necessità dell'aiuto divino insistono continuamente i Salmi:
«Non vince il re con poderoso esercito né il guerriero va salvo per la sua gran forza;
inutile è il cavallo alla vittoria, con tutta la sua gagliardia non mette in salvo.
Ma ecco gli occhi di Dio che vegliano sui timorati di Lui ...» 20
Quanto al fatto «peccato» non occorre che ricordiamo ciò che abbiam detto nel
primo volume. Secondo la rivelazione questa triste realtà compare già all'inizio coi
progenitori e penetra in tutti.
Già in base a questo possiamo dire che la rivelazione ripropone
________________
15 Salm.39 (38), 6 s.
16 Salm.104 (103), 15-17. Cfr. anche Salm.89 (88), 48; 49 (48), 11 s.; 144, 4; 62, 10
ecc. Del resto “nel nome di Jahvé è incluso il concetto che noi in confronto con Dio
siamo dei nulla, coloro che non sono» (P. LIPPERT, Credo. Trad. ital., Edizioni
Paoline, Alba 1954, pp. 41).
17 Bar. 3, 33.
18 Salm.102 (101), 27-28.
19 Ibid. 4, 12-13.
20 Salm.33 (32), 16-18.
110
l'obbligo di adorare Dio e Lui solo, di ringraziarlo, di pregarlo, di temerlo e di amarlo.
II. - Affermazione esplicita dei doveri indicati. - Ma tutte queste cose nei testi della
rivelazione e della tradizione si trovano anche espressamente.
Incominciamo dall'adorazione. Nel decalogo si dice: «Io sono il Signore, Iddio tuo,
che ti trassi fuori dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavi. Non avere altro Dio di
fronte a me» 21. Più avanti fra gli avvisi per l'occupazione della Palestina c'è questo:
«Non adorare i loro dei né servire ad essi» 22. Più avanti, nelle seconde tavole di
pietra si trova fra l'altro: «Tu non devi adorare altro dio; perché Geloso è il nome del
Signore» 23. Le stesse cose sono ripetute nel Deuteronomio (cfr. 5, 8); «Se ...
dimenticherai il Signore, Dio tuo, ed andrai dietro ad altri dei e renderai loro culto e
adorazione, ve lo affermo oggi solennemente, che voi certamente perirete»24;
«Statevi in guardia, che il vostro cuore non si lasci sedurre, e disertando vi mettiate
a servire altri dei e rendiate loro adorazione» (Deut.11, 16); grandi mali sono
minacciati a quelli che adoreranno altri dei25. Giosuè nel suo discorso ai
rappresentanti del popolo li esorta a restar fedeli a quel dovere: «Non imitate le
nazioni che sono rimaste con voi; non invocate il nome dei loro dei, né giurate per
loro; non li servite; né li adorate» 26; «Se trasgredirete il patto del Signore Iddio
vostro, ch'Egli vi ha imposto e andrete a servire gli altri dei e li adorerete, l'ira del
Signore s'infiammerà contro di voi e voi scomparirete ben presto dal buon paese
ch'Egli vi ha dato» 27. «Abbandonato il Signore Iddio dei padri loro» - si dice nel libro
dei Giudici - «che li aveva tratti dall'Egitto, andarono dietro ad altri dei, tra quelli dei
popoli loro circonvicini e li adorarono, provocando in tal guisa lo sdegno del
Signore» 28.
Nel Nuovo Testamento basta ricordare la terza tentazione di
______________
21 Es. 20, 2.
22 Es. 23, 24.
23 Es. 34, 14.
24 Deut.8, 18.
25 Cfr. Deut.29, 26; 30, 17 s.
26 Gios.23, 7.
27 Gios.23, 16.
28 Cfr. anche Giudic.2, 17.
111
Cristo e la sua risposta al demonio: «... Sta scritto: Adorerai il Signore Dio tuo e
servirai a lui solo» 29.
Anche il tema del ringraziamento ricorre spesso nella Rivelazione. Per il Vecchio
Testamento ci restringiamo a ricordare Es. 13, 11-16: «Quando il Signore ti avrà
fatto entrare nella terra del Cananeo, come giurò a te ed ai tuoi padri... riserberai al
Signore ogni primo partorito e di fra i tuoi animali ogni primo nato ... sarà questo
come un segno in mano tua, o come qualcosa sospeso davanti ai tuoi occhi per
ricordarti che il Signore con braccio forte ci cavò dall'Egitto». Per il Nuovo
Testamento basta ricordare il lamento di Gesù dopo la guarigione dei dieci lebbrosi:
«Non sono stati guariti tutti e dieci? E dove sono gli altri nove? Non s'è trovato chi
tornasse a render gloria a Dio se non questo straniero?» 30.
Ancora più chiaro nei testi della Rivelazione è il tema della domanda. I testi qui sono
tali e tanti che ci dispensiamo dall'indugiarci, rimandando caso mai a ciò che abbiam
riferito parlando del culto nel mondo ebraico e dell'insegnamento di Gesù e degli
Apostoli.
Assai frequente nella Rivelazione è pure l'affermazione del dovere di amare Dio
sopra ogni cosa: «Ascolta Israele: Il Signore Dio nostro è il solo Signore. Amerai il
Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze.
Queste parole che io ti bandisco, staranno nel tuo cuore e le ripeterai ai tuoi figliuoli
e le mediterai tanto sedendo in casa tua quanto camminando per viaggio, quando
andrai a dormire e quando ti leverai, le legherai come segno alla tua mano, e
staranno e si muoveranno sotto ai tuoi occhi e le scriverai sulle soglie e sulle porte di
casa tua» 31. Ed ora, Israele, che cosa chiede da te il Signore Dio tuo, se non che tu
tema il Signore Dio tuo e tu cammini per le sue vie, e tu lo ami e tu serva il Signore
Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima e tu osservi i comandamenti del
Signore ...?» 32. «Ama dunque il Signore Dio tuo ed osserva i suoi
comandamenti...». «Se... obbedirete ai miei comandamenti, quali io oggi v'impongo,
di amare il Signore Dio vostro e di servire a Lui con tutto il cuore
___________________
29 Matt.4, 10; cfr. anche Luc.4, 8. Si veda anche Rom. 1, 18-23 dove S. Paolo ascrive
a colpa ai gentili di non aver adorato Dio pur avendolo conosciuto.
30 Luc.17, 17 s.
31 Deut.6, 4-9.
32 Deut.10, 12.
112
e tutta l'anima vostra, darò alla vostra terra la pioggia al principio e alla fine (della
stagione), acciò raccogliate il grano, il vino ...». «Se osserverete i comandamenti che
io vi do e li eseguirete in guisa che amiate il Signore Dio vostro ... disperderà il
Signore dalla vostra presenza tutte queste nazioni e voi le soggiogherete ...» 33. Per
il Nuovo Testamento basta ricordare Matt. 10, 37: «Chi ama il padre e la madre più
di me non è degno di me» e Matt. 22, 37 ss. dove, alla domanda «qual è il precetto
più grande della legge», Gesù rispose: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore,
con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e primo
comandamento» 34.
Possiamo quindi concludere: non solo in base alla legge naturale, ma anche in base
alla rivelazione l'uomo è tenuto ad adorare, a ringraziare, a propiziare, a temere e ad
amare Dio, e Lui solo, così che si fa male sia non facendo tutto ciò, sia prestandolo
ad altri che a Dio.
Se noi indichiamo tutto ciò con il termine religione possiamo dire: sia in base alla
ragione, sia in base alla rivelazione ognuno di noi è tenuto ad avere una religione 15.

Avvio all'ulteriore approfondimento.

Da quanto abbiam detto discendono alcuni corollari che permettono di chiarire


meglio la natura del culto e della religione, il fondamento da cui sorge, la sua
estensione, ecc. nonché la natura di alcuni dei suoi atti (per es. la preghiera
d'impetrazione). Questo ci metterà in condizione di dare una risposta ad alcune
difficoltà che si fanno e un giudizio delle diverse soluzioni date su questo punto al
problema della religione naturale.
Incominciamo dall'oggetto della religione e del culto.
1. Oggetto della religione e del culto. L'oggetto del culto è di dare a Dio l'onore che
gli è dovuto. «Bonum autem ad quod ordi-
________________
33 Deut.11, 1. 33. 22. Cfr. anche Deut.30, 6; Gios.22, 5; Eccli.7, 32.
34 Cfr. anche Marc.12,28 ss.; Luc.7,47; 10,27 ss.; Giov.21,15; Rom.5,5; 8, 28. 35;
1Cor.10,21; 1Giov.4,17.
35 Gli stessi concetti sono ripetutamente affermati sia dalla tradizione cristiana, sia
dal Magistero della Chiesa. Trattandosi però di cose abbastanza ovvie, preferiamo
non insistere ulteriormente nella documentazione. Chi vorrà averla non avrà
difficoltà a trovarla.
113
natur religio» - dice S. Tommaso nella II- II, q. 81, a. 4 c. - «est exhibere Deo debitum
honorem»; anzi «ad religionem pertinet exhibere reverentiam Deo secundum unam
rationem, in quantum scilicet est primum principium creationis et gubernationis
rerum» (ibid., a. 3 c.). Più chiaramente potremmo dire: l'oggetto della religione è di
rendere perfettamente e veramente umano l'uomo nei riguardi di Dio, di mettere
ordine nei suoi atti riguardo a Dio, di farlo come ha il diritto e il dovere di essere nei
riguardi di Dio.
Per conseguenza la religione non è una virtù teologica ma una virtù morale. Le
prime - com'è noto - sono quelle virtù che hanno Dio come oggetto formale e
oggetto materiale primario e precisamente Dio come somma verità (fede), sommo
bene per noi (speranza) e sommo amore (carità); le altre hanno per oggetto diretto
e immediato l'onestà degli atti, sia in rapporto a Dio (la religione), sia in rapporto
alle cose, sia in rapporto agli altri uomini. La religione appartiene al secondo
gruppo36.
E precisamente la virtù della religione fa parte della giustizia: consiste infatti nel
rendere a Dio l'onore che gli è dovuto, nel dargli il riconoscimento della sua
eccellenza 37.
È però una giustizia imperfetta. Fra Dio e la creatura infatti viene a mancare quel
rapporto di alterità che è necessario perché si possa parlare di giustizia in senso
rigoroso: di fronte a noi Dio non è un altro col quale possiamo misurarci, ma il Tutto
e noi il nulla; Egli è il Padre che ci comunica il suo stesso essere e ci destina alla sua
stessa felicità. Non possiamo quindi rendere veramente a Dio ciò che è «suo», quel
che gli spetta. Per quanto gli diamo non possiamo dargli tutto quel ch'è suo, perché
suo è anche l'atto con cui
_________________
36 È, questa, un'opinione così comune da non richiedere citazioni né
documentazione.
37 «Ces devoirs prennent l'aspect général d'une justice. Justice déficiente sans
doute, comme saint Thomas l'explique en l'article unique de la qu. 80: mais
défìciente uniquement par l'incapacité où nous sommes de nous égaler à notre
dette, et non dans la rigueur de celle-ci. Devoirs de justice, cela veut dire qu'il nous
faudra nous en acquitter en prenant pour règle non point notre sentiment
personnel, mais les droits d'autrui qui s'imposent à nous en leur absolu. Nous
n'avons point ici à mesurer nos obligations sur l'élan de notre coeur ou sur les
exigences immédiates de notre bien personnel: il s'agit de nous «ajuster» ad
alterum. C'est pour la psychologie de nos devoirs envers Dieu un point important à
noter» (I. MENNESSIER, O. P., in SAINT THOMAS d'AQUIN, La somme théologique, La
religion, I, p. 290).
Da tale punto di vista è giustissima la posizione di S. Tommaso che parla della
religione nel capitolo della giustizia.
114
glielo diamo38. Per tale motivo si colloca generalmente la religione fra le parti
«potenziali» della giustizia 39.
Per tutto ciò che fu detto la virtù della religione non va misurata in base al bisogno
di Dio, ma in base alla necessità - che sorge dalla natura e dalla rivelazione - di
rendere a Dio l'onore che gli è dovuto; inoltre non va misurata in base al fervore o
all'entusiasmo che proviamo, ma in base alle esigenze che la ragione dimostra
essere primordiali obblighi di giustizia.
Innanzi tutto la religione non va misurata in base al bisogno di Dio. Egli non ha
bisogno di nulla 40. Si potrà forse discutere se Egli
_____________________
38 Dice S. Tommaso: «Dico autem aequalitatem non absolute, quia Deo non potest
tantum exhiberi quantum ei debetur, sed secundum quamdam considerationem
humanae facultatis et divinae acceptionìs» (II-II, q. 85, a. 5 ad 3).
Giustamente Grozio ha osservato che "Deum nimium colere non possumus:
superstitio enrm non eo peccat quod Deum nimium colat, sed quod perverse ...» (De
iure belli ac pacis. Prolegomena, n. 45).
«Nunquam ad aequalitatem reddere possumus quod Deo Creatori, Domino et
universali Benefactori debemus» (A. VERMEERSCH, S. J., Theologiae moralis
principia ... II, n. 163).
«Noi dobbiamo alla bontà di Dio noi stessi e tutto quanto abbiamo. L'anima
religiosa deve anzitutto riconoscere di essere in tutto debitrice al Signore. Siccome
tutto ci è dato, noi non abbiamo nulla da dare in cambio. Noi non riusciremo mai a
pagare questo grande creditore che è Iddio, come un bambino non può pagare né
ricompensare i genitori che gli hanno dato la vita, il cibo e soprattutto il loro amore.
Egli non ha però il diritto di essere ingrato. Deve almeno riconoscere quanto deve e,
poiché è un debitore insolvibile, il minimo che gli si chiede è ch'egli riconosca il
debito con un sentimento di amorevole riconoscenza ..." (A. M. ROGUET, O. P., La
messa ... Trad. ital., Edizioni Paoline, Alba 1955, p. 28).
39 Vedi per es. S. Tommaso; egli parla della religione nelle parti potenziali della
giustizia e precisamente nella II-II, qq. 81-101.
40 È questo un concetto che torna spesso nella Patristica: «Che noi non siamo atei»
- dice Giustino - "venerando il Creatore di questo universo, dicendo, secondo che
fummo ammaestrati, che non abbisogna di sangue, di libazioni e di profumi,
lodandolo, quanto possiamo ... avendo appreso che solo questo è onore degno di
lui... chi non l'ammetterà?" (l. c. 13, 1-2). E nella Lettera a Diogneto: "Colui che ha
posto il cielo e la terra ... non può aver bisogno di nessuna di quelle cose che egli
stesso largisce a coloro che credono di fargliene un dono» (c. 3). E Atenagora in La
Supplica per i cristiani: «Il Creatore e Padre di questo universo non ha bisogno né di
sangue, né di odor di carni rosolate, né di fragranze di fiori e di aromi» (c. 13). E nel
De Resurrectione mortuorum: «Dio non ha fatto l'uomo per il proprio bene; non ha
infatti bisogno di nulla» (12, M.G. 6, 995). Cfr. anche TERTULLIANO, Ad Scap., 12;
MINUCIO FELICE, Oct. 32.
In Epist, 102, 17 S. Agostino dice del sacrificio: «non quod illo egeat Deus, cum in
eisdem ipsis litteris apertissime scriptum sit: Dixi domino: "Deus meus es tu,
quoniam bonorum meorum non eges" sed quod etiam in his vel acceptandis vel
reprobandis vel percipiendis non nisi homirnbus consulat. Nobis enim prodest colere
Deum, non ipsi Deo».
«Deo non exhibetur aliquid (cultus) propter eius utilitatem, sed propter eius gloriam
nostram autem utilitatem» (II-II, q. 81, a. 6 ad 2). «Propter nos, quia videlicet per
hoc quod Deum reveremur et honorarnus, mens nostra ei subiicitur: et in hoc
115
esiste o no; non si potrà contestare, una volta che se ne ammetta l'esistenza, ch'Egli
sia del tutto perfetto e quindi che non può acquistare nulla da nessuno e non può
perdere nulla a causa di nessuno. Ma questo anziché un ostacolo alla necessità della
religione, ne è il fondamento inconcusso: onoriamo Dio non perché Egli abbia
bisogno di noi, ma perché non ha bisogno; non perché dipende da noi e dal nostro
culto, ma perché noi dipendiamo da Lui e dalla sua assistenza, non perché noi
possiamo dare qualcosa a Lui, ma perché Egli ci ha dato e ci può dare ogni cosa. Il
culto, in altre parole, suppone una superiorità di colui al quale lo si attribuisce su
colui che lo attribuisce e lo si deve attribuire non per il vantaggio di chi lo riceve, ma
per il bene di chi lo dà41. Forse che dedichiamo ai «grandi» piazze e vie e città
perché ne hanno bisogno o perché ne ricevano gioia? Forse che innalziamo
monumenti per colmare un vuoto di quelli cui li dedichiamo? Attribuiamo un culto a
Dio perché noi ne abbiamo bisogno per essere veramente noi stessi, per dare alla
nostra vita l'ordine che deve avere, per raggiungere la perfezione che ancora non
abbiamo 42.
Inoltre la necessità del culto non va calcolata in base al sentimento, ma in base alla
ragione. Si dice spesso, per esempio, che la preghiera è «il respiro dell'anima», «la
gioia del cuore», «la letizia dello spirito», ecc. ecc. Son cose che possono essere vere
per alcuni, non per tutti, in qualche momento della vita non sempre, per qualche
forma di preghiera (la preghiera di domanda in casi particolarmente difficili o
addirittura disperati), non per tutte le forme.
___________________
eius perfectio consistit, quaelibet enim res perfìcitur per hoc quod subditur suo
superiori» (II-II, q. 81, a. 7 c.).
Di S. Tommaso dice giustamente J. Lécuyer: "Le premier enseignement qui se
dégage de la lecture de saint Thomas, et qui à première vue peut paraitre
déconcertant, c'est que!es actes de culte ne procurent à Dieu aucun avantage ...
Lorsque donc nous disons que notre religion et notre culte sont pour l'honneur et
pour la gioire de Dieu, il ne faut pas nous faire illusion ...» (Réflexions sur la
théologie du culte selon saint Thomas d'Aquin, in "Revue thomiste», 55 (1955), pp,
339 s.).
41 "Les devoirs n'ont pas pour objet les vantages de ceux qui en sont l'objet: vg. un
historien ne peut calomnier les morts sous couleur que la diffamation ne leur neut
pas» (G. SORTAIS, S. J., Traité de Philosophie, 5 ed., II, n. 116, pag. 331).
In questo senso dice giustamente Kierkegaard (Diario VII A 201): "Quando uno nega
Dio, non Gli fa alcun danno, ma annienta se stesso; quando uno bestemmia Dio,
insulta se stesso».
42 Il ragionamento dunque di chi dice: "Dio non ha bisogno del culto; quindi non
dobbiamo attribuirglielo», suppone una minore non dimostrata.
116
La realtà è che anche il culto è un dovere e, come tutti i doveri, può costare. Dice
giustamente il Guardini: «La preghiera può essere veramente una fatica. Qualche
volta essa nasce dal cuore proprio come un linguaggio vivo; se guardiamo però alla
vita nel suo complesso e all'infinita varietà degli uomini questo rimane un'eccezione.
Per lo più essa dev'essere volutamente praticata e la fatica di quest'esercizio deriva
in buona parte dal fatto che la realtà di Dio non viene percepita» 43.
Si pone in tal modo, anche per il culto, il problema della preparazione 44.
2. Le componenti fondamentali del culto. Se analizziamo ulteriormente l'oggetto del
culto troviamo che comporta sia il riconoscimento dell'infinita distanza di Dio da noi,
sia il riconoscimento della sua immensa vicinanza. Dal punto di vista ontologico
abbiamo infatti innanzi tutto quello che potremmo dire l'aspetto creaturale per il
quale Dio è il Tutto e noi il nulla; conseguentemente Egli è infinitamente distante da
noi e domina totalmente il nostro essere; insieme però abbiamo anche l'aspetto che
potremmo dire filiale, per il quale Dio è immensamente vicino a noi fino a
comunicarci, per quanto è possibile, la sua stessa natura. Il punto di vista ontologico
si presenta psicologicamente come timore e amore, come angoscia e fiducia, ed
eticamente come timore ed amore.
Entrambi i momenti sono richiesti sia dalla ragione che dalla rivelazione anche se la
ragione sottolinea maggiormente l'aspetto di timore e la rivelazione l'aspetto di
amore.
In altre parole potremmo anche dire: gli atteggiamenti fondamentali del culto sono
l'adorazione, il ringraziamento, la preghiera, la propiziazione, il timore e l'amore. Col
termine «adorazione»
________________
43 R. GUARDINI, Introduzione alla preghiera. Trad. ital., Morcelliana, Brescia 1948,
p. 45; cfr. anche pag. 5. Dice il Mennessier: «Elle (la religione) répond à une exigence
spéciale que la raison nous dénonce comme primordiale obligation de justice, et
dont l'urgence demeure lors mème que nous n'éprouvons nul attrait pour Dieu» (in
SAINT THOMAS n'AQUIN, Somme Théologique, La religion, I, p. 314).
44 «D'ordinaire on distingue fort justement la préparation générale et la
préparation immédiate ou prochaine. On insiste sur la seconde. Pourtant la
préparation générale semble bien la plus importante, parce qu'elle et la plus
profonde. Elle est mème la condition indispensable pour que la préparation
immédiate opère utiìement. On ne forme pas, on ne transforme pas l'àme en
quelques minutes et la prière ellemème est une action trop intime pour qu'on
puisse!a réussir sans préparation profonde. En réalité, l'art de prier est la résultante
de toute une éducation religieuse " (G. DIRKS, S. J., Notes sur la prière, in «Revue
d'ascétique et de mystique", 27 (1951), p. 118 s.).
117
intendiamo il riconoscimento dell'infinita eccellenza divina; col termine
«ringraziamento» intendiamo il riconoscimento dell'infinita liberalità divina; col
termine «preghiera» intendiamo la domanda a Dio di tutto quanto ci occorre per
fare il nostro dovere, acquistarci la grazia e giungere così alla felicità nella visione
beatifica di Dio; col termine «propiziazione» intendiamo il riconoscimento del nostro
stato di peccatori, di dolore di aver peccato, la richiesta a Dio di perdono e la
presentazione di qualche omaggio a questo particolare titolo, ecc. Sia consentito
dire una parola sul contenuto del termine «preghiera» e sul metodo seguito per
precisare il contenuto di codesti termini.
È noto che col termine «preghiera» si intendono spesso contenuti assai vari:
«conversatio et sermocinatio cum Deo... malorum subversio, peccatorum
emendatio» 45; «ascensus mentis in Deum» 46; «mentis ad Deum affectuosa
intentio»47; «pia elevazione dell'anima a Dio per ben conoscerlo, adorarlo,
ringraziarlo e domandargli quanto ci bisogna»48; «petitio decentium a Deo»49;
«petitio quaedam est»50.
_________________
45 S. GREGORIO NISSENO, De oratione Domini, in P.G., 44, 1124.
46 S. GIOVANNI DAMASCENO, De fide orthodoxa, III, 4, in P.G., 94, 1098.
47 S. AGOSTINO, Enarratio in Psalm. 85, P.L., 37, 1086.
48 Catechismo di Pio X.
49 S. GIOVANNI DAMASCENO, De fide orthodoxa, II, 4, in P.G., 94, 1098.
50 S. AGOSTINO, Sermo 61, M.L., 38, 411.
Ecco qualche altra descrizione o definizione della preghiera.
«Acre par lequel l'homme s'adresse à Dieu pour lui rendre hommage ou solliciter sa
bienveillance» (H. LESÈTRE, Prière, in «Dict. de la Bible ", 5, c. 663).
Dice il Prummer: «In sensu theologico tripliciter sumi solet oratio:
1. Sensu generali pro quolibet actu religionis, immo et pro tota vita religiosa.
Hinc illud S. Augustini: O ratio optima vita iusta. Ita quoque Glossa ordinaria explicat
momtum Christi et Apostoli: "Sine intermissione orate", dicens: "semper iuste vivite;
nam iustus numquam desinit orare, nisi desinat iustus esse; semper ergo orat. qui
semper bene agit ". Oratio in hoc sensu generali accepta vocata est oratio vitalis, de
qua bene tractat S. Catharina Senensis.
2. Sensu lato pro omni motu mentis in Deum. In hoc sensu SS. Patres saepe
loquuntur de oratione, e. gr. S. Gregorius Nyssenus: "Oratio est conversatio
sermocinatioque cum Deo "; ... In hoc sensu lato etiam ille orat qui elicit actus fidei
spei, caritatis; qui meditatur de mysteriis divinis; qui Deum laudat; qui Deo gra~ tias
agit pro beneficiis collatis etc. At non omnìs elevatio mentis ad Deum est oratio in
hoc sensu; nam ille, qui solummodo discendi aut docendi causa de divinis cogitat,
non orat. Ideoque ad orationem semper requiritur plus motus mentis in Deum, qui
scii. fit venerandi causa.
3. Sensu stricto pro oratione deprecatoria. In hoc sensu habetur quasi classica et
notissima definitio item a S. Ioanne Damasceno data: "Oratio est petitio decentium
a Deo ... " " (Manuale Theologiae moralis, II, n. 332).
«La preghiera, in senso stretto, è una petizione rivolta a Dio per ottenere i beni
necessari o utili alla salute dell'anima. In senso più largo, è preghiera ogni pio
118
Ora è chiaro che intesa secondo le prime definizioni la preghiera abbraccia tutto il
contenuto della religione, anzi costituisce già un primo iniziale abbandono in Dio e
possesso di Lui: l'anima si dona e gioisce di Dio come due amanti fisicamente lontani
si posseggono nel pensiero e nell'affetto 51. Intesa invece nel secondo senso
costituisce un atto particolare del culto: quello con cui si chiede a Dio ciò che ci
occorre per vivere bene e raggiungere il nostro fine.
Quale delle due definizioni preferire? A noi sembra che si debba incominciare a
stabilire dei contenuti e poi appiccicare dei nomi, procedere cioè non
aprioristicamente, ma aposterioristicamente. Procedendo in tal modo si dice: noi
siamo tenuti ad adorare, ringraziare, ecc.: se tutto ciò si indica col termine
preghiera, essa dovrà essere definita come il primo gruppo di autori. Se invece si
dice: fra gli altri doveri verso Dio stabiliamo quello di chiederGli tutto ciò che ci
occorre per vivere bene e raggiungere il nostro fine; se noi indichiamo tale atto col
termine «preghiera», questa deve essere definita nel senso della seconda corrente
52.
___________________
affetto dello spirito verso Dio o verso cose divine. In questo senso, si distingue la
preghiera di lode, di ringraziamento e di domanda» (E. JONE, O. F. M. CAP.,
Compendio di teologia morale, n. 159).
«La preghiera, intesa in senso generale, come elevazione dell'anima a Dio, non si
limita solo a taluni atti formali del culto, ma comprende nel suo raggio tutte le opere
buone che l'uomo compie nella sua giornata. In questo senso S. Agostino poteva
dire che la vita del giusto è preghiera e che suo altare è la coscienza. In questo
medesimo senso i teologi e i mistici parlano di una preghiera vitale, per distinguerla
dalla preghiera formale. In realtà qualsiasi opera buona eleva a Dio la nostra anima
ed ha un valore di impetrazione.
In senso proprio, ma ancora molto largo, dicesi preghiera qualsiasi movimento della
mente a Dio. Così poteva essere definita dal Damasceno (+754) ascensio mentis in
Deum e viene ancora da alcuni considerata come un colloquio dell'uomo pio con la
divinità. Ma in questo senso nel concetto di preghiera rientrano anche gli atti delle
tre virtù teologali: nessuno meglio di colui che ama eleva a Dio la propria anima e
conversa con Lui.
Sicché la preghiera, intesa in senso stretto, come atto specifico della virtù della
religione, consiste nell'elevazione della mente a Dio, per esprimergli i sentimenti
della propria dipendenza. Considerata sotto questo aspetto particolare, essa si
distingue, per il suo contenuto, in preghiera di adorazione, di ringraziamento, di
propiziazione e di impetrazione» (A. LANZA-P. PALAZZINI, Principi di teologia morale,
vol. II: Le virtù, Studium, Roma 1954, p. 74 s.).
«Beten ist seiner ganzen Natur nach Verkehr mit Gott, Verkehr im stillen Gedanken
und im miindlichen Wort» (S. BIRNGRUDER, Laienmoral ..., Graz, Styria, 1953, p.
135).
51 "La prière peut déjà donner Dieu, plus ou moins. Elle n'est donc pas seulement
moyen, parfois elle est fin. Elle l'est certainement pour!es contemplatifs qui
inaugurent ici-bas la conversation éternelle» (G. DrRKS, S. J., Notes sur la prière, in "
Revue d'ascétique et de mystique», 27 (1951), p. 114).
52 Questo vale anche riguardo al termine adorazione. Anche di essa si hanno
119
Quanto alla preghiera intesa in senso stretto si deve ricordare poi che è un atto
della religione, non l'unico, nemmeno il più importante. Il primo e più importante
atto di religione è l'adorazione. È questo un punto assai grave, dato che - come
appare dalla storia delle religioni e dall'esperienza quotidiana - l'uomo è portato a
metter al primo posto la domanda.
Quanto all'oggetto della preghiera sono tutti i beni: quelli spirituali e quelli
materiali, quelli facili e quelli difficili, quelli che si prevede che avverranno e quelli
che si teme che non avvengano. Anche questo è un punto assai importante perché
la tentazione nostra è di limitare la preghiera alla sola richiesta di cose materiali.
Possiamo chiedere anche le cose materiali - la salute, la liberazione dal dolore, il
benessere, il successo, ecc. - 53; non possiamo limitare la nostra domanda alle cose
materiali 54; possiamo chiedere anche le cose umanamente impossibili - la
guarigione in certi casi disperati, la risurrezione dei morti, ecc. - ma non possiamo
limitare la nostra domanda a codesti casi 55. Tutto ciò che riguarda il
___________________
spesso concetti assai ampi e assai vaghi. Si chiede ad esempio un autore del '700:
"Viri probi in hoc mundo, et post ipsorum mortem, possuntne licite adorari si
nondum relati sunt in numerum Sanctorum ab Ecclesia?» e risponde: «Procul dubio
multi homines viventes propter ipsorum sanctitatem et excellentiam digni sunt
honore et adoratione in hoc mundo et post mortem licite adorari possunt» (OCTAV.
MARIA A s. JOSEPH ..., Opera omnia, I, n. 84).
Anche a riguardo del contenuto dell'adorazione si tratta di non procedere
aprioristicamente.
53 In questo ci conforta l'esempio di Cristo che nel Getsemani «pregava dicendo:
«Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice; tuttavia non quello che voglio
io, ma quello che vuoi tu"» (Matt. 26, 39; cfr. Marc.14, 36 e Luc.22, 42).
Anzi possiamo chiedere anche dei beni particolari, analiticamente indicati, purché
siamo disposti ad accettar la decisione divina qualunque essa sia. «La prière en
détail, mème pour ces biens à double échappement, demeure autorisée, pourvu
qu'elle soit d'avance soumise à ce que Dieu a décidé» (A. GARDEIL, La vraie vie
chrétienne, Desclée de Brouwer, Paris 1937, p. 301).
54 «La prima deformazione della preghiera è l'egoismo. Si prega solo per evitare
una sofferenza o per avere un piacere... Non è quello lo scopo della preghiera. Essa
ci deve aiutare a vivere nell'amore. Noi siamo dei poveri egoisti. Da soli, non
possiamo uscire dal nostro egoismo e vivere d'amore. Allora, ci rivolgiamo al Signore
e gli chiediamo di aiutarci. Se la preghiera egoista fosse esaudita, la religione
diventerebbe immorale" (A. ANCEL, La Chiesa e gli Operai, trad. ital., Alzani, Pinerolo
1951, p. 45 s.).
A maggior ragione il leggendario brigante di Calabria che si rivolge alla Madonna
perché il colpo non vada fallito e lo scolaro che si rivolge a Dio perché benedica un
esame colpevolmente non preparato commettono - oggettivamente parlando - un
secondo peccato che si aggiunge al primo.
55 «Chiedere non significa soltanto rivolgerci a Dio quando non riusciamo più ad
andare avanti con le nostre forze. Il suo aiuto non riempie soltanto i vuoti della
nostra impotenza. Per dirla con maggiore esattezza: quello che noi invochiamo chie-
120
proprio fine e solo ciò che riguarda il proprio fine può e deve essere chiesto a Dio.
Quanto alla necessità della preghiera, essa non deriva dal fatto che altrimenti Dio
non conoscerebbe i nostri bisogni o non sarebbe inclinato a venirci in aiuto.
Potremmo anche dire così: certamente Dio conosce assai meglio di noi ciò che è
bene per noi; indubbiamente Egli vuole assai più intensamente di noi il nostro bene;
la preghiera non tende quindi a far sapere a Lui le nostre necessità, né a disporre la
sua volontà in nostro favore. La preghiera tende piuttosto a mettere noi nel nostro
giusto posto, a collocarci nella posizione di creature di fronte al Creatore, nella
situazione di figli davanti al Padre e quindi a creare le premesse date le quali Dio non
può non darci ciò che occorre per raggiungere la nostra perfezione e il nostro fine.
Ricava la sua necessità non dall'ignoranza di Dio o da una cattiva disposizione della
sua volontà verso di noi, ma dalla nostra condizione di creature56.
__________________
dendo non è affatto, in ultima analisi, "aiuto", che significa sempre qualcosa di
aggiunto, di complementare, poiché la nostra vita è tutta costruita su Dio. Tutto
quello che facciamo viene da Dio e a Lui ritorna ...» (R. GUARDINI, Introduzione alla
preghiera, Morcelliana, Brescia 1948, p. 72 s.).
Dice giustamente P. Roche: «Losque nous nous réfugions dans la prière, n'y
recourons-nous pas souvent, hélas, comme à la manoeuvre ultime et quasi
désespérée? Ayant tout essayé, nous n'espérons plus rien. La prière n'est-elle pas
alors un produit de remplacement, un bouche-trou de notre activité impuissante?
Un médecin désarmé devant l'évolution d'un mal non catalogué se résoud, lui aussi,
en désespoir de cause, à tenter une dernière chance, à essayer d'un traitement. Il
avoue cependant avec plus ou moins de lucidité ou de fatalisme que, s'il n'en résulte
aucun bien, nul mal n'est à redouter. Pareillement pour notre prière ...» (J. ROCHE,
S. I., Un dans le Christ priant, in «Nouvelle revue théologique», 78 (1956), p. 51).
«La prière vraie, celle qui mérite ce nom, n'est pas une incantation magique, une
formule d'emprise ou de domination sur les éléments ou sur une puissance
cosmique, à plus forte raison sur Dieu. La prière est la traduction dans un geste, un
mot, moins que cela une pensée, - ce regard de l'esprit -, de l'attitude religieuse par
excellence. Or, l'attitude religieuse est éminemment une imploration, un appel, la
soumission à un plus grand que soi, enfin la reconnaissance de cette dépendance et
son acceptation confiante.
La prière... est un entretien familier avec le Père, un dialogue. Il nous arrive souvent
de parler trop, de nous époummoner comme les ignorants et les palens, Comme si
nous voulions informer le Père de ce qu'll ignorerait, ainsi qui NotreSeigneur nous le
reproche dans l'Evangile ...» (J. ROCHE, S. J., Un dans le Christ priant, in «Nouvelle
revue théologique», 78 (1956), p. 53).
56 S. Tommaso ha ripetutamente combattuto l'opinione che la preghiera
tenderebbe a mutare le intenzioni di Dio a nostro riguardo. Cfr. II-II, q. 83, a. 2; in IV
Sent. d. 15, q. 4, a. 1, sol. 3 ad 2.
È facile rispondere a quelli che combattono la preghiera perché supporrebbe un Dio
che ignora o che è mal disposto verso di noi: costoro partono da µn concetto errato
di preghiera.
121
Per conseguenza agisce non mutando la volontà divina o illuminando la sua mente,
ma disponendo noi. Agisce quindi, per usare la nota terminologia scolastica, a modo
di «causa efficiente dispositiva».
Qualche esempio di codesto genere l'abbiamo anche fra le creature: quante volte le
mamme vogliono che il bambino domandi quantunque esse sappiano già benissimo
di che cosa egli abbia bisogno e siano disposte a concederlo anche col più grave
sacrificio loro!
3. Origine ed estensione della necessità della religione. La necessità della virtù della
religione sorge dalla stessa natura. Per conseguenza:
A) Nessuno potrà dirsi nemmeno naturalmente perfetto se non adempie i suoi
doveri religiosi. Chi trascura anche questa sola parte dei suoi doveri, non conduce
una vita da «uomo», in genere: non conduce una vita da «creatura».
B) Il diritto positivo potrà riaffermare e precisare ulteriormente questi doveri. Non
potrà mai negarli. Vale a dire: ogni norma positiva che negasse questi doveri
sarebbe contro il diritto naturale e quindi ingiusta.
Per ciò stesso la religione è necessaria a tutti quelli che si trovano di fronte a Dio nel
rapporto descritto per l'uomo e permane per tutto il tempo in cui quel rapporto
permane. Ciò significa:
a) che la virtù della religione è necessaria non solo agli uomini ma anche agli angeli;
in genere: la virtù della religione è necessaria a tutte le creature. L'unico che non ha
e non può avere la virtù della religione è Dio.
b) Le creature (uomini ed angeli) sono obbligati alla virtù della religione in qualsiasi
condizione si trovino. Quindi non solo nello stato di natura pura, ma anche nello
stato di natura decaduta, anche nello stato di natura elevata; anche nella condizione
di beatitudine. Anche i beati hanno e devono avere la virtù della religione.
Evidentemente varieranno o potranno variare i modi di esprimere a Dio gli
atteggiamenti fondamentali della religione. Ma la sostanza deve permanere fin
quando permane quel rapporto fra Dio e la creatura. Siccome quel rapporto è
insopprimibile, anche la sostanza della virtù. della religione non potrà essere
soppressa.
122

___________
CAPITOLO II

LE ESPRESSIONI DEL CULTO

§ 1. Le espressioni del culto in generale.

Passiamo ora a considerare i modi di esprimere gli atteggiamenti che dobbiamo


avere verso Dio.
È noto - come s'è visto nella prima parte - che esistono a tale riguardo tre risposte:
una che insiste assai sulla necessità del culto interno trascurando o addirittura
negando il culto esterno; una che dà molta importanza al culto esterno
sottovalutando il culto interno, ed una che cerca di comporre armonicamente il
culto interno e quello esterno.
Quest'ultima corrente è la sola che rispetta le esigenze della morale.
Incominciamo anche qui dal diritto naturale. È fuori dubbio che esso richiede che
noi riconosciamo1 con un atto libero della nostra volontà che Dio è infinitamente
superiore a noi, che da Lui tutto abbiam ricevuto e riceviamo gratuitamente, che di
Lui abbiam bisogno sempre e in tutto e che dobbiamo chiedergli perdono per le
offese che Gli abbiamo recato.: Il diritto naturale esige dunque il culto interno.
Il diritto naturale afferma con pari forza la necessità del culto esterno. Infatti il
soggetto del culto, colui che ha il diritto e il do-
_______________
1 Nota che anche qui parliamo di «riconoscimento": si tratta non di «conoscere"
che Dio è infinitamente superiore a noi, ma di «riconoscerlo" con un atto libero della
volontà. Dice Rivière: «La Religion se piace donc dans l'ordre pratique et comporte
une direction personnelle, un commerce conscient et voulu de l'homme avec Dieu»
(Religion, in «Diction. pratique des conn. relig. ", V, 1143).
123
vere di darlo, è l'uomo, ossia un essere che consta di anima e di corpo, di facoltà
interne e di facoltà esterne; quindi egli fa bene, ha il diritto e il dovere di dare anche
un culto esterno.
Del resto l'esterno esprime l'interno e lo favorisce. Innanzi tutto esprime l'interno
quando c'è. È noto infatti che le cognizioni tendono all'atto e lo fanno tanto più
fortemente quanto più sono concrete. Il timore di cadere, in certe circostanze (per
es. se mi sporgo dall'alto di una torre che non abbia parapetti, se mi arrampico su
un'asta molto sollevata da terra, ecc.) mi fa cadere davvero. Il timore di non saper
rispondere ad una domanda mi mette in condizioni di non rispondere veramente.
Questa legge vale anche per i sentimenti interni di culto: essi pure tendono ad
esprimersi all'esterno. Inoltre l'esterno favorisce il sorgere e il permanere
dell'interno. Anche qui è noto che gli atti tendono a far sorgere le conoscenze e gli
atteggiamenti corrispondenti: un atteggiamento di modestia fa sorgere sentimenti
di modestia 2.
In altre parole: anche in questo campo l'uomo si comporta come «tutto o niente»:
l'interno o riesce in qualche modo a generare delle forme esterne o scompare;
l'esterno o riesce a suscitare le corrispondenti forme interne o scompare.
Da quanto si è detto discende anche la prevalenza dell'interno sull'esterno. Il primo
sta al secondo come l'anima al corpo, come il contenuto alla forma ed è noto che
l'anima val più del corpo e che il contenuto conta più della forma.
Il diritto naturale dunque esige sia il culto interno, sia il culto esterno, e quello
prima e più di questo.
_________________
2 Ecco ad esempio le ragioni che dà S. Tommaso della necessità della preghiera
vocale: «Triplici ratione: primo quidem ad excitandam interiorem devotionem, qua
mens orantis elevetur in Deum, quia per exteriora signa sive vocum, sive etiam
aliquorum factorum movetur mens hominis secundum apprehensionem et per
consequens secundum affectionem... Secundo adiungitur vocalis oratio quasi ad
reddìtionem debiti ut scilicet homo Deo serviat secundum illud totum quod ex Deo
habet, id est, non solum mente, sed etiam corpore ... Tertio adiungitur vocalis oratio
ex quadam redundantia ab anima in corpus, ex vehementi affectione ... " (II-II, q. 83,
a. 12).
«Pro natura nostra, praesenteque rerum conditione, ubi nonnisi per sensus et
sensuum organa aut capit aliquid mente aut exercet, necessarium prorsus fuit ut
primordiale istud latriae officium sensibilibus quibusdam ritibus indueretur ad
dominum summum Dei absolutamque nostram dependentiam significandam aptis "
(M. DE LA TAILLE, S. J., Mvsterium fidei ..., c. I, § 1, sect. II).
«L'atto del culto esterno non è soltanto la manifestazione della vita interiore; ne è lo
stimolo" (A. ROMEO. Il sacerdozio nell'umanità, in Enciclopedia del sacerdozio ..., p.
292).
124
Sulla stessa linea è la rivelazione.
Incominciamo dal Vecchio Testamento: Dio accetta anche il culto esterno: accetta il
sacrificio di Abele (Gn.4, 4) e di Mosè (Gn.8, 20-22); mediante un sacrificio stringe il
patto con Abramo (Gn.15, 7 ss.) e ne prova l'amore (Gn.22, 1 ss.); ordina talvolta di
fare sacrifici (per es. a Gedeone; cfr. Giud.6,26); interviene a determinare i vari
sacrifici, ecc.
La rivelazione veterotestamentaria ammette dunque il culto esterno. Ma non
trascura occasione di affermare la prevalenza dell'interno sull'esterno e di mettere
in guardia contro l'esteriorismo. Abbiam fatto qualche cenno a proposito del culto
nel mondo ebraico e non vogliamo ripeterci: chi vorrà rileggere quei testi non avrà
difficoltà a concludere che ciò su cui il Vecchio Testamento insiste continuamente è
l'importanza del culto interno e il pericolo dell'esteriorismo.
Sulla stessa linea è tutto l'insegnamento personale di Cristo e l'insegnamento del
Magistero, nonché la tradizione della Chiesa. Quanto all'insegnamento di Cristo sia
consentito rimandare a quello che abbiam detto nel capitolo quarto della prima
parte. Gesù suppone la liceità e la necessità del culto esterno e mette in guardia
contro i suoi pericoli 3. Quanto ai teologi ci restringiamo a citare il seguente passo di
S. Tommaso: «Quia ... connaturale est homini ut per sensus cognitionem accipiat, et
difficillimum est sensibìlia transcendere, provisum est divinitus homini ut etiam in
sensibilibus rebus divinorum ei commemoratio fieret, ut per hoc hominis intentio
magis revocaretur ad divina; etiam ille cuius mens non est valida ad divina in seipsa
contemplanda. Et propter hoc instituta sunt sensibilia sacrificia, guae homo Dea
offert non propter hoc quod Deus eis indigeat, sed ut repraesentaretur homini quod
se ipsum et omnia sua debet referre in Ipsum sicut in finem et sicut in creatorem et
gubernatorem et dominum universorum» 4. Quanto ai documenti del Magistero
basterà ricordare la Mediator Dei di Pio XII: «Tutto il complesso
____________________
3 Non fa difficoltà contro il culto esterno il noto passo di Giov.4,20-24 («I nostri
padri hanno adorato su questo monte, ma voi dite che il luogo dove si deve adorare
è in Gerusalemme. Gesù le rispose: "Credimi, donna: è venuto il tempo in cui, né su
questo monte, né in Gerusalemme, adorerete il Padre. Voi adorate quello che non
conoscete; noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza vien dai Giudei.
Ma viene il tempo, anzi è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito
e verità "»): ivi si tende infatti solo a sottolineare l'importanza del culto interno.
4 C. Gent, III. c. 119, § 1.
125
del culto che la Chiesa rende a Dio deve essere interno ed esterno. È esterno perché
lo richiede la natura dell'uomo composto di anima e di corpo; perché Dio ha
disposto che "conoscendoLo per mezzo delle cose visibili, siamo attratti all'amore
delle cose invisibili"; perché tutto ciò che viene dall'anima è naturalmente espresso
dai sensi; di più perché il culto divino appartiene non soltanto al singolo ma anche
alla collettività umana, e quindi è necessario che sia sociale, il che è impossibile
nell'ambito religioso, senza vincoli e manifestazioni esteriori; e, infine, perché è un
mezzo che mette particolarmente in evidenza l'unità del Corpo Mistico, ne accresce i
santi entusiasmi, ne rinsalda le forze e ne intensifica l'azione ... Ma l'elemento
essenziale del culto deve essere quello interno: è necessario, difatti, vivere sempre
nel Cristo, tutto a Lui dedicarsi affinché in Lui, con Lui e per Lui si dia gloria al Padre
... Deve, quindi, essere ben noto a tutti che non si può degnamente onorare Dio se
l'anima non si rivolge al conseguimento della perfezione della vita» 5.
Possiamo quindi concludere: sia in base alla ragione, sia in base alla rivelazione
dobbiamo onorare Dio sia con atti interni, sia con atti esterni, coi primi più che coi
secondi6.

Avvio all'ulteriore riflessione.

Se vogliamo anche qui avviare qualche riflessione sulle conclusioni raggiunte


possiamo dire:
1. Poiché il culto interno. è assai più importante del culto esterno dobbiamo
dedicare ad esso la cura maggiore e l'attenzione
_________________
5 Parte I, par. II. Nota che il Papa parla propriamente del culto pubblico. Ma le sue
parole si possono estendere benissimo a tutto il culto.
6 Dice il Grandmaison: «La pietà e la devozione personale deve tenere la sua linea
tra lo scoglio del disprezzo puritano verso le pratiche esteriori e il turbinio d'un culto
puramente esteriore, farisaico, senz'anima ...
Volerne esattamente fissare a priori la traccia o restringere la pista sulla misura
del’"uomo" considerato in astratto, importerebbe il rischio degli sbagli più gravi e
delle ingiustizie più qualificate. I rosari recitati dalla contadina della Vandea e della
Bretagna, o i molteplici segni di croce dello Spagnolo possono avere, ed hanno
sovente, un valore religioso molto reale. Avviene che in queste pratiche (e in altre
più povere e più tradizionali) s'incarna un fervore, un'adesione generosa dell'anima
alla volontà divina, una confidenza filiale, sempre meritoria, e talora eroica. La
fiamma guizza, bella e lucente, dal povero vaso d'argilla dove arde olio schietto» (L.
DE GRANDMAISON, S. J., La religione personale, trad. ital., Morcelliana, Brescia
1934, p. 34 s.).
126
più vigile. La cosa è tanto più importante in quanto noi tutti siamo portati a dare
maggior peso all'esterno anziché all'interno. Noi tutti siamo soggetti a quella legge
di fossilizzazione o di cadaverizzazione di cui abbiam parlato nella parte storica e
contro la quale tanto fortemente hanno reagito i profeti e Cristo stesso. Dobbiamo
sempre e tutti guardarcene come da un pericolo 7.
2. La necessità del culto esterno non deriva da Dio, ma da noi e precisamente da noi
come composti di anima e di corpo. Dice S. Tommaso: «Quia nos qui Deum colimus
corporei sumus, et per corporeos sensus cognitionem accipimus, inde est quod ex
parte nostra requiruntur ad cultum praedictum etiam aliquae corporales actiones»
8. Dio non ha bisogno delle nostre parole, dei nostri gesti, dei nostri canti, dei nostri
inchini. Siamo noi che abbiam bisogno di dimostrare anche così la nostra
adorazione, il nostro ringraziamento, la nostra preghiera, perché constiamo anche di
corpo, perché siamo portati a tradurre esteriormente i nostri atteggiamenti interni e
perché abbiam bisogno di alimentare i nostri atteggiamenti interni con elementi
esterni.
3. Poiché la necessità delle forme esterne di culto proviene non dal fatto che siamo
creature, ma dal fatto che siamo corporei, ne segue che il culto esterno, almeno nel
senso. in cui ne abbiamo parlato, non è necessario per tutte le creature. Ci
muoviamo qui in un campo che non vale per tutti gli esseri creati, ma solo per quelli
per i quali valgono le ragioni dette nelle pagine precedenti. Gli angeli, ad esempio,
essendo anch'essi creature saranno pure tenuti ad ado-
__________________
7 «N'oublions jamais que Dieu ne fait pas attention aux mots mais aux àmes» (G.
DIRKS, S. J., Notes sur la prière in «Revue de ascétique et de mystique», 27 (1951), p.
118).
«La stabilizzazione delle forme liturgiche in preziose consuetudini e formule di
preghiere costanti va soggetta naturalmente al pericolo dell'esteriorismo e della
rigidezza: per questa ragione la vita liturgica per non essere svuotata del suo
significato e del suo valore religioso, richiede il rinnovarsi continuo da parte dei
singoli dei sentimenti interiori che li hanno suscitati. La storia della liturgia
veterotestamentaria e la lotta che il Signore e i profeti condussero contro forme di
culto che erano vuote cerimonie, mostrano chiaramente il pericolo che incombe e la
necessità di provvedere ad ovviarlo. Notiamo però che in nessuna maniera il
pericolo autorizza a ripudiare ogni forma di esteriore culto liturgico, ciò non fece il
Signore, né fecero i profeti. Il compito della comunità religiosa, cioè dei dirigenti che
ne portano la responsabilità, come anche dei singoli fedeli consiste unicamente nella
necessità di tener sempre viva la comprensione del significato della liturgia» (F.
TILLMANN, Il Maestro chiama, trad. ital., Morcelliana, Brescia 1940, p. 217; cfr.
anche p. 223).
8 In Boetii De Trinitate, q. 3, a. 2 c.
127
rare, a ringraziare, ecc., ma non constando anche di materia non saranno tenuti a
farlo anche col corpo; tanto meno essi hanno bisogno di manifestare esteriormente i
sentimenti interni e di coltivarli mediante l'esterno secondo la legge del «tutto o
nulla» di cui abbiamo parlato sopra.
4. Anzi possiamo forse procedere ulteriormente: poiché il culto esterno è
necessario sia perché constiamo di anima e di corpo, sia perché abbiamo bisogno di
tradurre esteriormente i nostri sentimenti interni e di alimentare questi mediante
quelli, ne segue che tutti gli uomini avranno bisogno di qualche forma di culto
esterno, ma non tutti avranno bisogno delle stesse forme. Tutti, constando anche di
corpo, avranno il dovere di trovare delle forme con cui esprimere il culto interno;
ognuno però dovrà trovare le forme più adatte ad esprimere il culto interno e a
favorirlo. Senza entrare in troppi particolari, è ovvio che il bambino avrà delle forme
di espressione e di alimentazione del culto diverse dall'adulto e dal vecchio, la donna
forme diverse dall'uomo, il primitivo forme diverse dal civile e dal raffinato, il santo
dal peccatore, l'orientale dall'occidentale, l'uomo dell'epoca classica dall'uomo di
oggi, ecc. E l'ideale sarà che ognuno trovi le forme adatte alla sua «spiritualità»,
evitando di vestirsi di forme adatte agli altri, ma non a lui e di imporre agli altri delle
forme che sono adatte a lui ma non a loro. «È importante» - dice R. Guardini -
«trovare le preghiere adatte. Non intendiamo qui le preghiere rivelate che
appartengono alla divina "legge della preghiera" e valgono per tutti, sebbene anche
qui il singolo debba sapere se in quel momento un Salmo gli è di aiuto o di
impedimento, quando possa servirsi di un inno oppure no. Tanto più rigorosa
dev'essere la scelta di fronte all'enorme quantità di libri di devozione circolanti. Qui
è opportuna una parola franca. Molti di essi sono semplicemente superflui. Altri, e
purtroppo non pochi, significano per la vita interiore quello che significano cibi
guasti e inadatti per il corpo» 9.
5. Quali siano codeste forme adatte ai vari gruppi di persone non è questo il posto
di indagare. Solo vogliamo osservare che l'attuazione di dette forme specializzate
non presenta molte difficoltà
___________________
9 Introduzione alla preghiera, trad. ital., Morcelliana, Brescia 1948, p. 115.
128
quando si tratta di forme cultuali individuali o di gruppi omogenei, bastando in tal
caso vedere e introdurre le forme che meglio esprimono un interno sentimento
esistente o quelle che meglio alimentano i sentimenti che si devono intrattenere. La
cosa diventa più difficile quando si tratta di forme collettive da estendere anche a
gruppi eterogenei. Allora sembra necessario ripiegare su quelle forme che, per
essere assai semplici, convengono indistintamente a tutti e sempre e costituiscono
come il patrimonio cultuale dell'umanità, illuminata e guidata dalla rivelazione
cristiana. Però proprio per tale motivo sembra necessario introdurre anche delle
forme specializzate che permettano ai vari gruppi (uomini e donne, colti e incolti,
persone ad alta tensione religiosa e persone religiosamente povere, bambini e
adulti, ecc.) di avere la loro espressione cultuale, quella che meglio esprime e meglio
alimenta il loro interno sentimento. Dovremmo, in altre parole, muoverci in due
direzioni diverse e complementari: semplificare sempre più le cerimonie comuni,
arricchire sempre più le cerimonie specializzate 10.
6. Ricordiamo infine che vale anche per le forme del culto quella che potremmo dire
«legge dell'appiattimento dei sensi», per la quale, procedendo nel tempo, non ci
impressioniamo più e non abbiamo più quelle spinte che avevamo in principio. Si
pensi a ciò che avviene entrando in una camera chiusa: all'inizio sentiamo un senso
di ripulsione per l'aria viziata che siamo costretti a respirare, poi a poco a poco ci
abituiamo e nemmeno ce ne accorgiamo. Se torniamo fuori e rientriamo di nuovo ce
ne accorgiamo nuovamente. Lo stesso fenomeno si verifica anche per le forme del
culto esterno: fatti che in principio impressionano fortemente e alimentano
notevolmente, poi non impressionano più.
Diventa quindi necessario mutare di quando in quando le forme del culto, cambiare
il testo delle preghiere, ecc.
___________________
10 Come si vede, vale anche qui la legge logica della comprensione e
dell'estensione: quanto più aumenta la comprensione tanto più diminuisce
l'estensione e viceversa (ossia quanto più aumenta il numero degli elementi di cui
consta un'idea, tanto più diminuisce il numero dei soggetti a cui si può applicare;
quanto più s'impoverisce il numero degli elementi di cui consta un'idea, tanto più il
numero dei soggetti cui si può applicare).
In ogni caso si pongono qui molte questioni assai delicate (per es. quella della lingua
liturgica), di qualcuna delle quali parleremo più avanti.
129

§ 2. Le forme del culto interno in particolare: la devozione.

Dopo aver stabilito sia la necessità del culto, sia la necessità di fissarlo e di
esprimerlo in alcune forme, dovremmo passare ad esaminare tali forme. Dovremmo
quindi passare in rassegna gli atti del culto interno e le forme del culto esterno.
Incominciamo dalle forme del culto interno: come possiamo noi riconoscere che Dio
è tutto e noi nulla, che tutto quello che abbiamo lo abbiamo dalla sua libera volontà,
che da noi siamo incapaci di continuare ad esistere e ad operare, che ci rincresce di
aver offeso la sua volontà? Facendo tutto quello e solo quello che Dio vuole da noi;
comportandoci come esseri privi di volontà propria e soggetti totalmente a Lui;
agendo come dei «nulla da sé», come delle «cose di Dio», annientando totalmente
la nostra volontà di fronte alla Sua, assumendo in tutto e sempre la sua volontà e la
sua decisione. Ora tale atto e tale atteggiamento si dice devozione. Quindi l'atto e
l'atteggiamento fondamentale del culto interno è la devozione 11.
Ciò è confermato dalla rivelazione. Abramo diventa grande per essere stato
disposto a fare la volontà divina fino al sacrificio di Isacco (Gn.22, 1-18); all'opposto,
Saul che aveva preferito fare a Dio dei sacrifici anziché ubbidirgli viene riprovato (cfr.
1 Sam. 1-23; 28, 18).
E nel Nuovo Testamento: «Non chiunque mi dice "Signore! Signore!" entrerà nel
regno dei cieli; ma colui che fa la volontà del Padre mio che sta nei cieli»12.
«Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è mio fratello e mia sorella
e mia madre» 13.
____________________
11 «Potissimus actus interior religionis est devotio, qua adductus homo se tradit
Deo ad deferendum Deo debitum honorem» (O. SCHILLING, Theologia moralis
specialis, Bader, Rottenburg 1940, p. 165).
«Quod... se totum Deo dedat, mancipiet atque submittat, primum est hominis
maximumque officium, cui nomen imponitur latria» (M. DE LA TAILLE, S. J.,
Mysterium (idei ..., c. 1, § 1, sect. I).
Il termine «devozione» qui è preso in senso tecnico di volontà pronta a fare tutto
ciò che Dio vuole; ma poiché la volontà di Dio è norma di condotta, si può dire che la
devozione coincide con la moralità. In questo senso il termine è preso da S.
Francesco di Sales nella sua Introduzione alla vita devota.
12 Matt. 7, 21.
13 Matt. 12, 50. Cfr. anche Marc.3, 31-35.
130
Avvio all'ulteriore approfondimento.

Tralasciando anche qui di insistere ulteriormente nella documentazione, ci


restringiamo ad avviare qualche approfondimento. Eccone qualcuno:
1. Se consta che Dio vuole qualcosa da noi, noi siamo tenuti ad allinearci in tutto
alla sua volontà; la devozione comporta proprio una decisione ed una disposizione a
stare alla volontà di Dio, a ricercarla in tutte le cose e a metterla in pratica a
qualsiasi costo. E non si è religiosi senza una tale disposizione di spirito.
2. Senonché in che senso va presa la «volontà» di Dio? E se Egli manifestasse solo
un desiderio?
Sembra a noi che l'uomo sia tenuto a rispettare ed a seguire anche il desiderio
divino, a meno ch'Egli non lasci espressamente o, comunque, veramente libertà di
fare diversamente.
3. In particolare se Dio interviene a fissare le forme del culto e ad imporle - nel
senso precisato nel punto precedente - l'uomo è obbligato dalla sua stessa natura a
seguirle. Non solo cioè l'uomo è tenuto a seguire le forme di culto da Dio
liberamente stabilite; ma tale obbligo nasce dalla natura stessa. L'obbligo di seguire
le forme soprannaturalmente manifestate del culto non è soprannaturale, ma
naturale così che chi non lo fa va contro la sua stessa natura e quindi pecca. Non
accettando le forme soprannaturalmente stabilite ci si rende indegni anche del fine
naturale.

§ 3. Le forme del culto esterno in particolare: il sacrificio.

Passiamo ora alle forme del culto esterno. Quante sono? Quali sono? Quali sono
quelle adatte ai vari gruppi di persone?
Non è facile esporre dettagliatamente le forme di culto esterno 14:
__________________
14 Il culto esterno si vale infatti di tutte le categorie di segni che la natura mette a
nostra disposizione: parole e canti, gesti delle mani e degli occhi, atteggiamenti del
corpo (genuflessioni, prostrazioni, inclinazioni, ecc.), cose esterne.
La genuflessione, ad esempio, è l'atto esterno con cui significhiamo la nostra
pochezza e la nostra debolezza: «genuflectimus nostrarn infirmitatem designantes
in comparatione ad Deum» (II-II, q. 84, a. 2 ad 2); altrettanto si dica della
prostrazione: «prosternimus nos, quasi profitentes nos nihil esse ex nobis» (II-II, q.
84, a. 2 ad 2).
«La candela accesa è un simbolo. Nel cero candido, senza macchia, nobilmente
131
ci sono tutte quelle della voce, tutte quelle dei movimenti e degli atteggiamenti del
corpo, tutte quelle che si sviluppano attorno ad una cosa del mondo esterno.
Accenniamo brevemente alle prime e fermiamoci un po' più a lungo su quest'ultima,
ossia sul sacrificio.
Quanto alle forme esterne rese possibili dalla voce si pensi a tutto quello che si può
esprimere e significare con la parola detta, con la parola cantata, con la parola
scritta. Si può manifestare adorazione. ringraziamento, domanda: si può lodare,
magnificare e implorare.
Quanto alle forme di culto per mezzo del corpo si pensi alle mani giunte, alle mani
aperte in atto di domanda, alla genuflessione, alla prostrazione, agli occhi, al volto.
Che cosa non può dire un volto? Che cosa non possono dire le mani?
Tutte queste forme di culto esterno sono lecite e addirittura necessarie quando non
esistono altre forme per esprimere l'interna devozione.
Ma veniamo al sacrificio, seguendo ancora una volta la legge naturale e rivelata,
divina e umana.
La legge naturale. Sappiamo, da quello che abbiam detto sopra, che l'uomo ha il
diritto e il dovere di riconoscere in tutti i modi e con tutti i mezzi la sua infinita
distanza da Dio, la sua totale dipendenza dalla di Lui libera volontà per il passato e
per il futuro, il suo rincrescimento per averlo liberamente offeso e la sua volontà di
riparare. Ora uno dei mezzi per fare questo è di privarsi di qualcosa di suo, di
annientarlo per significare il suo nulla, o donarlo a Dio per significarGli che tutto ha
ricevuto dalla sua libera volontà, o riprenderlo per indicare che ha continuamente
bisogno del suo aiuto. Ora a ciò diamo il nome di sacrificio. Quindi l'uomo ha da
natura il diritto e il dovere di offrire il sacrificio. Già in base al diritto naturale
abbiamo il diritto e il dovere di offrire a Dio qualche
___________________
verticale, che diffonde luce, l'uomo già dall'antichità si è compiaciuto di raffigurare
se stesso. E ama farlo anche oggi. Vedi quella povera donna inginocchiata davanti
all’immagine della Vergine Addolorata? È venuta a confidarle un dolore, ad
implorare conforto. Ora deve andare, perché a casa l'aspettano i suoi doveri. Ma
quanto desidererebbe rimanere più a lungo! Allora ecco che si alza, offre una
moneta, e chiede al sagrestano che le accenda una candela: e la mette davanti alla
Madonna e par che le dica: Adesso sta qui tu al mio posto, e pregherai tutto il giorno
per me» (B. FISCHER, Quel che il catechismo non dice, trad. ital., Morcelliana,
Brescia 1956, p. 74).
Per un primo accostamento ai vari gesti liturgici vedi ad es. M. RIGHETTI, La storia
liturgica, vol. I, Ancora, Milano 1945, pp. 43-48; 286-313, nonché B. FISCHER, Quel
che il catechismo non dice, trad. ital., Morcelliana, Brescia 1956.
132
cosa per significare esteriormente la nostra adorazione, il ringraziamento, la
preghiera e l'espiazione.
La legge rivelata conferma l'obbligo di offrire il sacrificio e ne determina la vittima:
la natura umana di Cristo immolata sulla Croce e riofferta sull'altare per opera del
sacerdote.
In altre parole: nella rivelazione abbiamo i seguenti elementi:
1) Dio conferma la facoltà e la necessità di offrire il sacrificio; 2) determina la
vittima. A quest'ultimo riguardo bisogna distinguere nettamente ciò che ha fissato
per gli Ebrei fino a Cristo e ciò che ha voluto per tutti e sempre dopo di Lui. Per gli
Ebrei fino a Cristo ha fissato delle vittime non umane da offrirsi con un particolare
cerimoniale; per tutti e sempre dopo Cristo ha fissato l'immolazione di Cristo sulla
Croce da rinnovare sull'altare mediante il sacerdote. Per conseguenza, secondo la
rivelazione, il diritto e il dovere di offrire il sacrificio diventa il diritto e il dovere di
offrire jl sacrificio della Messa.
Vediamo qualcosa di queste singole proposizioni.
Per gli Ebrei ha fissato delle vittime non umane da offrirsi con un determinato
cerimoniale. Ne abbiamo parlato nel capitolo sul culto presso gli Ebrei e non
vogliamo ripeterci.
Quanto alla nuova Legge è certo che sono state abolite le vittime antiche ed al loro
posto è stato collocato il sacrificio di Cristo sulla Croce: sul Calvario Gesù ha offerto
se stesso per noi; inoltre Gesù ha comandato di offrire per sempre quello stesso
sacrificio.
Secondo la legge rivelata dunque noi siamo tenuti ad offrire il sacrificio di Cristo
nella Messa; più brevemente: siamo tenuti a offrire la Messa.
La legge della Chiesa. Il diritto attuale stabilisce inoltre quattro determinazioni: una
relativa alla frequenza, una relativa al complesso rituale, una relativa al modo di
presenza ed una relativa al luogo. Vediamo qualcosa di ognuna di esse.
1) Frequenza dell'offerta del sacrificio. A codesto riguardo la Chiesa fissa un minimo
e spinge verso un'offerta sempre maggiore. Il minimo è fissato nel can. 1248 che
dice: «Festis de praecepto diebus Missa audienda est»; la Messa dunque deve
essere ascoltata almeno nei giorni di precetto. Di precetto, poi, secondo il can. 1247,
sono tutte le domeniche e le seguenti solennità: Natale, Circoncisione, Epifania,
Ascensione, Corpus Domini, Assunzione della Ma-
133
donna, Immacolata Concezione, S. Giuseppe, SS. Pietro e Paolo, Tutti i Santi. Almeno
in tali giorni dunque si ha l'obbligo di ascoltare la Messa.
La Chiesa però spinge continuamente verso un'offerta assai maggiore. Nell'Enciclica
Mediator Dei, ad esempio, Pio XII scrive: «Voglia Dio che i fedeli, anche ogni giorno
se lo possono, partecipino non soltanto spiritualmente al Sacrificio Divino» 15.
2) Complesso rituale da ascoltare. A questo riguardo la Chiesa vuole che si ascolti
tutto quel complesso che va sotto il nome di «Messa», iniziando dall'«In nomine
Patris ...» e terminando con la benedizione 16. Sono note le discussioni dei teologi
intorno all'essenza del sacrificio della Messa. Qualunque sia l'opinione che si segue
al riguardo, la Chiesa nella sua legislazione stabilisce che nei giorni fissati bisogna
esser presenti a tutto il complesso rituale che va sotto il nome di Messa dal principio
alla benedizione finale. Altro è quindi ascoltare la Messa e altro è soddisfare al
precetto di ascoltare la Messa nei giorni di precetto. Se si accetta l'opinione che
l'essenza del sacrificio stia nella sola consacrazione chi è presente ad essa, ascolta
veramente la Messa; ciò però non è sufficiente per soddisfare al precetto di
ascoltare la Messa nei giorni di precetto.
___________________
15 Parte II, par. III.
16 «Missa audienda est tota, i. e. ab initio usque ad ultimum evangelium exclusive»
(A. VERMEERSCH, Theologiae moralis principia ..., III, n. 860).
"Integra missa intelligitur ab initio usque ad benedictionem sacerdotis inclusive
(ultimum enim Evangelium ad Missae integritatem pertinere non videtur)» (LANZA-
PALAZZINI, Theol. Mar., II, I, n. 244, p. 343).
"La materia di questo precetto è di ascoltare tutta la Messa, cioè dal principio fino
alla fine ... L'adempimento del precetto richiede che colui che ascolta la Messa deve
ascoltarla... intieramente ..., cioè, dall'inizio fino alla benedizione finale. Pecca colui
che omette una parte della Messa» (TEODORO DA TORRE DEL GRECO, O. F. M. CAP.,
Teologia Morale ... n. 186).
"La Messa di precetto deve essere ... intera, e cioè si deve ascoltare dall'inizio sino
alla benedizione impartita in fine» (E. JONE, O. F. M. CAP., Compendio di teologia
morale ..., n. 197).
Non direi quindi che "per soddisfare all'assistenza alla S. Messa», "è necessario non
mancare alle parti essenziali della santa Messa: non si deve mancare quindi
all'offertorio, alla Consacrazione e alla Comunione» (G. CERIANI, La morale di Cristo,
II ed., Marzorati, Milano 1946, p. 187).
È ovvio quindi che non si soddisfi al precetto ascoltando parti diverse di due messe
che, cucite, diano una Messa intera. Ricordiamo però che, secondo gli autori, «a
gravi peccato (ab omni, si causa sit rationabilis) excusatur qui audit successive duas
dimidias missas, modo, ut post S. Alph., L. 3, n. 311, communiter exigunt, uni integro
sacrificio praesens sit, ac proin consecratio et communio eiusdem sint sacrificii: lex
benignam hanc interpretationem recipit» (A. VERMEERSCH, Theologiae moralis
principia ..., III, n. 860).
134
Si noti che abbiam sempre detto dall'«In nomine Patris ...» alla benedizione finale.
La presenza all'ultimo Vangelo e alle preghiere dopo la Messa non sono necessarie
per la soddisfazione del precetto.
Occorrerà quindi un po' di cautela nel modo e nelle forme con cui si insiste presso i
fedeli perché non escano di chiesa prima che il sacerdote abbia terminato anche
l'ultimo Vangelo o addirittura la recita delle preghiere prescritte da Leone XIII dopo
la Messa privata. Che si insista perché i fedeli rimangano è del tutto giusto; bisogna
però evitare di dar l'impressione che, non facendolo, non si ascolti la Messa e non si
soddisfi al precetto, altrimenti si corre il pericolo di creare una coscienza falsa.
3) Il modo di presenza. La Chiesa vuole la presenza corporea.
C'è una presenza che permette di essere a portata dei fatti e degli avvenimenti in
virtù della vicinanza: si vede e si ascolta e si partecipa perché si è sul posto. E c'è una
presenza che potremmo dire «strumentale», per la quale si è a portata dei fatti e
degli avvenimenti anche se lontani col corpo: si vede per mezzo della televisione; si
sente per mezzo della radio, ecc. Ognuna di tali forme di presenza ha i suoi vantaggi
e i suoi svantaggi. Talvolta per mezzo della radio e della televisione si può vedere e
sentire meglio che se si fosse localmente presenti; ma la presenza strumentale non
riesce spesso a dare quella pienezza di partecipazione e quella ricchezza di
impressione che dà la presenza corporea.
Delle due forme di presenza a tutt'oggi la legislazione della Chiesa non ammette che
la seconda. Per soddisfare il precetto occorre essere localmente presenti; bisogna
poter sentire o vedere lo svolgersi del rito sacro 17.
4) Il luogo. Quanto al luogo la Chiesa ha stabilito che per soddisfare al precetto la
Messa si deve ascoltare in una chiesa od oratorio pubblico o semipubblico o
all'aperto18. In un oratorio privato
____________________
17 " Non soddisfa al precetto chi ascolta la Messa per radio, pur compiendo una
opera buona» (TEODORO DA TORRE DEL GRECO, O. F. M. CAP., Teologia Morale ...,
n. 186, 4). "Non basta ... per soddisfare il precetto ascoltare la S. Messa per radio»
(G. CERIANI, La morale di Cristo, II ed., Marzorati, Milano 1946, p. 187).
Quanto all'ulteriore determinazione casistica non concordano gli autori. P. Teodoro
da Torre del Greco dice che "non si soddisfa (al precetto) quando si è distanti dalla
Chiesa oltre 40 metri, a meno che non si sia congiunti a una gran massa di popolo
che la Chiesa non è capace di contenere e si possa seguire, almeno confusamente,
l'azione del celebrante» (Teologia Morale ..., n. 186, 4).
18 "Legi de audiendo Sacro satisfacit qui Missae adest quocumque cathohco ritu
celebretur, sub dio aut in quacumque ecclesia vel oratorio publico aut semipublico
135
«soddisfano al precetto: gli indultari, i loro consanguinei e affini ibidem
commorantes (nei gradi dirimenti il matrimonio), i famuli quorum actu dominus
opus habet, gli hospites nobiles quocumque modo, i commensales si non sunt ex
eodem loco ed anche qui ad prandium sunt vocati» 19.
Quanto all'ora del giorno non è stabilito nulla: si può quindi soddisfare al precetto
ascoltando la Messa in qualsiasi ora, da mezzanotte a mezzanotte.
Inoltre, in tal senso, l'obbligo vale per i battezzati che hanno raggiunto l'uso di
ragione e compiuto i sette anni20.
Le quattro determinazioni tengono globalmente: la Chiesa, in altre parole, obbliga
ad assistere, in quei determinati giorni, con il tipo di presenza di cui s'è parlato, al
complesso rituale che va sotto il nome di Messa nel senso indicato e nei luoghi
specificati. L'impossibilità di stare anche ad una sola delle determinazioni accennate
fa cadere l'obbligo giuridico di stare alle altre.
Codeste determinazioni della Chiesa non sono però del tutto rigide: essa non le
urge quando esistono motivi particolarmente gravi.
Secondo l'interpretazione comune dei moralisti, si ritengono motivi sufficienti a
scusare dall'obbligo di assistere alla Messa:
A) L'impossibilità anche solo morale: per tale motivo sono scusati i malati, i
convalescenti, ecc.
B) L'esercizio della carità: per tale motivo non sono obbligati ad assistere alla Messa
quelli che debbono assistere dei malati, ecc.
C) La consuetudine: per tale motivo in alcuni luoghi non sono tenute ad ascoltare la
Messa le puerpere per un mese dopo il parto, le vedove fino a un mese dalla morte
del marito, le fidanzate durante le pubblicazioni di matrimonio (se c'è una messa
sola)21
_________________
et in privatis coemeteriorum aediculis de quibus in can. 1190, non vero in aliis
oratoriis privatis, nisi hoc privilegium a Sede Apostolica concessum fuerit» (can.
1249). 19 L. OLDANI, Lineamenti di diritto canonico, II, La scuola cattolica, Venegono
Inf. 1952, p. 48.
Ricordiamo che in base al diritto comune si soddisfa al precetto ascoltando la Messa
negli oratori privati dei cardinali e dei vescovi (can. 1189).
20 Cfr. can. 12. «Obligatio observandi festa» - dice Vermeersch - «... tenet omnes et
solos baptizatos qui usu rationis pollent et septennium compleverunt» (Theologiae
moralis principia ..., III, n. 857). Cfr. anche PRUMMER, Manuale theologiae moralis,
II, n. 467.
21 «Dall'obbligo positivo di ascoltar la Messa nei giorni festivi si può essere talvolta
scusati, o perché l'assistenza è fisicamente impossibile, o perché esistono ragio-
136
Tralasciando di insistere ulteriormente su codesti punti, possiamo concludere:
ognuno è tenuto a offrire almeno nei giorni festivi il sacrificio della Messa. Non
facendolo pecca. Per quanto riguarda, ad esempio, la completezza del sacrificio «la
gravità o la leggerezza del peccato dipende dall'importanza e dalla lunghezza della
parte che si tralascia. Perciò:
A) Probabilmente commette peccato non grave colui che è presente solo a quelle
parti che costituiscono la cosiddetta Messa dei fedeli ...
B) Pecca gravemente colui che volontariamente tralascia la parte essenziale della
Messa (dall'offertorio, o anche dall'inizio del canone, secondo alcuni autori, fino alla
Comunione), oppure solo quelle cose che nel sacrificio sono di grande importanza
(la Consacrazione e la Comunione), anche se è presente alle altre parti.
C) Commette peccato veniale colui che, volontariamente e senza motivo, omette
qualsiasi piccola parte della Messa, eccetto l'ultimo Vangelo, che non appartiene
all'integrità del sacrificio ...» 22.
Avvio all'ulteriore riflessione.

Se riprendiamo in esame, per approfondirli, gli elementi trovati sinora, possiamo


fissare alcuni punti non privi d'importanza.
Il primo di essi è che il sacrificio si trova sia nell'ordine naturale, sia nel diritto
rivelato, sia nella legge della Chiesa.
1. Nell'ordine naturale il sacrificio è l'offerta a Dio di una cosa per significare
esternamente il nostro riconoscimento della sua singolare eccellenza (adorazione),
della sua divina munificenza (ringraziamento), del bisogno che noi abbiamo del suo
aiuto (impetrazione),
___________________
nevoli e proporzionati motivi per rimanere assenti. Ma codesti motivi devono essere
tanto più gravi quanto più frequente è l'omissione; e qualora questa fosse continua,
è per lo meno da consigliarsi l'assistenza alla Messa in alcuni giorni feriali ...» (A.
LANZA-P. PALAZZINI, Principi di teologia morale, II: Le virtù, Studium, Roma 1954, p.
86).

22 TEODORO DA TORRE DEL GRECO, O. F. M. CAP., Teologia Morale ..., n. 186. 8 qui,
probabilmente, che è da ricercare l'origine dell'opinione molto diffusa che l'obbligo
vero e proprio decorre dall'offertorio e che quindi la messa «vale» se si è presenti a
partire da quel momento: si è considerato l'obbligo non grave come non obbligo e
dal fatto che l'obbligo è grave solo se si tralascia la parte essenziale della Messa si è
detto che l'obbligo decorre dall'offertorio.
137
nonché del rincrescimento di averlo offeso e del proposito di non farlo più23.
Nell'ordine naturale dunque il sacrificio è innanzitutto l'offerta di una «cosa». Non è
permesso offrire delle persone, a meno che Dio espressamente lo consenta o lo
domandi. Una persona - chiunque essa sia - ha una dignità così grande da non poter
mai essere usata come mezzo per il raggiungimento di un fine; le cose invece sono
ordinate al nostro servizio e raggiungono la loro perfezione quando ci aiutano a
raggiungere il nostro fine. Poiché uno dei nostri doveri è quello di significare
esternamente l'interna devozione le cose raggiungono la loro perfezione quando ci
aiutano a quel fine 24.
L'offerta della vittima è fatta in segno dell'interno atteggiamento: per completarlo,
per esprimerlo e per alimentarlo.
Il sacrificio è dunque innanzi tutto un segno. «Quando ... il Signore t'avrà fatto
entrare nella terra del Cananeo» - si dice nel Deuteronomio (13, 11-16) - «...
riserberai al Signore ogni primogenito, e di fra i tuoi animali ogni primo nato...
Commuterai con una pecora il primogenito dell'asino; che se non lo riscatterai così,
l'ucciderai. Ogni primogenito d'uomo di fra i tuoi figli, lo ricomprerai a prezzo. E
quando nell'avvenire il tuo figliuolo ti doman-
___________________
23 «Offerta di un animale o di un oggetto (utile all'offerente, che se ne priva; per lo
più alimenti, o profumi) che si annienta realmente o simbolicamente, allo scopo di
riconoscere la supremazia divina e il suo diritto di vita e di morte sull'uomo» (A.
ROMEO, Il sacerdozio nell'umanità, in Enciclopedia del sacerdozio ..., p. 294).
24 «Tra i vari atti di culto ... con i quali l'uomo si sforza di esprimere tutta la sua
religione, tutta la sua devozione, quello che tutti in certo modo li sintetizza è
l'offerta completa di sé. E poiché non gli è lecito spingere questa offerta fino
all'uccisione di sé in omaggio a Dio, l'uomo civile sostituisce le cose poste da Dio in
suo dominio a se stesso in questa offerta, animali, frutti, oggetti preziosi, per
simbolizzare l'offerta di sé, fino alla distruzione completa. Tale atto di religione
chiamasi sacrificio ...» (A. LANZA-P. PALAZZINI, Principi di teologia morale, vol. II: Le
virtù, Studium, Roma 1954, p. 83 s.).
Ricordiamo che mediante l'offerta a Dio del sangue il sacrificio cruento acquistava
valore di sostituzione: il fedele offriva a Dio la vita di un animale in luogo della sua
propria... L'offerente esprimeva questa sostituzione con l'imporre le mani
sull'animale prima che venisse immolato, onde significare che offerente e vittima
erano solidali e che l'offerente intendeva offrire se stesso attraverso la vittima» (A.
ROMEO, Il sacerdozio di Israele, in Enciclopedia del sacerdozio ..., p. 402).
«Devotio ... naturaliter adducit ... ad res sensibiles Deo offerendas in signum debiti
honoris et obsequii» (O. SCHILLING, Theologia moralis specialis, p. 196). «Sacrificium
est signum quoddam, significat enim secundum Scripturam, ... interius spiritus
sacrificium, quo anima seipsam offert Deo» (ibid.).
Nota poi che tanto il sacrificio quanto il sacramento sono segni, ma il sacrificio è
segno dell'interna devozione, il sacramento invece è segno della grazia da conferirsi
mediante il sacramento.
138
derà: - Che cos'è questo? - gli risponderai: - Con la sua forte mano il Signore ci trasse
dall'Egitto, dal luogo di schiavitù. Essendosi infatti ostinato il Faraone, e non volendo
lasciarci andare, il Signore fece morire tutti i primogeniti della terra d'Egitto, dal
primogenito dell'uomo a quello degli animali; ecco perché io ora sacrifico al Signore
tutti i maschi primi nati e riscatto a prezzo tutti i primogeniti dei miei figliuoli. Sarà
questo come un segno in mano tua, o come qualcosa sospeso davanti ai tuoi occhi
per ricordarti che il Signore con braccio forte ci cavò dall'Egitto» 25.
La cosa significata è l'interna devozione, il riconoscimento della nostra nullità, della
nostra totale dipendenza da Lui e del totale orientamento a Lui. Dice S. Tommaso:
«Oblatio sacrificii fit ad aliquid significandum. Significat autem sacrificium quod
offertur exterius spirituale sacrificium, quo anima seipsam offert Deo» 26. «Pia
oblatio» - dice Garrigou-Lagrange - «est veluti anima sacrificii ... sine ea non habetur
nisi cadaver sacrificii ...» 27.
Poiché il sacrificio è segno dell'interna donazione, occorre cercare innanzi tutto di
offrire se stessi28. Dice S. Agostino: «Non vult.. sacrificium trucidati pecoris, sed vult
sacrificium contriti cordis» 29
_________________
25 «Sacrificium secundum se est in genere signi et licet requirat positivam
institutionem, non tamen esse potest pure ad placitum, sed habere debet quamdam
symbolicam similitudinem cum interiori sacrificio ...» (L. BILLOT, S. I., De ecclesiae
sacramentis ..., T. I, ed. VII, P. Univ. Gregoriana, Roma 1932, p. 586). «Omne
sacrificium visibile invisibilis sacrificii sacramentum, id est sacrum signum est» (De
civit. Dei, c. 5). «Sacrificium externum, ut externum est, est in genere signi» (R.
GARRIGOULAGRANGE, O. P., De Eucharistia ..., Torino, L.I.C.E., Desclée de Brouwer,
Paris 1942, p. 265).
26 II-II, q. 85, a. 2. Cfr. anche C. Gent. III, c. 12.
27 De Eucharistia ..., p. 273.
28 «Id quod tribuit sensum et valorem omni sacrificio est amor seu adhaesio
amorosa seu unio in amore cum Deo» (P. DE HAES, De ratione latreutica sacrificii, in
«Collectanea Mechliniensia», 40 [1955], p, 697).
29 De civit, Dei, 10, 5. Dice Gulielmus Parisiensis: «Verum igitur et generale
sacrificium quod Deo in primis est et maxime offerendum, et quod Deus maxime et
in primis requirit, et quo non oblato non acceptat quod aliquid ei offeratur, est
unusquisque nostrum ... Primum igitur ac principale sacrificium, quod a nobis
requiritur non ipsi sumus, sine cuius oblatione nihil quod Deo offerimus placitum
est, ve! acceptum, cuius placatione alia Deo accepta et placita sunt» (De legibus, c.
28). E prima ancora S. Cirillo Alessandrino: «In sacrificiis enim (nostris) tanquam in
imagine quodammodo nostras animas immolamus, Deoque offerimus, dum munda
atque carnis sapientiae morimur» (De adoratione in spiritu et veritate, I. 11, M.G.
68, 769. «Signum externum non valet, nisi ad actum internum significandum; et si
defectus spiritus fidei et orationis sistimus in his signis externis est formalismus
pharisaicus id est sola apparentia externa religionis sine realitate, unde dicitur in
Evan-
139
Poiché il sacrificio è un segno esterno dell'interno atteggiamento, per un certo lato
l'entità della cosa sacrificata non ha nessuna importanza, per un altro lato invece ha
un'importanza grandissima. Infatti un segno conta non per quello che è ma per
quello che significa: una bandiera può essere un piccolo pezzo di stoffa comune e
consunta, eppure può avere un valore così grande da indurre ad esporre la vita per
impedire che vada nelle mani del nemico; anche una cosa modesta può avere un
valore grandissimo; anche una cosa importante può avere un significato modesto:
«in oblatione sacrificii» - dice S. Tommaso - «non pensatur pretium occisi pecoris,
sed significatio, qua hoc fit in honorem Summi Rectoris totius universi»30.
D’altra parte, proprio perché è segno, la sua scelta non è indifferente. Chi potendo
scegliere una cosa più bella e più gradita, ne sceglie una meno bella e meno gradita
dimostrerebbe di non avere affatto quella dedizione, quella riconoscenza e quel
desiderio di essere aiutato che col segno vuol dimostrare d'avere. Proprio perché
significa si deve scegliere la cosa più bella possibile e più gradita. Osserviamo ciò che
si nasconde nella psicologia del dono. Poiché con esso si vuol significare e quasi
incarnare la dedizione, la riconoscenza, l'invocazione o l'unione si cerca di offrire la
cosa più bella per quanto ci è possibile: si preferiscono le cose superflue, e quando si
offre qualcosa di necessario e di utilitario si prova come un'intima sofferenza.
Non è quindi esatto affermare che il diritto naturale non stabilisce nulla circa la cosa
da offrire. Indubbiamente il diritto naturale non specifica in concreto le cose da
offrire in sacrificio e il modo di farlo; esso però esige che si offra ciò che in concreto
è il meglio e significa più chiaramente l'interna dedizione 31.
__________________
gelio "cavete a fermento pharisaeorum"» (R. GARRIGOU-LAGRANGE, O. P., De
Eucharistia ..., p. 265; cfr. anche p. 271).
30 II-II, q. 85, a. 2 ad 2. «Ce qui fait la valeur d'une victime en effet, ce n'est pas tant
son prix et sa qualité intrinsèque que!es sentiments de piété et la sainteté de celui
qui l'offre: l'hostìe visible n'est que l'expression et le signe du sacrifice invisible, et
prend de lui toute sa valeur» (CH. V. HÉRRS, O. P., Le mystère de l'Eucharistie,
Editions Siloe, Paris 1941, p. 92).
31 Il fatto che il sacrificio sia di diritto naturale, ma che il diritto naturale non
specifichi del tutto le forme spiega bene perché il sacrificio si trovi presso tutti i
popoli e che presso i vari popoli si trovi in forme diverse, ma che dovunque si tenda
ad offrire il meglio. Dice S. Tommaso: "Oblatio sacrificii in communi est de lege
140
Bisogna quindi curare sia l'atteggiamento interno che col segno si vuol dimostrare.
sia il segno con cui e in cui si concreta la dimostrazione. Se per un lato e innanzi
tutto è necessario offrire se stessi, per un altro lato è pure necessario curare il
segno, onde si vien meno alla norma sia non offrendo se stessi, sia non curando a
sufficienza il segno esterno.
2. Il contenuto della significazione è sia il riconoscimento del nostro nulla e del tutto
di Dio (adorazione), sia dell'infinita generosità divina a nostro riguardo
(ringraziamento), sia del totale bisogno che noi abbiamo di Lui e della sua assistenza
(preghiera), sia del nostro rincrescimento d'averlo offeso e il proposito di non
offenderlo più (espiazione).
I fini del sacrificio quindi sono parecchi 32.
Fermiamoci un momento a considerare il fine latreutico.
Siccome il sacrificio è segno della totale nullità e della totale dipendenza può esser
offerto solo a Dio. Dice S. Tommaso nel commento al Salmo 28: «Dominus voluit sibi
offerri ista, non propter se quia ipse dixit: Numquid manducabo carnes taurorum,
sed ut cognoscamus euro principium omnium bonorum nostrorum. et finem in
quem omnia sunt referenda: et ideo nulli licet offerre sacrificium nisi Deo. Deus
enim est finis, et nihil possumus ei addere: et ideo debemus eum glorificare, ut
omnia quae facimus in eius gloriam faciamus» 33.
Soprattutto siamo in grado di dir qualche cosa sulla questione se la distruzione sia
essenziale al concetto di sacrificio o no.
Su questo punto esistono - com'è noto - non lievi differenze
________________
naturali; et ideo in hoc omnes conveniunt sed determinatio sacrificiorum est ex
institutione humana vel divina et ideo in hoc differunt» (II-II, q. 85, a. 1 ad 1).
32 «Ratio ... positiva sacrificii est multiplex, scil. adoratio, gratiarum actio et
impetratio. Praesertim notandum est S. Thomam non tantum loqui de Deo ut
principio creationis seu principio omnium bonorum, sed expresse agere de Deo ut
fine beatitudinis in quem omnia sunt referenda. Sacrificium igitur considerari debet
sub luce illius finalitatis beatae tamquam id quod conducit ad beatitudinem. In
sacrificio non tantum agi debet de Deo Creatore et Domino vitae et mortis, sed
etiam de Deo Beatore qui vincit mortem, peccati sequelam, et dat vitam bea tam»
(P. DE HAES, De ratione latreutica sacrificii, in «Collectanea Mechliniensia», 40
[1955], p. 696).
È ovvio poi che il fine espiatorio appartenga al sacrificio non per il fatto di essere
creature, ma per il fatto di essere creature peccatrici. In tal senso si può accettare
che «propitiatio pro peccato, quacumque tandem ratione accipiatur, accidit
sacrificio in suis essentialibus notis considerato» (L. BILLOT, De Ecclesiae sacramentis
..., I, p. 585; cfr. pag. 588).
33 N. 3.
141
anche in seno ai moralisti e teologi cattolici. Le principali soluzioni si possono ridurre
a due: per alcuni il sacrificio comporta essenzialmente una distruzione reale o
mistica, per altri basta l'oblazione 34.
La nostra risposta potrebbe essere formulata brevemente così: la distruzione della
vittima non è essenziale al sacrificio come tale (in questo senso ci sembra abbiano
ragione i negatori della necessità dell'immolazione al concetto di sacrificio); è
essenziale invece al sacrificio adoratorio, latreutico (in questo ci sembra abbiano
ragione i sostenitori della necessità dell'immolazione al sacrificio). Almeno una
qualche forma di distruzione, almeno qualche modo di mutazione sembra
indispensabile all'aspetto di segno del sacrificio latreutico. Com'è possibile
significare che noi siamo nulla di fronte a Dio, che da Lui riceviamo tutto l'essere
senza qualche riduzione a nulla della cosa con cui significhiamo? 35.
Anche nel caso però che comporti tutto ciò, il sacrificio non significa diminuzione di
noi stessi, ma perfezionamento.
Indubbiamente il termine «sacrificio» comporta qualche cosa di doloroso. Non
usiamo forse il termine «sacrificare» come sinonimo di «rinunciare», «abbandonare
al proprio destino», «distruggere»? Tale aspetto però, alla luce del tutto, comporta
un arricchimento del nostro essere 36.
3. Sul piano del diritto rivelato vigente il sacrificio è innanzi
__________________
34 Per una cognizione più diffusa e più analitica delle due correnti vedi per es. M.
LEPIN, S. S., L'idée du sacrifice de la Messe d'après les théologiens depuis l'origine
jusqu'à nos jours, Beauchesne, Paris 1926.
35 Non accetterei quindi le seguenti affermazioni di M. DE LA TAILLE, S. J.: «Non
igitur videtur repetenda cruenta sacrificiorum indoles ex ratione simpliciter
latreutica, quasi destructio vitae secundum se haberet quod honoraretur Deus sicut
commentantur qui dicunt non potuisse perfecte agnosci colive supremum Dei
numen dominiumque in vitam et mortem, nisi per vitae nostrae exstinctionem
inflictionemque mortis; guae tamen cum neque liceret, neque deceret, pro ea
substitueretur animalis occisio ...» (Mysterium fidei ..., c. 1, § 2, sect. 1).
«Haud dubium igitur est quin recte sacrificii latria exponatur, si in illa ad instar
sacramentorum aliquid per modum signi et aliquid per modum rei distinxerimus.
Donatio enim externi doni quamquam habet iam secundum se rationem rei, id est
verae donationis, tamen non est res tantum, sed est res et signum. Interni autem
doni oblatio rationem habet rei tantum» (Mysterium fidei ..., c. 1, § 1, sect. 2).
36 In questo senso è verissimo ciò che dice Masure: «Le sacrifice ... c'est surtout
l'arrivée au but, la créature faisant le geste efficace de se jeter dans les bras de son
Créateur, et s'y perdant dans un abandon total,. Et rencontrant son Dieu, la créature
contresigne et ratifie son propre ètre et sa juste valeur. Elle s'affirme elle-mème,
telle que Dieu l'a voulue et l'a faite. Elle retrouve en ce point final tout ce que Dieu
avait mis en elle au commencement, ni plus ni moins; et achevant sa course,
rejoignant son principe, elle épuise toutes ses puissances intérieures qui passent
toutes de la puissance à l'acte ...» (Le sacrifice du chef, 9 ed., Paris 1944, pp. 23-25).
142
tutto l'offerta personale della vita di Cristo a nome suo e a nome nostro sulla croce,
poi della stessa vittima mediante l'Eucaristia fatta da noi insieme con Cristo, a
significazione della sua e della nostra totale sottomissione a Dio.
Innanzi tutto l'offerta della vita di Cristo. Non si offre più una cosa, una realtà del
mondo infraumano, vivente o non vivente, ma una vita umana. Anzi la vita umana
del Verbo, la natura umana ipostaticamente congiunta con Lui e quindi partecipe
della sua dignità. Abbiamo una vittima di una dignità unica e in certo senso infinita.
L'offerta della Sua vita Cristo l'ha fatta a nome Suo e a nome di tutta l'umanità.
Cristo si offre al Padre come nuovo Adamo, come Capo della nuova umanità. Anzi
Cristo si offre soprattutto per noi: «questo è il sangue ... che sarà sparso per molti»;
«questo è il mio corpo che è dato per voi»; «questo calice è il nuovo testamento nel
sangue mio, che per voi si spargerà ...» 37.
Il sacrificio di Cristo sulla croce è rinnovato nell'Eucaristia. Se confrontiamo il
sacrificio della croce e il sacrificio della Messa dobbiamo dire che sono lo stesso
sacrificio offerto in modi diversi. Dice l'Enciclica Mediator Dei: «L'augusto sacrificio
dell'altare non è, dunque, una pura e semplice commemorazione della passione e
morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale, immolandosi
incruentemente, il Sommo Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla croce offrendo
al Padre tutto se stesso, vittima graditissima. Identico quindi è il Sacerdote, Gesù
Cristo, la cui sacra persona è rappresentata dal suo ministro. Questi per la sua
consacrazione sacerdotale ricevuta, assomiglia al Sommo Sacerdote ed ha il potere
di agire in virtù e nella persona di Cristo stesso; perciò, con la sua azione
sacerdotale, in certo modo "presta a Cristo la sua lingua, gli offre la sua mano".
Parimenti identica è la vittima, cioè il Divin Redentore, secondo la sua umana natura
e nella realtà del suo Corpo e del suo sangue. Differente, però, è il modo col quale
Cristo è offerto. Sulla croce, difatti, Egli offrì a Dio tutto se stesso e le sue sofferenze,
e l'immolazione della vittima fu compiuta per mezzo di una morte cruenta
liberamente subita; sull'al-
________________
37 «Gesù Cristo è Sacerdote, ma non per se stesso, bensì per noi, presentando
all'Eterno Padre i voti e i religiosi sensi di tutto il genere umano; Gesù è vittima, ma
per noi, sostituendosi all'uomo peccatore» (Enc. Mediator Dei, p. III, par. II).
143
tare, invece, a causa dello stato glorioso della sua umana natura, "la morte non ha
più dominio su di Lui" e quindi non è possibile l'effusione del sangue; ma la divina
sapienza ha trovato il modo mirabile di rendere manifesto il sacrificio del nostro
Redentore con segni esteriori che sono simboli di morte. Giacché, per mezzo della
transustanziazione del pane in corpo e del vino in sangue di Cristo, come si ha
realmente presente il suo corpo, così si ha il suo sangue ... Così il memoriale della
sua morte reale sul Calvario si ripete in ogni sacrificio dell'altare perché per mezzo di
simboli distinti si significa e dimostra che Gesù è in istato di vittima. Identici
finalmente sono i fini ...» 38.
4. Il fatto che nel sacrificio della croce abbiamo l'immolazione di una natura umana
ipostaticamente congiunta al Verbo permette di vedere come in esso si abbia
l'attuazione e lo sviluppo di qualcosa che la natura quasi vorrebbe, ma che non può
dare; in altre parole: si può capire come il sacrificio della croce sia qualcosa di
soprannaturale ma non di estraneo alla natura. Nel sacrificio naturale infatti è
implicita la tendenza e la necessità di offrire la cosa più bella; se, concretamente
parlando, non si offre la cosa migliore, anziché rendere ossequio si offende. Ora che
cosa c'è di più bello al mondo della natura dell'uomo? Tutto il mondo materiale non
vale un uomo, dal momento che tutto il mondo della materia non può esprimere
nemmeno lo spirito più modesto. E nel mondo umano che cosa ci può essere di più
bello della natura umana del Verbo? Le azioni di tale natura sono del Verbo e quindi
partecipano in qualche modo della Sua divina dignità. Si può quindi capire come
possa nascere il desiderio di offrire a Dio una tale natura. Ma come si può
veramente pensare di farlo? Come pensare di offrire a Dio una natura umana?
Anche l'uomo più minuscolo e più imperfetto - la cellula appena fecondata - ha una
sua eminente dignità per cui non può essere offerto come segno della nostra
sottomissione a Dio. Come pensare poi di offrire a Dio la natura umana del Verbo?
Ci si trova dunque di fronte a qualcosa che vorremmo offrire ma che non possiamo
offrire, a qualcosa che non possiamo offrire ma che pure vorremmo offrire.
_______________
38 Parte II, par. I.
144
A questo è venuto incontro Dio stesso consentendo a Cristo di offrire al Padre la sua
vita anche a nome nostro.
Abbiamo dunque qualcosa di superiore alla nostra natura, ma non di estraneo ad
essa.
Inoltre il fatto che il sacrificio della croce è offerto da Cristo anche a nome
dell'umanità intera come nuovo Adamo fa sì che sia anche il sacrificio nostro e che
sia il sacrificio unico di tutti i tempi e di tutti i luoghi.
L'immolazione di Cristo al Padre sulla croce è offerta anche da noi. Sul modo di
codesta offerta possiamo forse trovare un'analogia nel modo con cui noi abbiamo
peccato in Adamo: come il fatto e la decisione personale di Adamo sono stati anche
un fatto ed una decisione nostra in quanto noi eravamo inclusi in lui, così il fatto e
l'immolazione di Cristo sono stati un fatto ed una decisione di tutti noi in quanto
contenuti in Lui. Quale sia questo modo di essere in Adamo e in Cristo non è qui il
caso di approfondire; per conseguenza non è il caso di precisare ulteriormente come
il peccato di Adamo è diventato un peccato nostro e l'immolazione di Cristo è
diventata un'immolazione nostra 39. Rimane però il fatto che come noi siamo caduti
in Adamo, così ci siamo immolati in Cristo.
Per ciò stesso l'immolazione di Cristo è stata fatta da tutti gli uomini di tutti i tempi
e di tutti i luoghi. Tutti hanno offerto in Cristo, come tutti hanno peccato in Adamo.
All'«in quo omnes peccaverunt» corrisponde l'«in quo omnes sese Patri obtulerunt»
40.
__________________
39 Sia consentito richiamare fortemente l'attenzione sulla delicatezza di questo
tema e soprattutto sulla necessità di non procedere aprioristicamente, ma in
costante contatto con le fonti della rivelazione e con l'insegnamento della Chiesa.
Soltanto dalla rivelazione interpretata e proposta dalla Chiesa sapremo il senso
preciso del parallelismo fra il modo della caduta e il modo della redenzione, tra la
funzione "capitale" di Adamo e la funzione "capitale» di Cristo.
40 Dice Thomassinus: «Itaque crux velut ara fuit mundi, in qua universa fidelium
Ecclesia ex omnibus terrarum tractibus, ex omnibus saeculorum omnium aetatum
conglomerata, in capitis sui sacramento Deo mactabatur» (De incarnatione Verbi, I.
10, c. 10).
Occorrerà qualche cautela nel dire, ad esempio, che "novitas... sacrificii Missae
respectu sacrificii crucis desumenda est tantum ex parte Ecclesiae, nunc suam
facientis illam oblationem, quam peregit olim Christus, et pro tanto eam innovantis,
pro quanto a capite ad corpus transit et virtus et actus sacrificandi» (M. DE LA
TAILLE, S. J., Mysterium fidei ..., I. II, c. III, § 3).
Per lo stesso motivo andrei piuttosto cauto nel sottolineare la differenza fra
sacrificio della croce e sacrificio della Messa come sacrificio di Cristo e sacrificio della
Chiesa come fa per esempio lo Jungmann nel volumetto La S. Messa come offerta
della comunità cristiana (Trad. ital., Vita e Pensiero, Milano 1955).
145
Il fatto che il sacrificio della croce sia il sacrificio di tutta l'umanità, in tutti i tempi e
in tutti i luoghi fa sì che tutti abbiamo il diritto e il dovere di offrirlo: il diritto e il
dovere di offrire il sacrificio diventa il diritto e il dovere di offrire il sacrificio della
croce.
5. Senonché come è possibile offrire il sacrificio della croce, anche con un atto
personale, per quelli che sono lontani nel tempo e nello spazio?
Il mezzo istituito da Cristo è l'Eucaristia. Essa è stata preannunciata anche come
sacrificio, istituita anche come sacrificio e comandata anche sotto tale aspetto. Essa
significa e produce - come significano e producono i sacramenti - l'immolazione di
Cristo sulla croce e quindi permette a tutti di offrire continuamente quel sacrificio
41
________________
41 «Quem ritum in pane et vino Christus nobis celebrandum instituit, voluit esse
penes nos sacrificalem quamdam oblationem corporis et sanguinis sui. Quod ...
immediate patet ex adiectis verbis: Hoc facile [1Cor. 11, 25: quotiescumque bibetis
in meam commemorationem (Luc. 22, 19; 1Cor. 11, 24-25)]. Siquidem ... Christus
obtulit corpus et sanguinem suum sacrificaliter, igitur nos, idem iussi facere quod
ipse fecit, offerimus sacrificaliter corpus et sanguinem eius. Postquam scilicet in
eucharistia Christus obtulìt victimam sacrificii illius quo nos redemit, iam nos
offerimus in eucharistìa victimam eamdem eiusdem sacrificii in passione completi»
(M. DE LA TAILLE, S. I., Mysterium fidei ..., l. II, cap, I, § II, sect. I, art. I).
«En habes intercessionem Christi sacrificalem unam eamdemque, in passione
praeteritam, in coelis aeternalem, cottidianam in missa. Vivit in coelis hostia
passionis, placans Patrem; dumque a nobis sacramentaliter immolatur, missae
sacrificium offertur» (ID., ibid., l. II, c. III, § 2, sect. I, art. I).
«Sacrificamus igitur Deo hostiam illam quae ex sese, citra nostrum ministerium,
exsistit in coelis Deo aeternum sacrificium» (ibid.).
«Offerimus igitur hostiam passionis, sed aeternam, sed coelestem hostÌam sacrificii
unius nec unquam transi turi. Etenim scribit Paulus: Habemus altare; non dixit:
habuimus, aut fuit nobis altare, sed: habemus; est ergo Christus etiam nunc nobis
altare; altare igitur iam non terrenum, sed coeleste; coelestis igitur sacrificii, quod ut
manducamus, ita offerimus. Oblatores ergo sumus sacrificii coelestis atque aeterni»
(ID., ibid., l. II, c. I, § 2, sect. II).
«Sacrificium Christi evasit quidem per resurrectionem gloriosum, per ascensionem
coeleste; immortalitas autem vitae aeternae illud effecit perenne. Ut enim
indicatum est supra (Elucid. I), status victimalis, ipsa sacrificatione inductus,
perseverat quamdiu manet hostia incorrupta. Iam vero non solum incorruptam ac
illaesam reliquit resurrectio sanctificationem carnis dominicae victimalem... sed
etiam per resurrectionem ipsam obtigit carni hostiae incorruptibilitas gloriae: quae,
ut dictum est, nedum officiat statui victimali, multo magis ei accessit cumulus,
sanctitatem hostiae ex parte divinae acceptationis sanciens et complens. Est ergo
inde sacrificium Christi immortale, aeternum, unde est gloriosum et coeleste. Nec
metaphoricum est istud iuge sacrificium (passivum) coeli, quasi denominet affectum
Christi internum duntaxat: sicut metaphorice dicimur immolati Deo per devotionem.
Sed proprium sacrificium est denominans scilicet proprietatem quamdam dominicae
humanitatis externam: ipsam dico gloriam, pro quanto parta est per litationem illam
semel a
146
La Messa dunque non è che un mezzo per poter offrire personalmente il sacrificio
della croce: non è affatto un sacrificio staccato dalla croce o aggiunto ad essa; è il
sacrificio stesso della croce reso offeribile da tutti. Non è questo il posto per esporre
come tale dottrina vada intesa, né di riferire le posizioni che i teologi hanno assunto.
Solo vogliamo sottolineare fortemente che la Messa non ha nessun senso staccata
dalla croce 42.
6. Il fatto che la Messa non è che la rinnovazione del sacrificio della croce permette
di affermare che anche la Messa è il sacrificio di Cristo 43. Che la presenza dei fedeli
e della Chiesa nella
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Christo coenante et patiente factam in aeternum, ac in aeternum a Patre ratam
atque sancitam ...» (ID., ibid., l. I, c. 5, § 1, sect. II, art. 3).
«Corpus Christi, oblatum in coena, et in passione immolatum, quam sortitum est ex
sacrificio rationem hostiae, perennem servat, non resurrectione abolitam immo
auctam ratihabitione atque consummatione divina: translatione dico in sacrarium
coelestis gloriae, ubi Deum obligat erga sacerdotem Christum ad commiserendum
nobis» (Ibid., sect. III).
42 «L'Eucharistie perpétue parmi nous cette Passion et cette mort; elle nous donne
de prendre part à ce sacrifice; elle est elle-mème comme une transposition, sous des
rites sensibles, du sacrifice de la Croix» (CH. V. HÉRIS, O. P., Le mystère de
l'eucharistie, Editions Siloe, Paris 1941, p. 84).
«Vera quadam ratione sacrificium missae idem est ac sacrificium crucis; quia una
eademque est hostia, unus idemque offerens Christus Dominus, sacerdotum
ministerio; ipsa illa expiatio perfecta et absoluta sacrificii crucis sacrificio
eucharistico inest; sacrificium, in cruce semel consummatum, perpetuum et
perenne fit in Eucharistia, quae non affert tantum inanem similitudinem et
memoriam sacrificii crucis, sed veritatem ipsam, quamquam specie dissimili» (I.
FILOGRASSI, S. J., De sanctissima Eucharistia ..., ed. IV, P. Univ. Gregoriana, Roma
1953, p. 352).
"Parlando a rigore, il sacrificio della nuova Alleanza non è ripetuto; ciò che è
ripetuto, dice il Gaetano, è il rito incruento, grazie al quale ii sacrificio unico
persevera in mezzo a noi» (CH. JOURNET, La Croce e la Messa, trad. ital., Libreria Ed.
Fiorentina, Firenze 1953, p. 23).
È in questo senso che dobbiamo intendere le parole dell'Enciclica Mediator Dei: «La
divina sapienza ha trovato modo mirabile di rendere manifesto il sacrificio del
nostro Redentore con segni esteriori che sono simboli di morte. Giacché, per mezzo
della transustanziazione del pane in corpo e del vino in sangue di Cristo, come si ha
realmente presente il suo corpo, così si ha il suo sangue; le specie eucaristiche poi,
sotto le quali è presente, simboleggiano la cruenta separazione del corpo e del
sangue»? (P. II, par. I).
43 Per conseguenza, come nota giustamente l'Enciclica Mediator Dei, «in ogni
azione liturgica ..., insieme con la Chiesa, è presente il suo divin Fondatore: Cristo è
presente nell'augusto sacrificio dell'Altare sia nella persona del suo ministro, sia,
massimamente, sotto le specie eucaristiche ...» (P. I, par. I).
«La stessa cosa avviene nel Sacrificio Eucaristico, che è rinnovazione incruenta del
sacrificio della Croce: Cristo offre se stesso al Padre per la sua gloria e per la nostra
salute. Ed in quanto Egli, Sacerdote e vittima, agisce come Capo della Chiesa, offre
ed immola non soltanto se stesso, ma tutti i fedeli, ed in certo qual modo tutti gli
uomini» (Pio XII, Esortazione Menti nostrae, n. 31).
Dice il Roguet: "Cristo stesso si sacrifica, si offre... Nel medesimo tempo, Egli offre
con sé il suo Corpo mistico che è la Chiesa ...» (La Messa, Edizioni Paoline, Alba 1955,
p. 39).
147
Messa sia più evidente che non nel sacrificio della croce si può facilmente
concedere. Però bisogna evitare di marcare troppo delle differenze che sono solo
esteriori 44.
Soprattutto dal fatto che la Messa non è che una rinnovazione del sacrificio della
croce segue che «la Messa non fa ingiuria al Calvario, come temevano i protestanti;
essa non fa che valorizzarne l'abituale ricchezza, grazie al giuoco del rito, il mistero e
il meccanismo del quale sono conosciuti; non c'è un'immolazione nuova e tuttavia
c'è un'immolazione: quella stessa del Calvario» 45.
7. È facile a questo punto comprendere l'aspetto negativo e l'aspetto positivo della
posizione protestante sulla Messa. Il lato buono è nell'aver sottolineato in modo
fortissimo che il sacrificio della croce è il sacrificio unico e perpetuo, il sacrificio per
tutti e per sempre. Il loro errore è di aver pensato che la Messa sia un sacrificio
nuovo che si aggiunge alla croce, un sacrificio diverso e staccato da quello che Gesù
ha offerto sul Calvario.
Se per una parte c'è dunque una certa continuità fra il sacrificio nell'ordine naturale
e il sacrificio della Messa, dall'altra c'è una profonda convergenza del sacrificio
naturale e della Messa sul sacrificio della croce. Il sacrificio dell'ordine naturale è
tendenzialmente e obbedienzialmente orientato verso il sacrificio della Croce; verso
di esso è pure orientata la Messa. La croce attua e supera le aspirazioni più profonde
del sacrificio nel diritto naturale 46. La
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44 «In questi ultimi anni è andato sviluppandosi tutto un movimento per
"valorizzare" l'Offertorio. Nella predicazione, nei commenti della Messa, si è insistito
sul significato umano dei doni, sul simbolismo della goccia d'acqua. Si sono
organizzate delle "processioni all'Offertorio" nelle quali si videro sfilare le più strane
offerte, fino a genitori "offerti dai loro figli". Questa tendenza è spiegabile.
L'Offertorio - soprattutto quando, come nell'antica Roma, i fedeli portavano i loro
doni all'Altare - è un modo facile di manifestare la partecipazione dei presenti alla
Messa. L'offerta di doni diversi sembra dimostrare più che non l'elevazione di
un'Ostia fornita dal sagrestano, la volontà d'inserire la Messa in tutta la vita umana,
il dovere di recarsi alla Messa non per un senso di pietà un poco convenzionale, ma
con l'intento generoso e positivo di cristianizzare la vita di ogni giorno. Bisogna pure
aggiungere che è più facile penetrare il mistero eucaristico nei suoi aspetti umani
che non spiegarne il contenuto centrale e divino.
Disgraziatamente questa tendenza finisce col deformare il vero senso della Messa,
facendone un'offerta più dell'uomo che non di Cristo ...» (A. M. ROGUET, O. P., La
Messa, trad. ital., Edizioni Paoline, Alba 1955, p. 38).
45 E. MASURE, Il sacrificio del Corpo mistico, trad. ital., Morcelliana, Brescia 1952,
p, 81.
46 «L'Eucaristia ha assorbito nel suo trionfo gli incantesimi violenti e selvaggi delle
civiltà scomparse, l'odore aspro delle tracce di sangue, le visioni truci degli antichi
sacrifici dal disegno grossolano, appariscente, adatto a parlare alle fantasie
148
Messa continua il sacrificio della Croce. Il Calvario appare dunque sempre più come
l'atto centrale del culto, il grande atto47 di culto, redentivo della grande colpa di
Adamo e delle colpe nostre.
8. Proprio perché il sacrificio della croce e della Messa attua e supera tutte le
aspirazioni della natura, non può esser abbandonato per offrire i vecchi sacrifici.
L'aspirare ad offrire i vecchi sacrifici è un regresso. Avendo noi il meglio che si
potesse pensare, anzi assai più del meglio che si potesse pensare - la natura umana
del Figlio di Dio - non possiamo nemmeno lontanamente rimpiangere i sacrifici
antichi e pensare di riprenderli. Se lo facessimo non progrediremmo, ma
regrediremmo; non offriremmo il meglio che possiamo, ma offriremmo il meno
bello e quindi anziché rendere omaggio e far piacere - nell'unico senso che questa
parola può avere quando si parla di Dio - offenderemmo e recheremmo dispiacere.
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dei primitivi, pittoresco ma brutale, terrificato o terrificante, concludentesi con delle
orge alla Jordaens, come le si vede al Louvre alla fine dei banchetti fiamminghi ma
l'ostia dei cristiani, in un certo senso, ha anche fatto dimenticare agli uomini le
antiche usanze sacrificali dei loro padri, venute da lontane età per colpire le
immaginazioni e scuotere le anime coi loro spettacoli violenti e sanguinosi. Fu
questo il prezzo di una splendida vittoria e di un benedetto progresso» (E. MASURE,
Il sacrificio del corpo mistico, trad. ital., Morcelliana, Brescia 1952, p. 61).
«Il Cristo ha ripreso tutte queste aspirazioni, per dar loro finalmente la possibilità di
avere un compimento, nella sua persona come sacerdote, nel suo corpo e nel suo
sangue come vittima. Quante sorde volontà si celavano in quei disegni che egli ha
esaudito! Ed ecco come noi dobbiamo sentirci uomini fino in fondo, quando
partecipiamo al santo sacrificio della Messa, perché comunicando al Cristo,
comunichiamo con l'umanità intera. Noi riprendiamo con dei mezzi nuovi, puri e
decisivi, un vecchio progetto, un antico cammino di andata e ritorno, con la sua
ascesa al cielo e la sua discesa, ma questa volta con al vertice quella
transustanziazione, che realizza in un istante il sacrificio perfetto, per cui dal levante
all’occidente, in ogni luogo, si offre al Signore un'oblazione santa» (ID., ibid., p. 102).
Dice B. Fischer: «Un pagano di buoni e pii sentimenti che fosse oppresso dai
medesimi affanni che potrebbero essere pure i tuoi - un figlio malato, un disagio
economico, una incomprensione, una sventura qualsiasi - direbbe fra sé: Non ho
pace: dovrò offrire un sacrificio agli dèi affinché mi ascoltino nel mio dolore.
Cercherò qualche cosa da offrire loro, la più preziosa che posso. Ma tu, amico, ce
l'hai il dono prezioso, il più nobile che esista in cielo e in terra: esso sta sull'altare e
viene presentato al Padre celeste: è il suo unico Figlio, infinitamente amato, che ha
accettato la morte per essere il tuo sacrificio» (Quel che il catechismo non dice, trad.
ital., Morcelliana, Brescia 1956, p. 73).
47 Bisogna tener presente però che il fatto di esser Cristo sulla croce sacerdote e
vittima «donne à son sacrifice un caractère spécial, Il n 'y a pas à proprement parler
au Calvaire, où Jésus s'immole, deux sacrifices, l'un visible et l'un invisible; mais un
seul présentant un double aspect: un aspecr intérieur qui est l'offrande que le Christ
fait de lui-meme à Dieu dans une soumission et une charité parfaite; un aspect
extérieur qui est cette mèrne offrande de lui-meme manifestée par sa passion, ses
souffrances et sa mort» (CH. V. HÉRIS, O. P., Le mystère de l'eucharistie, Editions de
Siloe, Paris 1941, p. 92).
149
Per un altro lato se guardiamo sia all'intervento della Chiesa sia all'intervento della
rivelazione dobbiamo dire che con essi non si fa che determinare un dovere
precedente. Il dovere di offrire il sacrificio appartiene al diritto naturale. Lo abbiamo
dimostrato cammin facendo e non è il caso che ritorniamo su quei ragionamenti.
Senonché il diritto naturale non precisa - se non genericamente in quanto spinge
verso la cosa più bella - la cosa da offrire, il modo dell'offerta, il tempo e le persone
che debbono offrire. Il diritto rivelato apporta precisazioni sulla vittima e
sull'offerente. Non precisa però il complesso rituale in cui farlo, né il tempo in cui
farlo. È proprio su questi punti che interviene la Chiesa con la sua legislazione 48. Ne
consegue subito che il fatto di non poter rispettare tutte le determinazioni del
diritto ecclesiastico non dispensa dal rispettarne il maggior numero possibile; anzi
l'impossibilità di rispettare anche una sola delle disposizioni del diritto ecclesiastico
non dispensa dall'obbligo di stare per quanto è possibile alle determinazioni del
diritto divino e l'impossibilità di stare anche a codeste determinazioni non dispensa
dall'obbligo di rispettare almeno le esigenze del diritto naturale.
Vogliamo dire:
A) chi non può rispettare contemporaneamente tutte le determinazioni del diritto
ecclesiastico (ossia: complesso rituale che si dice «messa», presenza locale, giorno
festivo, chiese o oratori nel senso indicato) è dispensato dall'obbligo di osservarlo
nel modo migliore possibile?
Sono note le posizioni degli autori a questo riguardo. Molti di essi ritengono che chi
è nell'impossibilità di osservare tutte le determinazioni della Chiesa non è tenuto a
nessuna, anzi non è tenuto nemmeno a offrire in qualche modo il sacrificio della
Messa, anzi non è tenuto a nessun sacrificio. Génicot per es. scrive: «Convenit inter
AA. eum qui legitime impeditur quominus Missam die festo audiat, non teneri ad
alias preces in compensationem recitandas, quamquam haec praxis valde
commendanda est. Opinatur tamen Lehmkuhl (I, n. 724) fideles teneri vero
praecepto divino, ut, si fieri
_______________
48 «Ius divinum legis novae obligare omnes Christianos ut interdum divino sacrificio
intersint, illudque per sacerdotem et cum sacerdote offerant, quia lex colendi Deum
per sacrificium quasi naturalis est; et haec determinata est in lege gratiae ad
sacrificium Missae... Nihilominus quod haec actio exercenda sit in singulis diebus
festis ... de iure ecclesiastico est» (SUAREZ, De religione ..., tr. 11, l. III c. 15, n. 2),
150
possit, aliquoties saltem Sacro intersint, ac proinde eos qui ordinarie impediuntur
quominus Sacro intersint diebus festivis, teneri aliquotiens ad ferendum gravius
incommodum ut intersint, vel, si hoc nequeunt, debere eidem interesse aliquotiens
diebus ferialibus, v. gr. ter quaterve in anno. Sed haec, licet optima consìlìa sint, non
possunt stricte imponi. Nam valde dubium est fundamentum assertae illius legis
divinae, nempe: "si ex divino praecepto, ut communius fatentur, sacerdos
aliquotiens in anno celebrare tenetur, fideles etiam potiore iure sacrificii N. L.
participare debent". Ipsa nempe obligatio sacerdotum limites probabilitatis non
excedit, spectato iure divino ..., neque apparet cur fideles astringat obligatio haec
quam in sacerdotibus tantum ob specialem eorum characterem DD. multi
agnoscunt» 49.
Altri invece sembrano ammettere qualche obbligo senza però precisarlo 50.
_______________
49 Institut. theol, mor., II, n. 344. Ceriani dice: «Chi non può sentir la S. Messa di
festa non è tenuto ad ascoltarla nei giorni feriali. Chi però non può mai assistere alla
S. Messa festiva, cerchi di cambiare situazione o ufficio: intanto è buona cosa
ascoltare la Messa in giorni feriali" (La morale di Cristo, II ed., Marzorati, Milano
1946, p. 188, n. 15).
50 Dice il Leclercq: «A leggere la teologia morale, parrebbe che, fuori del precetto
canonico, non vi sia alcun obbligo di assistere alla Messa e a più forte ragione di
comunicarsi. Gli autori, è vero, esortano coloro i quali sono abitualmente impediti a
frequentare le Messe la domenica, ad andarci qualche volta lungo l'anno: ma non
insistono e non precisano, mentre si dilungano a studiare tutti i casi e le condizioni
dell'assistenza domenicale. Terminata la lettura di questo punto sui testi di morale,
si ha l'impressione che colui il quale, essendo legittimamente impedito la domenica
di andare alla Messa, non ci va mai, non commette nessun peccato determinabile;
mentre colui il quale la domenica, arriva un minuto più tardi del tempo fissato per la
validità della Messa e non assiste ad un'altra, commette peccato mortale.
Pertanto sembra difficilmente concepibile che la Chiesa stabilisca un precetto
canonico sanzionato da una colpa mortale, se non per insistere su una regola morale
di grande importanza. Considerando che non è possibile la vita cristiana se non si
partecipa al sacrificio eucaristico, la Chiesa formula la legge: "Udir la Messa la
domenica e le altre feste comandate", minimum richiesto a tutti per la disciplina
della comunità. Ma il dovere morale ha tutt'altri caratteri. Diciamo che il diritto
canonico si spiega soltanto per il fatto che la vita cristiana non è possibile senza la
partecipazione al sacrificio eucaristico. Ma se questo principio, che spiega
razionalmente la legge canonica, è vero, come pensare che non ci sia altra
obbligazione oltre le prescrizioni del diritto? La quale non sempre è esistita, e ancor
oggi non esiste in paesi di rito orientale, e cade quando viene a frapporsi un
impedimento legittimo" (L'insegnamento della morale, Ediz, Paoline, Alba 1952, p.
241).
“Qui non potest audire integram Missam, teneturne audire saltem illam partem
quam potest?
Resp. Nonnulli dicunt, non teneri; quia praeceptum est de audienda Missa, et sic de
re individua, non vero de audienda parte: ergo si non po test rotam Missam audire,
non peccar si non audit illam partem, quam commode potesi, Verum hoc
151
La prima posizione mi sembra difficilmente sostenibile. Infatti il precetto di
ascoltare la Messa nei tempi e nei modi stabiliti dal can. 1248 è ecclesiastico solo in
quanto precisa quei tempi e quei modi; in quanto invece stabilisce l'obbligo di offrire
il sacrificio eucaristico in qualche tempo e in qualche modo non è affatto di diritto
ecclesiastico, ma divino; in quanto afferma l'obbligo di offrire qualche sacrificio è
addirittura di diritto naturale. È naturale infatti il dovere di offrire a Dio in sacrificio
la cosa migliore e siccome oggi la cosa migliore è l'immolazione di Cristo sulla Croce
è di diritto naturale l'obbligo di offrire quel sacrificio; e poiché ciò non può avvenire
che per mezzo dell'Eucaristia è di diritto naturale il dovere di offrire il sacrificio
eucaristico. Il diritto naturale poi è stato ribadito dal diritto rivelato.
Ne deriva che non potendo offrire il sacrificio eucaristico nei tempi e nei modi
stabiliti dall'attuale legislazione ecclesiastica, non cade il dovere di offrire quello
stesso sacrificio in qualche tempo o in qualche altro modo; non potendo poi offrire
quel particolare sacrificio che è il sacrificio eucaristico non cade il dovere di offrire
qualche altro sacrificio e precisamente il meglio di cui si può disporre concretamente
parlando; non potendo offrire questa forma di culto che è il sacrificio rimane il
dovere di esprimere in altri modi il proprio interno atteggiamento di adorazione, di
ringraziamento, di preghiera e di espiazione.
Non si può quindi, a nostro modesto avviso, accettare l'opinione che libera
senz'altro da qualsiasi obbligo chi ha motivi sufficienti per non sottostare al can.
1248. Forse che chi non può mettersi a mensa e mangiare nei tempi e nei modi
fissati in una famiglia o in una comunità si astiene dal prender qualcosa come e
quando meglio può? Forse che se ne rallegra come se avesse scrollato un peso dalle
spalle o avesse evitato il pericolo di pagare un tributo noioso?
Se tutto ciò è esatto dobbiamo dire che l'opinione di chi libera da qualsiasi obbligo
chi ha motivi per ritenersi dispensato dall'assistenza alla Messa nella forma e nei
modi stabiliti dalla Chiesa ha una probabilità puramente estrinseca.
_________________
mihi non probatur, quia qui potest partem materiae praeceptae adimplere, non
habet sufficientem causam, qua eximatur ab obligatione illius partis adimplendae;
ergo peccat mortaliter, qui non audit illam partem missae, quam potest, modo pars
sit notabilis ...» (OCTAV. MARIA A s. JOSEPH, Opera omnia ..., II, n. 1549).
152
Sorge allora per noi l'ulteriore questione: a che cosa dare la preferenza? È meglio
preferire il complesso rituale che si suol chiamare Messa? O il giorno? O la
corporeità della presenza? O il luogo?
Una risposta a queste domande importerebbe una previa indagine sulla gerarchia
delle determinazioni stabilite dall'attuale legislazione. Che cosa è più importante
secondo la Chiesa? È più importante la corporeità della presenza o il giorno o il
complesso rituale?
Purtroppo non abbiamo per dare a queste domande una risposta soddisfacente,
delle indicazioni sufficienti. I pochi che hanno sfiorato tale questione hanno dato
indicazioni diverse 51.
A nostro modesto modo di vedere si dovrebbe incominciare a
_______________
51 «Dans le cas d'exemption du précepte dominical pour une des causes précitées, il
est certain que le précepte ecclésiastique n'impose aucune obligation de compenser
la non-assistance à la messe par quelque acte de dévotion accomplì en particulier,
car la fin du précepte ne tombe point sous le commandement, mais seulement
l'acte réellement present ... Il est non moins certain que l'on ne peut ètre dispensé
du précepte naturel d'honorer Dieu d'un culte intérieur et extérieur. Mais comme le
droit naturel ne détermine point le dimanche de préférence à un autre iour, ni la
manière dont on est tenu d'honorer Dieu, l'on observe suffisamment ce précepte
naturel en s'acquittant habituellement du devoir de la prière, en assistant parfois à
la messe en semaine, ou en accomplissant en dehors du dimanche quelque acte de
religion ... Aussi l'on doit considérer comme excessive l'opinion de Sporer affirmant
que le précepte divin nature! de sanctifier le dimanche impose toujours en ce cas
quelque obligation, bien qu'il n'en spécifie ni l'objet ni le mode d'accomplissement...
A plus forte raison, doit-on reieter, du moins sous leur forme absolue, ces
conclusions du franciscain Henno (+1713): quiconque est légitimement ernpèché
d'entendre la messe le dimanche est tenu d'honorer Dieu en ce iour-là d'autre
manière, par la prière, par une pieuse lecture, par la récitation du rosaire, par la
détestation de ses péchés ou autrement ... Lehmkuhl s'appuie sur un autre principe
pour soutenir que ceux qui sont habituellement empèchés d'assister à la messe les
dimanches et le fètes sont tenus d'y assister à d'autres jours, trois ou quatre fois par
an. De la stricte obligation qui, au jugement de beaucoup de théologiens, incombe
au prétre de célébrer le saint sacrifice au moins trois ou quatre fois par an, il conclut,
qu'à plus forte raison,!es fidèles sont tenus d'y participer au moins le mème nombre
de fois ... Génicot reiette avec raison cette conclusion camme n'étant nullement
démontrée ...» (E. DUBLANCHY, Dimanche, in «Dict. de théol. cathol.», 4, 1345 s.).
Nella conclusione IX del secondo congresso nazionale francese di pastorale liturgica,
tenuto a Lione dal 17 al 22 settembre 1947, si dice: «Si d'autre part!es circonstances
économiques et sociales empéchent un chrétien de vaquer le dimanche au repos
hebdomadaire ou mème de participer à la messe, il n'est pas pour autant dispensé
du devoir de célébrer et de sanctifier ce iour du Seigneur. (Le jour du Seigneur,
Laffont, Paris 1948, p. 374).
«Qualora (l'omissione della Messa) fosse continua, è per lo meno da consigliarsi
l'assistenza alla Messa in alcuni giorni feriali; tanto più che è quanto mai probabile
l'opinione di alcuni autori i quali ritengono che sia precetto divino il partecipare alla
Messa alcune volte durante l'anno» (A. LANZA-P. PALAZZINI, Principi di teologia
morale, voi. II: Le virtù, Studium, Roma 1954, p. 86).
Dello stesso parere sembra JONE, Compendio di teologia morale, n. 19? («Chi arriva
prima della consacrazione e non può ascoltare un'altra Messa, deve rimanere,
perché può soddisfare parzialmente al precetto festivo...”).
153
sottolineare l'importanza del giorno festivo e dell'assistenza al sacrificio della Messa
in confronto del modo di presenza (corporeità anziché strumentalità della presenza),
del luogo di celebrazione della Messa (chiesa, oratorio pubblico e semipubblico,
privato, ecc.), nonché del complesso rituale. La determinazione del tempo del culto
e della forma del sacrificio comunque la si concepisca è certamente più importante
del modo di presenza e degli altri elementi. Per conseguenza dovremmo sforzarci di
tener fisso lo sguardo al giorno festivo e al sacrificio della Messa: se non potessimo
santificare il giorno festivo con l'assistenza alla Messa dovremmo farlo in qualche
altra maniera; se non potremo assistere alla Messa in giorno di festa dovremo farlo
in qualche altro giorno. Essendo due piloni assai importanti dovremo conservarli
almeno divisi, se non sarà possibile conservarli congiunti.
Per conseguenza sembra a noi, salvo semper meliori iudicio, che se non si può
assistere alla Messa in giorno di festa nelle forme e nei modi stabiliti dalla Chiesa e si
può assistere in altro giorno sia meglio assistere alla Messa parzialmente o con una
presenza strumentale; e se nemmeno questo è possibile, limitarsi a fare qualche
atto di culto, assistendo invece alla Messa in giorno non festivo; se invece si tratta di
persone che non possono assistere alla Messa nemmeno in altri giorni (perché, per
esempio, obbligati in un letto), ci sembra preferibile assistere alla Messa in giorno
festivo con una presenza non strumentale.
In ogni caso la preoccupazione dovrebbe essere di cercare e di attuare la forma
migliore per santificare la festa anche con l'assistenza al sacrificio e di assistere al
sacrificio in giorno di festa. Non potendo santificare i giorni fissati dalla Chiesa nelle
forme da essa stabilite, cercheremo di avvicinarci sempre più; non potendo
avvicinarci in nessun modo cercheremo di restar fedeli almeno alle determinazioni
del diritto divino; non potendo fare nemmeno questo ci atterremo se non altro alle
indicazioni del diritto naturale, cercando di comporle nel modo migliore possibile.
9. Il fatto poi che l'immolazione di Cristo è fatta in segno della sua e della nostra
totale sottomissione al Padre fa sì che sulla croce e nella Messa ciò che
maggiormente conta e ciò cui si deve soprattutto badare sia l'interna devozione sia
di Cristo, sia nostra. «In sacrifìcio Crucis et Missae valer magìs sumitur ex oblatione
interna
154
Christi quam ex dignitate victimae» 52. «Realismus Missae magis inquirendus est ex
parte oblationis internae perdurantis in mente Christi principalis sacerdotis quam in
immolatione sacramentali guae est in genere signi» 53. E nella Messa noi dobbiamo
cercare di riprodurre in noi i sentimenti ch'Egli ebbe nel momento del suo sacrificio.
Dice l'Enciclica Mediator Dei: «Gesù è vittima, ma per noi, sostituendosi all'uomo
peccatore; ora il detto dell'Apostolo: "abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono
in Cristo Gesù" esige da tutti i cristiani di riprodurre in sé, per quanto è in potere
dell'uomo, lo stesso stato d'animo che aveva il Divin Redentore quando faceva il
sacrificio di sé: l'umile sottomissione dello spirito, cioè, l'adorazione, l'onore, la lode
e il ringraziamento alla somma Maestà di Dio; richiede, inoltre, di riprodurre. in se
stessi le condizioni della vittima; l'abnegazione di sé secondo i precetti del Vangelo,
il volontario e spontaneo esercizio della penitenza, il dolore e l'espiazione dei propri
peccati. Esige in una parola la nostra mistica morte in croce col Cristo, in modo da
poter dire con Paolo: "sono confitto con Cristo in croce”»54. E più avanti: «Perché ...
l'oblazione, con la quale in questo sacrificio i fedeli offrono la vittima divina al Padre
celeste abbia il suo effetto ... è necessario che essi immolino se stessi come vittima»
55. «Né si dimentichino i cristiani di offrire col divin Capo crocifisso se stessi e le loro
preoccupazioni, dolori, angustie, miserie e necessità» 56.
10. È possibile a questo punto dire una parola sui termini «assistere alla Messa»,
«ascoltare la Messa», «dire la Messa», «leggere la Messa», ecc. generalmente usati
sia dai fedeli che dai teologi, sia nel linguaggio popolare che nel linguaggio teologico.
Dopo
_______________
52 R. GARRIGOU-LAGRANGE. O. P., De Eucharistia ..., p. 271.
53 Ibid., p. 272.
54 P. II, par. II.
55 Ibid.
56 Ibid. Si veda anche S. GREGORIO MAGNO, Dial., 1. 4, c. 59, M.L. 77, 428:
«Necesse est ut dum haec (sacra mysteria) agirnus, nosmetipsos Deo in cordis
contritione mactemus; quia qui passionis dominicae mysteria celebramus, debemus
imitari quod agimus. Tunc ergo vere pro nobis hostia erit Deo, cum nos ipsos
hostiam fecerimus».
"La Chiesa non ci domanda solo di assistere alla Messa come ad un sacrificio
compiuto lontano da noi e nel quale la nostra parte sia quella di spettatori e
beneficiari passivi, ma ci chiede di immolarci con lui, incorporandoci con lui nella
Comunione» (A. M. ROGUE, O. P., La messa.,., trad. ital., Edizioni Paoline, Alba 1955,
p. 81).
155
quel che s'è detto nelle pagine precedenti non occorre molta riflessione per capire
che sono assai lontani dal tradurre esattamente l'atteggiamento che dobbiamo
tenere verso la Messa. Essendo essa la continuazione del sacrificio della croce e
attraverso la croce l'attuazione delle aspirazioni più profonde - anzi addirittura
soprannaturali - della ragione relativamente al culto esterno, ossia di quel culto che
completa, significa e alimenta l'interna dedizione a Dio, la Messa non può essere
qualcosa cui si «assiste» come se si trattasse di un fatto o di uno spettacolo, o
qualcosa che «si ascolta» come se si trattasse della lettura di un messaggio, o di una
dizione, o qualcosa che si «legge», ecc. Si tratta invece di qualcosa con cui si rinnova
la profondissima dedizione di Cristo al Padre e con cui si esprime e si alimenta la
devozione nostra. Purtroppo la tendenza all'esteriorismo tanto deleteria nel culto ha
operato anche qui e si è addirittura cristallizzata nelle formole57.
A tale tendenza il cristiano dovrà reagire continuamente, riportando il culto al suo
contenuto più profondo.
________________
57 «La parola assistenza, per sé è impropria: all'atto liturgico tutti partecipano,
agiscono, essendo atto d'offerta fatta per tutti i cristiani al Padre. La S. Messa non è
spettacolo, come un teatro. Perciò si dovrebbe dire, meglio, partecipazione» (G.
CERIANI, La morale di Cristo, II ed., Marzorati, Milano 1946, p. 186, n. 14).
«Molti cristiani ... vengono alla Santa Messa, come pii spettatori di una sacra
rappresentazione, guardano, ascoltano e non aprono bocca. No, non spettatori, ma
attori devono sapere di essere, co-offerenti del sacro sacrificio» (B. FISCHER, Quel
che il catechismo non dice, trad. ital., Morcelliana, Brescia 1956, p. 72 s.).
156
CAPITOLO III

I TEMPI DEL CULTO

Dopo aver indagato sul contenuto del culto (adorazione, ringraziamento, preghiera,
espiazione) e sulle forme in cui dev'essere prestato (forme esterne e forme interne)
ci chiediamo: quando l'uomo è tenuto al culto?
Già in base alla sola riflessione la risposta non è difficile: l'uomo è tenuto al culto
per tutto il tempo per il quale sussistono le radici da cui scaturisce. Come il malato è
tenuto a curarsi per tutto il tempo della malattia, così l'uomo è tenuto al culto per
tutto il tempo per il quale dipende da Dio. Ora da Dio dipende sempre, in ogni
momento. Per conseguenza al culto siamo tenuti sempre.
Si aggiunga a questo il precetto divino: «bisogna pregar sempre senza stancarsi
mai»1.
Senonché l'uomo singolarmente considerato non può dedicare a Dio tutto il suo
tempo nelle forme esterne del culto. Certamente può mantenersi costantemente in
uno stato di devozione e fare ogni momento la volontà di Dio. Ma come può
dedicare a Dio tutto il suo tempo negli atti esterni e nell'offerta del sacrificio? Non
ha da conservare e sviluppare armonicamente tutte le proprie facoltà? Non ha da
signoreggiare il mondo nel lavoro e nell'uso delle cose? Non ha da aiutare gli altri nel
raggiungimento del loro fine? E non richiede questo del tempo, soprattutto in un
mondo come il nostro vulnerato dal peccato originale e permeato dalle sue
conseguenze? 2.
________________
1 Lc 18,1
2 Scrive giustamente il P. DALOS, O. P.: «L'uomo, mettendosi in relazione con Dio, si
trova fra due esigenze opposte. Da una parte la ragione e il senso religioso
157
Fortunatamente ciò che non può fare singolarmente, lo può fare insieme con gli
altri; ciò che non può fare personalmente lo può fare con l'aiuto altrui. Gli uomini
possono mettersi assieme ed aiutarsi anche nel compimento di codesto
importantissimo dovere.
________________
lo mettono in presenza di un assoluto. La maestà divina dell'Assoluto e la
dipendenza radicale della creatura esigerebbero una sua sottomissione senza riserva
e in tutti gli istanti. D'altra parte però c'è un limite che s'impone alle manifestazioni
di questa sottomissione, poiché la dedizione potrebbe divenire totale sul piano delle
intenzioni religiose e del culto interno, ma quando si passa alla sua estrinsecazione
nella vita pratica, si debbono osservare dei limiti. Non è possibile trasformare tutte
le azioni in omaggio esteriore a Dio, così come non si può trasformare tutta la realtà
materiale in testimonianza d'onore dovuta a Lui...
Finora abbiamo parlato del «sacro» nell'ordine dell'essere, ma una considerazione
più particolareggiata ci permette di ritrovare la tensione delle esigenze opposte
anche dal punto di vista del tempo.
L'uomo deve a Dio tutta la durata del suo tempo, perché dipende in ogni istante
dall'influsso conservatore della Causa Prima. Però se nel campo delle intenzioni
religiose e del culto interno si può offrire a Dio tutta la durata della vita con la
decisione di servirlo sempre, nel campo delle manifestazioni esterne e soprattutto
nel culto pubblico e sociale è assolutamente necessario che la specializzazione del
«sacro» intervenga. È impossibile che la vita sia tutta interamente dedicata a un
omaggio religioso esplicito ed esterno e soprattutto alle prestazioni cultuali. Perciò
nella stessa natura dell'uomo è iscritta una legge, che richiede di consacrare in
modo speciale una certa parte del tempo al culto di Dio ... Questa è l'idea
fondamentale dei tempi sacri in generale e da questo nasce il precetto naturale del
tempo sacro» (La domenica nella teologia cattolica, in "L'assistente ecclesiastico»,
21 (1951), p. 33 s.).
«Les théologiens ont remarqué que l'homme, s'il se met en devoir d'entretenir avec
la Divinité des relations justes et vraies, doit se trouver pour ainsi dire écarté entre
deux exigences opposées. D'un còté, sa raison et son sens religieux le mettent en
présence d'un absolu. La majesté infinie du Très-Hauì et la condition unique de celui
qui est..., la dependance radicale de la créature, qui tient de Dieu sans cesse tout ce
qu'elle a et tout ce qu'elle est... voilà qui exigerait une soumission sans réserve et de
tous les instants, de la part de l'homme, créature raisonnable et capable de se
connaitre dépendante. Employerait-il toutes ses activités au service de son
souverain Maitre et lui offriraìt-ìl en hommage tous ses biens, l'homme ne
parviendrait pas encore à se libérer de la moindre partie de sa dette religieuse. Il ne
cesserait pas de tout devoir à son Dieu. Il y a dans la religion une exigence de
totalité, qui est inserite foncièrement dans la nature mème des choses. Et la
révélation surnaturelle ne fait que redoubler cette exigence: connaissant par la foi la
vocation de la créature à l'intimité divine et à l'adoption des. fils en Jésus-Christ, le
chrétien se voit plus radicalement dépendant, plus étroitement tenu à se donner
tout entier au Père qui l'appelle.
Mais de l'autre c6té, une limite s'impose aux manifestations sensibles du culte.
Si le don peut ètre total au pian des intentions religieuses et du culte intérieur, par
l'élan d'une dévotion prete à tout ce que peut exiger le service de Dieu et dans la
ferveur d'une charité qui ne souffre aucun refus, dès qu'on passe au pian de
l'exécution dans la vie pratique et les témoignages extérieurs, des distinctions
s'ìmposent, des degrés doivent s'observer. Il n'est pas possible de transformer toute
réalité matérielle vivante ou non, en témoin de l'honneur qui lui est dù, Cette limite
nécessaire provient d'abord de ce que Dieu a donné le monde à l'homme pour qu'il
en use ...
La tension dont nous venons de parler se retrouve... au point de vue du temps.
L'homme doit à Dieu l'hommage de sa durée toute entière, puisqu'il dépend tota-
158
Ecco allora la soluzione: ognuno dedicherà a Dio personalmente il maggior tempo
possibile; per il resto si affiderà ad altri uomini che lo rappresenteranno ed agiranno
in suo nome 3.
Due capitoli si aprono quindi alla nostra considerazione: dedicare personalmente a
Dio parte del nostro tempo, per il resto farci rappresentare da altri. Il primo è il
capitolo che stiamo trattando; il secondo è quello del sacerdozio e ne parleremo
nelle pagine seguenti. Riprendiamo dunque il cammino dei tempi del culto.
S'è detto che dobbiamo dedicare personalmente a Dio parte del nostro tempo.
Quale precisamente?
Il diritto naturale sembra rispondere nel modo seguente: dobbiamo dedicare a Dio
quei momenti in cui il rapporto creaturale appare più chiaro, quei momenti cioè in
cui tocchiamo più fortemente e con mano il nostro nulla e il tutto di Dio, in cui ci
accorgiamo più chiaramente che tutto ci viene dalla libera volontà di Dio, in cui
constatiamo che senza di Lui non possiamo far nulla, ecc. Vediamo qualche esempio.
Inizio e termine della giornata. Il ciclo diurno rappresenta un pe-
___________
lement, à chaque instant, de l'influx conservateur de la cause première, sans lequel
il retomberant dans le néant. Tout le deroulement de sa vie, encadré et mesuré par
le rythme du temps, appartient à Dieu, comme il est soumis à la motion divine. Et la
vie de la gràce, qui maintient sans cesse l'enfant de Dieu, non seulement dans la
dépendance de son Père céleste dont il reçoit tout, mais dans un contact intime
avec les trois Personnes qui s'offrent à lui comme un objet de contemplation et
d'amour, ne fait qu'accentuer la perpétuité et la constance de l'obligation. Ce n'est
pas seulement en de rares circonstances, c'est tous les jours et à chaque instant,
que nous devrions reconnaìtre, par l'adoration et par l'action de gràces, l'excellence
souveraine de Dieu, sa supreme autorité sur nous et les prévenances
incompréhensibles de son amour. C'est à chaque instant aussi que nous devrions
implorer, par la prière, le secours de sa gràce, dont nous avons un continue! besoin.
Cette fois encore, il faut reconnaìtre qu'au pian de l'intention et de la religion
intérieure, nous pouvons donner à Dieu toute notre vie, notre durée toute entière,
par la volonté de le servir sans cesse. Mais au pian des manifestations extérieures,
et surtout dans le culte public que la communauté cornme telle doit à Dieu, il est
nécessaire que la spécialisation du sacré intervienne... Si toute notre vie est offerte à
Dieu, il est cependant impossible que, en société ou mème en privé, nous la
dépensions toute entière en hommages religieux explicites et en prestations
cultuelles. C'est pourquoi il y a une loi inserite dans la nature mème de I'hornme, qui
lui demande de consacrer spécialement une certaine part de son temps au culte de
Dieu ...» (J. GAILLARD, M. B., Le dimanche, iour sacré, in Le huitième jour ..., pp, 529-
532).
3 Non accetterei quindi facilmente ciò che dice Schilling, ossia che «praecepto quo
monemur, ut semper oremus, satisfacimus servando desiderio caritatis, sive animo
sanctae caritatis et sincerae religionis sive excitanda bona intentione, quae omnia
facit in gloria Dei, quae peccatum fugit et bonum peragit, memor sanctae voluntatis
divinae, cui cogitatio Dei est fons atque caput totius vitae et consensionis»
(Theologia moralis specialis ..., p. 190).
159
riodo per sé completo col suo inizio e il suo tramonto. Per poterlo avvertire
pienamente bisognerebbe che sapessimo sottrarci all'appiattimento prodotto
dall'abitudine: supponiamo che un uomo si presenti nel nostro mondo in un giorno
di sole: la sera il sole declina, scendono le ombre, le cose a poco a poco scompaiono;
l'attività si rallenta e quasi scompare. Si avrebbe l'impressione che il mondo finisce.
E pensiamo all'impressione che proverebbe lo stesso uomo, dopo forse il terrore
della notte, quando la mattina il sole ricompare, le cose a poco a poco riprendono
forme e colori; la vita riprende, ecc. Se si riflette su tutto ciò si vede che il mattino e
la sera sono dei periodi naturali di culto, dei momenti naturali di adorazione, di
ringraziamento di preghiera 4.
Inizio e termine del ciclo lunare. Quello che abbiamo detto del ciclo diurno vale in
un certo senso, per quanto assai più limitatamente, per il ciclo lunare. Anche questo
rappresenta possibilità di azione o ostacoli alla vita. Pensiamo ad un mondo che non
conosce l'illuminazione notturna: una fase o l'altra della luna significa che di notte si
può fare qualcosa o non si può far nulla. Non ce ne siamo - dolorosamente! - accorti
durante l'ultima guerra quando una luna o l'altra poteva significare probabilità di
bombardamenti massicci?
Inizio e termine del ciclo produttivo. Pensiamo alla primavera quando la terra si
mette in moto e freme e si prepara alla nuova produzione; pensiamo all'autunno
quando la terra smobilita dopo aver offerto i suoi frutti...
Inizio e termine del ciclo solare annuale. Pensiamo al giorno più breve dell'anno e al
giorno più lungo e al sole che sale a poco a poco sull'orizzonte e poi declina, per
riprendere di nuovo ogni anno.
«La vita umana dunque non nasce come qualcosa di compiuto, ma come un germe
che si sviluppa nel corso del tempo, attraverso azioni e reazioni, fino a raggiungere
una forma perfetta. Questo sviluppo però non avviene disordinatamente, ma
ubbidisce ad una legge interiore che è quella dei corsi e dei ricorsi, ossia del ritmo»5.
________________
4 Questo ciclo diurno non è scomparso del tutto nemmeno con la caduta
dell'importanza dell'illuminazione naturale dopo l'introduzione della illuminazione
elettrica, essendo legato anche al succedersi del periodo di attività e del periodo di
riposo.
5 R. GUARDINI, Il giorno del Signore ..., in «Humanitas», 3 (1948), p. 1132.
160
il primo e più elementare è quello del giorno e della notte; poi c'è quello della luna,
del ciclo produttivo annuo, del ciclo solare, ecc.
E accanto a questi cicli ricorrenti ci sono tutti gli inizi e le conclusioni estremamente
importanti nella vita di un individuo o di una famiglia o di un popolo: pensiamo ad
una nuova famiglia che si costituisce, ad un bimbo che nasce, ad un parente che
muore, ad una decisione importante da prendere, ad una guerra che non si può
evitare, ecc.
Ecco già un numero notevole di tempi «naturali» del culto. Si può collocare fra essi
il ciclo ebdomadario?
Qualcuno risponde di sì. Scrive ad esempio il Guardini: «La nostra vita non può
reggere a un periodo così lungo come quello che sta fra il giorno e il mese ed ha
bisogno perciò di una nuova ripartizione che si ponga fra quelle due: la settimana.
Essa è determinata dalle leggi degli astri, ma è il prodotto della spirituale energia
dell'uomo e, insieme, delle sue necessità biologiche e psicologiche. Per distinguerla
dal ritmo naturale si potrebbe dirla un ritmo creato dalla civiltà». Non tutti però ne
condividono l'opinione.
Possiamo quindi concludere: il diritto naturale dice che a Dio dobbiamo dedicare
personalmente parte del nostro tempo; suggerisce anche alcuni tempi più adatti,
senza però farne un obbligo rigorosissimo; in particolare non sembra stabilire
l'obbligo di dedicare a Dio un giorno della settimana; tanto meno poi precisa il
giorno da dedicare.
Passiamo ora al diritto rivelato. Sappiamo che per gli Ebrei fino all'avvento del
Messia Dio aveva fissato come tempi di culto alcuni giorni dell'anno (pasqua,
pentecoste, festa dei tabernacoli, ecc.) e nella settimana il sabato. Si tratta però di
una disposizione ormai decaduta. Sappiamo inoltre che con l'avvento del
Cristianesimo si operò a poco a poco - per fermarci al ciclo settimanale - uno
spostamento dal sabato alla domenica. Di che natura è tale spostamento? È anche
di diritto divino? Abbiamo visto nel cap. VI della prima parte che le risposte non
sono del tutto concordi, però che quella che nega essere lo spostamento di diritto
divino è la più probabile. Se ci si pone in questo ordine di idee dobbiamo dire che il
diritto divino non contiene particolari disposizioni circa i tempi
___________________
6 ID. ibid., p. 1132.
161
del culto. Tutto quindi è demandato al diritto della Chiesa. Vediamo dunque che
cosa dice l'attuale legislazione della Chiesa.
Diritto della Chiesa. Secondo l'attuale legislazione sono da dedicarsi al culto: a) tutte
le domeniche, b). le feste della Natività, della Circoncisione, dell'Epifania,
dell'Ascensione, del Corpus Domini, le feste dell'Immacolata Concezione e
dell'Assunzione della Madonna in cielo, la festa di S. Giuseppe, la festa dei SS.
Apostoli Pietro e Paolo e la festa di tutti i Santi7.
Inoltre la Chiesa ha determinato anche il modo di santificare tali giorni. Innanzi
tutto essa obbliga in tali giorni ad offrire il sacrificio della Messa, nel senso che s'è
detto nel capitolo precedente.
Inoltre la Chiesa raccomanda vivamente la partecipazione ai divini uffici anche
pomeridiani. Basta qui richiamare quanto dice Pio XII nell'Enciclica Mediator Dei:
«Nel tempo antico l'assistenza dei fedeli a queste preghiere dell'Ufficio era
maggiore; ma gradatamente diminuì, e, come ora abbiam detto, la loro recita
attualmente è riservata al Clero e ai Religiosi. A rigore di diritto, dunque, nulla è
prescritto ai laici in questa materia; ma è sommamente da desiderare che essi
prendano parte attiva al canto e alla recita della ufficiatura del Vespro, nei giorni
festivi, nella propria parrocchia. Raccomandiamo vivamente, Venerabili Fratelli, a voi
ed ai vostri fedeli, che non cessi questa pia consuetudine e che si richiami
possibilmente in vigore ove fosse scomparsa. Ciò avverrà certamente con frutti
salutari se il Vespro sarà cantato non solo degnamente e decorosamente, ma anche
in maniera da allettare soavemente in vari modi la pietà dei fedeli... La domenica e i
giorni festivi devono essere consacrati... al culto divino col quale si adora Dio e
l'anima si nutre del cibo celeste e sebbene la Chiesa prescriva soltanto che i fedeli si
devono astenere dal lavoro servile e devono assistere al Sacrificio Eucaristico, e non
dia nessun precetto per il culto vespertino, però, oltre i precetti, ci sono anche le sue
insistenti raccoman-
_________________
7 " Dies festi sub praecepto in universa Ecclesia sunt tantum: Omnes et singuli dies
dominici, festa Nativitatis, Circumcisionis, Epiphaniae, Ascensionis et sanctissimi
Corporis Christi, Immaculatae Conceptionis et Assumptionis Almae Genitricis Dei
Mariae, sancti Ioseph eius sponsi, Beatorum Petri et Pauli Apostolorum, Omnium
denique Sanctorum» (can. 1247, § 1).
Non sarà inopportuno ricordare che la Chiesa ha tenuto conto anche delle
indicazioni naturali: per es. la Chiesa ha voluto consacrate in modo particolare alla
preghiera e alla penitenza le settimane vicino all'inizio delle quattro stagioni
(tempora).
162
dazioni e desideri; ciò più ancora è richiesto dal bisogno che tutti hanno di rendersi
propizio il Signore per impetrarne i benefici. L'animo Nostro si rattrista
profondamente, nel vedere come nei nostri tempi il popolo cristiano trascorre il
pomeriggio del giorno festivo; i luoghi dei pubblici spettacoli e dei giochi sono pieni,
mentre le chiese sono meno frequentate di quel che converrebbe. Ma è necessario,
senza dubbio, che tutti si rechino nei nostri templi, per essere istruiti nella verità
della fede cattolica, per cantare le lodi di Dio, per essere arricchiti dal sacerdote con
la benedizione eucaristica e muniti dell'aiuto celeste contro le avversità della vita
presente. Procurino tutti di imparare le formule che vengono cantate nei Vespri, e
cerchino di penetrarne l'intimo significato; sotto l'influsso di queste preghiere,
difatti, sperimenteranno quel che Sant'Agostino affermava di sé: "Quanto piansi fra
inni e cantici, vivamente commosso dal soave canto della tua Chiesa. Quelle voci si
riversarono nelle mie orecchie, stillavano la verità nel mio cuore e mi ardevano
sentimenti di devozione e le lacrime scorrevano e mi facevano bene"»8.
Infine la Chiesa obbliga ad astenersi dai lavori servili, dalle opere
________________
8 Parte III, par. I. Abbiam parlato di proposito di «insistenza perché si assista alle
funzioni religiose pomeridiane e alla predicazione» perché non si può parlare di
obbligo positivo vero e proprio. Ecco ciò che dice il Dublanchy: "a) absence
d'obligation pour l'assistance aux vépres. Plusieurs conciles provinciaux du XVI siècle
mentionnent l'assistance aux vèpres, mais ils se bornent à la recommander aux
fidèles ou à demander qu'elle leur soit recommandée par leurs pasteurs ... Pendant
toute cette période les théologiens ne s'expriment point différemment. Bien rares
sont ceux qui affirment l'obligation de l'assistance aux vèpres; et encore cette
obligation n'estelle, suivant eux, que sub veniali. Au XVI siècle, Azpilcueta enseigne
que de droìr commun personne n'est tenu d'assister aux offices autres que la messe;
on n'est mème point tenu aux vèpres, à moins d'obligation particulière imposée par
un voeu ou par un serment..
b) Absence d'obligation directe pour l'assistence au sermon ou aux instructions
paroissiales. Le Concile de Trente après avoir rappelé aux évèques le grave devoir
qui leur incombe d'instruire leurs diocésains par eux mèmes ou par des prètres de
leur choix et indiqués les jours auxquels la parole de Dieu doit ou peut étre
convenablement annoncée aux fidèles, recommande à l'évèque d'avertir avec soin
son peuple que chacun, autant qu'il peut commodément, est tenu d'assister dans sa
paroisse à la prédication de la parole divine ... Les théologiens de cetre période sont
à peu près unanimes à rejeter toute obligation d'assister à la prédication dominicale
...» (E. DUBLANCHY, Dimanche, in "Dict. de théol. cathol, ", 4, 1346 s.).
Ecco, ad esempio, ciò che dice Sporer: "Tertio praecepto Decalogi modo in Nova
Lege quoad diem, et modum colendi ab Ecclesia determinato, omnes Christifideles,
impedimento cessante legitimo, obligantur sub mortali ad audiendam Missam, et
feriandum, seu abstinendum ab operibus servilibus ... non item ad audiendam
Concionem, Sacram Communionem, ve! Orationes alias publicas» (Theologia moralis
super Decalogum ..., Tr. III, n. 5).
163
giudiziarie e dai pubblici mercati a meno che esistano motivi di necessità fisica o
morale, di pietà o di consuetudine 9.
Coi termini «lavori servili» s'intendono, secondo l'interpretazione comune10, i
lavori che occupano maggiormente il corpo qualunque sia il fine per cui si compiono;
si guarda quindi, secondo l'interpretazione più comune dei moralisti, alla natura del
lavoro e non al fine per cui viene compiuta e ai risultati che produce nell'uomo che
la compie; sono quindi «servili» i lavori dell'agricoltura, dell'industria, del
commercio, ecc. non quelli dell'educazione, dell'insegnamento, della ricreazione,
ecc. Sono quindi proibiti in domenica i lavori dell'agricoltura, dell'industria, ecc. 11.
Con le parole «opere
________________
9 «Festis de praecepto diebus... abstinendum est ab operibus servilibus, actibus
forensibus, itemque, nisi aliud ferant legitimae consuetudines aut peculiaria indulta,
publico mercatu, nundinis, aliisque publicis emptionibus et venditionibus» (can.
1248).
10 Diciamo «secondo l'interpretazione comune» perché il can. 1248 non precisa
affatto che cosa s'intenda con le parole «ab operibus servilibus».
11 «Respondeo opus servile proprie esse illud ad cuius exercitium servos sive
famulos servientes habemus deputatos et in quo artes mechanicae versari solent.
Quod autem opus sit mercenarium, sive quod fiat propter mercedem et Iucrum, non
facit ipsum servile si ex se tale non sit» (I. MARCHENTIUS, Summarium resolutionum
et responsionum ..., E. Caillot, Annecii 1644, p. 52).
«Hinc sequitur ... opera servilia prohiberi, etiamsi gratis, et ob finem honestum, et
sine labore exerceantur. Sicut e contra permitti liberalia, etiamsi exerceantur
propter stipendium et cum defatigatione» (D. VIVA, S. J., Cursus Theol. Mor., II, q. 9,
a. 1, n. 2).
«Opera servilia sunt illa, quae a) potissimum labore corporali perficiuntur, b)
immediate ordinantur ad utilitatem corporis, e) antiquitus a servis fieri solebant..
Valde notandum est pro praxi, opera servilia diiudicanda esse ex fine operis, minime
autem ex fine operantis, neque ex mora temporis neque ex fatigatione coniuncta
cum opere. Ergo opus, quod potissimum labore corporali perficitur et immediate
inservit commodo corporali, non desint esse servile, si fiat recreationis causa, vel
sine remuneratione, vel ex sancto fine, vel per breve tempus» (PRUMMER, Manuale
theologiae moralis, II, n. 488).
«I lavori servili (opera servilia) sono quelle attività che si compiono principalmente
con le energie corporali e per fini materiali. Siffatti lavori sono: arare, seminare,
mietere, raccogliere, ecc.; cucire, fare i mestieri di calzolaio, di sarto, di muratore, di
tipografo, ecc... I lavori servili ... restano proibiti, anche se si fanno gratuitamente,
per ricreazione o per scopi pii" (E. JONE, O. F. M. CAP., Compendio di teologia
morale ..., n. 194).
Per opere servili s'intendono quelle opere «nelle quali prevale il lavoro del corpo»…
«quelle che anticamente solevano farsi dagli schiavi e che nella maggior parte si
compiono con un lavoro fisico e sono destinate a mutare la materia esterna, come le
opere manuali e i lavori di campagna. Queste sono le opere vietate nei giorni di
festa. Si dicono invece opere liberali quelle che solevano compiersi dagli uomini
liberi, che sono piuttosto espressione delle forze dell'animo e riguardano
principalmente il perfezionamento dell'animo stesso, come leggere, suonare, ecc. "
(A. LANZAP. PALAZZINI, Principi di teologia morale, II: Le virtù, Studium, Roma 1954,
p. 87 s.). Cfr. anche degli stessi AA., Theol. Mor., II-I, n. 246, p. 347.
Le opere servili sono quelle che «hanno per fine immediato un bene materiale e
164
forensi» s'intendono «gli atti giudiziali che si compiono con la struttura e la forma
completa del giudizio: le citazioni dei testi, il giuramento, la sentenza. Non è proibito
invece consultare un avvocato, un giudice privatamente» 12.
Diritto italiano. Ricordiamo innanzi tutto che «lo Stato riconosce i giorni festivi
stabiliti dalla Chiesa»13.
Quanto al contenuto la legge civile italiana si occupa dell'astensione dal lavoro e
anche per questo limitatamente alle persone che prestano la loro opera a
dipendenza da terzi14. I punti più importanti sono:
1) Ai lavoratori dipendenti da terzi devono essere concesse ventiquattro ore di
riposo consecutive ogni settimana. Sono eccettuati: «1° le persone addette ai lavori
domestici inerenti alla vita della famiglia; 2° la moglie, i parenti e gli affini non oltre il
terzo grado del datore di lavoro, con lui conviventi ed a suo carico; 3° i lavoratori a
proprio domicilio; 4° il personale preposto alla direzione tecnica od amministrativa
di un'azienda ed avente diretta responsabilità nell'andamento dei servizi; 5° il
personale navigante; 6° il personale addetto alla pastorizia brada; 7° i lavoranti a
compartecipazione compresi i mezzadri ed i coloni parziari; 8° il personale addetto ai
lavori di risicultura in quanto provvedono apposite norme; 9° il personale
direttamente dipendente da aziende esercenti
_________________
si compiono mediante un dispendio di forze fisiche, per. es. zappare ... È da notarsi
che non cessano di essere servili quelle opere che si compiono per distrarsi o per un
pio fine, anche se si fanno gratuitamente. La servilità dipende solo dal fine
dell'opera e non dell'operante» (TEODORO DA TORRE DEL GRECO, O. F. M. CAP.,
Teologia morale ..., n. 187).
«Se è difficile giudicare se un'opera sia servile o no, si stia all'estimazione comune,
la quale può variare da regione a regione" (ID., ibid.).
12 G. CERIANI, La morale di Cristo, Marzorati, Milano 1946, p. 183.
Quanto alle opere servili si sente dire talvolta che si può lavorare sino a due ore
circa senza commettere peccato.
La cosa non è esatta. La verità è solo che sotto le due ore, secondo l'opinione
prevalente fra gli autori, non c'è materia grave. «La materia grave è costituita da
circa due ore di lavoro" (TEODORO DA TORRE DEL GRECO, O. F. M. CAP., Teologia
morale ..., n. 188).
13 Concordato fra la Santa Sede e l'Italia, art. 11.
14 Vedi la Legge 22 febbraio 1934, n. 370 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 17
marzo 1934) con le modificazioni dell'll dicembre 1952, n. 2466, pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale del 3 gennaio 1953.
Il Codice del 1942 non ha che un brevissimo richiamo nell'art. 2109 dove dice: «il
prestatore di lavoro ha diritto ad un giorno di riposo ogni settimana, di regola in
coincidenza con la domenica ...".
165
ferrovie e tramvie pubbliche; 10° il personale addetto ai servizi pubblici esercitati
direttamente dallo Stato» ecc. ecc. (art. 1).
2) «Il riposo di 24 ore consecutive deve essere dato la domenica, salvo le eccezioni
stabilite dagli articoli seguenti» (art. 3).
«Il riposo di 24 ore consecutive può cadere in giorno diverso dalla domenica, e può
essere attuato mediante turni al personale addetto all'esercizio delle seguenti
attività: 1° operazioni industriali per le quali si abbia l'uso di forni a combustione o
ad energia elettrica per l'esercizio di processi caratterizzati dalla continuità della
combustione ed operazioni collegate; 2° operazioni industriali il cui processo debba
in tutto o in parte svolgersi in modo continuativo; 3° industrie di stagione per le
quali si abbiano ragioni di urgenza riguardo alla materia prima o al prodotto dal
punto di vista del loro deterioramento e della loro utilizzazione, comprese le
industrie determinate a norma dell'art. 1, n. 14, per il loro periodo di lavo. razione
eventualmente eccedente i tre mesi, ovvero quando nella stessa azienda e con lo
stesso personale si compiano varie delle suddette industrie con un decorso
complessivo di lavorazione superiore a tre mesi; 4° altre attività per 1~ quali il
funzionamento domenicale corrisponda ad esigenze tecniche od a ragioni di
pubblica utilità ...» (art. 5).
3) «Il riposo di 24 ore consecutive, cada esso in domenica o in un altro giorno della
settimana, deve decorrere da una mezzanotte all'altra, ovvero dall'ora che sarà
stabilita dai contratti collettivi di lavoro o, in mancanza di detti contratti e quando lo
richieda la natura dell'esercizio, dall'ispettorato del lavoro» (art. 3).
4) «Nelle ore e nelle zone in cui il riposo deve essere dato contemporaneamente al
personale addetto a determinate attività, le aziende, nelle quali queste attività si
svolgono debbono rimanere chiuse al pubblico, anche nel caso che sia ammesso in
esse l'impiego di prestatori d'opera per eseguire lavori che non importino rapporti
col pubblico ...» (art. 20).
Per i violatori la legge 22 febbraio 1934 stabiliva le seguenti sanzioni: «l'ammenda
da lire 5 a lire 10 per ogni persona occupata nel lavoro, alla quale la contravvenzione
si riferisce. L'ammenda non può mai essere complessivamente superiore a lire 1000
né inferiore a lire 20 ...» (art. 27).
166
Questo articolo è stato modificato dalla legge 11 dicembre 1952 nel senso che
«chiunque contravvenga ... è punito con l'ammenda da lire 200 a lire 600 per ogni
persona occupata nel lavoro, alla quale la contravvenzione si riferisce. L'ammenda
non può mai essere complessivamente superiore a lire 100.000 né inferiore a lire
800 ...» (art. 1).
Ancora una volta dopo aver accennato ai principali punti di diritto naturale, di
diritto rivelato e di diritto umano ecclesiastico e civile, riprendiamo l'argomento per
approfondirlo ulteriormente.
Anche qui va affermato innanzi tutto che la dedicazione di tempi a Dio fa parte sia
del diritto naturale; sia del diritto rivelato, sia del diritto umano.
Il diritto naturale afferma che dobbiamo dedicare a Dio del tempo; suggerisce quali
tempi dedicare, ma non li impone rigorosamente. Suggerisce l'inizio e il termine dei
cicli naturali, i momenti in cui appare più evidente il rapporto creaturale o il bisogno
di Dio, ma non li impone in modo rigoroso. Tantomeno il diritto naturale determina
le forme con cui santificare detti tempi15.
Nessuna determinazione sembra dare nemmeno il diritto positivo divino16
_________________
15 "Praeceptum de sanctificatione sabbati, litteraliter intellectum, est partim
morale, partim autem caeremoniale. Morale quidem est quantum ad hoc quod
homo deputet aliquod tempus vitae suae ad vacandum divinis» (II-II, q. 122, a. 4 c.).
"Le droit nature! prescrit à l'homme de consacrer au service divin un temps dont la
durée et la fréquence restent indéterminées en dehors de toute prescription
positive» (E. DUBLANCHY, Dimanche, in "Dict. de théol. cathol.», 4, 1309).
Dice bene il Gaillard: "Le précepte nature! du temps sacré a besoin d'ètre
déterminé par une institution positive. Quelle sera en effet la mesure du
prélèvement à accomplir pour la réserve divine? Dieu avait pourvu lui-mème à cette
détermination, dans la révélation mosai'que, en choisissant, pour le réserver et le
sanctifier, le dernier d'une période de sept iours indéfiniment répété. Peu importe
ici de savoir si ce choix était entièrement nouveau, ou bien s'il remettait en vigueur
une prescription divine antérieure ou rnèrne sanctionnait simplement une coutume
humaine. Cet élément positif du troisième commandement était ce que!es
théologiens du moyen-àge appelaient une lai cérémonielle» (Le dimanche, Jour
sacré, in Le huitième iour ..., p, 536).
"Il precetto di santificare le feste è... di diritto naturale, in quanto esige che vi sia
uno spazio di tempo, in cui si dia a Dio il culto pubblico. È di diritto divino positivo, in
quanto comanda una qualche partecipazione al sacrificio della nuova Legge. È di
diritto ecclesiastico, in quanto indica il tempo ed il modo con cui si deve compiere
tale assistenza» (A. LANZA-P. PALAZZINI, Principi di teologia morale, voi. II: Le virtù,
Studium, Roma 1954, p. 85; cfr. anche degli stessi Autori Theol, Mor., II, I, n. 242, p.
341).
16 Vedi quello che abbiam detto nel cap. VI della Parte prima.
167
Determinazioni abbiamo invece nel diritto ecclesiastico.
Nel far questo la Chiesa ha fissato la sua attenzione più sui giorni che sui periodi
della giornata: non ha stabilito ad esempio un quarto d'ora ogni mattina, ma un
giorno la settimana e alcuni giorni nell'anno. Inoltre la Chiesa ha determinato anche
i modi di santificazione.
Poiché la Chiesa ha determinato dei giorni da dedicare al culto non è consentito
trascurare tali giorni e dedicarne a Dio degli altri.
D'altra parte però il fatto che la decisione della Chiesa non fa che determinare un
dovere precedente, stabilito già dal diritto naturale permette di affermare che
quando per un motivo qualsiasi non si possono dedicare a Dio i giorni e i periodi
stabiliti dalla Chiesa bisognerà dedicare altri giorni. Quando cade la determinazione
della Chiesa riprende vigore il diritto naturale con la sua indeterminazione. Non
possiamo quindi accettare che il fatto di non essere tenuti a dedicare a Dio i giorni
fissati dalla Chiesa dispensi totalmente dal dedicare a Dio qualche parte del proprio
tempo. Come abbiamo detto nel capitolo precedente a proposito del sacrificio della
Messa in giorno di festa, la legge della Chiesa non fa che determinare ed applicare
una legge precedente: come non è consentito abbandonare la legge della Chiesa
quando è possibile farlo, così non è consentito ritenersi dispensato da tutto per il
fatto che esistono motivi sufficienti a sottrarre alla determinazione della Chiesa.
Quanto al contenuto del giorno del Signore non bisognerà mai dimenticare ch'esso
è innanzi tutto e soprattutto il culto a Dio. L'astensione dai lavori, quali che essi
siano, non è che una premessa ed un elemento. Non è mai l'elemento più
importante, tanto meno l'elemento unico.
Questo va ricordato tanto più insistentemente in quanto sembra esistere una
tendenza universale e costante a dare più importanza all'astensione dal lavoro che
non al culto di Dio. Quello che è avvenuto, per esempio, nel popolo ebraico è assai
significativo: da giorno di culto il sabato è diventato sempre più giorno di riposo ed il
riposo si è venuto «fariseizzando» sempre più. Lo stesso pericolo incombe anche
sulla domenica: bisognerà quindi aver cura di richiamare di quando in quando
l'importanza prevalente del culto.
Quanto ai lavori da cui astenersi sembra innegabile che qualcosa
168
di anacronistico si trovi nella legislazione ancora attualmente in vigore sia per
l'evoluzione avvenuta nella tecnica del lavoro, sia per i mutamenti avvenuti nel
modo di concepire il lavoro stesso e la gerarchia delle professioni. Molti lavori infatti
che una volta richiedevano grande dispendio di energie fisiche ed erano compiuti da
persone di condizione inferiore prive di qualsiasi formazione professionale e
consistevano quasi unicamente in erogazione di energia fisica, oggi invece
richiedono una notevole formazione professionale e quasi non comportano alcuna
fatica fisica: quanta strada s'è fatta dalla vecchia mietitura compiuta col dorso
curvato sotto il solleone e la mietitura attuale guidando una mietitrebbia-legatrice?
D'altra parte non è forse cambiato parecchio anche nelle professioni liberali?
Si può non tener alcun calcolo di un'evoluzione così profonda?
Si può continuare a parlare della semina come si faceva un tempo? Si può trattare
allo stesso modo l'aratura di prima dell'introduzione della macchina e di dopo?
Riteniamo quindi che qualche mutazione debba o possa utilmente introdursi nella
attuale legislazione o, forse, meglio nell'interpretazione corrente dei lavori servili.
Ma altro è dire questo ed altro è dire quale debba essere la nuova legislazione da
promulgare. Se è facile vedere le lacune e le insufficienze della legislazione attuale,
non è altrettanto facile dire che cosa si deve mettere al suo posto. Se tutti sono
d'accordo nella critica allo ius conditum non tutti sono d'accordo nello ius
condendum. Di tali difficoltà e di tali divergenze bisogna tener calcolo prima di
abbandonare l'interpretazione attuale.
Soprattutto non si ripeterà mai a sufficienza che il compito di abolire la legislazione
attuale e di sostituirne una nuova non è dei fedeli, per quanto dotti e competenti.
L'instaurazione di una nuova legislazione è compito di chi ne ha l'autorità.
Infine altro è dire che qualche mutazione debba essere introdotta ed altro è dire
che l'attuale legislazione non ha più valore. Fin quando una legislazione rimane in
vigore ha valore e deve essere osservata.
Sia consentito infine dire una parola sull'obbligo di recitare le preghiere il mattino e
la sera.
Non esiste né nel diritto naturale, né nel diritto rivelato, né nel
169
diritto ecclesiastico l'obbligo di pregare precisamente all'inizio e al termine della
giornata. Tanto meno esiste l'obbligo di dire determinate preghiere e di dirle al
momento in cui si inizia la giornata e la si chiude.
La pratica però di pregare il mattino e la sera è così corrispondente alle indicazioni
del diritto naturale e così incorporata con le istruzioni dei pastori d'anime che
difficilmente si potrà tralasciare senza mettere in crisi a poco a poco la pratica della
vita cristiana 17.
Si potrà quindi continuare ad insistervi, evitando però di dar l'impressione che
l'omissione occasionale e saltuaria delle preghiere del mattino e della sera
costituisca un peccato grave. Così si ottiene che si rimanga fedeli all'obbligo di
pregare, senza dar origine a coscienze false.
__________________
17 «Omissio precum matutinarum et vespertinarum, mori christiano convenientium,
per se, quia nullum praeceptum violatur, non est peccatum, modo contingat, ut
agatur de singulis casibus, non de proposito aut de motivo vituperabili; sed omissio
crebrior, iam propter periculum neglegentiae accrescentis et propter periculum
saepius peccandi, haud scio an non sit sine culpa. Qui per longum tempus orationem
omittit, laedit officium Dei colendi simulque officium prospiciendi animae suae; qui
eam omittit per plures menses, peccat graviter» (O. SCHILLING, Theologia moralis
specialis ..., n. 309).
Preces matutinas vel vespertinas omittere nullum per se peccatum est, sed
imperfectio, nisi scil. ex causa minus recta id fiat: nulla enim est lex tales preces
praecipiens» (TH. A. JORIO, S. J., Theologia moralis ..., II, n. 10, 2).
«Corrispondono così intimamente alla concezione della vita e alla condotta del vero
Figlio di Dio da far parte ovviamente di essa. Ne segue che il trascurarle non può
avvenire, col passar del tempo, senza danno della vita cristiana e quindi senza
peccato» (F. TILLMAN, Il maestro chiama ..., trad, ital., Morcelliana, Brescia 1940, p.
233).
170

CAPITOLO IV
GLI UOMINI DEL CULTO

Dai capitoli precedenti risulta che l'uomo è tenuto ad adorare, ringraziare, pregare
ed espiare con tutte le facoltà e in ogni momento. Poiché tutto ciò gli uomini non
possono fare singolarmente considerati, si mettono assieme affidando ad alcuni di
fare anche a nome degli altri ciò ch'essi non possono fare.
Codesto gruppo di uomini che attendono al culto anche a nome degli altri vengono
detti sacerdoti.
Già dal diritto naturale dunque consta la necessità che ci siano i sacerdoti e che essi
attendano al culto al posto degli altri uomini.
Il diritto rivelato afferma innanzi tutto che l'intero potere sacerdotale è trasferito a
Cristo. Basta ricordare la lettera di S. Paolo agli Ebrei. Gesù abolisce dunque ogni
forma di sacerdozio naturale ed assume per tutti e per sempre la funzione di
rappresentanza religiosa dell'umanità presso Dio e di Dio presso l'umanità. Inoltre la
rivelazione afferma che Gesù ebbe anche la funzione di Maestro, di santificatore e di
modello degli uomini. Oltre a pregare e ad offrire il sacrificio per tutti noi, ci ha
anche insegnato una dottrina, ha istituito dei mezzi di grazia e si è presentato come
nostro modello invitandoci a seguirlo.
Infine, sempre secondo la rivelazione, Gesù ha scelto un gruppo di persone cui ha
affidato il compito di continuare presso tutti gli uomini la sua funzione di orante e di
oblatore del sacrificio per noi, di maestro, di santificatore e di modello, assistendoli
così che non venissero meno alla propria funzione e impegnando tutti ad accogliere
loro come si deve accogliere Lui,
171
La rivelazione determina quindi i portatori del sacerdozio, ossia Gesù e i suoi
ministri, nonché le loro funzioni: mediatori fra Dio e gli uomini, propositori della
verità rivelata, amministratori dei sacramenti 1.
Il diritto ecclesiastico interviene determinando ulteriormente il modo di accesso al
sacerdozio, le funzioni del sacerdote, la sua posizione di fronte al mondo, ecc.
Vediamo un cenno di codesti punti.
1) La preghiera del sacerdote: secondo l'attuale legislazione della Chiesa «clerici, in
maioribus ordinibus constituti, exceptis iis de quibus in can. 213, 214, tenentur
obligatione quotidie horas canonicas integre recitandi secundum proprios et
probatos liturgicos libros» (can. 135).
Soggetti dell'obbligo sono a) i chierici costituiti negli ordini maggiori, b) i beneficiari
e c) quelli che hanno emesso la professione solenne nelle religioni in cui vige
l'obbligo del coro. «Costituiti negli ordini maggiori» sono quelli che hanno ricevuto
almeno il suddiaconato; l'obbligo decorre dalla parte del breviario corrispondente
all'ora dell'ordinazione2. Beneficiario è colui che gode veramente di un beneficio
ecclesiastico percependone i frutti: questi è così tenuto a recitare l'ufficio divino che
«si, nullo legitimo detentus impedimento, obligationi recitandi horas canonicas non
satisfecerit, fructus pro rata omissionis non facit suos, eosque fabricae ecclesiae aut
Seminario dioecesano tradat vel in pauperes eroget» (can. 1475, § 2). Per i religiosi
l'obbligo decorre dal momento della professione solenne.
________________
1 Per tutto questo vedi ciò che abbiam detto nel cap. IV e V della Parte prima. 2 Si
discute se si possa recitare in antecedenza le ore che si sarà obbligati a recitare in
forza dell'ordine; per esempio, se uno che riceverà il suddiaconato alle 8 del mattino
possa recitare prima di allora le ore da terza in avanti.
Alcuni rispondono di sì. Per es. NOLDIN (De praeceptis, n. 756, 3 b) scrive: «Qui
horas ante ordinationem recital, ad quas recitandas demum post ordinationem
tenetur, obligationi suae satisfacit nec tenetur eas iterum recitare. Etsi enim in
genere verum sit principium: non potest satisfieri praecepto eo tempore, quo
nondum urget, sunt tamen nonnulla praecepta, quae impleri possunt, paulo
antequam urgent, illa nimirum, quae eiusmodi sunt, ut opus praeceptum poni
possit, antequam urget praeceptum».
Altri invece rispondono di no o perché non si può soddisfare ad un obbligo che non
esiste (così per es. Prummer, II, n. 363: «nemo potest satisfacere praecepto eo
tempore, quo illud nondum exsistit; sicuti nec etiam possum hodie recitare officium,
ad quod solummodo crastina die obligor», oppure perché «prius nondum Ecclesiae
nomine, sed qua privatus, officium recitaret» (LANZA-PALAZZINI, Theologia moralis,
II, l, II, 209, p. 485),
172
L'oggetto dell'obbligo è la recitazione quotidiana delle ore canoniche secondo i
propri libri liturgici.
Innanzi tutto la recitazione integrale delle ore canoniche: pecca gravemente chi
omette la recitazione di una parte notevole del breviario, intendendo per «parte
notevole» una parte corrispondente ad un'ora canonica anche breve. Quando si
recita in coro o con un altro basta dire la propria parte ed ascoltare quella dell'altro.
Inoltre la recitazione continuata: non è consentito interrompere le singole parti se
non per ragionevoli motivi. Si tenga presente che mattutino e lodi si considerano
come due ore distinte e quindi si possono separare; altrettanto si dica dei vari
notturni.
Inoltre recitazione ordinata: non si può invertire l'ordine delle parti, a meno che ci
sia un motivo ragionevole.
Inoltre recitazione vocale: non basta scorrere con la vista il testo del breviario; è
necessaria una qualche dizione ed una qualche recitazione per quanto tenue e
sommessa.
Infine recitazione quotidiana: l'obbligo decorre da mezzanotte a mezzanotte. Si
tenga presente che nella recitazione privata del breviario si può seguire sia il tempo
locale (sia vero, sia medio), sia il tempo legale. Inoltre mattutino e lodi si possono
anticipare al pomeriggio del giorno precedente a partire dalle ore 14. Durante la
giornata mattutino e lodi dovrebbero esser recitate prima della Messa; vespero e
compieta dovrebbero esser recitate nel pomeriggio (fa eccezione il tempo di
quaresima in cui il vespero può esser recitato prima di mezzogiorno) 3.
2) L'offerta del sacrificio. La Chiesa ha determinato l'obbligo di offrire il sacrificio. E
precisamente: a) a titolo di sacerdozio si ha l'obbligo di offrire il sacrificio della
Messa alcune volte all'anno preferibilmente nelle grandi solennità4; b) a titolo di
cura d'anime
"Sono note le regole che si danno praticamente per alcuni casi: «In caso di dubbio
fondato se sia stata recitata o no un'ora canonica, non si è obbligati a ripeterla;
tanto meno si è obbligati a ripetere l'intero breviario, se il dubbio si aggira sul modo
di averlo recitato secondo le norme liturgiche o meno. Se per sbaglio si è detto un
altro ufficio invece di quello del giorno, si ha ugualmente soddisfatto al proprio
dovere («offìcium valet pro offìcio»). Se ci si accorge dell'errore durante la recita, si
può continuare con l'ufficio cominciato; tuttavia è meglio prendere il resto
dell'ufficio prescritto («error corrigitur, ubi deprehenditur»). Se, invece, si disse per
es. due volte sesta e si omise nona, rimane ancora l'obbligo di dire ancora nona ...»
(JONE, O. F. M. CAP., Compendio di teologia morale ..., n. 160).
4 Il can. 805 dice: «Sacerdotes omnes obligatione tenentur Sacrum litandi pluries
per annum; curet autern Episcopus vel Superior religiosus ut iidem saltem singulis
173
i pastori d'anime hanno l'obbligo di celebrare e di applicare la Messa per i loro fedeli
tutte le feste di precetto comprese quelle che una volta erano di precetto e che
furono poi soppresse; precisamente: i pastori d'anime dei territori non di missione
debbono applicare, oltre le feste di precetto; le due ferie dopo Pasqua e dopo
Pentecoste, l'Invenzione della Croce, la Purificazione, l'Annunciazione, la Natività
della Madonna, la Dedicazione di S. Michele Arcangelo, la Natività di S. Giovanni
Battista, le feste degli Apostoli, di S. Stefano protomartire, dei Ss. Innocenti, di S.
Lorenzo, di S. Silvestro, S. Anna, la festa di un patrono dello stato e della città. I
pastori d'anime dei territori di missione debbono applicare la Messa per i loro fedeli
almeno nelle feste di Natale, Epifania, San Giuseppe, Pasqua, Ascensione,
Pentecoste, Corpus Domini, Ss. Pietro e Paolo, Assunzione della Madonna,
Ognissanti e Immacolata5. c) A titolo di «stipendio» si ha l'obbligo di dire tante
Sante Messe quante sono le offerte accettate.
3) L'insegnamento religioso. La Chiesa nella sua legislazione ha pure determinato il
dovere di predicare. Per es. «il Codice al can. 1325 afferma che è dovere proprio e
gravissimo, specialmente dei pastori d'anime, di curare l'istruzione catechistica del
popolo cristiano. È affermato il dovere dei pastori d'anime, cioè del Sommo
Pontefice, dei vescovi, dei parroci, dei. superiori religiosi come dovere prevalente,
nei confronti del dovere dei genitori, dei padrini (can. 1535): questo dovere è detto
un dovere loro proprio, un dovere di giustizia in quanto compito pastorale, come già
risulta dal can. 1327, e se ne sottolinea la particolare importanza dicendolo un
dovere gravissimo» 6.
4) Il distacco dal mondo e la consacrazione a Dio. Un altro punto che il diritto
ecclesiastico determina è la segregazione del sacerdote cristiano e la sua
«consacrazione» a Dio.
___________________
diebus dominicis aliisque festis de praecepto divinis operentur». L'espressione
«pluries in annum» viene interpretata solitamente come «tre o quattro volte
all'anno».
5 Nelle singole diocesi si hanno spesso disposizioni particolari. Rimandiamo ai sinodi
diocesani per l'esposizione di tali disposizioni. Per l'ulteriore precisazione
dell'obbligo di offrire il sacrificio a titolo di cura d'anime rimandiamo soprattutto al
can. 339.
6 L. OLDANI, Lineamenti di diritto canonico ..., II, La scuola cattolica, Venegono Inf.
1952, p. 126. Per l'ulteriore sviluppo di questa parte rimandiamo ai trattati di
pastorale.
174
Tale segregazione viene determinata sul piano familiare, sul piano economico, sul
piano politico, militare, abbigliamentale.
Per quanto riguarda u piano familiare abbiamo innanzi tutto il celibato. A tale
riguardo esiste una differenza fra la Chiesa latina e quella orientale. Nella Chiesa
latina «i chierici in sacris non possono contrarre matrimonio e, ordinati dopo il
matrimonio con dispensa della S. Sede, non possono farne uso legittimo (can. 132).
Il coniugato che in buona fede senza dispensa, riceve un ordine sacro, non lo può
esercitare; non consta però che sia privato dell'uso del matrimonio. I chierici in
sacris sono inoltre tutti obbligati alla castità perfetta esterna e interna, cosicché chi
peccasse si renderebbe reo di sacrilegio (can. 132). Chiesa greca: Ai chierici in sacris,
non vescovi, è permesso l'uso del matrimonio legittimamente contratto prima della
ordinazione. Coloro che celibi avessero ricevuto anche solo il primo degli ordini
maggiori non possono in seguito contrarre nozze. Le seconde nozze sono proibite ai
chierici in sacris.
A garantire poi efficacemente la castità clericale la Chiesa ha una rigida legislazione
circa la convivenza e i rapporti dei chierici con donne.
A) Il codice vieta la convivenza Un eadem domo et sub eodem tecto apud se
retineanti e il frequentare persone di altro sesso da cui possa nascere qualche
sospetto (can. 133, § 1). Ciò è prescritto dalla stessa legge naturale ex officio
scandali vitandi. In questa frequentatio sono compresi tutti quei rapporti con donne
che possono creare per i chierici un uguale o maggior pericolo di incontinenza od
anche solo suscitare dei sospetti. La proibizione di ritenere o di trattare con donne
sospette o da cui possa nascere qualche sospetto è assoluta, e quindi vale anche nel
caso di sorelle, cugine, zie (can. 133, § 1).
B) Espressamente il codice invece permette di convivere: a) con quelle donne con le
quali è escluso, per le strette necessità della convivenza sociale, ogni sospetto
(mater, soror, amita, et huiusmodù (can. 133, § 2). b) Con quelle donne in cui ad una
specchiata santità di vita sia congiunta una conveniente maturità di età (can. 133, §
2).
C) L'Ordinario ha amplissima facoltà di determinare nei singoli
175
casi, e quindi è di somma importanza di conoscere la legislazione sinodale» 7.
Sul piano della realtà economica le precisazioni maggiori riguardano A) il possesso
dei beni; B) l'uso dei beni; C) l'attività economico-finanziaria.
A) I chierici e la proprietà dei beni. Il diritto ecclesiastico non proibisce ai chierici di
acquistare e conservare beni materiali, non impone cioè ai chierici la rinuncia alla
proprietà privata. Anzi la prassi in uso consente a più d'uno di farsi una, sia pur
modestissima, proprietà in conseguenza delle stesse prestazioni sacerdotali.
Le vie principali sono due: il beneficio e la corresponsione di emolumenti in
occasione di alcune prestazioni sacerdotali, come ad esempio la celebrazione della
Messa. Quanto all'offerta della Messa, per fermarci un momento ad essa, è noto che
la Chiesa consente che ci sia. Interviene rigorosamente e minutamente per impedire
che si annidi ogni spirito di lucro sia proibendo di ricevere l'offerta quando la Messa
è già dovuta per qualche altro titolo di giustizia, sia proibendo che si percepisca più
di un'offerta al giorno, sia infine avocando all'autorità diocesana la determinazione
dell'offerta con la proibizione di esigere di più. Pur con queste cautele rimane però
sempre vero che la Chiesa consente l'erogazione di modesti compensi economici in
occasione della celebrazione della Messa.
Per tale motivo si distinguono comunemente nei beni del sacerdote almeno tre
gruppi: beni patrimoniali, beni quasi patrimoniali e beni beneficiali. Con
l'espressione beni patrimoniali si intendono comunemente i beni che il chierico
acquista e possiede indipendentemente da qualsiasi titolo di ministero (eredità,
donazioni, lavoro personale, ecc.). Con la seconda espressione si intendono quei
beni che il sacerdote acquista e possiede in conseguenza di sue prestazioni
sacerdotali (celebrazione della S. Messa, ecc.), Con la terza espressione si intendono
i frutti del beneficio ecclesiastico s.
A riguardo della proprietà non si ricorderà mai a sufficienza che
____________________
7 ID., ibid., I, pp. 217-220.
8 Talvolta si parla anche di beni parsimoniali ossia di beni che derivano dalla
parsimonia del chierico: «bona quae... clericus, parcius vivendo, retinet e reditibus
beneficii quos rationabiliter in sustentationem suam impendere potuisset»
(GENICOT, Institut, theol. mor ..., I, n. 475, 4).
176
valgono anche per il sacerdote le osservazioni fatte riguardo alla ricchezza e, in
genere, riguardo al diritto di proprietà. Il sacerdote dovrà anzi essere più rigido,
avendo egli una innegabile funzione di modello come si è detto nella Morale
generale9.
B) I chierici e l'uso dei beni. Quanto all'amministrazione e all'uso dei beni
patrimoniali e quasi patrimoniali nessun obbligo giuridico nuovo è imposto al
sacerdote. Egli deve stare a ciò che la morale dice riguardo all'uso dei beni. Solo si
deve notare che la sua posizione di «modello» impone che lo faccia in modo più
cospicuo, ossia più in fretta, più largamente e più volentieri.
Quanto alla disposizione e all'uso dei beni beneficiali:
a) il beneficiario può e deve amministrarli a norma di diritto (can. 1476, § 1). «Si
negligens aliove modo in culpa fuerit, damna resarcire beneficio debet, atque ad ea
compensanda ab Ordinario loci compellendus est; et, si sit parochus, a paroecia
amoveri poterit ad normam can. 2147 seqq.» (can. 1476, § 2).
b) Le spese ordinarie e le riparazioni ordinarie sono a carico del beneficiato; quelle
straordinarie sono a carico di coloro cui spetta la riparazione della Chiesa beneficiale
(can. 1186), salvo disposizione speciale derivante dalle tavole di fondazione, da
legittime convenzioni o da consuetudini (can. 1477).
c) Il beneficiario può disporre dei frutti del beneficio pro sua honesta sustentatione,
anche quando avesse beni patrimoniali propri. «Onesta sostentazione si dice tutto il
necessario per poter vivere decorosamente secondo la propria condizione
particolare relativa anche. alla esigenza del titolare di un beneficio particolare,
esclusa però ogni ricercatezza, ogni lusso. L'espressione «onesta sostentazione» è
quindi una formula astratta; nella applicazione concreta si dovrà tener conto di tanti
elementi, ad es., della salute precaria del beneficiato, della necessità di un mezzo
veloce di trasporto per un vicario foraneo o per un parroco che avesse frazioni
dislocate dal centro, di una dignità particolare, unita al beneficio che renda necessari
parati e vesti pontificali, ecc.» 10.
Anche a proposito dei frutti del beneficio permane l'obbligo di devolvere il
superfluo ai poveri. Anche tale superfluo dev'essere de-
__________________
9 Vedi p. 140 ss.
10 OLDANI, I. C., II, p. 209.
177
voluto in modo esemplare sia per la condizione di modello del beneficiato, sia per la
natura dei beni. Tale obbligo è stato poi riconfermato espressamente dal can. 1473:
«Beneficiarius ... obligatione ... tenetur impendendi superfluos (fructus) pro
pauperibus, aut causis piis, salvo praescripto can. 239§ 1, n. 19»11. C'è quindi anche
un dovere proveniente dalla legge della Chiesa.
Ed è obbligo grave.
Sulla natura di tale obbligo ci fu qualche dissenso fra gli autori.
Gli antichi, fondandosi su modi di dire di alcuni canoni - per es. che i beni
ecclesiastici sono «patrimonium Christi, patrimonium pauperum» - nonché su
espressioni di alcuni Padri relativamente al diritto di proprietà come semplice diritto
di amministrazione e di uso, inclinarono spesso verso un dovere di giustizia e quindi
affermarono, in caso di mancata devoluzione, l'obbligo di restituire; oggi
comunemente si parla di obbligo derivante dalla legge soprattutto ecclesiastica e
quindi si nega il dovere della restituzione 12.
C) I chierici e l'attività economico-finanziaria. L'attuale legislazione relativa
all'attività economico-finanziaria è contenuta nei canoni 142 (richiamato per i
religiosi nel can. 592 e 679) e nel can. 2380 integrato col decreto della S.
Congregazione del Concilio del 22 marzo 1950.
Il can. 142 dice: «Prohibentur clerici per se vel per alios negotiationem aut
mercaturam exercere sive in propriam sive in aliorum utilitatem». -Il can. 238 dice
che «clerici vel religiosi mercaturam vel negotiationes per se aut per alios
exercentes contra praescriptum canonis 142, congruis poenis pro gravitate culpae
ab Ordinario coerceantur».
Per «negoziazione» o «commercio» si intende nel codice l'acquisto di merci con
l'intenzione di venderle più care. Non Basta quindi l'acquisto di merci per propria o
altrui utilità. Non basta nemmeno la vendita di merci (per es. i frutti dei propri beni
o del beneficio). Non basta nemmeno l'acquisto di merci per altri scopi
_________________
11 L'eccezione ricordata dal can. 239 è quella dei cardinali i quali possono disporre
dei beni beneficiari anche per testamento, tranne la suppellettile sacra (can. 1298).
12 «Sententia verior et multo communior docet illam obligationem oriri tantum ex
lege ecclesiastica et non implicare restitutionem, si neglecta fuerit» (PRUMMER.
Manuale theologiae mor., II, n. 37).
178
e la vendita delle medesime a prezzo più alto. Occorre l'acquisto di merci con
l'intenzione di venderle più care. Non esercita una «negotiatio» nel senso indicato
chi compera merci per il consumo proprio e altrui, chi vende i frutti delle proprie
terre, ecc. Si dice «negotiatio proprie dieta» quando si compera per rivendere a
prezzo più alto senza apportare mutazioni o trasformazioni (commercio
propriamente detto); quando si apportano trasformazioni si ha la «nçgotiatio
artificialis» o impropriamente detta (attività industriale) 13.
Generalmente dunque è vietata l'attività commerciale propriamente detta sia che
venga esercitata personalmente sia che venga esercitata per mezzo d'altri, e
l’attività industriale esercitata per mezzo di persone appositamente assunte a tale
scopo 14.
Comunemente si facevano però - prima del 1950 - due eccezioni: una riguardante il
chierico privo di altri mezzi per l'onesta sostentazione sua e dei suoi; ed una
riguardante il chierico che per titolo legittimo venisse in possesso di un commercio o
di un'industria che non potesse non seguire per qualche tempo senza grave
danno15.
________________
13 Si noti con cura la terminologia. Si dice negotiatio proprie dieta quella che
diremmo attività commerciale; negotiatio improprie dieta quella che diremmo
attività industriale.
Se la cosa che si commercia è merce e non denaro si ha la «mercatura» se è denaro
(valuta, titoli ecc.) si ha la negotiatio argentaria. La mercatura «coarctatur ad
commutationem, ve emptionem-venditionem mercium. Unde negotiatio et
mercatura se habent ad invicem sicut genus ad species» («Monitor ecclesiasticus»,
75 (1950), p. 173).
Si noti inoltre che «Utraque negotiatio, artificialis et proprie dieta, supponit
intentionem lucrandi in ipso momento emptionis rerum» («Monitor ecclesiasticus»,
75 (1950), p. 174). Cfr. anche II-II, q. 77, a. 7 ad 2.
14 «Relate ad leges ecclesiasticas maximi momenti est discrimen inter
immutationem arte vel industria propria facta, et illam quae locum habet per
conductos famulos» (P. M. ABELLAN, S. J., De vetita clericis et religiosis negotiatione,
in «Periodica ... ", 39 (1950), p. 239).
La trasformazione artificiale lucrativa è proibita «siempre que las transformaciones
de los objetos sean efectuadas, no por éllos mismos, sino por criados o jornalieros"
S. ALONSO, O. P., Bolettn de derecho canonico, in «La ciencia tomista" (1950), p.
596.
15 La legislazione del codice «era interpretata comunemente nel senso che era
vietata ai chierici e ai religiosi l'attività commerciale propriamente detta (anche per
mezzo d'altri e a vantaggio d'altri) e l'attività industriale esercitata per mezzo di
persone assunte a tale scopo. Non era proibita l'attività industriale esercitata
personalmente e anche per l'attività commerciale si ammetteva che in caso di
necessità, per provvedere all'onesto sostentamento del chierico e dei suoi, fosse
lecita; si ammetteva pure che un chierico, che per titolo legittimo venisse in
proprietà di un commercio o di una industria, potesse esercitarla per qualche tempo
quando non poteva rinunciarvi senza danno. Per il commercio dei titoli il dissidio
teorico era superato dalla pratica taci-
179
Quanto alle pene per i trasgressori il can. 2380 invitava l'ordinario a intervenire con
pene congrue, senza ulteriori precisazioni.
La legislazione del codice è stata modificata col decreto della S. Congregazione del
Concilio del 22 marzo 1950 pubblicato in «A. A. S.» 42 (1950), pp. 330-331. Il decreto
dice: «Quo firmior et magis uniformis ecclesiastica disciplina hac de re habeatur
atque abusus praecaveantur, Sanctissimus Dominus Noster Pius Pp. XII statuere
dignatus est ut Clerici et Religiosi omnes ritus latini de quibus in canonibus 487-681,
ne exceptis guidem recentium Institutorum saecularium sodalibus, per se vel per
alias, mercaturam seu negotiationem cuiusvis generis, etiam argentariam,
exercentes, sive in propriam sive in aliorum utilitatem, contra praescriptum can.
142, utpote huius criminis rei, excommunicationem latae sententiae Apostolicae
Sedi speciali modo reservatam incurrant et, si casus ferat, degradationis guoque
poena plectantur.
Superiores vero qui eadem delicta, pro munere suo ac facultate non impediverint,
destituendi sunt ab officio et inhabiles declarandi ad quodlibet regiminis et
administrationis munus.
Pro omnibus denique, quorum dolo vel culpae patrata facinora tribuenda sint, firma
semper manet obligatio reparandi damna illa.
Contra quibuscumque non obstantibus”.
Il decreto modifica dunque la parte penale. Ci sono delle pene latae sententiae; nei
casi più gravi si dovrà arrivare fino alla degradazione. Inoltre per i superiori che in
conseguenza di una grave personale negligenza non hanno impedito che il delitto
avesse luogo (la gravità della negligenza sarà valutata relativamente al loro obbligo
personale, alle esigenze della loro carica e ai poteri di cui disponevano) il Decreto
stabilisce la privazione dell'ufficio e la dichiarazione dell'inabilità a ogni carica di
governo e di amministrazione; la pena è però ferendae sententiae. Inoltre estende
tale disposizione anche agli Istituti secolari.
Quanto alla determinazione della proibizione e quindi del delitto non esiste accordo
fra gli autori. Alcuni ritengono che il De-
__________________
tamente ammessa come incensurabile, per cui si ritiene lecito l'acquisto di azioni di
qualsiasi Società industriale o commerciale purché questa abbia la firma giuridica di
Società a responsabilità limitata (anonima) ed il chierico non prenda parte
all'Amministrazione" (G. CAVIGIOLI, Manuale di diritto canonico, S. E. I., Torino
1932, p. 222). L. OLDANI, In margine al decreto sulla «negotiatio" vietata ai chierici,
in "La scuola cattolica", 78 (1950), p. 457.
180
creto abbia abolito le due eccezioni che si ammettevano riguardo al cap. 142 e delle
quali si è parlato sopra, inoltre escluderebbe qualsiasi «negotiatio argentaria» e
perfino lo stesso acquisto di azioni e obbligazioni; infine si avrebbero gli estremi del
delitto non solo nell'esercizio abituale della professione vietata, ma anche in un solo
atto di negoziazione «in gravi quantitate guae matenam gravem constituit» 16.
Secondo altri invece il Decreto non modificherebbe affatto il contenuto della
proibizione dell'art. 142; in particolare nessuna modificazione ci sarebbe nella
compra-vendita di titoli17.
Un altro aspetto della segregazione del sacerdote e della sua consacrazione è il
divieto di esercitare attività militari e politiche.
La proibizione di sollecitare o accettare l'ufficio di deputati o senatori si trova nel
can. 139, § 4 (esteso anche ai religiosi col can. 592 ed alle società senza voti col can.
679, § 1). La proibizione è di sollecitare o accettare senza permesso della S. Sede là
dove vige un divieto; invece è di accettare senza licenza sia dell'ordinario
________________
16 «Monitor ecclesiasticus», 75 (1950), p. 177. Codesto articolo di «Monitor
ecclesiasticus» è il maggior sostenitore della tesi rigida.
17 Difendono questa tesi P. M. ABELLAN, S. J., De vetita clericis negotiatione, in
«Periodica ...», 39 (1950), pp. 231-262; A. GUTIERREZ, C. M. F., De vetita clericis et
religiosis negotiatione seu mercatura, in «Commentarium pro religiosis», 29 (1950),
pp. 183-211; J. CARROL, Trading forbidden to clerics and religious, in «The
Australasian Catholic Record", 28 (1951), pp. 142-148; L. OLDANI, In margine al
Decreto sulla «negotiatio» vietata ai chierici, in «La scuola cattolica», 78 (1950), pp.
457-460.
Gutierrez ritiene però che gli estremi del delitto si trovano anche in un solo atto.
"Videretur, salvo meliori iudicio, mentem et fidem novi Decreti exigere restrictiorem
interpretationem verbi excercere canonis 142; ita, nempe, ut unica operatio,
siquidem ipsa gravis slt seu in notabili quantitate exerceatur, sub Decreto et sub
poena latae sententiae cadat. Et revera finis legis est, non solum clericos ab habitu
negotiandi prohibere qui eos a ministerio proprio valde destraheret, sed praesertim
eos ab immoderata lucri cupiditate avertere ...» (De vetita clericis ..., in
«Commentarium pro religiosis», 29 (1950), p. 209).
In ogni caso il Decretum costituisce certamente una legge nuova che obroga al can.
2380 in quanto stabilisce una nuova norma penale direttamente contraria.
A norma del can. 9 è entrato in vigore il 1 agosto 1950.
Nell'Esortazione «Menti nostrae» Pio XII dice ai sacerdoti: «Vi esortiamo
ardentemente, o fratelli, a non attaccarvi con l'affetto alle cose di questa terra,
transitorie e periture. Prendete ad esempio i grandi Santi degli antichi e nostri
tempi, i quali, unendo il necessario distacco dai beni materiali ad una grandissima
fiducia nella Provvidenza e ad un ardentissimo zelo sacerdotale, hanno compiuto
opere mirabili, confidando unicamente in Dio, il quale non fa mai mancare il
necessario. Anche il Sacerdote, che non fa professione di povertà con particolare
voto, deve essere sempre guidato dallo spirito e dall'amore di questa virtù; amore
che deve dimostrare con la semplicità e la modestia del tenore di vita,
dell'abitazione e nella generosità verso i poveri» (n. 26).
181
proprio sia dell'ordinario del luogo dove deve farsi l'elezione, se non esiste un
divieto speciale.
Per l'Italia occorre tener presente l'art. 43, 2° del Concordato fra la Santa Sede e
l'Italia in cui si proibisce agli ecclesiastici e ai religiosi di iscriversi e di militare in
qualsiasi partito politico.
Per quanto riguarda il servizio militare l'attuale situazione italiana è fissata nell'art.
3 del Concordato fra la Santa Sede e l'Italia. Esso dice: «Gli studenti di teologia,
quelli degli ultimi due anni di propedeutica alla teologia avviati al sacerdozio ed i
novizi degli istituti religiosi possono, a loro richiesta, rinviare, di anno in anno, fino al
ventesimo sesto anno di età l'adempimento degli obblighi del servizio militare. I
chierici ordinati "in sacris " ed i religiosi, che hanno emesso i voti, sono esenti dal
servizio militare, salvo il caso di mobilitazione generale. In tal caso i sacerdoti
passano nelle forze armate dello Stato, ma è loro conservato l'abito ecclesiastico,
affinché esercitino fra le truppe il sacro ministero sotto la giurisdizione ecclesiastica
dell'Ordinario militare ai sensi dell'art. 14. Gli altri chierici o religiosi sono di
preferenza destinati ai servizi sanitari. Tuttavia, anche se siasi disposta la
mobilitazione generale, sono dispensati dal presentarsi alla chiamata i sacerdoti con
cura di anime. Si considerano tali gli Ordinari, i parroci, i vice-parroci o coadiutori, i
vicari ed i sacerdoti stabilmente preposti a rettorie di chiese aperte al pubblico».
Per quanto riguarda l'abito è noto che «per i primi quattro secoli i chierici ebbero la
stessa veste dei laici: quando poi le vesti barbariche più corte e succinte sostituirono
le vesti ampie e maestose dei romani, sembrò conveniente che i chierici non
recedessero dagli antichi vestiti, che maggiormente si confacevano alla loro dignità.
Dalla consuetudine sorse il diritto, confermato da vari sinodi, fin dal sec. VI» 18.
Attualmente il diritto canonico incomincia a stabilire che i chierici portino l'abito
ecclesiastico secondo le consuetudini dei vari posti e le disposizioni degli ordinari di
luogo, portino la tonsura e non eccedano nella cura dei capelli. La Menti nostrae del
23 settembre 1950 rinnova espressamente il divieto di introdurre inno-
_________________
18 P. FELICI, Abito ecclesiastico, in «Dizionario di teologia morale», Studium, Roma
1955, p. 4 s.
182
vazioni di proprio arbitrio19. I chierici minori che senza una causa giusta e senza
licenza depongono l'abito ecclesiastico debbono essere ammoniti dall'ordinario; se
non ubbidiscono, decorso un mese, decadono immediatamente (ipso iure) dallo
stato clericale (can. 136, § 3). I chierici maggiori possono subire pene varie fino alla
deposizione (can. 2379).
Inoltre il codice fa divieto ai non chierici di portare l'abito ecclesiastico ad eccezione
a) degli alunni dei seminari e degli aspiranti agli ordini sacri (can. 683) e b) dei laici
addetti al servizio della chiesa nell'esercizio della loro mansione abid.).
L'art. 29, lett. l) del Concordato dice poi che «l'uso dell'abito ecclesiastico o religioso
da parte di secolari o da parte di ecclesiastici e di religiosi, ai quali sia stato
interdetto con provvedimento definitivo della competente autorità ecclesiastica,
che dovrà a questo fine essere ufficialmente comunicato al Governo italiano, è
vietato e punito con le stesse sanzioni e pene con le quali è vietato e punito l'uso
abusivo della divisa militare» (Parte IV).
Per quanto riguarda la maggior dedizione a Dio basterà ricordare ciò che concerne
la pietà. «Su questa materia è da richiamarsi l'Exhortatio ad clerum di Pio X
dell'agosto 1908, in cui il Papa dopo aver stabilito che la santità è la prima dote della
vita sacerdotale, indica nella preghiera, nella meditazione, nella lettura spirituale,
nell'esame di coscienza, i mezzi della carità e della santità, sottolineando che in
tempi tristi il sacerdote deve splendere di virtù. Di particolare interesse è pure
l'Enciclica Ad catholici sacerdotii di Pio XI, soprattutto nella seconda parte e nella
quarta.
Il codice dapprima impone direttamente agli ordinari di luogo di curare che tutti i
chierici si accostino frequentemente al sacramento della penitenza (can. 125, 1°).
Perciò i vescovi possono con un vero precetto obbligare tutti i chierici maggiori e
minori a confessarsi con una determinata frequenza, esercitando anche un controllo
attraverso l'attestato di confessione. Il Sinodo milanese XLI, all'articolo 32, non con
un vero precetto, ma in forma ottativa, come
___________________
19 Si sarà notato che finora si è parlato di "abito ecclesiastico». Senza entrare nella
questione che cosa s'intende propriamente per "abito ecclesiastico», ci restringiamo
a dire che in Italia e in genere nelle altre parti dell'Europa meridionale per abito
ecclesiastico s'intende la veste talare di color nero.
183
il codice, esorta i sacerdoti alla confessione "semel saltem in hebdomada".
In questo punto non troviamo nessuna prescrizione particolare sulla frequenza alla
SS. Eucaristia; però per i sacerdoti sta il prescritto del can. 805, e per gli altri chierici,
che nella attuale disciplina sono pressoché tutti gli alunni del seminario, oltre la
raccomandazione di comunicarsi frequentemente, comune a tutti i fedeli, c'è il
disposto del can. 1367.
Il codice poi fa espressa cura degli ordinari di procurare che tutti i chierici facciano
ogni giorno, per qualche tempo, la meditazione, la visita al SS. Sacramento, l'esame
di coscienza e recitino il S. Rosario (can. 125, 2°) ...» 20.
Infine la Chiesa ha determinato la formazione e l'assunzione al sacerdozio. E qui
basterà un accenno ai seminari. «In senso tecnico seminario è l'istituzione
diocesana, eretta dalla competente autorità ecclesiastica allo scopo di educare al
sacerdozio quei giovani che vi si sentono chiamati. È evidentemente una persona
morale non collegiale. Ogni diocesi dovrebbe avere il suo seminario; le diocesi
maggiori ne dovrebbero anzi avere due: il seminario minore per gli studi letterari e
scientifici, ed il seminario maggiore per gli studi filosofici e teologici. Dove non fosse
possibile di erigere il seminario o dove, per un complesso di motivi, non fosse
possibile di dare ai chierici una conveniente formazione, soprattutto filosofica e
teologica, il vescovo dovrà mandare i suoi chierici in un altro seminario, a meno che
la S. Sede non abbia provvisto mediante un seminario interdiocesana ...» 21.
Possiamo concludere: sia in base al diritto naturale, sia in base alla rivelazione, sia in
base alla legge della Chiesa è necessario che esistano determinate persone addette
ai compiti religiosi. Sono quelli che si chiamano «sacerdoti».

Avvio all'ulteriore riflessione.

Anche qui vorremmo indugiare un momento per chiarire alcuni concetti e


accennare a qualche conclusione.
________________
20 OLDANI, l. c., I, p. 205 s.
21 OLDANI, l. c., II, p. 141.
184
1. Innanzi tutto il sacerdozio si trova sia nel diritto naturale, sia nel diritto rivelato,
sia nel diritto ecclesiastico.
Nel diritto naturale il sacerdozio è una funzione essenzialmente vicaria,
luogotenenziale, rappresentativa: il sacerdote fa le veci degli altri uomini, ne tiene il
posto e li rappresenta.
L'oggetto di codesta luogotenenza è il culto: il sacerdote rappresenta gli altri uomini
nel campo dei doveri riguardo a Dio; è quindi una professione essenzialmente
cultuale, soprattutto nel sacrificio 22. Al sacerdozio, secondo il diritto naturale
appartiene certamente la funzione di culto, non necessariamente la funzione di
maestro 23. Non già che il compito magisteriale sia escluso: solo diciamo che non è
essenzialmente incluso.
Essendo una funzione vicaria per ciò che gli altri uomini non possono fare ne segue:
A) che gli altri non sono dispensati dall'attendere personalmente al culto nella
misura in cui lo possono fare; B) il sacerdozio dura fin quando i fedeli non potranno
attendere personalmente all'incessante dovere di adorazione, di ringraziamento, di
impetrazione e di espiazione. Può avvenire questo? Sulla terra no; quindi sulla terra
il sacerdozio sarà sempre necessario. Non sarà però lo stesso in cielo. C) I sacerdoti
non si devono trovare nelle stesse condizioni in cui si trovano gli altri uomini,
altrimenti saremmo ancora da capo: dovremmo cercare altre rappresentanze e così
senza fine. Ciò importa che il sacerdote sia in qualche modo staccato dalle
occupazioni abituali degli altri uomini, ossia dagli impegni «profani» e che in qualche
modo gli altri pensino al suo sostentamento. Infine D) per un certo lato le persone
scelte sono indifferenti, per un altro lato sono di grandissima importanza. Per un
certo lato infatti - secondo quello che abbiamo detto parlando
_______________
22 Abbiam detto «soprattutto nel sacrificio" perché il sacerdozio rappresenta
soprattutto sul piano del culto esterno e l'atto precipuo di tale culto è il sacrificio.
Non può infatti propriamente delegarsi ad altri un atto di culto interno; come non si
può delegare ad altri di nutrirsi al nostro posto così non si può devolvere ad altri il
compito di essere devoti in nostra vece; trattandosi di atti interni, del tipo vitale,
non possono essere adempiuti se non dal soggetto stesso. Senza dire poi che quanto
agli atti interni, soprattutto per quanto riguarda la devozione, non occorre la
delegazione ad altri.
23 Di fatto abbiam visto nella parte storica che solitamente questo non fu. «Dato il
carattere ritualistico, o formalistico, delle religioni precristiane, il sacerdote non era
il regolatore delle coscienze, il maestro di una dottrina di vita morale o mistica. Tale
compito fu assunto generalmente dai filosofi" (A. ROMEO, Il sacerdozio
nell'umanità, in Enciclopedia del sacerdozio. p. 298).
185
della vittima nel sacrificio naturale - contano non il rappresentante, ma il
rappresentato: non ha importanza la figura del rappresentante; è come nella
consegna di un dono: importa l'entità del dono e la persona che lo manda, non colui
che fa la consegna. D'altro canto però proprio perché ci rappresenta presso Dio è
ovvio che tendiamo a scegliere la persona più vicina a noi e più gradita a Dio. Lo
vediamo nelle rappresentanze umane: tendiamo sempre a scegliere quello che c'è di
meglio.
Se per una certa parte dobbiamo guardare soprattutto a ciò che, mediante il
sacerdote, offriamo a Dio, dobbiamo anche badare al rappresentante che si sceglie.
Si può mancare sia badando al rappresentante e non al dono che per mezzo suo
presentiamo a Dio, sia al dono e non a colui che a nome nostro lo consegna.
Il diritto naturale dunque non è del tutto indifferente alla scelta della persona. Il
diritto naturale però non precisa le persone cui affidare il compito sacerdotale, i
modi di elezione, la forma di segregazione, ecc. 24. È qui dove interviene il diritto
rivelato. Vediamo qualcosa di esso, tralasciando la rivelazione ebraica.
2. Una prima determinazione del diritto rivelato - come abbiam visto - è l'abolizione
non solo del sacerdozio precedente, ma di qualsiasi altro sacerdozio all'infuori di
Cristo. Egli assorbe in sé tutta la funzione sacerdotale, diventando il sacerdote unico,
per tutti e per sempre.
Una seconda determinazione è nel fatto che Gesù accanto alla funzione di
rappresentanza religiosa, ha anche quella di maestro, di legislatore, di ministro di
grazia, di modello.
Una terza determinazione del diritto rivelato è che Gesù ha assunto un gruppo di
persone cui affida mediante un sacramento in funzione strumentale la
continuazione delle sue funzioni.
Secondo la rivelazione dunque il sacerdote ossia il rappresentante
__________________
24 «Sacerdotium quippe in communi spectatum de iure naturae est, et sicut in statu
naturae purae determinatio sacrifìciorum haberetur ex institutione publica, sed
mere humana, ita determinatio personarurn fungentium sacerdotio esset ex iisdem
naturalibus causis quibus nunc determinatur subiectum potestatis politicae. Verum,
ex quo in religione naturali seu revelata sacrificiorum institutionem Deus sibi
reservavit sacerdotii investituram pariter reservatam esse voluit... Quae quidem
investitura facta est in veteri lege, quando Deus semel pro semper fìlios Aaron
designavit ut in altaris ministerio sibi deservirent; in lege autem nova fit per speciale
sacramentum et collationem sacri characteris ...» (L. BILLOT, S. J., De Ecclesiae
sacramentis ..., I, ed. 7, P. Università Gregoriana, Roma 1932, p. 592).
186
religioso non è un uomo qualsiasi, ma una natura umana del tutto priva di peccato -
sia personale che originale, sia mortale che veniale -, del tutto perfetta per la
presenza in essa di una speciale luce dell'intelligenza, di un particolare dominio della
volontà sulle altre facoltà, dell'anima sul corpo e del composto sulle cose, del tutto
unita a Dio mediante la grazia; soprattutto è una natura umana ipostaticamente
congiunta col Verbo, così che le azioni sue sono del Verbo e quindi hanno una
dignità infinita. Non è questo il posto di approfondire codesti punti: l'averli
accennati è sufficiente per dire che abbiamo il rappresentante più degno: colui che è
vicino a Dio come nessuno, essendo persona divina, e nel tempo stesso è vicino
all'uomo come nessuno essendo addirittura il modello e il capo dell'intera umanità.
Inoltre abbiamo un sacerdote che rappresenta tutti e sempre25. Il fatto che Gesù sia
la creatura umana più bella che sia mai esistita e che possa esistere permette di
capire in che senso e fino a che punto esiste continuità fra il diritto naturale e il
diritto rivelato e in che senso ed a partire da qual punto la continuità cessa.
Nella ricerca infatti dell'uomo più rappresentativo di fronte a Dio è del tutto
comprensibile che l'umanità si sia orientata verso uno che non avesse peccato
alcuno; anzi se avesse potuto pensare all'esistenza di un Uomo-Dio, sarebbe stato
del tutto comprensibile il desiderio di affidare a Lui la rappresentanza religiosa
dell'intera umanità. Ma come pensare che. Dio possa aver assunto la nostra natura e
possa esser divenuto uno di noi? Come pretendere che si renda il nostro
rappresentante presso Dio?
Siamo di fronte dunque a qualcosa che se avvenisse attuerebbe in modo mirabile le
aspirazioni profonde della nostra natura senza che però lo possiamo pretendere;
avremo, d'altra parte, qualcosa di superiore alla natura senza esser estraneo ad
essa.
Il fatto poi che Gesù sia sacerdote per tutti e per sempre fa sì che noi dobbiamo
congiungerci con Lui. Come in tutti gli altri campi il rappresentato deve stare in
contatto col suo rappresentante
____________________
25 «On peut... dire: Auparavant, un sacerdoce imparfait, provisoire, terrestre,
successif et multiple. Maintenant, sacerdoce parfait, définitif, céleste, éternel et
unique. Mieux encore: avant, sacerdotium; maintenant, sacerdos (Hébr, 7, 11) (G.
LONGHASSELMANS, Un Essai théologique sur le sacerdoce catholique, in «Revue des
sciences religieuses», 25 [1951], p. 191).
187
ed il rappresentante deve stare in contatto col suo rappresentato. Poiché Gesù ci
rappresenta tutti presso Dio occorre che noi, per la parte cultuale, siamo uniti a
Cristo e Cristo sia congiunto con noi.
Senonché come può Cristo mantenere visibilmente e sensibilmente il suo contatto
con noi e come possiamo noi metterci continuamente in contatto col sacerdozio di
Gesù?
La difficoltà è stata risolta da Cristo mediante l'assunzione di un gruppo di persone
che lo continua in tutte le sue funzioni e lo rappresenta, agendo in sua virtù e in suo
nome. Sono com'è noto i sacerdoti della Nuova Legge.
3. Sorge così un sacerdozio nuovo: il sacerdozio cristiano. Se ne scorgono subito le
caratteristiche.
Innanzi tutto è un sacerdozio scelto da Cristo, mediante la sua Chiesa, e conferito
mediante il sacramento dell'Ordine26. Il nuovo sacerdozio non è scelto dagli uomini;
nemmeno è assunto di propria iniziativa; ma è scelto da Cristo, mediante la sua
Chiesa. Le parole «Ego elegi vos» non valgono solo per gli apostoli.
Inoltre è un sacerdozio ristretto ad alcune persone ossia gli «ordinati», i consacrati
mediante il sacramento dell'Ordine. Il sacerdozio cristiano non appartiene a tutti, né
può essere rivendicato da tutti. Comunque si debba concepire il «reale sacerdozio»
dei fedeli, è certo che non può essere inteso come potere sacerdotale vero e
proprio.
Questa verità è stata ripetutamente affermata dal Magistero a proposito di certi
modi non esatti di concepire il sacerdozio regale dei laici. Nell'Enciclica Mediator Dei
per esempio Pio XII dice: «Ai soli Apostoli ed a coloro che, dopo di essi, hanno
ricevuto dai loro successori l'imposizione delle mani, è conferita la potestà
sacerdotale, in virtù della quale, come rappresentano davanti al popolo loro affidato
la persona di Gesù Cristo, così rappresentano il popolo davanti a Dio ...» 27. «Perciò
il sacerdozio esterno e visibile di Gesù Cristo si trasmette nella Chiesa non in modo
universale, generico e indeterminato, ma è conferito a individui eletti con la
_______________
26 «Per mezzo di questo Sacro ordine del presbiterato, vengono costituiti i
sacerdoti che Nostro Signore Gesù Cristo, salendo al cielo, ci ha lasciati come suoi
vicari» (G. DE BARROS CÀMARA, Compendio di teologia pastorale, trad. ital., vol. I,
Libreria Editrice dell'Università Gregoriana, Roma 1953, p. 119).
27 P. I, par. III.
188
generazione spirituale dell'Ordine, uno dei sette sacramenti, il quale non solo
conferisce una grazia particolare, propria di questo stato e di questo ufficio, ma
anche un carattere indelebile, che configura i sacri ministri a Gesù Cristo sacerdote,
dimostrandoli adatti a compiere quei legittimi atti di religione con i quali gli uomini
sono santificati e Dio è glorificato, secondo le esigenze della economia
soprannaturale»28.
Inoltre sorge un sacerdozio che non rappresenta direttamente il popolo né emana
direttamente da esso. «Questo sacerdozio» - dice l'Enciclica Mediator Dei - «non ...
risulta per emanazione della comunità cristiana o per deputazione popolare. Prima
di rappresentare il popolo presso Dio, il sacerdote rappresenta il divin Redentore ...»
2.. Mentre il sacerdozio extracristiano è una rappresentanza divina del popolo
presso Dio e di Dio presso il popolo, il sacerdozio cristiano è soprattutto una
rappresentanza di Cristo: con Lui si rappresenta il popolo presso Dio e Dio presso il
popolo.
Inoltre un sacerdozio che ha oltre il potere cultuale anche la funzione di
insegnamento, di legislazione e di ministero. Non tocca a noi qui dirimere la
questione se Gesù abbia allargato le funzioni sacerdotali, oppure abbia aggiunto ad
esse funzioni nuove, se, in altre parole, abbia incluso nel sacerdozio oltre la
rappresentanza religiosa anche la funzione di insegnamento, di amministrazione dei
sacramenti, ecc., oppure se abbia aggiunto alla funzione sacerdotale - ossia alla
funzione di rappresentanza cultuale - la funzione di maestro, ecc. Quello che è certo,
in ogni caso, è che il sacerdote. della Nuova Legge è mandato anche ad insegnare
una dottrina, ad amministrare dei sacramenti, a dare delle norme di vita 30.
Soprattutto un sacerdozio puramente strumentale 31
____________________
28 Ibid. Cfr. anche P. II, par. I I.
29 P. I, par. III.
30 «Prolungare il Cristo significa innanzitutto rappresentare visibilmente la sua sacra
Persona. Come l'umanità del Verbo permetteva alla divinità di esprimersi
visibilmente, localmente e temporalmente, così il Verbo Incarnato glorificato si
manifesta ancor oggi nel tempo e nello spazio travestito, per così dire, nelle persone
che gli sono consacrate» (G. THILS, li clero diocesano, trad. ital., Morcelliana, Brescia
1945, p. 64).
«Recitare il Breviario è altrettanto apostolico quanto predicare o ascoltare le
confessioni: sono tutti atti essenziali alla funzione del ministero» (ID., ibid., p. 21).
31 «Le sacerdoce de Jésus-Christ étant un sacerdoce éternel, qui ne se transmet pas
parce que celui qui le possède est toujours vivant, il suit de là que!es prètres de la loi
nouvelle ne peuvent ètre que!es organes du prètre éternel, mais invisible» (H.
LESETRE, Prétre, in «Dictionnaire de la Bible», 5, c. 661).
189
Il sacerdote vero è Cristo: è lui che rappresenta il popolo presso Dio e Dio presso il
popolo; è lui che insegna; è lui che regge i fedeli; è lui che amministra i sacramenti. Il
sacerdote che predica, che prega. che offre il sacrificio, che legifera, che amministra
i sacramenti non è che uno strumento di lui.
Questa posizione strumentale è stata chiaramente indicata da Giovanni Battista
nella sua risposta a quelli che gli chiedevano se era lui il Messia o se dovevano
aspettare un altro: ad essi egli risponde di non essere che una voce, la «voce di uno
che grida ...».
La funzione strumentale appare chiaramente nell'amministrazione di alcuni
sacramenti. «Questo è il mio corpo» dice Cristo nell'ultima cena. «Questo è il mio
corpo» dice il sacerdote che consacra e non vuol dire evidentemente il suo corpo
personale, il corpo di lui nato in un certo tempo e in un certo luogo, che, per quanto
importante, non ha che poca o nessuna importanza per i fedeli; ma vuol dire il corpo
di Cristo 32
________________
32 G. Long-Hasselmans ha fatto notare, che per indicare che Cristo è l'unico
sacerdote la Chiesa primitiva. ha accuratamente evitato di attribuire ai sacerdoti
questo termine: «Le mot *** en effet ne se trouve pas dans le vocabulaire chrétièn
primitif appliqué aux ministres de l'Eglise.
Pas dans l'Ecriture. - Dans l'Evangile: “... quos et apostolos nominavit ". Dans les
Actes et les Epitres, pas une fois les termes *** sacerdos, pontifex, ne sont
employés en parlant de la hiérarchie chrétienne. Ces termes cependant leur sont
familiers; ils reviennent fréquemment sous la piume des écrivains sacrés pour
désigner les ministres du eulte mosaìque. Dira-t-on que ces mots avaient pris pour
eux une sorte d'affection concrète exclusive? Il n'en est rien, car ils en connaissent le
sens "humain" et parlent des sacerdoces paiens.
Pas chez les Pères apostoliques. - Cependant l'Eglise a des chejs nettement distincts
des fidèles, un *** à part du *** mais ces chefs sont désignés par des mots
profanes, laiques. Ce sont:
*** = le surveillant;
***= l'ainé, l'ancien;
*** = le serviteur, le ministre;
*** = le chef:
*** = le président; praepositus, antistes;
enfin terme collectif *** = ordo ...» (in «Revue des sciences religieuses», 25 (1951),
p. 194).
E Rambaldi dice: «Osservano i critici che, prima della seconda metà del secondo
secolo (fin verso il 150 circa), nella Chiesa i sacerdoti non vengono indicati col
termine greco iereus o con il corrispondente latino sacerdos, I capi della comunità
cristiana son generalmente indicati con i termini: episcopi, presbyteri, Nel Nuovo
Testamento il termine iereus è usato per designare i sacerdoti ebraici e i sacerdoti
pagani. L'astratto ierateuma è applicato da S. Pietro a tutti i cristiani; nella lettera
agli Ebrei, Gesù Cristo viene detto sacerdos magnus (mega iereus), summus
iarchiereus); ma quelli che noi ora designiamo con il nome di sacerdoti non sono
indicati con tale parola (per le citazioni vedi P. ZORELL, Lexikon graecum Novi
Testamenti, sub ***
190
Questa funzione strumentale è stata chiaramente riaffermata per es. da Pio XI
nell'Enciclica Ad catholici sacerdotii (§ 1): «Il sacerdote è ministro di Cristo; è dunque
strumento nelle mani del divin Redentore per la continuazione dell'opera sua
redentrice in tutta la sua mondiale universalità e divina efficacia, per la
continuazione di quell'opera mirabile che trasformò il mondo; anzi il sacerdote,
come bene a ragione si suol dire, è davvero alter Christus, perché continua in
qualche modo Gesù Cristo stesso».
Questa posizione strumentale del sacerdozio cristiano permette di cogliere gli
aspetti veri e gli aspetti falsi della posizione protestante. Quella posizione ha visto
bene che il sacerdote vero è solo Cristo, è Lui che continua a rappresentarci presso il
Padre ed a rappresentare il Padre presso di noi, è Lui che continua a consacrare, a
battezzare, ad assolvere, ecc. I sacerdoti suoi non sono che strumenti. Non ha visto
che proprio perché strumenti non sono un ostacolo che impedisce a Cristo di
continuare ad esercitare le
__________________
per le asserzioni cfr. K. PRUMM, Christentum als Neuheitserlebnis, cap, XVI, Friburgo
1939, pp, 326-327; J. JUNGMANN, Die Stellung Christi im liturgischen Gebet,
Muenster 1925, pp. 128 s.). Nella prima lettera ai cristiani di Corinto che erano divisi
in partiti e fazioni, S. Paolo chiama sé e gli apostoli ministri e dispensatori di Gesù
Cristo (1Cor. 4, 1). Uperétas, che significava rematore, è passato a indicare tutti
quelli che lavorano in sottordine al servizio d'altri. Oikonomos è l'amministratore, il
gerente, e appartiene a quella categoria di servitori, ai quali è affidata
l'amministrazione della casa e la soprintendenza sugli schiavi.
Non è certo da attribuire al caso che gli scrittori agiografici del Nuovo Testamento
abbiano usato, per esprimere il loro pensiero, una terminologia piuttosto che
un'altra. La serietà degli scrittori e l'ispirazione sacra non permettono una ipotesi,
che, del resto, sarebbe offensiva per ogni scrittore. E neppure è da appellare al caso
quando si studiano gli scritti dei primi anni della Chiesa. Se i primi scrittori cristiani
hanno evitato di indicare i loro sacerdoti, cioè i sacerdoti cattolici, col termine che
indicava i sacerdoti pagani, è perché erano a conoscenza della profonda differenza
che corre tra i due sacerdozi, quello cristiano e quello pagano. Non vollero usare il
termine solito a designare i sacerdoti pagani, perché non volevano confondere il
sacerdote cristiano con quello pagano. Si evitò l'identità del vocabolo perché diversa
è la realtà che esso doveva esprimere. Il sacerdote pagano era considerato
mediatore tra gli uomini e la divinità in forza della sua personale condizione e
dignità. Gli atti cultuali da lui posti erano suoi, non di Dio, erano efficaci per quello
che avevano da lui, non per quello che avevano da Dio. Nella religione cristiana,
invece, mediatore fra Dio e gli uomini è solo Gesù Cristo: "uno solo è il mediatore fra
Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù" (1Tim. 2, 5). L'attività di Gesù dura per tutti i
tempi. Egli non ha successori, ha solo dei rappresentanti, i sacerdoti cristiani, i quali
sono sacerdoti appunto perché il sacramento dell'Ordine li ha resi capaci di agire in
nome e per autorità di Gesù. Se pertanto il sacerdote cristiano viene detto
mediatore - ed è realmente tale - egli è mediatore in un senso profondamente
diverso dal sacerdote pagano e dal sacerdote ebraico. Il sacerdote è mediatore tra
Dio e gli uomini perché è legato di Gesù Cristo» (G. RAMBALDI, S. J., Ministri di Cristo
e membra del suo corpo mistico, in «La civiltà cattolica» (1951, III), pp. 61-63).
191
sue funzioni sacerdotali e a noi di metterci in contatto con Cristo, ma ciò per mezzo
di cui Cristo continua ad esercitare visibilmente le sue funzioni, ciò per mezzo di cui
noi possiamo giungere sensibilmente a Cristo 33.
4. Se guardiamo ora alle determinazioni apportate dalla Chiesa alla figura del
sacerdozio cristiano, ai doveri che gli incombono, alla segregazione che deve avere
dal mondo e alla consacrazione che deve coltivare con Dio, al modo di preparazione,
ecc. è ovvio che non tutto sia perfetto e che non tutto sia adatto al nostro tempo.
Certe determinazioni sono sorte in altri tempi e altre situazioni storiche e ambientali
e proprio perché adatte a tali situazioni sono meno adatte per la nostra.
Si può quindi facilmente capire e facilmente concedere che qualcosa possa e debba
essere mutato.
Ma dovrà esser chiaro, soprattutto dopo quanto abbiamo detto nella Morale
Generale e nella parte precedente di questo stesso volume, che:
A) Le mutazioni devono tendere a instaurare delle forme che permettano al
sacerdote di corrispondere sempre meglio alla sua funzione di continuazione di
Cristo e di rappresentanza insieme con Lui dell'umanità presso Dio. Per fare qualche
esempio: la mutazione della preghiera del sacerdote dovrà metterlo in grado di
pregare in modo più adatto, non di pregare meno, di pregare meglio, non di pregare
poco; le mutazioni eventuali nell'abito dovranno permettergli di essere più la
salvezza del mondo e non invece di essere maggiormente del mondo. Una
mutazione che non tenesse conto di codesti criteri non sarebbe un progresso, ma un
regresso.
B) Le mutazioni sono di spettanza dell'autorità della Chiesa.
Lo studioso potrà far vedere che cosa c'è di positivo e che cosa c'è di negativo nelle
forme che il passato ci ha tramandato; potrà anche suggerire le forme più adatte al
nostro tempo; non potrà in nessun modo abolire le prime e imporre le seconde.
__________________
33 «Essendo strumento di Cristo il sacerdote deve crearsi una mentalità di
intermediario dipendente e sottomesso; deve cercare di divenire flessibile nelle
mani del divino artista, di rendere malleabile l'intelligenza perché si conformi
rapidamente ai dati della fede, di rendere docili i suoi affetti alle ispirazioni dello
spirito» (G. THILS, Il clero diocesano, Morcelliana, Brescia 1945, p. 67).
192
C) Fin quando la Chiesa non ha preso una decisione le forme attuali conservano
tutto il loro valore.
5. Comunque, a conclusione di questo capitolo sul sacerdozio, risulta chiaro che
accanto al culto esercitato in nome proprio c'è anche un culto esercitato in nome e
per conto della comunità.
Il primo culto si chiama privato, il secondo si dice pubblico.
Si noti bene quindi il concetto di culto privato e di culto pubblico.
Esso non vuol dire propriamente parlando un culto esercitato senza la presenza di
persone o alla presenza degli altri, ma culto esercitato in nome proprio o in nome e
per conto dell'intera collettività 34. È pubblico tutto quel culto e solo quel culto che
si esercita dal sacerdote in nome della Chiesa.
Il culto pubblico poi non è altro che la liturgia 35. Essa è «per-
____________________
34 «Cultus, si deferatur nomine Ecclesiae a personis legitime ad hoc deputatis et
per actus ex Ecclesiae institutione Deo, Sanctis ac Beatis tantum exhibendos, dicitur
publicus, sin minus, privatus» (Can. 1256). Dicono A. Lanza e P. Palazzini: «Il culto
può essere pubblico (fatto ufficialmente in nome della collettività religiosa) o privato
(individuale o di gruppi che non rappresentano la comunanza religiosa come tale)
(cfr. can. 1256). Il culto pubblico però può essere esplicato privatamente (senza
l'assistenza della comunità religiosa o senza la sua partecipazione diretta). Il
sacerdote per es. che celebra la S. Messa col solo inserviente, o recita il breviario
solo, nella sua stanza, esplica culto pubblico» (Principi di teologia morale, vol. II: Le
virtù, Studium, Roma 1954, p. 69).
35 «Liturgia, giusta il senso etimologico (da *** = publicum opus, munus,
ministerium) e nell'uso corrente dei classici greci, implica il concetto di una opera
pubblica, intrapresa per il bene e nell'interesse di tutti i cittadini.
Presso le città greche, e specialmente in Atene, coloro che possedevano un censo
superiore a tre talenti erano per turno incaricati, sia in pace che in guerra, di un
complesso di svariate prestazioni; le quali, mentre riuscivano, per chi ne era
investito, di onere e insieme di onore, ridondavano a vantaggio di tutti i cittadini.
Tali erano, ad esempio, l'organizzazione d'una festa pubblica, la rappresentanza
ufficiale della città ai grandi giuochi nazionali; i consulti ufficiali all'oracolo di Delfo,
ecc.
In seguito, il termine *** dal concetto di un servizio compiuto verso e a pro della
collettività, passò a designare l'insieme dei servizi costituenti il culto agli Dei. Però, in
quest'ultimo significato, l'opera di interesse comune non è più a carico dell'individuo
privato, ma di tutti i cittadini. Aristotele scriveva al riguardo: Le spese destinate al
culto degli Dei sono comuni a tutte le città. È necessario adunque che una parte dei
proventi del demanio pubblico serva a pagare le spese del culto agli Dei.
È in questo senso essenzialmente religioso che i LXX introdussero nella versione
della Bibbia i termini *** per indicare cioè il ministero sacro che i sacerdoti ed i leviti
dovevano disimpegnare presso il Tabernacolo a nome e a favore del popolo ... Nel
Nuovo Testamento il termine *** non solo continua ad essere usato per indicare il
servizio dei sacerdoti nel Tempio, ma designa ancora gli atti dell'eterno sacerdozio di
Cristo, ben più eccellente del sacerdozio levitico, nonché il servizio eucaristico della
nuova Legge ...» (M. RIGHETTI, Storia liturgica, I, p. 2 s.).
193
tanto il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre come Capo della
Chiesa, ed è il culto che la società dei fedeli rende al suo Capo e, per mezzo di Lui,
all'Eterno Padre; è, per dirla in breve, il culto integrale del Corpo mistico di Gesù
Cristo, cioè del Capo e delle sue membra» 36; essa non è altro che «l'esercizio del
sacerdozio di Cristo», «sempre in atto nella successione dei tempi»37. «La Chiesa» -
dice ancora l'Enc. Mediator Dei - «continua l'ufficio sacerdotale dì Gesù Cristo
soprattutto con la Sacra Liturgia. Ciò fa in primo luogo all'altare, dove il sacrificio
della Croce è perpetuamente rappresentato e, con la sola differenza del modo di
offrire, rinnovato; poi con i Sacramenti che sono particolari strumenti per mezzo dei
quali gli uomini partecipano alla vita soprannaturale; infine col quotidiano tributo di
lodi offerto a Dio Ottimo Massimo»38.
6. Non dovrebbe esser difficile, a partir da ciò che fu detto, fissare i punti di una
«spiritualità sacerdotale». Sostanzialmente essa consisterà in una profondissima
unione a Gesù-sacerdote, così da essere veramente la «continuazione» di Cristo.
Non basterà per il sacerdote imitare Gesù Cristo, dovrà sforzarsi di unirsi assai
intimamente a Lui.
________________
36 Enc. Mediator Dei, p. I, par. I.
37 Ibid.
38 Introd. Senza entrare qui in tutti i problemi relativi alla liturgia ci limitiamo a
ricordare con l'Erre. Mediator Dei che «poiché la sacra Liturgia è compiuta
soprattutto dai sacerdoti in nome della Chiesa, la sua organizzazione, il suo
regolamento e la sua forma non possono che dipendere dall'autorità della Chiesa.
Questa è non soltanto una conseguenza della natura stessa del culto cristiano, ma è
anche confermata dalle testimonianze della storia» (Enc. Mediator Dei, p. I, par. III).
194
CAPITOLO V

I LUOGHI DEL CULTO

Rimane da dire ora qualcosa dei luoghi del culto: dove adorare?
Dove ringraziare? Dove pregare? Dove offrire il Sacrificio?
Nessuna particolare indicazione sembrano dare al riguardo il diritto naturale e il
diritto positivo divino, almeno per noi, dal momento che le determinazioni
contenute nel Vecchio Testamento relativamente al Tabernacolo e al Tempio sono
ormai decadute: esse valevano solo per gli Ebrei ed anche per loro solo fino alla
venuta di Cristo. Nel Vangelo poi abbiamo indicazioni assai vaghe. In Matt. 6, 5-6 si
dice: «quando pregate non fate come gli ipocriti, i quali hanno piacere di pregare in
piedi nelle sinagoghe o sugli angoli delle piazze, per esser veduti dagli uomini. In
verità, vi dico, han già ricevuto la loro ricompensa. Ma tu, quando vuoi pregare,
entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo che è nel segreto; e il
Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa». Inoltre dobbiamo
ricordare la risposta di Gesù alla Samaritana secondo la quale «è venuta l'ora, in cui
né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete più il Padre... È venuta l'ora ed è
questa in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, ché tali sono
appunto gli adoratori che il Padre domanda» 1.
Sull'indeterminazione del diritto naturale e rivelato è intervenuta la Chiesa con la
sua legislazione. Secondo questa il luogo precipuo del culto pubblico è la chiesa
benedetta o consacrata. Si distingue
________________
1 Giov.4, 21-23.
195
la chiesa, l'oratorio pubblico, l'oratorio semipubblico, e l'oratorio privato.
La chiesa è l'edificio dedicato al culto divino e destinato a tutti i fedeli. L'oratorio è
l'edificio dedicato al culto divino e non destinato a tutti i fedeli. È pubblico se è
eretto a vantaggio di un collegio o di privati. ma è concesso ai fedeli di entrarvi
liberamente almeno durante le sacre funzioni. È semipubblico quando ai fedeli non
è libero di entrarci. È privato se è eretto in case private a vantaggio esclusivo di una
famiglia o di una persona privata 2.
In base alla loro importanza poi le chiese si distinguono in basiliche, cattedrali,
collegiate, parrocchiali, succursali.
«1° Basilica è il titolo riservato alle chiese più insigni; questo titolo può competere o
per consuetudine o per privilegio apostolico. La consuetudine e il privilegio
apostolico determinano poi anche i diritti particolari (can. 1180). Le basiliche si
distinguono in maggiori e minori. Basiliche maggiori sono le basiliche patriarcali di
San Giovanni in Laterano. di S. Pietro in Vaticano, di S. Paolo fuori le mura e di S.
Maria Maggiore; S. Lorenzo al Campo Verano è pure considerata basilica patriarcale.
È difficile catalogare i loro diritti e privilegi perché la documentazione andò perduta,
per molti casi, e poi perché essi non sono a tutte comuni. Al grado di basiliche
patriarcali sono state elevate le basiliche di S. Francesco e di S. Maria degli Angeli in
Assisi che hanno l'altare papale come le basiliche patriarcali romane. Basiliche
minori sono otto chiese dell'Urbe ed altre nella cristianità che ne hanno il privilegio;
hanno come distintivo il conopeo, il campanello, la cappa magna.
2° Cattedrali sono le chiese principali delle singole diocesi dove il vescovo ha
costantemente il trono (cattedra). Queste possono es-
__________________
2 «Ecclesiae nomine intelligitur aedes sacra divino cultui dedicata eum potissimum
in finem ut omnibus Christifidelibus usui sit ad divinum cultum publice exercendum»
(can. 1161).
«§ I. Oratorium est locus divino cultui destinatus, non tamen eo potissimum fine ut
universo fidelium populo usui sit ad religionem publice colendam.
§ 2. Est vero oratorium:
1° Publicum, si praecipue erectum sit in commodum alicuius collegii aut etiam
privatorum, ita tamen ut omnibus fidelibus, tempore saltem divinorum officiorum,
ius sit, legitime comprobatum, illud adeundi;
2° Semi-publicum, si in commodum alicuius communitatis vel coetus fidelium eo
convenientium erectum sit, neque liberum cuique sit illud adire;
3° Privatum seu domesucum, si in privatis aedibus in commodum alicuius tantum
familiae vel personae privatae erectum sit» (can. 1188).
196
sere patriarcali, primaziali, metropolitane, episcopali, prelatizie, abbaziali, secondo il
diverso grado di giurisdizione del prelato che le occupa.
3° Collegiate sono le chiese dove è eretto un capitolo non cattedrale; possono
essere insigni e perinsigni.
4° Parrocchiale è la chiesa principale della parrocchia (can. 216, § 1); le chiese
parrocchiali possono essere matrici e filiali.
5° Succursali sono le chiese annesse alla chiesa parrocchiale per un più conveniente
esercizio della cura d'anime.
Altri nomi di secondaria importanza sono quelli di chiesa curata, battesimale,
regolare, religiosa»3.
Per la costruzione di chiese l'attuale legislazione vuole che siano rispettate le regole
proprie dell'arte sacra, tenendo presenti la tradizione e la sana modernità, secondo i
principi del Codice di Diritto canonico e le norme date da Pio XI 4.
Prima che sia aperta al culto la chiesa deve essere consacrata o almeno benedetta5.
_____________________________
3 L. OLDANI, Lineamenti di diritto canonico, vol. II, La scuola cattolica, Venegono Inf.
1952, p. 15 ss.
4 Cfr. can. 1162, §§ 2-3; can. 1164; cfr. anche "Acta Apostolicae Sedis», 24 (1932), p.
356 s.
5 Non occorre che ricordiamo che «in questa materia è da tenere presente la
distinzione tra luogo sacro, luogo religioso e luogo pio. Luogo sacro è il luogo
benedetto o consacrato e quindi dedicato al culto divino. Luogo religioso è il luogo o
la casa deputata dall'autorità ecclesiastica ad opere di pietà e di carità corporale o
spirituale (seminario, monastero). Luogo pio è il luogo destinato dalla privata.
volontà dei fedeli, quindi non dedicato, non eretto ad uno scopo di religione, di
pietà, di carità» (L. OLDANI, Lineamenti di diritto canonico, vol. II, La scuola cattolica,
Venegono Inf. 1952, p. 15).
197

CAPITOLO VI
IL CULTO AL PADRE, AL FIGLIO E ALLO SPIRITO SANTO

Nelle pagine precedenti si è parlato di Dio e dell'atteggiamento da assumere di


fronte a Lui come se fosse una persona sola.
In realtà non è così: sappiamo dalla rivelazione che in Dio esistono tre persone
uguali e distinte: Padre, Figliuolo e Spirito Santo.
Si pone allora un altro problema: che atteggiamento dobbiamo assumere di fronte
alle singole persone? Come dobbiamo comportarci di fronte al Padre, di fronte al
Figlio e di fronte allo Spirito Santo? Quando facciamo bene? Quando facciamo male?
1.
La semplice riflessione sui dati dogmatici ci dice che, essendo il Padre, il Figlio e lo
Spirito Santo tre persone distinte (anche se uguali), meritano un culto distinto.
Possiamo e dobbiamo adorare distintamente il Padre in quanto tale, il Figlio in
quanto tale e lo Spirito Santo in quanto tale.
La stessa affermazione si trova nel Magistero della Chiesa e nell'insegnamento dei
teologi.
Per il primo basta ricordare il can. 1225 dove si afferma che «Sanctissimae Trinitati,
singulis eiusdem Personis ..., debetur cultus latriae». Pio IX nell'Enciclica Quanta
cura, verso la fine, dice: «Giudicammo di eccitare la devozione di tutti i fedeli,
affinché in-
_____________________
1 Su questo capitolo vedi, oltre la bibliografia del Saggio a conclusione del volume,
anche R. GUARDINI, Introduzione alla preghiera, trad. ital., Morcelliana, Brescia-
1948, pp. 98-106.
198
sieme con noi e con voi, con ferventissime ed umilissime preci preghino e
supplichino senza intermissione il clementissimo Padre dei lumi e delle misericordie;
e nella pienezza della fede sempre ricorrano al Signor Nostro Gesù Cristo, che ci
redense e Dio nel sangue suo ...” 2.
Quanto ai teologi poi, Suarez, per esempio scrive: «Dicimus ... licitum esse loqui
specialiter in oratione cum una persona, non dirigendo locutionem ad alias, ex
propria et formali intentione orantis. Hoc probat usus Ecclesiae. Et ratio est, quia
illae personae vere sunt distinctae, et quatenus a nobis confuse et abstracte
cognoscuntur, possumus cogitare de una, non cogitando actu de aliis. Rursus
unaquaeque per se spectata est verus Deus; ergo possumus ab unaquaque
singillatim petere tanquam a vero Deo, et hoc facit Ecclesia in litania; et fortasse id
facit ad profitendum hanc fidem de distinctione personarum, ... ut autem
profiteatur omnes esse eundem Deum, subiungit: Sancta Trinitas unus Deus,
miserere nobis. Eodem modo possumus et nos ore et mente orare»3. E il Glorieux:
«I nostri rapporti sono diretti e personali. Essi raggiungono sempre le persone, l'una
o l'altra, o tutte e tre. È dunque legittima una devozione come quella di Suor
Elisabetta della Trinità» 4. E il Piolanti: «La devozione particolare all'Eterno Padre
deve ritenersi lecita, anzi molti teologi hanno rilevato motivi e argomenti che ne
illustrano la legittimità e la convenienza” 5.
Possiamo quindi concludere: un culto distinto al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo è
lecito e doveroso.
Se passiamo ora dal problema del culto in genere al problema del culto esterno,
dobbiamo dire che l'attribuzione di un culto esterno distinto alle singole Persone
divine è legittima e necessaria,
____________________
2 Cit. in GIORDANI, Le encicliche sociali dei Papi, p. 12.
3 De Religione, tr. 4, l. 1, c. 9, n. 13.
4 P. GLORIEUX, Introduzione allo studio del domma, tra d. ital., Edizioni Paoline, Alba
1951, p. 87.
5 Sulla devozione al Padre Eterno, in «Euntes docete", 3 (1950), p. 259.
«Deo totique Sanctissimae Trinitati, ac cuilibet Personae Divinae, debetur cultus
latriae. lta certa et indubitata omnium Catholicorum: cum qualibet Persona divina sit
Deus; Deo autem propter supremam suam in omnes excellentiam deberi cultum
latriae, patet ex ipsa huius nominis explicatione iam posita.
Tres Personae divinae una adoratione sunt adorandae, non quidem sic hoc
intelligendo, quasi una non possit distincte ab aliis adorari, sed sic, quod aliae duae
explicite non excludantur» (A. REIFENSTUEL, O. F. M., Theol. mor., tr. 5, d. 1, q. 3,
concl. 2 e 3).
199
per tutti i motivi per cui abbiam detto legittimo e necessario il culto esterno
attribuito a Dio, e con le stesse osservazioni. È vero pure qui che colui che deve
attribuire il culto consta anche di corpo e che - secondo la legge del «tutto o nulla» -
l'interno tende a tradursi nell'esterno ed a generare e alimentare l'interno. Anche
qui va raccomandata la cautela perché l'esterno non prenda il sopravvento
sull'interno così da sfuggire a quel pericolo di «fossilizzazione» o di
«cadaverizzazione» cui soggiacquero tanto spesso le manifestazioni del culto.
In più qui sarà da raccomandare una cautela ulteriore: che si eviti tutto ciò che può
dare anche lontanamente l'impressione che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo siano
non solo tre persone nella stessa natura divina, ma addirittura tre «dei».
La liceità dell'invocazione alle singole Persone della SS. Trinità appare anche dall'uso
della Chiesa: ad esempio nelle litanie abbiamo un'invocazione distinta delle singole
persone: «Pater de caelis Deus»; «Fili Redemptor mundi, Deus»; «Spiritus Sancte,
Deus». Nelle preghiere, poi, spesso la Chiesa si rivolge al Padre soltanto, come
risulta dalla clausola finale: «Per Dominum nostrum Iesum Christum ...”. Per evitare
però il pericolo di cui si e parlato sopra la Chiesa fa seguire alle invocazioni distinte
un'invocazione conclusiva a tutta la Trinità.
Anche il culto liturgico, astrattamente parlando, sempre alle condizioni indicate, è
legittimo. Purtroppo però il pericolo di deviazione non è puramente teorico. Per tale
motivo la Chiesa si è opposta all'istituzione di una festa liturgica in onore al Padre.
Quando i reali di Spagna umiliarono ad Alessandro VIII e ad Innocenzo XII una
supplica per l'istituzione di una festa liturgica in onore dell'Eterno Padre, il Papa non
l'accolse".
_____________________
6 A questo riguardo Benedetto XIV scrive: «Additum fuit, quod, sicut nonnulli tunc
petebant speciale festum in honorem Patris Aeterni, sic alii tractu temporis instare
et petere potuissent consimile festum in honorem Filii, non ut carne nostra amicti,
sed ut procedentis a Patre per aeternam generationem, et etiam festum spirationis
aeternae, sive Processionis Spiritus Sancti. Praeterquam quod distinctio Personarum
quoad festa occasionem rudibus praebere potuisset, ut Essentiae unitatem
negarent, et plures naturas Divinas, quae singulae Personis singulis respondeant,
admitterent; ad quod periculum avertendum adeo caute Ecclesiam processisse
videmus, ut nulla sit Oratio, nullae ad Patrem, aut ad aliam Divinam Personam
preces fundantur, in quibus statim mentio non fiat reliquarum duarum Personarum.
Sic in litaniis, postquam Divinas Personas singulatim rogavimus, statim subiicitur
Sancta Trinitas unus Deus. Sic in hymnis, qui Filio, aut Spiritui Sancto cantantur,
postrema stropha
200
«Pertanto un culto esterno, fissato in un giorno del ciclo liturgico, non è soltanto
contro lo spirito della liturgia, ma anche contro le manifeste intenzioni della Chiesa»
7.
L'atteggiamento della Chiesa e la sua cautela nel concedere un culto esterno alle
singole persone divine dice che dobbiamo noi pure essere cauti.
È bene quindi tutte le volte che si attribuisce un culto ad una determinata persona
ricordare l'unità di natura di esse, per cui sono un unico Dio.
Le formule più importanti di codesto culto alla Trinità sono come è noto il segno
della croce, il Gloria Patri, ecc.
Se cerchiamo ora di approfondire. ulteriormente tale culto possiamo dire: esso
dovrà avere tutte le caratteristiche del culto che si attribuisce a Dio, essendo le
singole persone Dio, e le caratteristiche proprie di ciascuna persona. Dovrà quindi
essere un culto di adorazione, di ringraziamento e di preghiera come s'è detto nelle
pagine precedenti parlando del culto da attribuire a Dio. Nel tempo stesso dovrà
avere qualcosa di proprio dal momento che il
________________
toti Trinitati laudes pangit. Sic demum vix recitari potest Oratio dominica quin Filius,
qui illam composuit, in mentem subeat; et, de hac quidem Oratione loquendo, bene
ait Suarez ... supplicationes ad totam Trinitatem dirigi, licet solus Pater in ea rogari
videatur. Nihil porro urgent exempla aliorum festorum, quae instituta videntur in
honorem unius ex Personis Divinis seorsum ab aliis, tum quia, licet ad gloriam
Spiritus Sancti videatur quotannis celebrari festum Pentecostes, observandum
nihilominus est, festum hoc, quod primis Ecclesiae temporibus fuit introductum ...
non dirigi proxime ad Spiritum Sanctum, tanquam ad unam ex tribus Divinis
Personis, sed solum in eo recoli memoriam adventus Paracleti, quando scilicet post
decem dies ab Ascensione Domini, et quinquaginta a Dominica Resurrectione
apparuerunt super Apostolos omnes in eodem loco congregatos dispertitae linguae,
tanquam ignis, seditque super singulos eorum, et repleti sunt omnes Spiritu Sancto
... tum quia festa omnia, quorum celebritas ad Christi honorem refertur, non
diriguntur ad Filium, tanquam ad secundam Sanctissimae Trinitatis Personam, sed
sunt festa Christi, sive Dei facti hominis, repraesentantia singulares gratias et
altissima mysteria ...» (BENEDETTO XIV, De servorum Dei beatiticatione et beatorum
canonizatione, l. IV, p. II, c. 31, n. 3).
Questa proibizione e la sua motivazione è ricordata da Leone XIII nell'Enciclica
Divinum illud munus del 9 maggio 1897. Dice il Papa a riguardo della Trinità:
«periculum ... ex eo fit, ne in fide aut in cultu vel divinae inter se Personae
confundantur vel unica in ipsis natura separetur ... Quare Innocentius XII, decessor
Noster, soiemnia quaedam honori Patris propria postulantibus omnino negavit.
Quod si singula Incarnati Verbi mysteria certis diebus festis celebrantur, non tamen
proprio ullo festo celebratur Verbum secundum divinam tantum naturam: atque
ipsa etiam Pentecostes solemnia non ideo inducta antiquitus sunt, ut Spiritus
Sanctus per se simpliciter honoraretur, sed ut eiusdem recoleretur adventus sive
externa missio» (Leonis XIII Acta, 17, p. 128).
7 A. PIOLANTI, A. c., p. 260.
201
Padre in quanto Padre si distingue dal Figlio e l'uno e l'altro si distinguono dallo
Spirito Santo.
Le caratteristiche proprie del culto da attribuire alle singole persone divine
dovranno essere ricavate dalla loro natura propria in se stesse e per riguardo a noi.
Dovremo, in altre parole, adorare, ringraziare e pregare il Padre in quanto Padre, il
Figlio in quanto Figlio e lo Spirito Santo in quanto Spirito Santo. E poiché le
caratteristiche proprie consistono in ciò che il Padre è principio senza principio, colui
dal quale procedono il Figlio e col Figlio lo Spirito Santo, ma che non procede da
nessuno, il Figlio è principio (insieme col Padre) dello Spirito Santo, ossia è principio
perché da Lui qualcuno procede ed insieme principiato perché procede dal Padre, lo
Spirito Santo è principiato, ma non principio, perché procede dal Padre e dal Figlio,
ma a sua volta non è principio dal quale qualcuno procede. Inoltre il Figlio è la
Sapienza del Padre, mentre lo Spirito Santo è il vincolo d'amore del Padre e del Figlio
8.
Dovremo quindi adorare, ringraziare e pregare il Padre come principio assoluto,
fonte di tutto l'essere, matrice di ogni realtà increata e creata; dovremo adorare e
ringraziare il Figlio come principiato dal Padre e sapienza del suo agire e del suo
operare; dovremo adorare, ringraziare e pregare lo Spirito Santo come vincolo
amoroso del Padre e del Figlio e insieme principio amoroso di tutta l'opera della
creazione, della redenzione e della santificazione.
In altre parole possiamo anche dire: poiché il culto alle tre Persone divine, sia pure a
certe condizioni, è legittimo e necessario, vediamo di approfondirne un po' di più la
natura e le caratteristiche. Ci lasceremo guidare anche qui dai criteri generali, ossia
dalla stessa natura delle cose (quello che abbiam detto «diritto
_________________
8 «Le Fils et l'Esprit-Saint reçoivent éternellement de lui d'ètre eux-mème, avec lui,
le premier principe d'où viennent toutes!es créatures et la dernière fin à laquelle
elles doivent toutes retourner. Et, sur la terre comme dans le ciel, toute autorité et
toute dignité se réclament de la primauté éternelle du Père. Le Pere est, ainsi que sa
Divinité qui d'ailleurs ne fait qu'une mème chose avec lui, notre premier principe
définitif et notre fin absolument dernière. Si je m'arrète dans!es créatures quelles
qu'elles soient, i'offense!es trois Personnes divines, parce que, venant d'elles, je dois
sans cesse tendre vers elles. Mais si, par impossible, je pouvais remonter jusqu'à
l'Esprit-Saint et au Fils, sans aller jusqu'au Père, le mouvement de mon àme ne serait
pas complet, car l'Esprit-Saint, Lien vivant du Père et du Fils, veut aussi nous relier
au Fils et au Père; et nous pouvons dire, après Saint Basile, que le Fils, dans le sein
mème de Dieu, "est la voie et l'accès à Dieu le Père" ...» (CH. SAUVÉ, Dieu intime, t.
IV, Amat, Paris 1902, p. 19 s.).
202
naturale»), dalla rivelazione e dall'insegnamento della Chiesa, dal comportamento di
Cristo, della Madonna, dei santi, ecc.
La prima persona della Santissima Trinità, secondo l'insegnamento della rivelazione
e della Chiesa, è «Padre», ossia comunica la sua natura; ma è padre di una
specialissima paternità; infatti: a) comunica la sua natura numerica, non solo la
natura specifica; mentre la generazione creata consiste nel dar ad un essere
numericamente distinto la propria natura specifica, ossia nel far esistere un essere
distinto numericamente, ma uguale specificamente, il Padre celeste comunica la sua
stessa natura numerica, così che si hanno due persone, non due nature divine, non
due dei. b) Inoltre il Padre comunica la sua natura necessariamente; non è una
comunicazione che c'è ma potrebbe anche non esserci, una comunicazione
derivante dalla sua libera scelta; egli è necessariamente Padre. e) Inoltre la
comunica incessantemente, non con un atto che si cristallizza. d) Infine, insieme col
Figlio, dà origine allo Spirito Santo, in un modo che non è generazione e che si
denomina «spirazione».
Il Padre è quindi la fonte della Trinità, la sorgente delle altre Persone.
Inoltre il Padre, proprio perché principio di tutto, provvede a tutto. È questo
l'aspetto messo in evidenza da Cristo, almeno per quanto riguarda noi. I passi
evangelici sono così numerosi e così noti che non è il caso di fermarci a riferirli.
Proprio per tale motivo si appropriano al Padre le opere che comportano un
principio, un inizio, ossia le opere della Creazione. Non già che la creazione sia opera
del Padre soltanto: la creazione è opera dell'intera Trinità. Però viene attribuita in
modo particolare al Padre, essendo egli il principio e la fonte delle altre persone
divine.
Il Padre quindi va trattato come «primo». Il culto a Lui è un culto al principio
imprincipiato, un culto alla fonte ed alla matrice di tutto. Dovrà quindi sottolineare
in modo del tutto particolare il contenuto di adorazione, di ringraziamento, di
impetrazione e di amore.
La seconda persona della SS. Trinità è il Figlio. Egli procede dal Padre per vera e
propria generazione, onde è detto giustamente «figlio»; si tratta però di una
generazione intellettuale, onde è chiamato «Verbo».
203
La seconda persona della SS. Trinità è quindi la sapienza del Padre. E per tale motivo
si attribuiscono a Lui le opere della sapienza.
Proprio perché è la «sapienza del Padre» ce lo rivela: Egli lo conosce e lo manifesta
a noi. Conosce pure lo Spirito Santo e ce lo rivela.
Il culto al Verbo quindi è riconoscimento dell'immensa sapienza divina, adorazione
dei suoi imperscrutabili disegni, accettazione del suo mistero. Nel suo culto verso il
Verbo-Sapienza del Padre, l'uomo riconosce che la sua cognizione è nulla di fronte
alla cognizione divina e lo prega perché gli riveli il segreto di Dio, o se non altro lo
aiuti a riconoscerlo e ad amarlo.
La terza Persona della Trinità Santissima, ossia lo Spirito Santo è l'Amore-Persona.
Procede dal Padre e dal Figlio come il vincolo affettuoso che li unisce in una
dedizione totale e perpetua.
Per tale motivo lo Spirito Santo si presenta come il riposo e la gioia: in Lui Padre e
Figlio riposano e gioiscono. È il Riposo-Persona e la Gioia-Persona.
Per tale motivo si attribuiscono allo Spirito Santo le opere dell'amore, della gioia e
del riposo.
Il culto allo Spirito Santo dovrà mettere in evidenza codesti aspetti di Amore, di
Riposo e di Gioia; dovrà quindi sottolineare soprattutto il riconoscimento di Dio
come Tutto che ci ama e fa ogni cosa per il nostro bene; nel tempo stesso è il Tutto
nel quale soltanto possiamo aver conforto, aiuto, riposo e gioia.
Il Figlio poi, a differenza delle altre Persone della Trinità, si è incarnato, è nato, è
vissuto ed è morto per noi, e rimane ancora fra noi nell'Eucaristia.
Si impone quindi una distinzione fra il culto al Verbo come tale e al Verbo come
Cristo, come Verbo incarnato e morto per noi. Riferendoci a Cristo possiamo
adorare Lui uomo, nato, bambino, maestro, lavoratore, paziente, morente, risorto,
permanente nella Eucarestia, ecc.
In altre parole: il culto al Verbo Incarnato può sottolineare aspetti diversi: può
riferirsi a Gesù bambino, a Gesù adulto, a Gesù morente, a Gesù risorto, ecc.; a Gesù
insegnante, a Gesù orante, a Gesù paziente, a Gesù lavoratore, a Gesù
rimproverante, ecc. Ognuna di queste forme può essere legittima.
204
Bisogna guardarsi dal fermarsi solo alle forme storicamente comparse e affermatesi
in passato o al presente. Forme sempre nuove possono sorgere, purché mettano in
evidenza aspetti realmente esistenti e meritevoli di culto.
La scelta di tali aspetti e la loro sottolineatura dipenderà dalle esigenze dei tempi e
sarà il tormento della pastorale.
Senza entrare in tutti questi argomenti e lontani dalla pretesa di esaurire ogni
questione, diciamo qualcosa sulla liceità del culto al Verbo Incarnato, nonché su
alcune forme particolari e precisamente sul culto a Gesù paziente, a Gesù
Eucaristico, al Sacro Cuore, a Gesù lavoratore.
La liceità di un particolare culto al Verbo Incarnato è stata difesa da Cristo stesso.
Quando infatti i discepoli s'indignano per l'omaggio generoso e delicato della
peccatrice nella casa di Simone il Lebbroso, Egli dice: «Perché date delle noie a
questa donna? Ella ha fatto un'opera buona verso di me. Infatti i poveri li avete
sempre con voi, me invece non sempre avete. Poiché essa, spargendo questo
profumo sul mio corpo, lo ha fatto per la mia sepoltura. In verità vi dico: in tutto il
mondo, ovunque sarà predicato questo Vangelo, sarà pure narrato, a ricordo di lei,
quello che essa ha fatto»9.
Soprattutto è stata proclamata da S. Paolo. Dopo aver ricordato l'abbassamento del
Verbo, continua: «Per ciò Iddio lo esaltò e gli diede il nome che è sopra ogni nome,
affinché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi e degli esseri celesti e degli esseri
terrestri e di quelli sotto terra ed ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è
nella gloria di Dio Padre» 10.
Inoltre è stato ripetutamente difeso dalla Chiesa11.
Il culto a Gesù paziente. È un aspetto particolarmente importante perché la
presenza del dolore nella vita di Cristo - soprattutto la presenza della passione e
della morte - è frutto della Sua libera scelta e perché Egli ha liberamente scelto di
soffrire e di morire per riparare il peccato di Adamo e i peccati nostri. A differenza;
infatti, di ciò che avviene in noi, Gesù non fu costretto a soffrire ed a morire; ciò che
in noi è conseguenza e castigo del peccato in Lui
___________________
9 Matt. 26, 10-13; cfr. anche Marc. 14, 6-9 e Giov.12, 7-9.
10 Filipp.2, 9-11.
11 Cfr. Denz.120, 221, 224, ecc.
205
è frutto di libera decisione. Ed ha scelto di farlo per un riguardo a noi: per riparare
con una dedizione così profonda la ribellione di Adamo. capo della natura umana e
quelle altre che noi imitando il suo esempio abbiamo aggiunto. Ha patito ed è morto
per noi. Ed ha voluto che la sua morte in croce fosse il sacrificio di tutti e per
sempre. istituendo anche a questo fine l'Eucaristia 12.
Dobbiamo quindi ricordare in modo tutto speciale la passione e la morte di Cristo;
dobbiamo esser grati a Lui che ha accettato di soffrire e di morire per noi; dobbiamo
ad esempio di Lui accettare qualche sofferenza ad espiazione dei peccati nostri e di
quelli degli altri. Il culto a Gesù non potrà prescindere da questo aspetto.
La forma più importante di codesto aspetto di Cristo è - oltre il sacrificio della Messa
di cui s'è parlato sopra - la Via crucis.
I tempi particolarmente dedicati al ricordo di Cristo paziente sono le feste in onore
della croce. la settimana santa. il venerdì di ogni settimana.
Il culto a Gesù eucaristico. Anche la persistenza di Gesù nell'Eucaristia è un aspetto
caratteristico del Cristianesimo.
È noto - e qui lo si suppone dimostrato - che Gesù è presente sotto le specie del
pane e del vino consacrato. E vi è presente per essere l'alimento normale della
nostra anima. per renderci possibile di offrire il suo sacrificio sulla croce per essere il
compagno della nostra permanenza quaggiù.
Anche a prescindere quindi dai nostri doveri verso l'Eucaristia nutrimento
dell'anima (ossia dai nostri doveri verso la comunione) e dagli atteggiamenti che
dobbiamo assumere verso l'Eucaristia come rinnovazione del sacrificio della croce,
abbiamo dei doveri verso Gesù presente nell'Eucaristia.
La liceità del culto eucaristico è stata solennemente riaffermata nel Concilio di
Trento contro i protestanti13 nel Codice di Di-
________________________
12 Per la dimostrazione e lo sviluppo di questa parte rimandiamo ai trattati di
teologia dogmatica.
13 Ecco che cosa dice il cap. 5 della Sessione XIII: "Nullus itaque dubitandi locus
relinquitur, quin omnes Christi fideles pro more in catholica Ecclesia semper recepto
latriae cultum, qui vero Deo debetur, huic sanctissimo sacramento in veneratione
exhibeant. Neque enim ideo minus est adorandum, quod fuerit a Christo Domino, ut
surnatur, institutum. Nam illum eurndem Deurn praesentern in eo adesse credirnus,
quem Pater aeternus introducens in orbem terrarurn dicit: "Et adorent eum omnes
Angeli Dei" ... Declarat praeterea sancta. Synodus, pie et religiose admodum in Dei
Ecclesiarn inductum fuisse hunc morern, ut singulis annis peculiari quodam et festo
206
ritto canonico14 e, recentemente nell'Enciclica Mediator Dei. Dice Pio XII: «Il
nutrimento eucaristico contiene, come tutti sanno, "veramente, realmente e
sostanzialmente il corpo e il sangue insieme con l'anima e la divinità di Nostro
Signore Gesù Cristo"; non fa quindi meraviglia se la Chiesa, fin dalle origini, ha
adorato il Corpo di Cristo sotto le specie Eucaristiche, come appare dai riti stessi
dell'Augusto Sacrificio, con i quali si prescrive ai sacri ministri di adorare il Santissimo
Sacramento con genuflessioni o con inclinazioni profonde. I Sacri Concili insegnano
che, fin dall'inizio della sua vita, è stato trasmesso alla Chiesa che si deve onorare
"con un'unica adorazione il Verbo di Dio Incarnato e la sua propria carne"; e Sant'
Agostino afferma: "Nessuno mangia quella carne, senza averla prima adorata",
aggiungendo che non solo non pecchiamo adorando, ma pecchiamo non adorando
...»15.
Fra le forme esterne del culto eucaristico basterà ricordare le ore di adorazione, le
SS. Quarantore, la visita al SS. Sacramento, i Congressi eucaristici 16.
Quanto ai tempi del culto eucaristico la Chiesa - per ovvii motivi - si è orientata
verso il giovedì: basti ricordare che la festa del Corpus Domini cade nel primo
giovedì libero dopo il tempo pasquale e che, nella settimana, il giorno dedicato
maggiormente all'Eucaristia è il giovedì.
Il culto al Sacro Cuore. È pure un altro aspetto assai importante del culto a Cristo.
Quello che vale per Cristo vale per ciascuna parte della sua umanità. «Il suo cuore
perciò, considerato unito alla persona divina, è degno di adorazione, la quale
termina alla persona stessa di Gesù. Ogni culto ha per oggetto ultimo e completo
tutto Gesù Cristo, ma le diverse devozioni hanno un oggetto
___________
die praecelsum hoc et venerabile sacramentum singulari veneratione ac solemnitate
celebraretur, utque in processionibus reverenter et honorifice illud per vias et loca
publica circumferretur. Aequissimum est enim, sacros aliquos statutos esse dies,
cum Christiani omnes singulari ac rara quadam significatione gratos et memores
testentur anirnos erga communem Dominum et Redemptorem pro tam ineffabili et
piane divino beneficio, quo mortis eius victoria et triumphus repraesentatur ...» (D.
878). Cfr. anche il can. 6 (D. 888).
14 «Christo Domino, etiam sub speciebus sacramentalibus, debetur latriae cultus»
(Can. 1255, § 1).
15 Parte seconda, verso la fine.
16 Per lo svolgimento di ognuno di codesti argomenti rimando alle corrispondenti
voci di qualsiasi enciclopedia cattolica.
207
prossimo, proprio e specifico. Questo, nel culto al S. Cuore di Gesù, è il cuore fisico
di Lui, ossia il cuore di carne, vivo e animato, non semplicemente come parte
nobilissima del corpo di Cristo, ma specialmente come simbolo del suo amore.
Oggetto proprio del culto quindi non è solo il cuore fisico, né solo l'amore, ma il
cuore fisico come simbolo dell'amore, cioè il S. Cuore di Gesù ardente d'amore (cf. il
decreto della S. Congregazione dei Riti del 1765 e la lettera di Pio VI a Scipione Ricci,
29 giugno 1781) ... Il fine di questo culto è di accendere nei fedeli l'amore, per
corrispondere a quello di Gesù. Perciò è sommamente raccomandato nei documenti
pontifici...»17, fra i quali tiene un posto distintissimo l'Enciclica Miserentissimus di
Pio XI dell'8 maggio 1928.
Tra le forme più note del culto al S. Cuore ricordiamo la pratica dei nove primi
venerdì del mese.
È ovvio che gli aspetti indicati non sono i soli: altri se ne potrebbero aggiungere
secondo le esigenze dei tempi. Qui potrebbe cadere ad esempio il discorso
sull'opportunità di dare incremento al culto a Gesù lavoratore. In tempi in cui il
mondo del lavoro presenta maggiori difficoltà alla pratica della vita cristiana e
maggiori esigenze di elevazione, perché Gesù non potrebbe essere considerato
anche come lavoratore e noi essere spinti ad imitarLo e ad adorarLo sotto
quell'aspetto?
E perché non esaminare l'opportunità di dare a codesto culto anche delle forme
pubbliche?
Non è questa la sede più adatta per sviluppare completamente l'argomento. Ci è
sembrato opportuno farne almeno un accenno, anche se in forma interrogativa e
con tutta sottomissione alle decisioni e agli indirizzi dell'Autorità infallibile della
Chiesa.
Veniamo alla conclusione anche di codesto studio: se si riflette sulle pagine che
abbiamo dedicato al culto della Trinità Santissima e a quelle che abbiamo dedicato
al culto di Dio, non si può non restare colpiti dalla differenza. Di fronte agli sviluppi
ed agli approfondimenti dei problemi del culto a Dio, ci troviamo qui di fronte a
scarsi elementi: non abbiamo che accenni timidi e involuti; non possediamo che
suggestioni e intuizioni.
_____________________
17 V. CARBONE, Cuore di Gesù, in «Enciclopedia cattolica», I'., 1052.
208
A maggior ragione è scarso il culto alla Trinità nella vita del cristiano 18.
La causa di tutto ciò è indubbiamente nella scarsità delle cognizioni che abbiamo
della Trinità santissima e nel timore di indulgere a forme larvate di politeismo.
Ma forse si tratta anche di un'insufficiente approfondimento del concetto cristiano
di Dio e di un'insufficiente sviluppo del culto al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo.
____________________
18 Si dice giustamente in «Paroisse et liturgie», 33 (1951), 122 (Les trois Personnes
divines et notre piété): «L'existence des trois Personnes divines est trop effacée
dans notre mémoire, trop négligée sinon oubliée par notre peuple, La liturgie est la
seule forme de piété où I'on s'adresse clairement à une Personne divine plutòt qu'à
une autre; la seule forme de piété où l'on tienne compte des trois Personnes avec ce
qu'on leur attribue, soit en propre, soit par appropriation; la seule forme de piété
qui fasse état du dogme principal de la révélation.
Sans doute cette distinction entre!es trois Personnes est encore dans le catéchisme.
Elle est nécessaire de nécessité de moyen, ce qui revient à la rendre obligatoire pour
l'examen de catéchisme. Ensuite on la met de còté jusqu'au grand examen du
jugement dernier..
Le symbole de saint Athanase nous défend de les confondre: Neque conjundentes
personas. Or on les confond sans cesse. Le "bon Dieu" est une expression
passepartout qui désigne et confond n'imporle quelle Personne. Le bon Dieu est
mort sur la croix. Le bon Dieu est éternel. On ne peut ni le voir ne le toucher, mais
on le porte aux malades.
Un enfant du catéchisme répondait: "Dieu est partout. Le bon Dieu est dans le
tabernacle. Dans ma paroisse, le 'bon Dieu' désigne un grand crucifix qui n'est pas
mème à sa piace, et les 'bons dieux' au pluriel, désignent les statues dont l'église est
encombrée ..."».
209

LIBRO SECONDO

L'UOMO DI FRONTE AL SOVRUMANO NON DIVINO

CAPITOLO I

L'UOMO DI FRONTE ALLA MADONNA

Oltre a Dio, esiste anche un sovrumano non divino: delle realtà, cioè, che, pur non
essendo divine si staccano però profondamente da noi: la Madonna, i santi, gli
angeli 1.
Una creatura «sovrumana» è certamente la Madonna. Pur avendo, infatti, la nostra
natura, si stacca da noi per i rapporti che ha con la SS. Trinità, per quello che essa è
in se stessa e per i rapporti che ha con noi.
Quanto ai rapporti con la SS. Trinità è noto che essa è madre di Cristo, «sposa» dello
Spirito Santo, «figlia» del Padre. La maternità divina risulta subito dal fatto che
Cristo è anche Dio, ossia dal fatto che in Lui esiste anche la natura divina, che la
natura divina è unita al Verbo «ipostaticamente», e che tale unione si ha già nel
momento della concezione. Per tutto ciò colei che gli diede
_____________
1 Come si vedrà dall'esposizione stessa, la Madonna, i santi e gli angeli sono
«sovrumani» in forme e a titoli diversi: la Madonna e i santi infatti sono creature
umane - quindi ontologicamente appartenenti al nostro piano di essere -; gli angeli
invece sono ontologicamente superiori, essendo spiriti; d'altra parte la Madonna ha
una congiunzione con la Trinità che nessuna creatura ha. Per tale motivo si
potrebbero disporre i capitoli di questo libro in modo diverso: si potrebbe porre al
primo posto gli angeli e poi la Madonna e i santi, oppure in primo piano la Madonna
e poi gli angeli e i santi, oppure la Madonna, i santi e gli angeli. Abbiamo preferito
quest'ultimo ordine. Ma non abbiamo nessuna difficoltà che si proceda in altro
modo.
210
la natura umana è madre del Verbo. Trattasi anzi di una maternità tutta speciale. La
Madonna infatti non concepì per opera di un uomo, ma per opera dello Spirito
Santo; alla domanda di Lei «come avverrà questo, se io non conosco uomo"»,
l'Angelo rispose: «Lo Spirito Santo scenderà in te e la potenza dell'Altissimo ti
coprirà con la sua ombra ...» 2. Per tale motivo essa viene ad avere con lo Spirito
Santo rapporti di tipo sponsale e in tal senso vien detta la «Sposa dello Spirito
Santo». Tutto ciò poi ebbe non per i meriti suoi, ma per una particolare elezione
divina, onde vien detta «Figlia prediletta del Padre» 3.
Se ora passiamo a considerare ciò che la Madonna è in se stessa troviamo che, sul
piano della grazia, si stacca da qualsiasi altra creatura. Possiede infatti la grazia, ma
non dal battesimo e quindi al massimo dalla nascita come noi, ma dall'istante stesso
della concezione, essendo l'«immacolata». La grazia non la perse mai, né mai la
diminuì, non avendo commesso né un peccato mortale personale, né un peccato
veniale. La grazia anzi la possedette in modo del tutto pieno. Così la salutò l'Angelo:
«piena di grazia» 4.
Anzi è stata esente da molte conseguenze del peccato originale.
Non ebbe la nostra ignoranza, né la nostra concupiscenza; non andò incontro alla
corruzione del sepolcro - se pure è morta - come avvenne per gli altri uomini e come
avverrà per noi. In conseguenza o in relazione alla preservazione dal peccato
originale, la Madonna fu arricchita di speciali doni: ebbe una particolare luce di
cognizione, un particolare equilibrio nelle sue facoltà, un particolare dominio del
proprio corpo, una singolare sottomissione a Dio, uno speciale dominio del mondo
infraumano.
Quanto a noi la Madonna è mediatrice di tutte le grazie, in qualche modo
corredentrice e madre. Quanto alla mediazione «la Chiesa
________________
2 Luc.1, 34 s.
3 Per l'ulteriore approfondimento di codesti concetti rimandiamo alle trattazioni di
teologia dogmatica. Solo facciamo notare che il rapporto materno pone la Madonna
in una posizione di aliquale affettuosa superiorità riguardo a Cristo; il rapporto
sponsale pone la Madonna in una condizione di aliquale affettuosa pariteticità con
lo Spirito Santo; il rapporto di Figlia prediletta pone la Madonna in una condizione di
affettuosa inferiorità nei riguardi del Padre. È ovvio che non si deve mai dimenticare
che la Madonna è una creatura, mentre il Padre è Dio, il Verbo è Dio e lo Spirito
Santo è Dio.
4 Ancora una volta per l'ulteriore approfondimento di tali concetti rimandiamo ai
trattati di teologia dogmatica.
211
ha approvato sotto Benedetto XV, il 21 gennaio 1921, l'ufficio e la messa propri di
Maria mediatrice di tutte le grazie e molti teologi considerano questa dottrina
sufficientemente contenuta nel deposito della Rivelazione per essere un giorno
solennemente proposta come oggetto di fede dalla Chiesa infallibile; è insegnata di
fatto, dal magistero ordinario che si manifesta con la liturgia, le encicliche, le lettere
dei vescovi, la predicazione universale e le opere dei teologi approvati dalla Chiesa»
5. Inoltre è «dottrina comune e certa della Chiesa, e anche prossima alla fede, che la
Santa Vergine, Madre del Redentore, gli è associata nell'opera redentrice come
causa secondaria e subordinata, come Eva fu associata ad Adamo nell'opera di
perdizione ...» 6. E questo «non soltanto per averlo fisicamente concepito, partorito,
nutrito, ma moralmente, coi suoi atti liberi, salutari e meritori. Come Eva ha
cooperato moralmente alla caduta cedendo alla tentazione del demonio con un atto
di disobbedienza e trascinando Adamo al peccato, per contrapposto Maria, nuova
Eva, secondo il piano divino, ha moralmente cooperato alla nostra redenzione
credendo alle parole dell'arcangelo Gabriele, e consentendo liberamente al mistero
dell'Incarnazione redentrice e a tutto ciò che esso importerebbe di sofferenze per il
Figlio e per lei» 7. Infine la Madonna è madre nostra. «Non lo è evidentemente dal
punto di vista naturale, poiché non ci ha dato la vita naturale. Sotto questo punto di
vista è Eva che merita di essere chiamata madre di tutti gli uomini, i quali
discendono da lei attraverso le generazioni successive. Maria però è la nostra Madre
spirituale e adottiva, nel senso che, con la sua unione con Cristo redentore, ci ha
comunicato la vita soprannaturale della grazia. Da questo punto di vista è molto più
che nostra sorella, e si deve dire, per analogia con la vita naturale, che ci ha
generato alla vita divina ... È una maternità adottiva, come la paternità spirituale di
Dio rispetto ai giusti, ma questa adozione è molto più intima e feconda dell'adozione
umana con la quale un ricco senza prole dichiara di considerare un orfanello come
suo figlio e suo
________________
5 R. GARRJGOU-LAGRANGE, O. P., La Madre del Salvatore e la nostra vita interiore.
Sintesi teologico-ascetica, trad. dal franc., Edizioni Libreria Fiorentina, Firenze 1954,
p. 226 s.
6 L. c., p. 211.
7 Ibid., p. 213.
212
erede. Questa dichiarazione rimane di ordine giuridico e benché sia il segno
dell'affetto di colui che adotta, non produce nulla nell'anima del fanciullo adottato.
Invece, la paternità adottiva di Dio a riguardo del giusto produce nell'anima di
questo la grazia santificante, partecipazione della natura divina, germe mediante il
quale il giusto è gradito agli occhi di Dio come un figlio chiamato a vederlo faccia a
faccia e ad amarlo eternamente... Questo ci mostra la fecondità della paternità
spirituale; a tale fecondità partecipa la maternità spirituale e adottiva della
Madonna, perché in unione col Cristo redentore ci ha veramente, realmente
comunicato la vita della grazia, germe della vita eterna ...»8. Anzi «secondo il
linguaggio della Chiesa, nella sua liturgia e nella predicazione universale, la Santa
Vergine non è soltanto Madre e mediatrice, ma regina di tutti gli uomini e anche
degli angeli e di tutto l'universo»9.
Tutto ciò che si è detto, anzi, lo è la Madonna soltanto. Non c'è nessuno infatti che
abbia con la Trinità i rapporti ch'essa ha: nessuno che sia Madre del Verbo, «Sposa»
dello Spirito Santo, «Figlia prediletta» del Padre. Non c'è nessuno che abbia la
pienezza di grazia ch'Essa ebbe, nessuno che abbia avuto o abbia tutto il complesso
di doni preternaturali di cui Ella fu arricchita. Non c'è nessuno che abbia con noi i
rapporti che ha la Madonna: nessuno che sia Mediatrice di tutte le grazie che ci
occorrono e che riceviamo, nessuno che abbia cooperato com'Ella alla nostra
Redenzione. Per quanto grandi e profondi possano essere i rapporti che le altre
creature hanno col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo non uguaglieranno mai i
rapporti che ebbe la Madonna; per quanto grande possa essere il grado di grazia a
cui gli altri potranno pervenire non potranno mai raggiungere la «pienezza» di Lei;
per quanto grande possa essere l'influsso che gli altri esercitano su di noi non
arriveranno mai alla maternità della Madonna.
Essa si stacca dunque da tutte le altre creature, collocandosi in una posizione tutta
peculiare, strettissimamente associata a Dio, enormemente superiore a noi.
Per tutto ciò che abbiamo detto la Madonna merita un culto del
________________
8 L. c., p. 216 s.
9 Ibid., p. 314.
213
tutto speciale, per quanto non di latria: poiché essa si stacca da tutte le creature
avendo con la Trinità santissima dei rapporti che nessun'altra creatura ha, avendo
una pienezza di grazia che nessun'altra creatura possiede ed avendo verso di noi dei
rapporti che nessun'altra creatura intrattiene è necessario che riconosciamo codesta
posizione.
Si tratta però sempre di un culto non di latria, perché, per quanto grande, la
Madonna è pur sempre una creatura, e quindi un essere che deve avere verso Dio
quei rapporti di adorazione, di ringraziamento, di domanda e, per noi, di espiazione
che abbiam descritto nei primi capitoli di questa terza parte.
La peculiarità di questo culto alla Madonna è stata chiaramente precisata dalla
Chiesa contro le opposte deviazioni dei colliridiani e dei protestanti. «Secondo la
testimonianza di Sant'Epifanio (Haer. 78-79), i colliridiani vollero rendere alla Santa
Vergine un culto propriamente divino ed offrirle dei sacrifici. Questo errore, che non
è durato, meriterebbe il nome di Mariolatria. Al contrario i protestanti hanno
dichiarato che il culto di iperdulia reso dai cattolici alla Santissima Vergine è una
superstizione... È facile rispondere che il culto di latria ossia di adorazione può
essere reso soltanto a Dio ... Il culto dovuto alla Madonna è dunque un culto di dulia
... Inoltre è dottrina comune e certa che si deve a Maria un culto eminente di dulia,
ossia di iperdulia, che le è proprio, in quanto è la Madre di Dio ... Infine è dottrina
più probabile e più comune che questo culto di iperdulia non sia soltanto un grado
superiore del culto di dulia dovuto ai santi, ma specificamente distinto, come la
maternità divina per il suo termine d'ordine ipostatico è specificamente distinto da
quello della grazia e della gloria» 10.
Questo preminente culto alla Madonna è stato riaffermato anche recentemente,
per esempio, nell'Enciclica Mediator Dei: «Tra i Santi... ha un culto preminente
Maria vergine, Madre di Dio. La sua vita, per la sua missione affidatale da Dio, è
strettamente inserita nei misteri di Gesù Cristo, e nessuno, di certo, più di Lei ha
calcato più da vicino e -con maggior efficacia le orme del Verbo Incarnato, nessuno
gode di maggior grazia e potenza presso il Cuore
__________________
10 R. GARRIGOU-LAGRANGE, O. P., La Madre del Salvatore e la nostra vita interiore,
pp. 337-339.
214
sacratissimo del Figlio di Dio, e, attraverso il Figlio, presso il Padre celeste ...» 11.
Se cerchiamo ora di approfondire ulteriormente la natura del culto da attribuire alla
Madonna troviamo che è innanzi tutto un culto di riconoscimento di una grandezza
senza pari, avendo essa qualche cosa che non ha nessuno. «Essa» - dice la Mediator
Dei - «è più santa dei Cherubini e dei Serafini» 12.
Inoltre è un culto di ringraziamento senza pari perché anche da Lei ci sono venuti e
ci vengono tutti i beni dell'ordine soprannaturale. Anche dalla sua libera volontà
dipende l'incarnazione del Verbo; anche dalla sua partecipazione abbiamo in
qualche modo la redenzione; anche da Lei ci vengono tutte le grazie.
Per conseguenza è un culto di impetrazione. «A Lei, che è "Madre di misericordia,
vita, dolcezza e speranza nostra" ricorriamo tutti noi "gementi e piangenti in questa
valle di lagrime", e affidiamo con fiducia noi e tutte le nostre cose alla sua
protezione» 13.
È noto poi che tutto quello che la Madonna è ed ha sia in se stessa, sia nei rapporti
con la Trinità santissima, sia con noi, lo è e lo ha per libera donazione di Dio. È per la
predilezione del Padre ch'Essa è madre di Cristo, la donna «vestita di sole» e la
Madre nostra.
Per conseguenza ogni culto alla Madonna si riflette su Dio Padre, su Dio Figlio e su
Dio Spirito Santo. «Non si può dire» - afferma Pio XII nell'Enciclica Fulgens corona -
«che per questo venga diminuita la Redenzione di Cristo, quasi che essa non si
estenda all'intera progenie di Adamo; e che perciò venga detratto qualche cosa
dall'officio e dalla dignità del Divin Redentore. Se infatti consideriamo a fondo e
diligentemente la cosa, è facile vedere come Cristo Signore abbia in verità redento la
divina sua Madre in un modo più perfetto, essendo ella stata da Dio preservata
immune da qualsiasi macchia ereditaria di peccato, in previsione dei meriti di Lui.
Perciò l'infinita dignità di Gesù Cristo e l'universalità della sua Redenzione non viene
attenuata o diminuita da questo punto di dottrina, ma anzi accresciuta in sommo
grado».
____________________
11 Parte III, par. III. 12 L. c.
12 Mediator Dei, l. c.
215
È pertanto ingiusta la critica e il rimprovero che anche per questo motivo non pochi
acattolici e protestanti fanno alla nostra devozione per la Santa Vergine, come se
togliessimo qualche cosa al culto dovuto a Dio solo e a Gesù Cristo. È vero invece
che l'amore e la venerazione che noi dedichiamo alla nostra Madre celeste, ridonda
tutto senza dubbio in gloria del Suo divino Figlio, non soltanto perché tutte le grazie
e tutti i doni, anche eccelsi, da Lui derivano come da prima fonte, ma anche perché
«i genitori sono la gloria dei figli».
Quanto alle forme particolari di devozione alla Madonna ricordiamo: l'Angelus,
l'Ufficio della Madonna, il Rosario, il sabato di ogni settimana 14 e particolarmente il
primo sabato del mese, il mese di maggio e il mese di ottobre.
_________________
14 Sui motivi della scelta del sabato per la devozione alla Madonna vedi, per
qualche accenno, indiretto, Y. CONGAR, Incidence ecclésiologique d'un thème de
dévotion mariale, in «Mélanges de science religieuse», 7 (1950), pp. 277-292.
216
CAPITOLO II

L'UOMO DI FRONTE AI SANTI

Fra gli uomini non sono mancati alcuni che hanno cercato - e vi sono riusciti - di
conformarsi in modo distinto alla norma di condotta, diventando in tal modo
imitatori particolarmente fedeli di Cristo. Pensiamo a quelli che hanno sacrificato la
propria vita per non venir meno all'onore dovuto a Dio, a quelli che hanno immolato
la propria esistenza per il bene del prossimo, a quelli che hanno rinunciato a tutto
per seguire Gesù nella via dei consigli evangelici.
Per tale fatto essi si staccano da noi che facciamo tanta fatica per mantenerci fedeli
alla volontà divina - e non ci riusciamo mai appieno - e si uniscono in modo
particolare al mondo divino. Indubbiamente queste persone non si distaccano da noi
sul piano ontologico come avviene- per Dio e per gli angeli, dal momento che
ontologicamente tali persone appartengono al nostro mondo, partecipano della
nostra stessa natura e sono sullo stesso nostro piano. Si distaccano però per il modo
con cui hanno usato la propria libertà, avendo essi avuto sempre dinnanzi agli occhi
le esigenze della morale, nonostante le difficoltà ch'essi pure spesso incontrano e i
sacrifici che dovettero compire. Per tale fatto si congiunsero in modo particolare con
Dio. Anche qui non è una congiunzione ontologica, essendo anch'essi creature, con
tutto ciò che codesto termine comporta. Si congiunsero con Dio sul piano etico, in
quanto abbracciarono la sua volontà; conseguentemente, per mezzo della grazia
santificante, in qualche modo si unirono a Dio anche sul piano entitativo.
Inoltre queste persone ci hanno beneficato e ci beneficano. Lo
217
hanno fatto innanzi tutto coi loro esempi. Agendo bene hanno spinto altri a fare
altrettanto nonostante le seduzioni della natura corrotta e le tentazioni del mondo;
e questi a loro volta hanno agito su altri; e questi altri su altri ancora, giungendo sino
a noi. Ci beneficano poi con la loro intercessione presso Dio.
Proprio perché possono e vogliono intercedere per noi, possiamo pregarli.
Alcuni sono stati dalla Chiesa dichiarati «santi» e proposti all'imitazione e al culto
dei fedeli. E precisamente: di alcuni il Papa consente che in qualche regione, città,
diocesi o famiglia religiosa siano venerati pubblicamente e ciò o con la celebrazione
del giorno festivo in loro onore o con la loro commemorazione nei divini uffici, o con
la recita dell'ufficio e celebrazione della Messa de Communi, o con la recita
dell'ufficio avente particolari lezioni e con la celebrazione della Messa propria, o con
tutti codesti privilegi assieme. Si tratta dunque di un culto permissivo e non
precettivo, limitato e non esteso a tutta la Chiesa 1. Di altri invece il Papa con atto o
sentenza definitiva decreta che vengano iscritti nel catalogo dei santi e siano
venerati in tutta la Chiesa. I primi sono i «beati», i secondi sono i «santi» 2.
L'accertamento della loro santità attualmente viene fatto nel modo seguente3: si
inizia «con tre processi compiuti dall'Ordinario del luogo, nel quale il servo di Dio
morì, o vi trascorse la maggiore e principale parte della vita, o vi avvennero i
miracoli. Il primo processo riguarda la ricerca e la raccolta degli scritti editi e inediti
del servo di Dio. Il secondo tende a provare la fama di santità, delle virtù e miracoli o
del martirio, e l'assenza di qualsiasi ostacolo perentorio; tale processo si dice
informativo. Qualora si tratti di cause storiche, occorre, secondo le norme
pubblicate dalla S. Con-
________________
1 G. LOW, Beatificazione, in «Enciclopedia cattolica", 2, 1090.
2 «Si scorge subito la differenza che corre fra la beatificazione e la canonizzazione. In
quella il culto è limitato ad una città, diocesi, regione o famiglia religiosa, ed è
unicamente permissivo, in questa invece è esteso all'intero orbe cattolico, ed è
precettivo" (G. Low, Canonizzazione, in «Enciclopedia cattolica", 3, 569).
3 Ci riferiamo nelle pagine che seguono alla beatificazione e alla canonizzazione
formale. È noto infatti che accanto alla beatificazione formale c'è una beatificazione
equipollente. Questa riguarda cause antiche di servi di Dio, che prima dei decreti di
Urbano VIII, con i quali si vietarono atti di culto ecclesiastico e pubblico a persona
che non fosse stata beatificata o canonizzata dalla Sede Apostolica, erano già in
possesso di quel culto; per questi casi è prevista una via straordinaria per la quale
rimandiamo ai trattati di Diritto Canonico o agli studi specializzati.
218
gregazione dei Riti il 4 gennaio 1939 (cf. A. A. S., 31 [1939], pp. 174-175 ...) che
l'ordinario costituisca una commissione di almeno tre persone di provata
competenza in studi storici e in ricerche di archivio. Ad essi spetta in solidum il
compito di eseguire la raccolta completa delle fonti scritte relative alla vita, virtù o
miracoli, antica fama di santità, o martirio, ecc. I medesimi poi dovranno essere
indotti nel processo quali testi di officio per enumerare e descrivere in particolare le
indagini fatte, e per attestare dell'autenticità e del valore dei singoli documenti o
testi, i quali verranno allegati al processo o in originale o in fotografia o in copia
autentica. Nel terzo processo si deve dimostrare che mai il servo di Dio fu onorato di
culto ecclesiastico e pubblico.
I tre precedenti processi in un esemplare, che si chiama transunto, si inviano chiusi
e sigillati alla S. Congregazione dei Riti, la quale ne cura l'apertura e, giusta le norme
prescritte, la copia pubblica da servire agli attori. Dopo l'esame degli scritti, fatta da
due censori teologi, se nulla è stato rinvenuto che sia meno consentaneo alla fede o
che in qualche modo offenda la coscienza dei fedeli, si procede all'esame del
processo informativo circa la fama di santità o del martirio o circa l'assenza di
qualsiasi ostacolo perentorio ... Se il voto dei cardinali, appartenenti alla stessa S.
Congregazione, risulta favorevole, il Papa segna ... la cosiddetta commissione della
introduzione della causa, con la quale la causa passa sotto la piena giurisdizione
della Sede Apostolica. Si discute poi il processo del non culto; e qualora risultassero
indizi o argomenti di culto, la causa rimane sospesa per riprendere il suo corso
soltanto dopo rimosso ogni segno di culto.
A questo punto la causa entra in una nuova fase, perché da parte della S.
Congregazione dei Riti si spediscono al vescovo che ha fatto il processo informativo
le lettere remissoriali per istituire il processo apostolico sulla fama di santità e sua
continuazione e sulle virtù e sui miracoli in specie o sul martirio e sulla sua causa ...
Dal processo apostolico sulla fama di santità potrà domandarsi la dispensa, se dal
"processo informativo" l'esistenza della fama di santità è sufficientemente provata.
Terminato il processo ed inviato a Roma, viene congiunto con quello informativo; e
di entrambi si esamina la validità, cioè se siano osservate le norme stabilite dal
Codice di Diritto Canonico. Riconosciuta la validità dei processi, si
219
discute, in tre adunanze successive, dalle congregazioni, se il servo di Dio abbia o no
esercitato le virtù teologali e cardinali in grado eroico, e, trattandosi di cause di
martiri, se consti dal martirio, dalla sua causa e dai segni o miracoli che lo
accompagnarono. In forza del Codice di Diritto Canonico, can. 2101, è proibito
procedere alla discussione delle virtù se non son trascorsi 50 anni dalla morte del
servo di Dio. Il giudizio della eroicità delle virtù richiede la conferma dei miracoli
operati per intercessione del servo di Dio (Codice di Diritto Canonico, can. 2116).
Bastano due, se la prova delle virtù è stata fornita da testimoni de visu in entrambi i
processi, informativo ed apostolico, o anche se i testimoni del processo apostolico
siano almeno de auditu a videntibus. Qualora la prova delle virtù sia desunta da
testimoni de visu nel processo informativo, e de auditu auditus nell'apostolico, si
esigono tre miracoli. Nel caso poi che in ambedue i processi le virtù siano dimostrate
dai soli testimoni di tradizione e dai documenti, si richiedono quattro miracoli...
Terminata favorevolmente la discussione dei miracoli ... si richiede ... un'ultima
congregazione generale dinanzi al Pontefice per stabilire: "se si possa procedere con
sicurezza alla beatificazione del servo di Dio" ... Udito il parere dei consultori, dei
prelati e dei cardinali, il Sommo Pontefice, se e quando crede, ordina che se ne
pubblichi il decreto, detto del Tuto. E quando poi ha fissato il giorno in cui nella
basilica Vaticana si celebra solennemente la beatificazione formale, questa s'inizia
con la promulgazione del breve apostolico con il quale si concede che il venerabile
servo di Dio da quel giorno assuma il titolo di beato e che gli siano attribuiti gli atti di
venerazione spettanti ai beati; si scopre quindi l'immagine del neo-beato, si canta un
solenne Te Deum di ringraziamento e si celebra la Messa pontificale, primo atto di
culto verso il beato. In serata il Papa scende nella basilica Vaticana per venerare il
nuovo beato» 4.
Per la canonizzazione si «richiedono altri due miracoli verificatisi dopo la
beatificazione, i quali passano sotto il controllo di più medici e chirurgi nominati
d'ufficio, e sono discussi e vagliati prima da una commissione medica e poi da due
prelati, consultori e cardinali in tre o più Congregazioni, l'ultima delle quali è
presieduta
_________________
4 G. Lòw, Beatificazione, in «Enciclopedia cattolica», 2, 1090-1095.
220
dal Papa. Approvati i miracoli, e promulgato il decreto nel quale è stabilito che si
può con sicurezza procedere alla canonizzazione, s'inizia un'altra serie di atti che si
svolgono in tre Concistori; poiché la Santa Sede desidera che, in un affare di tanta
gravità, al giudizio consultivo della Sacra Congregazione dei Riti si aggiunga il giudizio
parimenti consultivo del Sacro Concistoro. Si comincia con il Concistoro segreto,
dove, oltreché i cardinali della Sacra Congregazione dei Riti, convengono tutti i
cardinali residenti in Roma; i quali, dopo aver ascoltato la relazione del cardinale
Prefetto della stessa Congregazione intorno alla vita e ai miracoli e agli atti fino a
quel momento compiuti, interrogati dal Sommo Pontefice se piaccia ad essi che si
proceda alla solenne canonizzazione, rispondono placet o non placet. In seguito si
tiene un Concistoro pubblico, dove uno degli avvocati concistoriali espone in
elegante latino la vita e i miracoli del beato, la cui canonizzazione viene supplicata.
Terminata l'orazione dell'Avvocato, il Segretario delle Lettere Latine in nome del
Papa risponde che Sua Santità esorta tutti, perché con i digiuni e le preghiere
invochino i lumi divini, prima che il Sacro Collegio dei Cardinali e l'Episcopato
abbiano manifestato il loro proposito. Ed a questo scopo è indetto un Concistoro
semipubblico, al quale, oltre tutti i cardinali. sono invitati i patriarchi, gli arcivescovi,
vescovi e abati nullius residenti in Roma, perché, dopo aver preso cognizione di un
compendio della vita del beato unitamente ai relativi atti, scritto per cura del
Segretario dei Riti, diano il loro suffragio. Quest'ultimo Concistoro si apre e poi si
chiude con una breve allocuzione del Papa che annunzia il giorno, in cui nella basilica
di S. Pietro, con solenne apparato e cerimonie compirà l'atto della canonizzazione.
Nel giorno fissato il Papa pronuncia. al cospetto del mondo cattolico la sentenza
definitiva, con la quale inscrive il nome del beato nel catalogo dei santi, ed ordina
che la sua memoria venga onorata ogni anno dalla Chiesa universale» 5.
Abbiamo quindi un nuovo settore di «sovrumano», non nel senso in cui Dio è
sovrumano, nemmeno nel senso in cui gli angeli si possono dire sovrumani, neppure
propriamente parlando nel
__________________
5 Low, Canonizzazione, in «Enciclopedia cattolica», 3, 570.
221
senso in cui la Madonna è sovrumana, ma in un senso vero e proprio.
Che atteggiamento dobbiamo assumere di fronte a tali persone?
L'atteggiamento di riconoscimento della loro superiorità, di gratitudine per il bene
che ci hanno fatto e continuano a farci, di invocazione della loro assistenza,
d'imitazione dei loro esempi.
Riconoscimento della loro superiorità: è una superiorità vera anche se diversa da
quella di Dio, della Madonna e degli angeli; e quindi dobbiamo riconoscerla.
Sbaglieremmo certo se riconoscessimo loro la superiorità propria di Dio, o della
Madonna o degli angeli; ma sbaglieremmo pure se non attribuissimo loro e non
riconoscessimo la superiorità che di fatto hanno.
E altrettanto si dica per la riconoscenza e per l'invocazione. Indubbiamente non ci
son venuti da loro i benefici che ci son venuti da Dio e dalla Madonna; ma benefici ci
han recato essi pure. Ed aiuto ci possono recare ancora, anche se non è l'aiuto che
possiamo attenderci da Dio e dalla Madonna. Tutto ciò dobbiamo riconoscere,
evitando di aver per i santi la gratitudine che dobbiamo avere per Dio e per la
Madonna e di pregarli come preghiamo Dio e la Madonna, ma evitando pure di non
esser loro riconoscenti e di non pregarli.
La liceità e la necessità del culto ai santi è stata ripetutamente affermata dal
Magistero della Chiesa. Tra i documenti recenti ricordiamo il codice di diritto
canonico e l'Enciclica Mediator Dei. Il can. 1276 dice: «Bonum atque utile est Dei
servos, una cum Christo regnantes suppliciter invocare eorumque reliquias atque
imagines venerari...». L'enciclica citata poi dice: «Nel corso dell'anno liturgico si
celebrano non soltanto i misteri di Gesù Cristo, ma anche le feste dei Santi, nelle
quali, sebbene si tratti di un ordine inferiore e subordinato, la Chiesa ha sempre la
preoccupazione di proporre ai fedeli esempi di santità che li spingano ad adornarsi
delle stesse virtù del Divin Redentore. È necessario, difatti, che noi imitiamo le virtù
dei Santi, nelle quali brilla in vario modo la virtù stessa di Cristo, come di Lui essi
furono imitatori. Poiché in alcuni rifulse lo zelo dell'apostolato; in altri si dimostrò la
fortezza dei nostri eroi fino alla effusione del sangue; in altri brillò la costante
vigilanza nell'attesa del Redentore; in altri rifulse il verginale candore dell'anima e la
modesta dolcezza della cristiana
222
umiltà; in tutti, poi, arse una fervidissima carità verso Dio e verso il prossimo. La
Liturgia pone avanti ai nostri occhi tutti questi leggiadri ornamenti di santità perché
ad essi salutarmente guardiamo, e perché " noi che godiamo dei loro meriti siamo
accesi dai loro esempi"... Ma c'è ancora un altro motivo del culto del popolo
cristiano per i Santi: quello di implorare il loro aiuto ... Da ciò facilmente si desume il
perché delle numerose formole di preghiere che la Chiesa ci propone per invocare il
patrocinio dei Santi» 6. Nel tempo stesso la Chiesa si è preoccupata di sottolineare
le differenze fra il culto a Dio e il culto ai Santi: «Noi non preghiamo» - dice Leone
XIII - «i Santi del Cielo nello stesso modo con cui preghiamo Dio, poiché alla SS.
Trinità chiediamo che abbia pietà di noi, mentre a tutti gli altri Santi chiediamo che
preghino per noi. Invece la preghiera che si rivolge a Maria ha qualche cosa di
comune col culto che si rende a Dio; tanto che la Chiesa la invoca con questa
espressione, che si suole indirizzare a Dio: Abbi pietà dei peccatori»7.
Nella sua attuale legislazione la Chiesa distingue fra culto pubblico e culto privato. Il
culto pubblico può essere attribuito solo a quelli che sono stati dichiarati «beati» o
«santi» e precisamente - come si è visto - i «santi» possono essere onorati - sempre
con culto di dulia - dovunque e con qualsiasi atto di tale culto; i «beati» possono
essere onorati solo nei luoghi e nei modi concessi dal Papa8. Come giorno di culto
per i santi solitamente si sceglie quello della morte 9.
________________
6 Parte III, par. III.
7 LEONE XIII, Enc. Augustissimae Virginis, del 12 sett. 1897.
8 «§ 1. Cultu publico eos tantum Dei Servos venerari licet qui auctoritate Ecclesiae
inter Sanctos vel Beatos relati sunt.
§ 2. In album Sanctorum canonice relatis cultus duliae debetur; Sancti coli possunt
ubique et quovis actu eius generis cultus; Beati vero non possunt, nisi loco et modo
quo Romanus Pontifex concesserit» (can. 1277).
9 «Molti giorni sarebbero adatti per festeggiare un santo: il giorno in cui è entrato in
questo mondo, o quello in cui per mezzo del battesimo è entrato nella famiglia di
Dio, oppure, se si tratta di un vescovo o di un prete, quello della sua consacrazione.
Invece la Chiesa si attiene quasi sempre al giorno della morte. Come mai? ... La
Chiesa prende molto sul serio la morte e ne proclama il concetto cristiano che tutti
dovremmo tener presente, e che purtroppo dimentichiamo: la morte è solo in
apparenza una fine, in realtà essa è l'inizio della vera, eterna vita. Ciò che la precede
non è che il dolore del parto, come il Salvatore stesso dichiara in uno dei suoi
Vangeli dell'anno ... Quando la Chiesa festeggia uno dei suoi figli santi, la sua gioia
significa che questo uomo attraverso tutti i dolori di quaggiù è entrato nella
223
Da quanto si è detto finora risultano chiari i seguenti punti:
1) Il culto e l'invocazione ai santi sono legittimi: essendo essi superiori a noi
dobbiamo riconoscere tale superiorità.
2) Il culto ai santi si distingue nettamente dal culto a Dio.
Si può quindi venir meno sia attribuendo ai santi il culto proprio di Dio, sia non
attribuendo loro nemmeno il culto che abbiam precisato nelle pagine precedenti. Il
primo pericolo è proprio delle correnti popolari; il secondo è insito nelle posizioni
protestanti.
Non occorre ricordare che a tali pericoli siamo esposti pure noi, onde sarà bene
avere una certa cura per non incorrere nelle ire del «padrone» onorando i suoi
«servi» più di quel che si conviene o meno di quel che si deve 10.
__________________
vera vita, e là è divenuto nostro avvocato. Perciò vuol onorare questo lieto evento il
giorno che per il nostro occhio umano è quello della morte, ma che all'occhio della
fede è il natalizio per il cielo» (B. FISCHER, Quel che il catechismo non dice, trad.
ital., Morcelliana, Brescia 1956, p. 66 s.).
10 Sarebbe assai utile passare a trattare di qualche santo in particolare, per
esempio S. Giuseppe. Purtroppo non è possibile farlo qui.
224

CAPITOLO III

L'UOMO DI FRONTE AGLI ANGELI

Un altro settore di sovrumano non divino è quello degli angeli1. In parte la ragione,
ma soprattutto la rivelazione, ci fanno conoscere l'esistenza di realtà create - e
quindi inferiori a Dio -, ma superiori all'uomo, alle quali diamo il nome di «angeli» e
«demoni». La ragione infatti vedrebbe volentieri. l'esistenza di esseri puramente
spirituali: da Dio discenderebbero puri spiriti - gli angeli -, un composto di materia e
di spirito - l'uomo - e degli esseri puramente materiali - le cose del mondo
infraumano -.
La dimostrazione vera l'abbiamo dalla rivelazione. Essa parla ripetutamente degli
angeli. Un cherubino scaccia i progenitori dal paradiso terrestre dopo il peccato
originale (Gn.3, 24); un angelo compare ad Agar e la consiglia di tornare dalla sua
padrona (Gn.16, 6-13); un angelo fa trovare ad Agar una fonte per dissetare sè e il
figlio Ismaele (Gn.21, 9-21); Abramo ospita nella sua tenda tre angeli che predicono
a Sara la sua prossima maternità (Gn.18, 1-33); Lot che ha ospitato gli angeli del
Signore è messo in salvo coi suoi dall'incendio di Sodoma (Gn.19, 1-29); l'angelo del
Signore trattiene Abramo dal sacrificare Isacco (Gn.22, 1-19); Giacobbe vede una
scala d'oro che va dalla terra al cielo e sulla quale salgono e discendono degli angeli
(Gn.28, 12); un angelo comanda a Giacobbe di partire da Labano (Gn.31, 11-13); un
angelo lotta una notte intera con Giacobbe (Gn.32, 24-32), ecc.
_______________
1 Etimologicamente il vocabolo ebraico mal'iih, tradotto in greco con ayyeAoç e in
latino angelus. significa «nunzio", «messaggero".
225
Né meno frequente è l'accenno agli angeli nel Nuovo Testamento. Un angelo
annuncia a Zaccaria la nascita di Giovanni Battista (Luc.1, 5-25); un angelo annuncia
a Maria la nascita di Gesù (Luc.1, 25-38); uno stuolo di angeli inneggia sulla capanna
di Betlemme (Luc.2, 10-14); un angelo dice a Giuseppe di sposare Maria (Matt. 1, 20-
24); un angelo comanda a Giuseppe di fuggire in Egitto (Matt. 2, 13 s.); un angelo
comanda a Giuseppe di tornare in Palestina (Matt. 2, 19-21); gli angeli servono Gesù
nel deserto (Matt. 4, 1-11); un angelo scendeva nella piscina probatica a muovere le
acque (Giov.5, 2-4); gli angeli portano in cielo l'anima di Lazzaro (Luc.16, 22); un
angelo conforta Gesù nel Getsemani (Luc.22, 43 s.); un angelo rivolta la pietra del
sepolcro di Gesù (Matt. 28, 2-8), ecc.
Oltre ad attestare l'esistenza la rivelazione ci dà informazioni sulla loro natura e
sulle loro vicende. Innanzi tutto essi sono esseri creati. Non sono Dio. «Tutto è stato
fatto per mezzo di lui». Si dice nel Prologo di S. Giovanni: «e senza di lui neppure
una delle cose create è stata fatta».
Non sono materiali, ma spirituali. I Padri li dicono *** ( = senza corpo), *** ( = senza
materia). Sul contenuto preciso di codesti termini la tradizione presenta nei primi
secoli qualche incertezza: non pochi Padri ammettono negli angeli un corpo etereo,
sottilissimo, luminoso, celeste, superiore a quello degli uomini: per tale motivo
ritenevano che avessero potuto peccare carnalmente con le figlie degli uomini
(Gn.6, 2). A poco a poco però il concetto di spiritualità si chiarì e si precisò 2.
Il loro numero è grandissimo. Giacobbe vide una gran moltitudine di angeli e li
chiamò accampamento di Dio (Gn.32, 2 s.); Daniele vide miriadi di angeli servire a
Dio (Dan. 7, 10); essi sono detti «esercito celeste” (3 Re 22, 19; Salm.148, 2);
«esercito di Jahveh» (Gios.5, 14 s.; Salm.102, 21). Per i Padri gli angeli sono *** =
senza numero; Ilario vede nella parabola delle novantanove pecorelle che sono al
sicuro rappresentati gli angeli, mentre la centesima rappresenta gli uomini.
Anche gli angeli furono elevati all'ordine soprannaturale e sottoposti ad una prova.
Quando questo sia avvenuto non sappiamo:
___________________
2 Per lo sviluppo di codeste questioni rimandiamo alle trattazioni di teologia
dogmatica.
226
ignoriamo pure in che cosa la prova sia consistita. Solo sappiamo che non tutti la
superarono e che quelli che rimasero fedeli furono confermati in grazia e divennero
propriamente gli «angeli»; gli altri furono condannati per sempre all'inferno e
divennero i «demoni».
Se ci sforziamo ora di penetrare più a fondo nel mondo angelico propriamente
detto, ossia nel mondo degli angeli buoni, troviamo ricordati nella Sacra Scrittura
nove gruppi:
1) Serafini (Is.6, 2-6);
2) Cherubini (Gn.3,24; Salm.17,11; 79,2; 98,1);
3) Troni (Coloss.1,13);
4) Dominazioni (Efes.1,21; Coloss.1,13);
5) Virtù (Rom.8,38; Efes.1,21; 1Cor.15,24; 1Petr.3,22);
6) Potestà (1Cor.15,24; Efes.1,21; 3,10; 6,12; Coloss.1,16; 2, 10-15; 1Pietr.3, 22);
7) Principati (Rom. 8,38; 1Cor.15,24; Efes.1,21; 3,10; 6,12; Coloss.1,16; 2, 10-15);
8) Arcangeli (ricordati frequentissimamente);
9) Angeli (ricordati pure frequentissimamente).
Anzi la Scrittura parla distintamente di tre angeli (o arcangeli):
Michele, Gabriele, Raffaele.
Michele (= chi come Dio?) combatte contro l'angelo tutelare dei Persiani in favore di
Israele (Dan.10,13); combatte pure coi suoi angeli contro il dragone (Apoc.12,7 s.);
trionfa sull'anticristo (Dan.12,1); combatte col demonio a causa del sepolcro di
Mosè (Giud.5,9). Egli è quindi il vincitore della superbia di Lucifero e il difensore dei
diritti di Dio.
Gabriele (= fortezza di Dio) predice il tempo della nascita del Messia (Dan.8,16 ss.;
9, 20-27); annuncia la nascita di S. Giovanni Battista (Luc.1, 5-25) e di Gesù (ibid. 26-
38): è quindi l'angelo dell'incarnazione.
Raffaele (= Dio sana) è l'angelo che accompagna Tobia nella sua peregrinazione e lo
riconduce a casa sano e salvo. È quindi l'angelo della carità, del conforto e della
ricompensa terrena3.
3 Nel libro IV di Esdra - apocrifo - si parla anche di un Uricle e di Geremiele.
227
Si parla anche di angeli «propri»: per esempio si dice che «i loro angeli nei cieli
vedono sempre la faccia del Padre» 4. «L'esistenza di angeli custodi, che hanno lo
speciale ministero di proteggere gli uomini, è certa. La tradizione ed il magistero
ordinario hanno sempre ammesso che almeno ogni cristiano (dunque dal Battesimo)
ha il suo angelo custode. È pure sentenza oggi comune che ogni uomo (dalla nascita)
abbia il suo, che non lo abbandona mai. Molti Padri lo ammisero pure per ogni
nazione e comunità» 5.
Quanto ai rapporti fra gli angeli e le creature è certo ch'essi possono esercitare una
influenza sulla volontà umana sotto forma di ispirazioni, presentando motivi
persuasivi o dissuasivi. Possono inoltre eccitare la nostra immaginazione mediante
soggetti fantastici. Possono infine agire sui nostri sensi impedendo che agiscano in
presenza del loro oggetto o facendoli agire in virtù di un oggetto fittizio. I modi di
tali influssi non sono sempre chiari, né sempre riconoscibili. È però innegabile che
sono possibili. Se per una parte quindi si dovrà usare la massima cautela, dall'altra
parte non si possono negare senza divenir temerari.
Se approfondiamo lo studio degli angeli cattivi o demoni troviamo anzitutto che la
loro colpa fu essenzialmente di superbia. Veramente non mancarono alcuni Padri
che appoggiandosi a Gn.6,2 - dove si dice «che i figliuoli di Dio vedendo che le
figliuole degli uomini erano belle, presero per loro mogli quelle che fra tutte loro
piacquero” - pensarono ad un peccato di sesso, tanto più che non concepivano gli
angeli come esseri del tutto incorporei; la loro opinione fu però abbandonata
abbastanza presto e l'altra concezione divenne comune.
Il capo degli angeli ribelli è Lucifero (Is.14,13). La Scrittura ci parla anche di altri
demoni: Azzarel (Lev.16) al quale gli Ebrei immolano il capro espiatorio per i peccati
del popolo; Asmodeo che uccide i sette mariti di Sara nella prima notte di
matrimonio (Tob.3,8), e che pure era preso dì amore per Sara (Tob.6,15), Satana che
col permesso di Dio tenta Giobbe (Giob.1, 6-12; 2, 1-7), induce Davide a fare il
censimento del popolo (1Paralip.21, 1-3), tenta Gesù, ecc.
_________________
4 Matt. 18, 10.
5 C. VAGAGGINI, Angelo, in «Enciclopedia cattolica», 1, 1251.
228
S. Pietro nella sua prima lettera dice che «il demonio... come leone che rugge, va
attorno cercando di divorare» (5, 8). Il diavolo ha tentato i nostri progenitori,
inducendoli a trasgredire il comando divino; ha cercato di tentare anche Gesù (Matt.
4, 1-11; Luc.4, 1-13), ecc.
Le forme con cui gli angeli cattivi cercano di indurre al male sono moltissime.
Talvolta giungono fino a prendere completo possesso di una creatura, servendosene
come di strumento anche contro la sua volontà. Ce ne parla espressamente il
Vangelo in più di un posto: gli indemoniati di Gerasa (Mat.8, 28-34; Marc.5, 1-13;
Luc.8, 26-39), il muto (Matt. 9, 32-34), il cieco e muto (Matt. 12, 22-24), il figlio della
cananea (Matt. 15, 22), il lunatico (Matt. 17, 14-18), ecc.
Il motivo di codesta azione demoniaca è soprattutto l'invidia e l'odio di Dio: i
demoni vogliono farci cadere ed averci così compagni di sventura.
Risulta da quello che fu detto che esistono degli esseri ontologicamente superiori a
noi, che influiscono sulla nostra vita morale spingendoci al bene o al male.
Come dobbiamo comportarci nei loro riguardi? Quando facciamo bene e quando
facciamo male?
La risposta deriva da ciò che fu detto sinora. Brevemente la possiamo formulare
così: poiché gli angeli sono superiori a noi dobbiamo riconoscere codesta
superiorità; poiché ci hanno fatto del bene dobbiamo esser loro grati; poiché ci
possono aiutare nel far il bene e nell'evitare il male dobbiamo pregarli. Soprattutto
dobbiamo all'angelo ubbidienza quando ci trasmette la volontà divina. In particolare
tali doveri di venerazione, di gratitudine, di invocazione e di ubbidienza si
impongono verso l'angelo custode.
La liceità e la necessità di tale culto è ammessa costantemente nella Chiesa.
«Particolare impulso a questa devozione fu dato da S. Bernardo, di cui la Chiesa fa
proprie le parole nel Breviario (festa degli angeli custodi, 2 ottobre, lect. 4-6). La sua
comprensiva formala riflette la tradizione ininterrotta della Chiesa: agli angeli
dobbiamo "reverentiam pro praesentia, devotionem pro benevolentia, fiduciam pro
custodia"6.
________________
6 In ps. "Qui inhabitat", serm. XII. 6, citato in F. TINELLO, Angelo, in «Enciclopedia
cattolica», 1, 1252.
229
Nella sua liturgia la Chiesa non ignora il culto degli angeli. Attualmente essa ha una
festa per tutti gli angeli custodi (il 2 ottobre), una festa per i tre angeli di cui
conosciamo il nome e precisamente il 29 settembre la festa di S. Michele, il 24
ottobre la festa di S. Raffaele e il 24 marzo la festa di S. Gabriele.
Durante la settimana il martedì è dedicato in modo particolare agli angeli.
Infine va ricordata la preghiera all'angelo custode: «Angelo di Dio che sei il mio
custode, ecc.» 7.
Per quanto riguarda gli angeli cattivi dobbiamo soprattutto difenderci contro i loro
attacchi. Poiché la loro azione tende tutta a portarci al male, dobbiamo guardarcene
con cura. Nel finale della lettera agli Efesini S. Paolo ricorda le insidie del demonio e
invita il cristiano a rivestire l'armatura di Cristo. «Fratelli, fortificatevi nel Signore e
nella virtù potente di lui. Rivestitevi di tutta l'armatura di Dio, affinché possiate
resistere alle insidie del diavolo. Non abbiamo infatti da lottare contro la carne e il
sangue, ma contro i principi e le potestà, contro i dominanti di questo mondo
tenebroso, contro gli spiriti maligni dell'aria. Per questo prendete tutta l'armatura di
Dio, acciò possiate resistere nel giorno cattivo, e preparati in tutto sostenervi. State
adunque cinti i vostri lombi con la verità, e vestiti della corazza di giustizia e calzati i
piedi in preparazione al Vangelo di pace; soprattutto date mano allo scudo della
fede ...»8.
Per cacciare i demoni però occorre - secondo l'insegnamento di
________________________
7 Si ricordi anche che nel Confiteor facciamo la nostra confessione anche a S.
Michele arcangelo, nel Gloria ripetiamo l'inno angelico, nel Prefazio uniamo la
nostra voce a quella degli angeli, nelle litanie dopo la Madonna invochiamo i tre
arcangeli, ecc.
Fra le tante espressioni della pietà popolare verso l'angelo ricordiamo la seguente
canzoncina:
Quando a letto vo la sera
viene d'angeli una schiera:
due si stan del letto appiè
due dal capo presso a me:
due ne vanno al destro fianco,
due ne vanno al lato manco:
due mi copron pian pianino,
due mi sveglian al mattino,
due mi mostran, dolci in viso,
il cammin del Paradiso.

8 6,10 ss.
230
Gesù - preghiera e digiuno. Quando i discepoli chiedono perché non sono stati
capaci di allontanare il demonio, Gesù risponde: «Demoni siffatti non si scacciano se
non con la preghiera e col digiuno» 9.
La preoccupazione dunque di allontanare i demoni e di neutralizzare la loro azione
malefica si trasforma quindi in una preghiera a Dio perché ci protegga dal loro
influsso infausto e in qualche penitenza per essere più facilmente esauditi.
La Chiesa ha istituito un ordine apposito per cacciare i demoni: l'esorcistato.
«Accipe et commenda memoriae 1) - si dice nel rito di ordinazione - «et habe
potestatem imponendi manus super energumenos sive baptizatos sive
catechumenos».
Va poi ricordata la preghiera fatta aggiungere da Leone XIII dopo la Messa privata:
«San Michele Arcangelo, soccorrici nella pugna e sii nostro presidio contro la
nequizia e le insidie del demonio. Comandi Dio su di lui, supplici te ne preghiamo. E
tu, Principe della milizia celeste, con l'onnipotenza divina ricaccia nell'inferno Satana
e gli altri spiriti maligni, che vagano nel mondo, per la rovina delle anime. Così sia».
________________
9 Matt.17, 20; cfr. anche Marc.9, 28.

SEZIONE SECONDA
LA DEVIAZIONE

CAPITOLO I

CONSIDERAZIONI GENERALI

L'esposizione dell'atteggiamento da assumere di fronte al sovrumano permette di


capire quali siano le deviazioni o - con un termine più teologico - i «peccati» a
questo riguardo: sono tutti quei comportamenti che non corrispondono a ciò che fu
detto: sono, ad esempio, il non attribuire a Dio il culto che gli è dovuto o l'attribuirlo
ad altri che non sia lui, per grande che sia; sono la negazione del culto esterno o
l'esagerazione della sua importanza, il non rispetto del tempo e dei luoghi del culto,
ecc.
I trattati scolastici studiano ampiamente alcune deviazioni particolati e
precisamente: la bestemmia, la superstizione, l'idolatria, la divinazione, la vana
osservanza, la tentazione di Dio, il sacrilegio e la simonia.
Non abbiamo nessuna intenzione di contestare la liceità di questo modo di fare,
anzi lo seguiremo in parte noi pure; solo ricordiamo che tali peccati non sono i soli, e
nemmeno i più importanti. Si pecca contro Dio, la Madonna, gli angeli e i santi tutte
le volte che non si fa ciò che abbiamo detto sopra; e i modi per venir meno sono
infiniti, dal momento che si sta in piedi in una direzione sola, ma si cade in infinite
direzioni. È impossibile dare un elenco completo dei peccati che si possono
commettere in questo campo.
232
CAPITOLO II

ACCENNO A QUALCHE PECCATO IN PARTICOLARE

Premesso questo vediamo qualche peccato in particolare nella scia delle trattazioni
tradizionali.
L'idolatria. Consiste nell'attribuire onori divini ad una creatura.
Essa contraddice all'obbligo di attribuire il culto di cui abbiamo parlato a Dio
soltanto. Evidentemente, è peccato grave.
La superstizione. Consiste nell'attribuire ad una creatura poteri che, secondo
l'ordine della natura e della grazia, essa non ha. Si portano come esempi di
superstizione il fare o il farsi fare il gioco delle carte, l'attendersi la guarigione di una
malattia dal fissare la patena, il temere mali dalla mancata recitazione di preghiere a
catena, ecc.
La bestemmia. È una parola o un atteggiamento contenente disprezzo o ingiuria
contro Dio. Evidentemente è sempre peccato grave. «Basta che si sia consapevoli
del significato di tali parole o segni; l'intenzione esplicita di oltraggiare Dio nel suo
onore non è necessaria. La bestemmia può indirizzarsi o direttamente contro Dio
oppure solo indirettamente, oltraggiando i santi o le cose sante. La bestemmia può
contenere anche un'eresia o un'imprecazione. È bestemmia negare Dio, chiamarlo
duro, ingiusto, crudele, alzare il pugno contro il cielo, ecc. Si commette pure una
bestemmia, rendendo spregevoli i nomi santi con un brutto epiteto aggiunto, per
esempio dicendo bestia di un sacramento, maledetti i sacramenti, oppure
pronunciando parole sacre con disprezzo o con rabbia contro Dio. Non v'è
bestemmia, al contrario, nel proferire parole sante
233
per sola rabbia contro una creatura («Croce, Sacramento, Cristo», ecc.); per sé, in
questo caso, v'è solo peccato veniale. Tanto meno è bestemmia pronunziare nell'ira
il nome del diavolo. Espressioni come: «Il diavolo ti porti via», «Il cielo ti fulmini!» e
simili non sono bestemmie, ma imprecazioni e di solito sono appena peccati veniali,
perché non sono intese seriamente. L'uso irriverente di nomi santi fatto nella rabbia
o per spensieratezza, per sé, è solo peccato veniale. È grave quando la rabbia si
rivolge contro Dio, o se oggettivamente si dà l'impressione di volere sfogare la
propria collera contro le cose più sante. Inoltre, si può commettere un peccato per
lo scandalo o in seguito a coscienza erronea» 1.
La tentazione di Dio. «Consiste nel mettere a prova, senza giusto motivo, una
perfezione di Dio, per es. la sua scienza, la sua potenza.
Si divide in tentazione esplicita e implicita. Si ha tentazione esplicita contro Dio,
quando si fa qualche cosa o la si esige da Dio, con l'intenzione di provare con ciò se
Dio possiede un dato attributo e lo conferma in quel momento. Si ha un'implicita
tentazione contro Dio, quando l'intenzione di mettere alla prova Dio non la si
concepisce espressamente, ma si fa qualche cosa che, di sua natura, contiene una
tentazione contro Dio.
Il peccato che si commette nella tentazione esplicita contro Dio è sempre grave;
nell'implicita, vi può essere solo peccato veniale, a causa della parvità di materia.
Esigere espressamente da Cristo che si debba mostrare nell'ostia se Egli è realmente
presente, sarebbe peccato mortale. Se tale desiderio proviene da un dubbio di fede,
si pecca mortalmente anche contro la fede. È pure peccato
_____________________
1 JONE, Compendio di teologia morale ..., n. 192. Non occorre che ricordiamo che
nella bestemmia accanto all'aspetto formale di libera opposizione all'onore dovuto a
Dio, c'è pure un aspetto materiale. Anche qui va applicata la dottrina del peccato
formale e del peccato materiale. Inoltre non occorre che ricordiamo che il problema
della bestemmia e della sua estirpazione è pure un problema sociale: più d'una volta
il bestemmiare non è che uno dei modi con cui si vuol dimostrare di non essere più
"bambini»; poiché bestemmiano gli adulti e non i piccoli, gli uomini e non le donne,
il ragazzo pensa, bestemmiando, di far vedere che non è più "piccolo». In più d'un
caso il bestemmiare ha nella vita del ragazzo lo stesso significato del cominciare a
fumare, del mettersi i pantaloni lunghi e dell'andare all'osteria. Là dove questo
avviene codesto pessimo vizio non può essere effettivamente tolto se non
accompagnando l'azione di formazione e di repressione religiosa con una sapiente e
coraggiosa bonifica dell'ambiente. S'impedirà che i giovani comincino a
bestemmiare solo se si otterrà che gli adulti cessino dal farlo, o, almeno, se si
riuscirà a far capire -che nemmeno l'adulto ha facoltà di bestemmiare.
234
grave una tentazione implicita contro Dio; quando per es. in un imminente pericolo
di morte, non si volesse usare alcun rimedio naturale per la salvezza e si volesse
attendere un intervento miracoloso da parte di Dio. Lo stesso si dica, quando ci si
espone senza motivo a un imminente pericolo di morte. Non si ha tentazione alcuna
contro Dio, quando uno, per leggerezza o per mostrare la propria audacia, ma senza
aspettare da Dio un soccorso speciale, si espone a un pericolo di morte oppure
senza preparazione dà gli esami o sale in pulpito a predicare. In tali fatti vi sono altre
mancanze, Non è affatto peccato attendere da Dio, in circostanze in cui vengono
meno i mezzi umani naturali, un aiuto straordinario, per esempio esporsi
volontariamente al pericolo del martirio per evitare un insulto a Dio. Così non è
peccato, in un'infermità leggera, sperare la guarigione con l'aiuto di Dio, anche
senza i rimedi sanitari»2.
Sacrilegio. È la profanazione di una persona, di un luogo o di una cosa consacrata.
Se si profana una persona sacra si ha il sacrilegio personale; se si profana una cosa
sacra si ha il sacrilegio reale; se si profana un luogo sacro si ha un sacrilegio locale.
1) Con le parole «persona sacra» s'intendono quelle persone che sono almeno
avviate alla consacrazione a Dio mediante la sacra tonsura o il noviziato in una
religione. In concreto rientra nel sacrilegio personale:
«a) Ogni ingiuria reale contro un chierico o un religioso.
Chierico è chiunque ricevette almeno la tonsura (can. 108, § 1). Nel termine religioso
si comprendono anche i novizi. Si può commettere sacrilegio con l'uccidere,
percuotere, urtare, calpestare, gettar là con disprezzo, sputacchiare, ecc.; col
tradurre in carcere e col rapinare la persona.
b) Ogni violazione del privilegio del foro e dell'immunità; quindi citando tali persone
davanti al tribunale civile contro la proibizione della Chiesa, o costringendole per es.
al servizio militare ... I peccati commessi dalle persone sacre oppure contro di esse
che non contrastano direttamente con la loro condizione sacra, per es.
l'ubriachezza, la calunnia, ecc. non sono sacrilegi.
_________________
1 JONE, Compendio di teologia morale ..., n. 168,
235
c) Ogni peccato d'impurità commesso da persone e con persone consacrate a Dio
con gli Ordini sacri o con la professione religiosa. Anche i peccati di pensiero
costituiscono sacrilegio. Se peccano insieme due persone sacre, abbiamo un duplice
sacrilegio. Violando un voto privato di castità, si pecca mortalmente, ma non si
commette sacrilegio alcuno. Se chi pecca è un sacerdote religioso, commette un solo
sacrilegio ...
2) Si commette sacrilegio locale, trattando indegnamente luoghi sacri... ossia... quei
luoghi che sono stati deputati appositamente, mediante consacrazione o
benedizione, al culto divino o alla sepoltura ecclesiastica (can. 1154); quindi le
chiese, gli oratori pubblici, certi cimiteri. Sono esclusi: la sacristia, se fabbricata a
ridosso della chiesa, il solaio della chiesa, i suoi sotterranei e il campanile.
L'indegno trattamento ha luogo:
a) Con atti che, secondo il diritto canonico, causano la violazione del luogo sacro.
Tali atti sono: l'omicidio o assassinio, il suicidio, l'ingiusto e gravemente colpevole
spargimento di sangue, l'uso dei luoghi sacri per fini empi e sordidi, la sepoltura d'un
infedele o scomunicato dopo la sentenza declaratoria o condannatoria. Però tali atti
devono essere certi, notori e commessi nello stesso luogo sacro. Violata la chiesa,
non resta violato il cimitero contiguo e viceversa.
b) Con azioni che contrastano in modo speciale con la santità del luogo sacro o
violano la sua immunità. A tale categoria appartengono rappresentazioni mondane,
danze, mercati, azioni giudiziarie, orge pubbliche, risse, incendio o tentativo,
invasione con violenza, ecc. La vendita di candele o di oggetti di devozione o di libri
può essere tollerata nel cimitero o in chiesa quando avviene senza disturbo delle
funzioni sacre. Mangiare privatamente qualche cosa in chiesa anche senza necessità,
non è peccato grave. I peccati mortali occulti non costituiscono sacrilegio, almeno
gravemente colpevole; perciò non v'è obbligo di confessare che i peccati furono
commessi in luogo sacro. Pio X proibì anche ogni proiezione e rappresentazione
cinematografica nelle chiese («A. A. S.», IV, 1912, p. 724) ...
3) Si commette sacrilegio reale con la profanazione di cose sacre. Questo può
avvenire:
236
a) Per l'indegna recezione, amministrazione o trattamento dei santi sacramenti,
specialmente del SS. Sacramento dell'altare ...
b) Con l'indegno trattamento di oggetti sacri, per es. vasi, olii, immagini, reliquie,
ecc. Si commette quindi sacrilegio quando con disprezzo si gettano via gli Olii Sacri,
le reliquie, le immagini e cose benedette, ecc. o si distruggono per disprezzo. Non è
invece peccato, quando tali cose si bruciano perché non si sa più come usarle. È
sacrilegio usare a scopi profani vasi o paramenti sacri, i quali mediante la
consacrazione o la benedizione, erano deputati al culto divino, per es. i calici in un
banchetto. Se, però, le cose suddette hanno perduto la loro forma primitiva, per es.
mediante la fusione o staccamento, possono essere usate anche per fini profani. I
calici e le patene possono essere toccati soltanto dai chierici e da quei laici, alla cui
cura è affidata la loro custodia, per es. i sagrestani... Gli oggetti, che servono anche
al culto divino, ma non siano stati benedetti a tale scopo, possono essere
lecitamente usati a scopi profani, per es. tappeti, lampadari, candelabri, orcioli,
bacinelle, ecc. Lo stesso vale di quelle cose che sono state benedette, ma non sono
deputate al culto divino. Perciò si può usare una candela benedetta anche per
studiare, salare i cibi con sale benedetto ecc...
c) con l'uso irriverente di parole della S. Scrittura ...
d) con l'illegittima appropriazione di beni materiali adibiti al di vin culto ...» 3.
Aggiungiamo, infine, una parola sulla simonia. Con questo termine in teologia
morale e in diritto canonico s'intende la volontà decisa di comperare o vendere per
un prezzo temporale una. cosa intrinsecamente spirituale o una cosa materiale
necessariamente connessa con la spirituale o che forma l'oggetto del contratto
(simonia di diritto divino), oppure ogni scambio di cose omogenee (scambio di cose
temporali connesse con le spirituali, per es. benefici) per pericolo d'irriverenza
(simonia di diritto ecclesiastico).
__________________
3 JONE, Compendio di teologia morale ..., nn. 169-171.

SEZIONE TERZA

LA RIPARAZIONE DEL PECCATO

La precisazione sulle deviazioni, ossia i peccati che si possono commettere a


riguardo del «sovrumano», porta subito al dovere della riparazione.
Secondo quanto si è detto nel vol. I, essa comporterà
a) un mutamento della volontà;
b) una richiesta di perdono a Dio attraverso la confessione;
c) la riparazione dei danni.
Sul secondo punto bisognerà insistere in modo particolare, trattandosi di colpe che
riguardano Dio o il sovrumano.

PARTE QUARTA

QUESTIONI PARTICOLARI

CAPITOLO I

NOI E LA FEDE

Ognuno sa che accanto alla ragione esiste una seconda fonte di cognizione detta
rivelazione: Dio ha comunicato soprannaturalmente un certo numero di verità
contenute nella tradizione e nella Bibbia.
La dimostrazione di codeste affermazioni vien fatta nei manuali di teologia
dogmatica. Qui si suppone nota. Solo si chiede che atteggiamento dobbiamo
assumere di fronte ad essa.
1) Una prima risposta può esser formulata così: Dio vuole che accettiamo tutta la
rivelazione così come la Chiesa la propone, anzi che l'accettiamo il più
esplicitamente possibile, facendo addirittura dell'accettazione esplicita di almeno
alcune verità - e precisamente che Dio esista e che sia rimuneratore - una
condizione indispensabile per la salvezza; infine vuole che l'accettiamo per fede.
Innanzi tutto Dio non lascia liberi di fronte alla rivelazione: «Chi non avrà creduto
sarà condannato» si dice in S. Marco 1, e in S. Giovanni: «Dio ha così amato il mondo
da dare il suo unigenito Figlio, affinché ogni credente in lui non perisca, ma abbia la
vita eterna»2. «Chi crede nel Figlio, ha la vita eterna; ma chi nega fede al Figlio, non
vedrà la vita; che anzi l'ira di Dio rimane su di lui»3.
Inoltre dobbiamo accettarla con assenso di fede. Spieghiamoci un po': dinnanzi ad
un'affermazione un primo aspetto da considerare
___________________
1 Marc.16,16.
2 Giov.3,16.
3 Giov.3,36.
242
è la visione che il predicato conviene o non conviene al soggetto; un secondo
aspetto è l'adesione della mente o la mancanza di adesione; un terzo aspetto è il
modo di arrivare a cogliere che un predicato conviene o non conviene ad un
soggetto; un quarto aspetto è il motivo dell'adesione. Che il predicato convenga o
non convenga ad un soggetto può esser colto in modi e per vie diverse: si può
cogliere mediante l'esperienza (come quando si dice «ora non piove», «ora non
sento alcun dolore»), oppure mediante un'intuizione (come quando si dice «il tutto
è maggiore di ognuna delle sue parti»), o in seguito ad un ragionamento (come
quando si dice «l'anima umana è spirituale; ora ciò che è spirituale è per natura sua
immortale; quindi l'anima umana è per natura sua immortale»), oppure per
l'attestazione di un altro (come quando si dice «quando un teste dice una cosa che
conosce e per la quale non ha nessun interesse a mentire, certamente la cosa è
come egli la dice; ora questo teste ha affermato questa cosa che certamente
conosce e per la quale non ha interesse a mentire; quindi...”.
Quanto ai motivi di adesione ne ricordiamo due: la visione della convenienza del
predicato al soggetto e l'autorità di chi afferma; si può aderire cioè perché si vede
che è come si dice oppure per far onore e per rendere ossequio a colui che lo dice.
Notiamo subito che l'autorità di colui che afferma s'incontra sia nell'analisi dei modi
di ottenere l'evidenza sia nell'analisi dei motivi di adesione. Nei due casi però si
presenta in modo profondamente diverso. Nel primo caso infatti l'autorità di colui
che dice è solo il mezzo e lo strumento con cui si ottiene la cognizione che il
predicato conviene al soggetto; l'adesione sarà data poi per questa cognizione e non
per l'autorità del teste con cui la cognizione fu ottenuta; per conseguenza l'adesione
è commisurata alla cognizione della convenienza del predicato al soggetto e non
all'autorità del teste; per tale motivo l'adesione può essere necessitata e,
soprattutto, l'adesione non costituisce per nulla un omaggio al teste e un ossequio
alla sua dignità. Nel secondo caso invece l'autorità è motivo di adesione, è ciò per
cui si aderisce all'affermazione e la si accetta come vera. Per conseguenza l'adesione
è commisurata all'autorità stessa; inoltre l'adesione non può mai essere necessitata.
Infine una adesione per codesto motivo costituisce una forma di ossequio:
243
è un modo di riconoscere la superiorità di un altro e di donarsi a lui4.
Ora Dio chiede, per la rivelazione, un'adesione di codesto secondo genere; chiede
che aderiamo per fede, che accettiamo la rivelazione con un atto di fede.
Inoltre, almeno implicitamente, dobbiamo credere tutta la rivelazione: «Fide divina
et catholica» - dice espressamente il canone 1323 - «ea omnia credenda sunt guae
verbo Dei scripto vel tradito continentur et ab Ecclesia sive sollemni iudicio sive
ordinario et universali magisterio tamquam divinitus revelata credenda
proponuntur».
Inoltre dobbiamo accettare il più esplicitamente possibile, concretamente parlando.
Diciamo «il più esplicitamente possibile» perché purtroppo non ci è possibile
aderire esplicitamente a tutte le singole verità rivelate. Infatti la rivelazione divina è
vestita di forme umane e precisamente delle forme del tempo e dello spazio in cui
fu proposta e della persona attraverso cui fu proposta. Poiché tali forme sono assai
diverse dalle nostre occorre tutto uno sforzo per «svestire» il contenuto divino dalla
forma umana in cui si esprime. Purtroppo nemmeno a tutt'oggi tale lavoro è
terminato. Si aggiunga che la rivelazione spesso è implicita. Occorre «esplicitarla» e
nemmeno questo lavoro è compiuto: basti pensare alla mariologia. A nessuno quindi
oggi è possibile credere espressamente a tutte le verità della rivelazione. In ogni
caso non è possibile a tutti. Basterà quindi che ognuno aderisca alla rivelazione «il
più esplicitamente possibile».
Aggiungiamo «concretamente parlando», dovendosi, evidentemente, tener conto
dello stato di sviluppo dogmatico, del modo di proposizione da parte del magistero,
della condizione del soggetto, ecc.
__________________
4 Per l'ulteriore approfondimento di codesti concetti rimandiamo ai trattati
dogmatici sulla fede.
5 «Implicitamente noi dobbiamo accogliere tutta la rivelazione» (A. LANZA-P.
PALAZZINI, Principi di teologia morale, vol. II: Le virtù, Studium, Roma 1954, p. 18).
«Siamo obbligati a credere in modo generale a tutte quelle cose che Dio ha rivelate»
(TEODORO DA TORRE DEL GRECO, o. F. M. CAP., Teologia morale ..., n. 111). «Fide
saltem implicita omnia credenda sunt, quaecumque Deus nobis revelavit et per
Ecclesiam suam nobis proposuit» (PRUMMER, O. P., Manuale theologiae moralis ...,
I, n. 499).
244
Comunemente si ritiene che da tutti si debbano credere esplicitamente: a) le verità
contenute nel simbolo apostolico; b) i precetti del decalogo; c) i sacramenti; d) il
Pater Noster; e) gli atti di fede, di speranza, di carità, di contrizione6.
Anzi della conoscenza e della fede esplicita in almeno alcune verità Dio ha fatto una
condizione sine qua non della salvezza, così che la mancanza di adesione esplicita a
tali verità, anche se involontaria, costituisce un ostacolo alla salvezza.
Quali siano in concreto tali verità non è completamente pacifico fra gli autori. Tutti
si fanno eco di S. Paolo in Ebr.11,6 («Senza la fede è impossibile piacere a Dio,
poiché chi si accosta a Dio è necessario che creda che egli è e che rimunera quelli
che lo cercano»), che è necessario credere esplicitamente che Dio esiste e che è
rimuneratore. Innocenzo XI ha condannato la proposizione che «nonnisi fides unius
Dei necessaria videtur necessitate medii, non autem explicita Remuneratoris»7. Si
discute se sia necessario credere anche alla Trinità ed al mistero dell'Incarnazione 8.
Lo afferma ad esempio - per fermarci ai più recenti - il Martin9. Lo negano Ballerini-
Palmieri10 e Génicot-Salsmans11. Senza riprendere da capo l'intera questione, la
prima opinione ci sembra più probabile12.
________________
6 Cfr. LANZA-PALAZZINI, Theologia moralis, li, 19-20, pp. 30-32; JONE, Compendio di
teologia morale, n. 120.
7 DENZ., 1172.
8 Come giustamente notano A. Lanza-P. Palazzini, «prima che la scoperta del nuovo
mondo sollevasse i difficili e noti problemi relativamente alla sorte degli infedeli, i
teologi non mettevano in dubbio la necessità, dopo la venuta di Cristo, della fede
esplicita anche in queste due ultime verità (Trinità e Incarnazione). Non così in
seguito» (Principi di teologia morale, vol. II: Le virtù, Studium, Roma 1954, p. 18). È
dunque una discussione sorta in questi ultimi secoli.
9 De necessitate credendi et credendorum, pp. 56 ss.
10 Opus theologicum morale, II, n. 11.
11 I, n. 191.
12 Giustamente scrivono A. Lanza e P. Palazzini (Principi di teologia morale, voi. II: Le
virtù, Studium, Roma 1954, p. 19): «Noi non riusciamo a conciliare le nuove teorie
con i numerosi ed espliciti testi della S. Scrittura. "La giustizia di Dio" - grida
l'Apostolo S. Paolo - "è dalla fede di Gesù Cristo" (Rom.3,22; cfr. anche Giov.17,3);
Dio "giustifica chiunque dipende dalla fede di Gesù" (Rom. 3, 26); per questo
"sapendo come l'uomo non è giustificato per le opere della legge, ma per la fede di
Gesù Cristo, crediamo anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati per la fede del
Cristo e non per le opere della legge" (Gal.2,16). Il pensiero di Paolo è lo stesso di
quello di Pietro: Cristo è la pietra angolare. "Né c'è in altro salvezza, e non v'è altro
nome sotto il cielo dato agli uomini in virtù del quale possiamo salvarci" (Atti 4, 12)
...».
«Praticamente si deve seguire l'opinione più sicura ... Quindi non è lecito ammi-
245
2) Una seconda risposta riguarda la professione pubblica della fede e può essere
formulata così: noi siamo tenuti anche a professare pubblicamente la fede. «Chi...
mi riconoscerà davanti agli uomini» - dice Gesù in Matt. 10,32 s. - «anch'io lo
riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; ma chi mi rinnegherà davanti agli
uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli»; «chiunque si
vergognerà di me e delle mie parole, il Figliuol dell'uomo si vergognerà di lui,
quando tornerà nella gloria sua e in quella del Padre e degli angeli santi» 13. Lo
stesso pensiero ritorna in S. Paolo. Per es. in Rom. 10, 9-10 dice: «Se con la tua
bocca confesserai il Signore Gesù Cristo e crederai in cuor tuo che Dio lo ha
risuscitato da morte, sarai salvo». La stessa affermazione ritorna sotto la penna del
Magistero pontificio. Per es. nell'Enciclica
___________________
nistrare il battesimo o la penitenza a uno che si può ancora istruire
sufficientemente, se non ha alcuna cognizione della Trinità e dell'Incarnazione. Nel
dubbio se un penitente possiede le cognizioni necessarie, sarà ordinariamente
raccomandabile che il confessore gli dia le necessarie istruzioni nel confessionale
stesso. In pratica, non è necessario ripetere le confessioni fatte, quando si ignorava
il mistero della Trinità e dell'Incarnazione ... Se però non si potesse più istruire un
moribondo, lo si dovrebbe ugualmente battezzare o rispettivamente assolvere,
purché egli creda che Dio c'è e che premia il bene e punisce il male. In tali casi il
battesimo può essere amministrato assolutamente, se l'intenzione del moribondo di
ricevere il battesimo è certa; cosa che non si verificherà facilmente data tale
ignoranza ...» (JONE, Compendio di teologia morale ..., n. 120).
«In praxi» - dicono Lanza e Palazzini - «utriusque sententiae probabilitas, pro
casuum diversi tate attendenda est. Quare: a) extra mortis periculum per se nec
baptizari nec absolvi possunt qui mysterium Trinitatis et Incarnationis ignorant:
sacramentum enim certo dispositis conferri debet nec periculo nullitatis exponi
potest. Huc facit propositio ab Innocentio XI damnata: "Absolutionis capax est
homo, quantumvis laboret ignorantia mysteriorum fidei, et etiamsi per negligentiam
etiam culpabilem, nesciat mysterium SS. Trinitatis et Incarnationis D. N. Iesu Christi
". Quae tamen damnatio quaestionem theoreticam non attingit; sed practica est.
Item practica est decisio S. O. d. 25 ian. 1703, guae declarat: " Missionarium teneri
adulto etiam moribundo, qui incapax omnino non est, explicare mysteria fidei, guae
sunt necessaria necessitate medii, ut sunt praecipue mysteria Trinitatis et
Incarnationis".
b) In periculo mortis, ob speculativam controversiam, moribundo qui haec mysteria
ignorat ac instrui nequit, sacramenta tum baptismi tum poenitentiae sub conditione
conferri poterunt modo explicite credat Deum exsistentem ac remuneratorem:
sacramenta enim sunt propter homines.
c) Ceterum etiam extra mortis periculum utile non est dimittere poenitentes ut ab
aliis doceantur sed expedit eos breviter mysteria principalia, ut in eadem assensum
fidei praebeant, docere, ipsis tamen imponendo ut perfectiorem notitiam de his ac
de aliis guae ex necessitate praecepti cognosci debent, acquirant; aliter, generatim
inabsoluti ac forte minus bene erga fidem dispositi, recedent. Neque, ut habeatur
explicita fides, perfecta mysteriorum notitia requiritur, sed sufficit nosse eadern
quoad substantiam» (Theologia moralis, II, n. 18, p. 29).
13 Luc.9,26; cfr. anche 12,8.
246
Singulari quadam del 24 settembre 1912 Pio X scrive: «Proclamiamo che è dovere di
tutti i cattolici - dovere che va scrupolosamente e completamente adempiuto tanto
nella vita privata quanto nella vita sociale e pubblica - di mantenere fermamente e
di professare senza timidezza i principii della verità cristiana insegnati dal magistero
della Chiesa Cattolica» 14.
3) Quanto alla frequenza dell'adesione e della professione il diritto divino non dice
nulla: non precisa quando né quante volte si deve emettere l'atto di fede e si deve
far professione della stessa.
Alcune determinazioni ha il diritto ecclesiastico nei canoni 1406- 1408. Il canone
1406 esige ad esempio che i confessori e i predicatori, prima di ricevere le relative
facoltà emettano la professione di fede prescritta dalla Santa Sede. In base ad una
dichiarazione del S. Ufficio del 22 marzo 1918 si deve aggiungere anche il
giuramento antimodernistico 15.
Vediamo anche qui di avviare qualche approfondimento.
Dio non ci lascia liberi di accogliere o non accogliere, accogliere in un modo o
nell'altro, accogliere in forme puramente interne la rivelazione pubblica: ci obbliga
ad accoglierla con fede integralmente e il più esplicitamente possibile ed a
professarla con fermezza e costanza.
Il fatto che Dio ci obbliga ad accogliere la rivelazione importa che Dio ci obbliga a
misurare continuamente le conquiste del sapere umano sul metro della verità
ch'Egli ci ha manifestato. Non possiamo prescindere da essa nelle nostre valutazioni
e nei nostri giudizi. Non possiamo lasciarci guidare solo dalle conquiste della scienza
o della filosofia. C'è una superiore sapienza con cui dobbiamo adornare il nostro
intelletto e giudicare le cose.
Il fatto che dobbiamo aderire alla rivelazione con adesione di «fede», fa sì che
l'accettazione della rivelazione sia una forma di adorazione e di amore: l'uomo
abdica alla visione che ha ed ade-
___________________
14 Cit. in I. GIORDANI, Le encicliche sociali, III ed. Studium, Roma 1948, p. 230 s.
Si ricordi anche il can. 1325, § 1 del Codice di Diritto Canonico: «Fideles Christi fidem
aperte profiteri tenentur quoties eorum silentium, tergiversatio aut ratio agendi
secumferrent implicitam fidei negationem, contemptum religionis, iniuriam Dei vel
scandalum proximi».
15 Cfr. A. A. S., 10 (1918), p. 136. Si ricordi che, secondo il can. 1407 «obligationi
fidei professionem emittendi non satisfacit qui eam per procuratorem vel coram
laico emittit».
247
risce solo per ossequio; si appropria il giudizio di Dio, solo perché è giudizio divino,
rinunciando al suo giudizio. L'uomo si prostra intellettualmente davanti a Dio ed
accoglie il pensiero di Lui solo perché pensiero di Lui.
La rivelazione dunque c'impone una forma speciale di adorazione e di culto: quella -
per la quale lo adoriamo come esseri intelligenti.
Proprio perché l'adesione di «fede» è una rinuncia al proprio modo di procedere
per accogliere il modo di pensare di un altro, è necessaria un'indagine previa - che
non può essere di «fede» - sulla libertà di tale procedimento. Occorre quindi, nel
nostro caso, la certezza che la rivelazione viene veramente da Dio e che Dio merita
veramente un'adesione come quella indicata.
In caso diverso si corre il pericolo di abdicare a ciò che è distintivo dell'uomo: il
conoscere intellettuale 16.
Il fatto che l'obbligo è solo di accettare la rivelazione «pubblica» permette di chiarire
subito la nostra posizione di fronte alle cosiddette rivelazioni «private». Infatti, oltre
la rivelazione di cui si è parlato finora, ci sono o pare che ci siano altre rivelazioni
fatte non mediante le persone sopra ricordate, non depositate nelle fonti (Bibbia e
Tradizione), non affidate al Magistero. Tale è ad esempio, per fermarci al caso più
recente, la visione di Pio XII all'alba del giorno 2 dicembre 1954, nella quale vide
Gesù accanto al suo letto11.
Di esse alcune hanno avuto un grandissimo influsso sulla vita della Chiesa. Si pensi
per es. alle rivelazioni del S. Cuore a S. Maria Margherita Alacoque.
L'atteggiamento assunto dalla Chiesa è assai vario. Abbiamo in alcuni casi una
disapprovazione vera e propria. Così è avvenuto per esempio a riguardo dei
cosiddetti «Fatti di Loublande»18. In altri
__________________
16 Per tutti i problemi connessi con codesta questione rimandiamo ai trattati di
teologia dogmatica.
17 La visione fu resa nota dal settimanale «Oggi» il 19 novembre 1955 e confermata
fra l'altro dallo stesso «Osservatore Romano» con un articolo del 10 dicembre
successivo dal titolo «È il Signore».
18 «A. A. S.», 12 (1920), p. 113, e p. 294, riportati in DE GUIBERT, Documenta, p. 463
s. «In generali consessu habito feria IV, die 10 martii 1920, facta relatione de
praetensis visionibus, revelationibus, prophetus, etc. quae sub appellatione Les faits
de Loublande evulgantur, et examinatis scriptis quae ad eadem referuntur, Ermi ac
R.mi D.ni Cardinales in rebus fidei et morum Inquisitores generales, praehabito
248
casi abbiamo addirittura una certa approvazione. Così avvenne per i fatti di
Lourdes19. In altri casi la Chiesa non si pronuncia. «La Chiesa, ad esempio, non si è
mai interessata d'interpretare in un senso o un altro i fatti meravigliosi che nel
secolo XVII resero famosa per tutta la Francia, e oltre, la città di Loudun, la Madre
Giovanna degli Angeli superiora del Convento delle Orsoline di quella città e il suo
esorcista e direttore spirituale P. Giovanni Giuseppe Surin. Ed un teologo della forza
di Melchior Cano ha potuto scrivere nel suo De locis theologicis (1. XII, c. III) che alla
Chiesa " poco importa che si creda ò no alle rivelazioni di Santa Brigida o degli altri;
tali cose non si riferiscono affatto alla fede "» 20.
Il nostro dovere risulta da quanto abbiamo detto sopra: noi siamo tenuti a credere
solo ciò che fa parte della rivelazione pubblica. Anche quando la Chiesa mostra per
molti segni che certe rivelazioni le stanno assai a cuore, non siamo tenuti a crederle.
«Neppure in questi ultimi casi, l'atteggiamento della Chiesa induce nei fedeli
l'obbligo di credere alle apparizioni e rivelazioni private. Sicché chiunque avesse, o
meglio, credesse di avere ragioni solide e documenti inattaccabili in contrario, è
pienamente libero di rifiutare il proprio assenso. Ben inteso che farlo senza serio
argomento, solo per gusto di scetticismo o spirito di contraddizione, sarebbe una
evidente e colpevole temerarietà»21. L'approvazione della Chiesa significa solo che
la Chiesa «non vi ha trovato nulla di contrario alla fede e alla morale e che perciò
possiamo leggerne il racconto senza pericolo, anzi con profitto spirituale. né maggior
valore deriva alle visioni e rivelazioni dei Santi per il solo fatto che sono stati
solennemente canonizzati. La canonizzazione è un atto del magistero straordinario
col quale la Chiesa nella pienezza della sua autorità infallibile proclama che un servo
di Dio è santo, cioè ha esercitato le virtù cristiane in grado eroico, e quindi merita
d'essere onorato con un culto pubblico da tutti i fedeli. Questo giudizio
_____________________
DD. consultorum voto. decreverunt:. Mature perpensis omnibus, S. Congregatio
declarat praetensas visiones, revelationes, prophetias, etc., quae sub appellatione
Les faits de Loublande vulgo designari solent, nec non scripta quae ad eadem
referuntur, non posse probari "».
19 Cfr. DE GUIBERT, Documenta, p. 459 ss.
20 G. COLOMBO, Apparizioni e messaggi divini nella vita cristiana, in «La scuola
cattolica», 76 (1948), p. 268.
21 Ibid. p. 268.
249
lascia impregiudicata ogni questione sull'origine preternaturale, o no, delle sue
visioni e rivelazioni; soltanto ci obbliga a ritenere che in esse non vi può essere stato
nulla di imprudente da parte del santo o di sconveniente alla sua virtù» 22.
Il fatto che dobbiamo credere il più esplicitamente possibile fa sì che ci sia nella
Chiesa l'obbligo di approfondire sempre più il contenuto della rivelazione, di farlo
conoscere sempre più esplicitamente, e per i fedeli l'obbligo di conoscerlo sempre
più profondamente e sempre più esplicitamente. Un obbligo quindi di esplicitazione
sempre maggiore, di divulgazione sempre più grande e di appropriazione da parte
dei singoli sempre più accurata.
Non è questo il posto di affrontare tutte le questioni che ne derivano. Accenniamo a
qualcuna soltanto: a) l'obbligo di appropriarsi sempre più accuratamente il
contenuto della rivelazione varia a seconda delle persone, dei tempi, ecc. b)
l'obbligo di istruirsi nella propria fede pone l'obbligo di trovare delle forme e dei
modi di farlo. È ovvio che anche tali modi variino a seconda dei tempi, dei luoghi,
delle persone, ecc. e che non si possano imporre a tutti gli stessi modi e le stesse
forme. Ognuno però dovrà trovare ed accedere alle forme concretamente più
adatte.
Possiamo accennare qui brevemente a quella che si suol tradizionalmente chiamare
la «dottrina cristiana». Per chiarezza distinguiamo il dovere di fare la «dottrina» e il
dovere di ascoltarla. Quanto al primo è certo che «nei giorni di domenica e nelle
altre feste di precetto il parroco deve, in ora adatta, spiegare convenientemente la
dottrina al popolo» (can. 1332). Nel nostro diritto diocesano sono eccettuate le
feste di Natale, Pasqua, Pentecoste, Corpus Domini, Ss. Quarantore (che secondo la
tradizione locale vengono a terminare in festa di precetto o a comprendere almeno
una festa di precetto), Tutti i Santi, la festa patronale, la domenica di chiusura delle
Ss. Missioni. La spiegazione della dottrina cristiana deve aver luogo regolarmente
nel pomeriggio ed è vietato di farla immediatamente dopo la Messa se non in
qualche caso straordinario per un grave motivo e con il permesso dell'ordinario.
Secondo il Conc. Prov. IX la spiegazione della Dottrina Cristiana deve durare almeno
__________________
22 Ibid., p. 269. Il discorso è evidentemente diverso per colui cui la rivelazione
privata o la visione è fatta: quand'egli le riconosce come vere rivelazioni divine ha il
diritto e talora il dovere di aderirvi con fede divina.
250
mezz'ora (a. 9). I parroci che per tre volte di seguito lasciano la dottrina, o la lasciano
sei volte durante l'anno devono dal vicario foraneo essere deferiti al vescovo che
provvederà con la privazione "pro rata" dei frutti beneficiali che saranno deferiti alla
fabbriceria della chiesa ...» 23. Quanto al dovere di ascoltare l'istruzione religiosa
esiste certamente un obbligo di formarsi un'istruzione religiosa corrispondente alle
proprie necessità e alle proprie possibilità; non esiste generalmente parlando
l'obbligo di istruirsi nella forma della dottrina domenicale quantunque questa debba
esser tenuta nel massimo rispetto 24.
Dall'obbligo di credere e di conservare la fede sorge l'obbligo naturale di evitare
tutto quello che la può mettere in pericolo. Come l'obbligo di conservare la vita
impone l'obbligo di evitare tutto ciò che può mettere in pericolo la nostra esistenza,
così l'obbligo di credere porta con sé l'obbligo di evitare tutto ciò che può in qualche
modo mettere in pericolo la nostra fede.
Tale obbligo è naturale; precede ogni disposizione positiva della Chiesa e permane
anche quando la Chiesa dispensa da qualche obbligo particolare. Chi ottiene per es.
il permesso di leggere i libri proibiti non può farne uso indiscriminatamente; tanto
meno può farne uso quando conosce che la lettura di certi libri crea pericoli per la
propria fede.
Campi particolari in cui occorre notevole cautela sono i rapporti coi non cattolici e
più ancora coi non credenti e le letture. Di quest'ultimo argomento, data la sua
importanza, diremo in un capitolo a parte.
Lo sviluppo della trattazione sull'obbligo di credere permette subito di vedere quali
siano i peccati contro la fede: si pecca non accettando la rivelazione, non
accettandola per motivo di fede, non accettandola integralmente, ecc. Si pecca pure
non professando mai la fede, rinnegandola, ecc.
Qui ci limitiamo a precisare il concetto d'«infedeltà», «eresia», «apostasia».
L'infedeltà è la mancanza di fede in una persona non battezzata.
È negativa se non si è mai sentito parlare di fede; è positiva se,
_____________________
23 L. OLDANI, Lineamenti di diritto canonico ..., II, n. 93, p. 130.
24 Vedi quello che abbiamo detto a pag. 162, nella n. 8 del cap. III, dove si parla
della santificazione della festa.
251
sufficientemente proposta, è stata rifiutata. In quest'ultimo caso si parla più
propriamente di incredulità.
L'eresia è la negazione - o il dubbio - di una verità rivelata da Dio e proposta dalla
Chiesa a credere. Si distingue in eresia materiale ed eresia formale a seconda che la
negazione è voluta - e, prima ancora, avvertita - oppure no; eresia interna ed
esterna se risiede solo nell'animo oppure si manifesta anche fuori; occulta o
pubblica se non vien manifestata a nessuno o a pochi e in segreto, oppure davanti
ad un numero considerevole di persone.
Quando l'eresia è formale e riveste anche un carattere esterno, pubblico od occulto
che sia (comunque si manifesti: con segni, scritti, parole, azioni, ecc.) costituisce
anche un delitto.
L'apostasia è l'abbandono totale della fede da parte di chi ha ricevuto il Battesimo.
Si distingue dall'eresia che consiste nel ripudio o nel dubbio positivo su una o più
verità della fede.
Quando l'apostasia è esterna diventa anche un delitto. Lo scisma è il rifiuto di
sottomettersi al Sommo Pontefice.
Per gli eretici, gli apostati e gli scismatici sono stabilite anche delle pene. Secondo il
can. 2314, § 1 gli eretici incorrono ipso facto nella scomunica, che - in foro interno -
è riservata «speciali modo» alla Santa Sede; in foro esterno può esser assolta
dall'Ordinario del luogo, dopo l'abiura fatta secondo le prescrizioni del diritto.
Se hanno persistito, nonostante l'ammonizione, si devono privare di ogni officio,
beneficio e pensione che hanno nella chiesa; se sono chierici si debbono deporre
(can. 2314, § 1, 2°).
Se si sono iscritti ad una sétta acattolica e vi aderiscono pubblicamente, diventano
per ciò stesso «infami»; se sono chierici si debbono degradare.
Vengono privati della sepoltura ecclesiastica (can. 1240, § 1).
252

CAPITOLO II

LA SPERANZA (1)

È noto che ognuno di noi è assetato di felicità. La cerchiamo tutti; la cerchiamo


sempre; la cerchiamo anche quando siamo sicuri di non poterla raggiungere dando
origine alla disperazione e all'inferno.
È pure noto che solitamente poniamo la felicità nel raggiungimento di beni terreni e
addirittura materiali. Non mancano certo, le eccezioni. Ma non fanno che
confermare la regola.
È noto, infine, che noi passiamo abbastanza agevolmente dalla convinzione di
poterci arrivare facilmente alla sfiducia di raggiungerla.
A questo riguardo, la rivelazione ci dice:
A) Noi siamo fatti per la felicità: è la condizione cui siamo portati da tutto il nostro
essere.
B) La felicità vera e completa e duratura si avrà nel possesso di Dio. Soltanto Dio è il
bene che può soddisfare veramente tutte le nostre aspirazioni e solo nel possesso
immediato di Lui saremo veramente felici.
C) Al possesso di Dio tutti siamo chiamati. Non vogliamo riesaminare qui i grossi
problemi dell'universalità della salvezza e della predestinazione: solo ricordiamo che
Dio vuole veramente che tutti si salvino.
D) Infine, secondo il Cristianesimo, la felicità celeste è raggiungibile solo mediante
l'aiuto della grazia. Per quanto facciamo, da
___________________
1 Più che un trattato completo sulla virtù della speranza, diamo qui solo le linee per
svilupparlo.
253
soli, con le sole forze naturali non siamo in grado di raggiungere la salvezza.
Dobbiamo quindi tendere a Dio. Non solo abbiamo facoltà di tendere a Lui, ma
abbiamo pure il dovere di farlo. Dobbiamo cercare nel possesso di Lui la
soddisfazione di tutti quei desideri che altrimenti non possiamo soddisfare
completamente.
E in tutto ciò dobbiamo evitare due pericoli: quello di pensare che al possesso di Dio
non possiamo giungere e quello di ritenere che vi possiamo arrivare facilmente.
Il primo pericolo si chiama disperazione. Essa «consiste nel perdere ogni fiducia di
poter raggiungere l'eterna felicità e di avere i mezzi indispensabili a questo fine. Non
sono da confondersi con la disperazione certi stati d'animo e di paura, in cui si
trovano spesso anche anime giuste, le quali compiono nel modo più preciso i loro
doveri. Similmente l'apatia, che si riscontra sovente in persone isteriche e ammalate
di nervi, per tutte le pratiche religiose è una malattia e non già un peccato contro la
speranza» 2.
Il secondo pericolo da evitare si chiama presunzione. «Si ha quando nello sforzo di
tendere verso la felicità eterna o ci si fida troppo delle proprie forze o si attendono
da Dio cose che Egli, secondo i suoi attributi, non può dare o che non vuol dare
secondo l'ordine da Lui stabilito. Pecca, pertanto, di presunzione chi spera di poter
guadagnare il Paradiso mediante le proprie forze oppure unicamente per i meriti di
Cristo senza opere buone; parimenti pecca chi spera che Dio lo aiuterà
nell'esecuzione di un delitto, ecc.; finalmente chi pecca per il motivo che Dio è
misericordioso».
È necessario conservare anche nei momenti più difficili la convinzione che si potrà
restar fedeli alle esigenze dell'ordine morale e quindi aspirare alla felicità celeste e
nel tempo stesso far tutto il possibile per evitare le occasioni cattive e cercare le
occasioni buone e inoltre invocare l'aiuto divino. La certezza di poter giungere a
salvezza non diminuirà la spinta a togliere tutti gli impedimenti e a cercar tutti i
mezzi - naturali e soprannaturali - per arrivarci. La visione delle difficoltà che si
incontrano nella pratica del bene e nel perseguimento della salvezza non toglierà la
fiducia di poterci arrivare.
___________________
2 JONE, Compendio di teologia morale, n. 133.
3 JONE, Compendio di teologia morale n. 134.
254

CAPITOLO III

LA CARITÀ

Oltre la fede e la speranza, Dio ci chiede l'amore. Ci comanda anche di amarlo. Anzi
vuole che l'amiamo sopra ogni cosa e che amiamo gli altri per amor suo. «Amerai il
Signore Dio tuo» - si dice in Deut.6, 5-9 - «con tutto il tuo cuore, con tutta la tua
anima, con tutte le tue forze. Queste parole che io ti bandisco staranno nel tuo
cuore e le ripeterai ai tuoi figliuoli e le mediterai tanto sedendo in casa quanto
camminando per viaggio, quando andrai a dormire e quando ti leverai; le legherai
come segno alla tua mano, e staranno e si moveranno sotto ai tuoi occhi, e le
scriverai sulle soglie e sulla porta di casa tua n. «Ed ora Israele» - si dice più avanti
(Deut.10,12) - «che cosa chiede da te il Signore Dio tuo, se non che tu tema il
Signore Dio tuo e cammini per le sue vie e lo ami ...?». «Ama dunque il Signore Dio
tuo ed osserva i suoi comandamenti» (11, 1). «Procurate» - raccomanda Giosuè 1 -
«di custodire diligentemente e di mettere in pratica il comandamento e la legge che
Mosè, servo di Dio, vi ha dato, di amare cioè il Signore, Dio vostro ...». «Con tutte le
forze ama il tuo creatore» dice l'Ecclesiastico (7, 32). E nel Nuovo Testamento: «Chi
ama il padre e la madre più di me non è degno di me e chi ama il figlio o la figlia più
di me non è degno di me» 2. E alla domanda quale fosse il più grande
comandamento della legge, Gesù rispose: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima e

1 Gios.22,5.
2 Matt. 10,37; cfr. anche Luc.14, 25-26.
255
con tutta la tua mente. Questo è il più grande comandamento» 3. Gesù ci chiede
anzi di amarlo più della nostra vita «perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà e
chi avrà perduta la sua vita per amor mio la salverà» 4.
Dio dunque vuole che Lo amiamo sopra ogni cosa e che amiamo tutto il resto per
Lui. Senonché che cosa vuol dire amar Dio sopra ogni cosa ed amare tutto per Lui?
Possiamo forse ricavare qualche indicazione dall'analisi dell'amore come si trova in
questo mondo, soprattutto nelle forme più nobili e più alte, per es. l'amore dei
genitori verso i figli, ossia l'amore parentale, dei figli verso i genitori, ossia l'amore
filiale e l'amore dei coniugi fra loro, ossia l'amore sponsale. Esaminando tali forme si
trova che l'amore è una donazione completa, perpetua e reciproca soprattutto per il
bene della persona amata, poi anche per la gioia propria. Dedizione completa:
l'amore non esige che si dia qualcosa o una parte di se stesso, ma che si dia tutto.
Donazione perpetua: la completezza riguarda anche il tempo; non si può donare per
un certo tempo; occorre donare per sempre, «fin che si vive e più in là». Donazione
reciproca: l'amore vuol anche avere tutto e per sempre; come è disposto a dare
tutto, così vuol avere tutto, onde è essenzialmente «geloso». E questo innanzi tutto
per il bene della persona amata, per la sua gioia, per la sua affermazione, per il suo
trionfo.
Per tale donazione la persona amata si pone al centro del nostro essere e raccoglie
intorno a sé tutta la nostra attenzione: il resto o perde importanza o l'acquista per
lei. Precedenti affetti tendono a diluirsi e quasi a scomparire; nuovi affetti tendono a
sorgere: si tende quasi a dimenticare il proprio padre e la propria madre, i propri
fratelli e le proprie sorelle; d'altra parte il padre e la madre della persona amata
tendono quasi a divenire padre proprio e madre propria, e i fratelli e le sorelle della
persona amata tendono a divenire fratelli propri e sorelle proprie; tanto che quando
la persona amata scompare o l'amore ad essa vien meno, anche le persone ad essa
congiunte escono a poco a poco dal circolo affettivo.
Volendo che noi l'amiamo, Dio vuole dunque che noi ci doniamo
______________
3 Matt. 22,37; cfr. anche Marc.12,28; Luc.10,27.
4 Luc.9,24.
256
completamente e perpetuamente a Lui e che assumiamo tutto da Lui, polarizzando
la nostra attenzione su Lui e sul resto per riguardo a Lui. E questo innanzi tutto per il
suo bene. Dio vuole che l'amiamo innanzi tutto per Lui, non per il vantaggio che ne
può venire a noi. C'è anche questo e possiamo guardare anche a questo. Non
possiamo guardare solo a questo, né soprattutto e principalmente a questo. In altre
parole è un amore di benevolenza quello che Dio ci chiede, non un amore di
concupiscenza 5.
Volendo che l'amiamo più del padre e della madre terrena, più dei figli, dei fratelli e
degli amici vuole che siamo disposti a metter Lui al di sopra di qualsiasi altro. Il
Cristianesimo ammette la liceità e la necessità dell'amore ad alcune creature
particolari: i genitori, i figli, i fratelli, le sorelle, gli amici, la patria, ecc. Vuole però
che siamo sempre disposti a preferire Dio a qualsiasi creatura. Nella terminologia
tradizionale si dice che l'amor di Dio dev'essere «appreziativamente” sommo 6.
Se ci chiediamo ora che tipo di amore Dio vuole da noi, rispondiamo che non vuole
un amore di tipo parentale, né propriamente di tipo sponsale, ma di tipo filiale. Non
possiamo infatti amarlo come i padri amano i loro figli, né rigorosamente come gli
sposi si amano fra di loro non a vendo noi nei riguardi di Dio quella superiorità che
lega i genitori ai figli, né quella pariteticità che è essenziale nel rapporto sponsale.
Ecco perché Gesù insiste tanto nel proporre i piccoli come modelli: «In verità vi dico:
se non ... diventate come i fanciulli non entrerete nel regno dei cieli» 7.
È quindi un amore fatto di affettuosa osservanza della volontà
___________________
5 Fa però giustamente notare Génicot: «Cavendum est... ne amor divinae bonitatis
propter seipsam ita exhibeatur, quasi excludat amorem concupiscentiae erga Deum.
Hic enim illius initium est, quod curn amore benevolentiae nullatenus pugnat, neque
a creatura sine aliqua contumelia Dei reici potest: cum per hanc exclusionem indoli
amicitiae prorsus contrariam, lpsius consortium fastidiamus. Nihil ergo obstat
quominus simul duo actus eliciantur: alter spei, quo Deum diligamus ut nobis
bonurn, alter caritatis, quo Deum diligamus ut bonum in se. Hinc patet errar
Quietismi quo invehebatur status habitualis amoris Dei quocum nullus actus spei,
utpote imperfectus et proprii commodi motivo innixus, componi posset» (GÉNICOT,
I, n. 211).
6 È noto che si parla di amore «appretiative summus» e di amore «intensive
summus»: «Intensive summus est amor qui a nullo alio in affectu voluntatis quoad
intensitatem superatur, onde etiam in sensum plerumque redundat. - Appretiative
summus dicitur amor quo rem amatam reliquis omnibus intellectu et voluntate
praeferamus. Hinc caritas Dei erit appretiative summa, si malimus omnia perdere
potius quam Deum offendere» (GÉNICOT, I, n. 210).
7 Matt. 18,3; cfr. anche Marc.10, 13-16; Luc.18, 15-17.
257
divina e di fiduciosa dedizione a Dio Padre, di una dedizione cioè per la quale ci
preoccupiamo solo di Dio e da Lui attendiamo ogni cosa e non temiamo nulla. Dice
Gesù: «Non siate troppo solleciti per la vostra vita, di quel che mangerete o
berrete... Osservate gli uccelli dell'aria: non seminano, non mietono, né raccolgono
nei granai, eppure il Padre vostro celeste li nutre; ora non siete voi molto di più di
essi?»8.
Se si riflette su tutto quello che abbiamo detto si vede subito che l'amore che Dio ci
chiede è un atteggiamento generale da coltivare con cura e da manifestare in certe
circostanze.
___________________
8 Matt. 6, 25 ss.; cfr. anche Luc.12, 22-34.
9 Dice giustamente Génicot: "Frustra laborarunt quicumque conati sunt determinare
quotiens fideles actum caritatis elicere per se teneantur. Huc spectat prop. 6 ab
Innocentio XI damnata: "Probabile est ne singulis quidem rigorose quinquenniis per
se obligare praeceptum caritatis erga Deum". Neque ulla solida ratione nititur
sententia quae placuit S. Alphonso (I. 3, n. 8): saltem singulis mensibus hanc
obligationem urgere. Ideo, potius quam- incerta obligatio imponatur scrupulique
iniciantur, hortandi sunt fideles ut saepe actum caritatis eliciant, et ad eum
cliciendum iuvandi sunt propositis motivis idoneis» (Institut. theol, mor., I, n. 212,
II).
CAPITOLO IV

INDICE DEI LIBRI PROIBITI (1)

Con le parole «libri proibiti» vengono designati i libri la cui lettura è vietata ai fedeli
dalla Chiesa. Accenniamo brevemente all'aspetto storico e all'aspetto morale,
concludendo con qualche osservazione de iure condendo.

I. - Accenno storico.

«I fedeli fin da principio, benché allora per mancanza dei moderni mezzi di
divulgazione fossero scarsi gli scritti, vennero dalla legittima autorità premuniti
contro i libri erronei ed immorali. Già l'Apostolo delle genti ottenne con la sua
zelante predicazione che i neofiti di Efeso bruciassero pubblicamente i libri
superstiziosi (Atti 19, 19). Dietro l'esempio di tanto maestro i pastori d'anime,
massime i Sommi Pontefici, nulla risparmiarono per allontanare gli uomini redenti,
non corruptibilibus auro vel argento ... sed pretioso sanguine quasi Agni immaculati
Christi et incontaminati, dalle perniciose letture.
Dal Concilio di Nicea che proibì il libro Thalia di Ario, da Papa Anastasio che
condannò le opere di Origene, perché plus essent nocitura insipientibus, quam
profutura sapientibus, da Leone M. che, riprovati in Roma gli scritti dei Manichei,
ingiunse ai vescovi spa-
_________________
1 Diamo un cenno di codesto argomento qui m relazione alla fede. Non occorre dire
che potrebbe trovar posto - e forse più utilmente - nel primo volume, avendo qui
niente di più e niente di meno di ciò che si chiama «occasione di bene» (libri buoni)
e «occasione di male» (libri cattivi).
259
gnuoli di insorgere contro i libri dei Priscillianisti, fino alla lettera testé emanata dalla
Suprema Congregazione del Santo Uffizio contro la letteratura sensuale e sensuale-
mistica, non è possibile anche solo elencare tutto quello che la S. Sede ha compiuto
contro le pubblicazioni offensive della verità da credersi e delle norme morali da
praticarsi. Basti qui ricordare: la S. Congregazione dell'Indice, istituita dal santo
Pontefice Pio V; gli Indici dei libri proibiti, pubblicati per autorità di Paolo IV, di Pio
IV, di Clemente VIII, di Alessandro VII, di Benedetto XIV, di Leone XIII; inoltre la
Costituzione Sollicita ac provida data da Benedetto XIV nel luglio del 1753, qua
methodus praescribitur in examine et proscriptione librorum servanda, l'Enciclica
Christianae reipublicae salus, che Clemente VIII indirizzò nel novembre 1766 a tutti i
Vescovi, ut creditum sibi dominicum gregem a noxiorum librorum lectione
averterent, e la Costituzione Officiorum ac munerum con la quale il grande Leone
XIII, nel febbraio 1896, promulgò Decreta generalia de prohibitione et censura
librorum»2
Passiamo ora brevemente allo
II. - Aspetto morale.
1. La legge naturale. In base al diritto naturale possiamo dire: l'obbligo di fare il
bene e di evitare il male importa anche l'obbligo di evitare tutto ciò che porta al
male e di fare tutto ciò che aiuta ad operare il bene. Tra codeste «occasioni» di male
e di bene si trovano senz'altro i libri, gli stampati; anzi si trovano innanzi tutto e
soprattutto i libri e gli stampati. Ognuno quindi ha l'obbligo di evitarli tutte le volte
che costituiscono un ostacolo al bene e un incentivo al male.
Per una più profonda intelligenza di ciò che precede si osservi: a) l'obbligo di evitare
i libri cattivi e di cercare i libri buoni va giudicato alla stregua dell'obbligo di evitare
le «occasioni» cattive e di cercare le «occasioni buone». b) Tale obbligo vale non
solo per l'uomo riguardo a se stesso, ma anche per l'uomo riguardo agli altri;
ognuno infatti è tenuto ad aiutare gli altri nel raggiungi-
_________________
2 CARD. MERRY DEL VAL, Prefazione all'Indice dei libri proibiti riveduto e pubblicato
per ordine di S. S. Papa Pio XI, Città del Vaticano 1929, pp. V-VII.
260
mento del proprio fine. c) Si osservi poi che l'obbligo di distogliere dalle letture
cattive e avviare verso quelle buone vale non solo per i singoli, ma anche per la
società e per la Chiesa. Lo Stato infatti è tenuto a far tutto il possibile per creare e
conservare il bene comune, ossia quella condizione per cui ognuno possa, se vuole,
condurre una vita moralmente buona; e poiché al bene comune giovano assai le
letture buone e nuocciono molto quelle cattive, lo stato è tenuto a favorire le buone
letture e a impedire per quanto può quelle cattive. Altrettanto e più va detto della
Chiesa, istituita da Cristo per pascere i suoi agnelli e le sue pecorelle.
2. L'attuale legislazione si articola attorno a due punti: censura previa e proibizione
vera e propria. A riguardo del primo punto il can. 1385, § 1 vuole che «non si
pubblichino, nemmeno dai laici, senza la previa censura ecclesiastica:
1) libri della Sacra Scrittura o annotazioni e commenti ai medesimi;
2) libri che riguardano le divine Scritture, la sacra teologia, la storia ecclesiastica, il
diritto canonico, la teologia naturale, l'etica od altre simili discipline religiose e
morali; libri ed opuscoli di preghiere, di devozione, o di dottrina e insegnamento
religioso, morale, ascetico, mistico ed altri simili, quantunque sembrino tendere a
fomentare la pietà; e in generale gli scritti nei quali si contenga qualche cosa che
interessi in modo particolare la religione e l'onestà dei costumi;
3) immagini sacre; comunque siano da stamparsi, tanto se abbiano aggiunte
preghiere, come se vengano impresse senza di queste» 3.
«Il permesso di pubblicare i libri e le immagini, di cui al § 1, può darlo o l'Ordinario
del luogo proprio dell'autore, o l'Ordinario
_________________
3 Ricordo che quanto si dice «dei "libri" si applica, a meno che non risulti il contrario,
anche ai giornali, ai periodici e alle varie specie di pubblicazioni (can. 1384, § 2).
Quindi cadono sotto le disposizioni canoniche anche i piccoli fascicoli e i fogli volanti.
Non si comprendono invece i lavori litografati, poligrafati, ecc., supposto che non
vengano pubblicati, cioè destinati soltanto ad uso degli scolari di un professore e
non al pubblico» (JONE, Compendio ..., n. 400).
Si noti poi che in più «è vietato ai chierici secolari senza il consenso dei loro
Ordinari, e ai religiosi senza il permesso del loro Superiore maggiore e dell'Ordinario
del luogo, di pubblicare anche libri che trattino di cose profane, di scrivere in
giornali, fogli o fascicoli periodici, oppure di dirigere i medesimi» (Can. 1386, § 1).
261
del luogo nel quale i libri e le immagini vengono messe in pubblico, o l'Ordinario del
luogo nel quale sono stampate, così però che se uno degli Ordinari ha negato il
permesso, l'autore non può chiederlo a un altro Ordinario senza avvertire questo del
diniego avuto dal precedente» 4.
«I religiosi poi devono ottenere in antecedenza anche il permesso del loro
Superiore maggiore» 5.
Quanto alla proibizione secondo l'attuale legislazione abbiamo due forme: una
generale ed una nominale.
«Cadono per ciò stesso, ossia per legge stessa, sotto la proibizione:
1) le edizioni del testo originale e delle antiche versioni cattoliche della Sacra
Scrittura, anche di quelle della Chiesa orientale, pubblicate da qualsivoglia
acattolico; del pari sono proibite le versioni della Sacra Scrittura in qualsivoglia
lingua, fatte o pubblicate dai medesimi acattolici;
2) i libri di qualsiasi scrittore che propugnino l'eresia o lo scisma oppure tentino di
scalzare in qualsiasi modo gli stessi fondamenti della religione;
3) i libri che di proposito combattono la religione o i buoni costumi;
4) i libri di qualsiasi acattolico, che ex prof esso trattano di religione, a meno che
consti che non contengono nulla contro la fede cattolica;
5) i libri di cui al can. 1385, § 1, n. 1, e can. 1391; come pure, tra quelli di cui al
citato can. 1385, § 1, n. 2, i libri ed opuscoli che raccontano nuove apparizioni,
rivelazioni, visioni, profezie, miracoli, o che introducono nuove devozioni, anche
sotto il pretesto che siano private, se furono editi senza osservare le prescrizioni dei
canoni;
6) i libri che combattono o deridono qualunque fra i dogmi cattolici, che difendono
errori condannati dalla Sede Apostolica, che detraggono al culto divino, che cercano
di snervare la disciplina ecclesiastica, e quelli che di proposito ingiuriano la gerarchia
ecclesiastica, lo stato clericale o religioso;
7) i libri che insegnano o raccomandano qualsiasi genere di
________________
4 Can. 1385, § 2.
5 Can. 1385, § 3.
262
superstizione, sortilegio, divinazione, magia, evocazione di spiriti e cose simili;
8) i libri che sostengono la liceità del duello, o del suicidio o del divorzio; che
trattando delle sette massoniche o di società dello stesso genere, sostengono che
sono utili e non dannose alla Chiesa e alla società civile;
9) i libri che ex professo trattano, narrano, insegnano cose lascive ovvero oscene;
10) le edizioni dei libri liturgici approvati dalla Sede Apostolica, nelle quali sia stato
cambiato qualcosa e non concordino con le edizioni autentiche approvate dalla
Santa Sede;
11) i libri che divulgano indulgenze apocrife, oppure proscritte o revocate dalla
Santa Sede;
12) le immagini in qualsiasi modo stampate di Nostro Signore Gesù Cristo, della
Beata Vergine Maria, degli Angeli e dei Santi o degli altri Servi di Dio, aliene dal
senso e dai decreti della Chiesa»6.
Cadono sotto la seconda proibizione quei libri che sono vietati da chi ne ha il diritto:
«§ 1. Il diritto e il dovere di proibire per una giusta causa i libri, spetta non solo alla
suprema autorità ecclesiastica per tutta la Chiesa, ma anche ai Concili particolari e
agli Ordinari dei luoghi per i loro sudditi.
§ 2. Contro questa proibizione si può ricorrere alla Santa Sede, ma non in
sospensivo.
§ 3. Anche l'abate d'un monastero indipendente e il Superiore generale di una
religione clericale esente, col loro Capitolo e Consulta possono, per una giusta causa,
proibire libri ai loro sudditi; il che possono, se ci sia pericolo nel ritardo, anche gli
altri Superiori maggiori con la loro Consulta, con l'obbligo però di riferirne quanto
prima al Superiore generale» 1.
La prassi per la messa all'indice è generalmente la seguente:
1) Denuncia, ossia la segnalazione a chi di ragione. Secondo il can. 1397, § 1 «spetta
a tutti i fedeli, massimamente ai chierici, ai costituiti in dignità ecclesiastiche ed a chi
eccelle in dottrina ...;
____________
6 Can. 1399.
7 Can. 1395.
263
ciò spetta per titolo speciale ai Legati della Santa Sede, agli Ordinari dei luoghi e ai
Rettori delle Università Cattoliche». La segnalazione deve essere fatta «agli Ordinari
locali o alla Sede Apostolica» (ibid.); deve riguardare «i libri che giudicassero
dannosi» ed è opportuno che nella denuncia «non si indichi solamente il titolo del
libro, ma si espongano inoltre, per quanto è possibile, le ragioni per le quali si ritiene
che il libro debba essere proibito» (ibid.,§ 2).
2) Alla denuncia segue l'esame ed eventualmente la condanna.
Si noti, a questo riguardo: a) «Per coloro ai quali viene fatta la denunzia, è obbligo
di coscienza tenere segreti i nomi dei denunzianti» (can. 1397, § 3). b) Il Codice
invita gli Ordinari a rimettere «al giudizio della Sede Apostolica quei libri che esigono
un esame più minuto o per i quali, allo scopo di raggiungere un più salutare effetto,
sembri richiedersi una sentenza della suprema autorità» (can. 1397, § 5). c) «I libri
condannati dalla Sede Apostolica restano proibiti in tutto il mondo e in qualunque
lingua vengano tradotti»8. d) «La proibizione di un libro fa sì che non si possa, senza
la debita licenza, né pubblicarlo, né leggerlo, né ritenerlo, né venderlo, né tradurlo
in altra lingua, né in alcun modo passarlo ad altri.
Un libro in qualsiasi modo proibito non può ripubblicarsi, se non dopo che, fatte le
debite correzioni, siasi ottenuta la licenza da chi lo aveva proibito oppure dal suo
superiore o successore»9. Nell'edizione attuale - anzi a partire da quella di Leone XIII
- sono elencati solo i libri proibiti dal Papa o dalle Congregazioni Romane,
soprattutto del S. Ufficio, a partire dal 1600.
Particolari disposizioni si hanno riguardo alla S. Scrittura.
____________________
8 Can. 1396. I decreti di condanna librorum et diariorum emessi dalla Suprema
Sacra Congregazione del S. Offizio obbligano anche i fedeli della Chiesa Orientale
(Declaratio S. Congregatlonis pro Ecclesia Orientali, 26 maii, 1928).
9 Can. 1398, §§ 1 e 2. A proposito di tali canoni si ricordi che essendo leggi
restrittive vanno interpretate nel modo più stretto; quindi minimum est tenendum.
Quindi la proibizione di «leggere» fa sì che non lo si possa scorrere con i propri
occhi, non invece, rigorosamente parlando, in virtù della legge positiva, che non si
possa ascoltare per es. alla radio o alla televisione.
«Legunt proprie librum qui propriis oculis scripta perlustrant, non autem (attenta
semper lege positiva) qui legentem aut recitantem audiunt» (A. LANZA-P. PALAZZINI,
Theologia moralis, II, I, n. 54, p. 63).
264
Il can. 1391 dice: «Le versioni delle Sacre Scritture in lingua volgare non possono
essere licenziate alle stampe, se non sono approvate dalla Sede Apostolica, o se non
vengono pubblicate con annotazioni tolte soprattutto dai santi Padri della Chiesa e
da scrittori dotti e cattolici».
Il can. 1400 dice: «L'uso dei libri di cui al can. 1399, n. 1 e dei libri pubblicati contro
il prescritto del can. 1391, è solamente permesso a coloro che in qualsiasi modo
attendono agli studi teologici o biblici, purché tali libri siano pubblicati fedelmente
ed integralmente e non vi si combattano, nei prolegomeni o nelle note, i dogmi della
fede cattolica».
Infine il can. 2318 dice: «Incorrono ipso facto nella scomunica riservata in special
modo alla Sede Apostolica, all'atto stesso della pubblicazione, gli editori dei libri
degli apostati, eretici e scismatici, che propugnano l'apostasia, l'eresia, lo scisma,
come pure coloro che difendono oppure scientemente senza la debita licenza
leggono o ritengono questi stessi libri o altri nominatamente proibiti con lettere
apostoliche.
Gli autori e gli editori che senza la debita licenza fanno stampare i libri della Sacra
Scrittura oppure note o commentari alla medesima incorrono ipso facto nella
scomunica non riservata».
Lo scopo della Chiesa è la tutela spirituale dei suoi figli; essa guarda quindi 1) al libro
e non alle intenzioni dell'autore, 2) al contenuto del libro in rapporto al bene
spirituale del lettore e non in rapporto alla verità oggettiva, 3) al bene spirituale
della media dei lettori e non al bene di un lettore singolo.
1) La proibizione guarda al libro e non alle intenzioni dell'autore. Queste sono del
tutto ininfluenti riguardo alla vita morale del lettore; la Chiesa, da buona madre
intende solo «indicare» ai fedeli quei libri che a suo giudizio possono creare
difficoltà. Non intende quindi giudicare o condannare l'autore. Direttamente quindi
dalla condanna di un libro non deriva una condanna dell'autore 10.
___________________
10 Si capisce quindi perché solitamente non vengono interrogati gli autori. Dice
Benedetto XIV: «Conquestos scimus aliquando nonnullos, quod Librorum iudicia et
proscriptiones, inauditis Auctoribus, fiant, nullo ipsis loco ad defensionem concesso.
Huic autem querelae responsum fuisse novimus, nihil opus esse Auctores in
iudicium vocare, ubi non quidem de eorum personis notandis, aut condemnandis
agitur, sed de consulendo Fidelium indemnitati, atque avertendo ab ipsis periculo
265
Inoltre la messa all'indice riguarda il rapporto fra il contenuto del libro e la vita
morale della gente; la messa all'indice non è fatta propriamente e direttamente in
rapporto alla verità o falsità. Lo ricorda espressamente la costituzione Sollicita ac
provida: «Sollicita ac provida Romanorum Pontificum... vigilantia in eam semper
curam incubuit, ut Christifideles ab eorum Librorum lectione averteret, ex quibus
incauti ac simplices detrimenti quidpiam capere possent, imbuique opinionibus ac
doctrinis, quae vel morum integritati, vel Catholicae Religionis Dogmatibus
adversantur ...» 11.
Si spiega così perché opere messe all'indice in un certo tempo, poi ne siano state
escluse. Per esempio le Disputationes de controversiis fidei di Roberto Bellarmino,
incluse nell'indice da Sisto V, ne sono state tolte da Gregorio XIV 12.
Infine nella messa all'indice la Chiesa riguarda la media degli uomini di un certo
tempo e luogo. Può quindi avvenire benissimo che in un determinato caso, per una
determinata persona un libro messo all'indice non sia affatto pericoloso. Per
l'opposto la non inclusione di un libro sia nell'indice, sia nelle categorie è solo una
presunzione di non nocività; può darsi, soprattutto in un caso particolare, che un
libro non messo all'indice sia veramente pericoloso. Per lo stesso motivo la dispensa
concessa ipso iure o in altra forma non toglie sempre la pericolosità. In tal caso cade
l'obbligo giuridico, ma permane l'obbligo naturale. Lo ricorda espressamente il can.
1401 ai Cardinali, ai Vescovi e agli altri Ordinari; tali persone - dice il canone -
«usando le debite cautele, non sono astretti dalla proibizione ecclesiastica dei libri».
Per gli altri il can. 1405 dice: «La licenza da chiunque sia ottenuta non esime dal
divieto di diritto naturale, di leggere quei libri che espongono a occasione prossima
di peccato».
Il permesso di leggere un libro proibito può essere concesso dal Papa e dal S.
Ufficio.
Gli Ordinari hanno potere proprio di dispensare dal divieto di
___________________
quod nocua Librorum lectione facile incurritur» (Costit. Sollicita ac provida, § 10, in
«Fontes», 11, n. 426, p. 409).
Poiché però indirettamente qualche infamia deriva, la costituzione suggerisce di
ascoltare l'autore specialmente se si tratta di persona benemerita della causa
cattolica.
11 BENEDETTO XIV, Costituz. Sollicita ac provida, in «Fontes», II, n. 426.
12 Cfr. L. BACHELET, Bellarminà l'Index. in «Etudes», 111 (1907, II), pp. 227-246.
266
leggere i libri proibiti da loro; ipso iure hanno potere di «concedere il permesso ai
loro sudditi soltanto per singoli libri e unicamente nei casi urgenti» 13

III. - De iure condendo.

Riflettendo sull'attuale legislazione relativa all'indice dei libri proibiti non si può
negare che qualche difficoltà esiste. Sembrano fuori dubbio i seguenti punti: 1)
l'aumento della lettura da parte di tutti esige una presenza più tempestiva e più
vasta perché i fedeli abbiano veramente una guida; 2) l'introduzione sempre più
larga della lettura di opere di autori nelle scuole medie e superiori (classici della
filosofia e della letteratura) aumenta la necessità in un certo numero di persone di
leggere anche libri inclusi nell'indice; dì qui sembra necessario uno snellimento del
meccanismo per ottenere le dispense; 3) l'importanza della pubblicità e la «libertà di
leggere» fanno sì che talvolta l'inserzione di un libro nell'indice ne costituiscono di
fatto uno stimolo alla diffusione.
Se tali fatti sono reali sembra che qualche revisione debba essere apportata
all'attuale legislazione.
È ovvio - e non lo si ripeterà mai abbastanza - che tale legislazione dovrà tendere a
rendere più efficiente la guida della Chiesa e più operante la segnalazione del libro
pericoloso. Non si tratta di abolire dei freni ma di stabilirne di più efficaci, allo stesso
modo che l'introduzione di mezzi di locomozione sempre più veloci rende necessaria
l'installazione di freni sempre più potenti.
È ovvio inoltre che l'introduzione di una nuova legislazione è compito dell'autorità.
È ovvio infine che fin quando l'attuale legislazione rimane in vigore, conserva il suo
potere obbligante.
_______________
13 Can. 1402, § 1.
237
CAPITOLO V

GIURAMENTO

Il fatto che va sotto il nome di «giuramento» può essere studiato da punti di vista
diversi: lo si può guardare nel suo presentarsi nella storia; lo si può considerare sotto
il profilo morale e sotto quello pastorale. Vediamo brevemente qualcosa di ognuno
di questi aspetti.

I. - Aspetto fenomenologico.

1. Il fatto storico del giuramento. Il giuramento è un fatto abbastanza vasto. Lo si


incontra frequentemente sia nell'antichità sia nel tempo nostro, sia nella storia
sacra, sia nella storia profana.
Nella storia sacra il giuramento è attribuito sia agli uomini sia a Dio. Per il
giuramento attribuito a Dio vedi, ad esempio, 1Sam.3,14 («Il Signore disse a
Samuele ... ho giurato alla casa di Eli che l'iniquità di essa non sarà espiata in eterno,
né con vittime, né con oblazioni»), Salm.105 (104), 11 («lo giuro nella mia ira, che
non entreranno nel mio riposo»); Salm.110 (109), 4 («Il Signore ha giurato e non se
ne pentirà»); Ger.44,26 («Ecco, io giuro per il mio gran Nome ...»). Per il giuramento
attribuito a uomini vedi ad esempio Esdra 10, 5: «Esdra ... scongiurò i capi dei
sacerdoti e dei leviti e tutto Israele di fare come (Sechenia) aveva detto. E lo
giurarono».
Per quanto riguarda gli uomini lo incontriamo sia sulla bocca di credenti, sia sulla
bocca di atei. Per il primo gruppo si veda, ad esempio, il giuramento di S. Paolo,
riferito nella 2Cor.1,23:
268
«Io chiamo Dio in testimonio sulla mia anima, come, per essere con voi indulgente,
non sono più venuto a Corinto»1. Per la presenza del giuramento nei non credenti
basta uno sguardo all'esperienza.
Se guardiamo al contenuto del giuramento troviamo sia il giuramento con cui si
conferma la verità di un'affermazione (giuramento assertorio), sia il giuramento con
cui si conferma la posizione di un fatto nel futuro (giuramento promissorio), sia il
giuramento con cui si augura un male se una determinata cosa vien fatta od omessa
(giuramento imprecatorio).
Ecco qualche esempio:
A) di giuramento assertorio: Matt.26,72 («Egli [Pietro] negò di nuovo con
giuramento: "Non conosco quell'uomo"»);
B) di giuramento promissario: quello di Abramo ad Abimelech di non fargli del
male2, del servo di Abramo al suo signore di non prender per moglie ad Isacco se
non una della sua gente3, quello degli israeliti di Masfa, di non dar le proprie figlie in
spose ai beniaminiti4, quello di Davide di non distruggere il casato di Saul5, quello di
Erode ad Erodiade6, quello di Marco Flavoleia: «Io giuro, a Marco Fabio, che non
ritornerò se non vincitore»7;
C) di giuramento imprecatorio: quello di 1Sam.14,24: «Maledetto colui che
mangerà prima di sera, prima che io prenda vendetta dei miei nemici»; quello di
David dopo la morte di Abner8, di Gezabele9, di Benadad10.
Il giuramento non solo è dato, ma anche richiesto, sia dai privati, sia dal potere
pubblico, sia civile che religioso; anzi è chiesto anche e soprattutto da quelli che non
credono o non hanno una grande sensibilità religiosa.
2. La genesi e gli effetti del giuramento. Se ora noi chiediamo donde il giuramento
tragga origine e quali effetti produca possiamo
___________________
1 Vedi anche Rom.1,9; 9,1; Gal.1,20; Filipp.1,8.
2 Gn.21, 23-24.
3 Gn.24,9.
4 Giud.21, 1-22.
5 1Sam. 24,22.
6 Matt.14,7.
7 LIVIO, Deche, II, 46.
8 2Sam.3,35.
9 I Re 19,2.
10 2 Re 6,31.
269
dire ch'esso deriva dalla necessità o dal desiderio di dare una particolare garanzia
della verità di una affermazione o dell'esecuzione di una promessa.
Della verità delle nostre affermazioni, della sincerità delle nostre promesse, una
qualche garanzia la possiamo già dare con le nostre stesse parole e con la nostra
condotta. Possiamo assicurare che abbiamo cercato con tutti i mezzi la verità e che
diciamo quello che abbiamo in mente. Possiamo garantire che intendiamo
mantenere la promessa fatta e, perciò, è nostro fermo proposito ricorrere ai mezzi
necessari.
Tale garanzia purtroppo non sempre basta. Ognuno di noi è pur sempre fallibile e
pur sempre capace di mentire. Per quanto ci sforziamo di evitarlo, possiamo
ingannarci e per quanto cerchiamo di mantener fede alla parola data possiamo pur
sempre venir meno.
Si può allora ricorrere alla testimonianza di un altro, perché confermi quanto
diciamo o promettiamo.
Tale testimonianza ha indubbiamente un grandissimo valore.
Non però un valore assoluto. Per quanto grande sia la sua autorità, si tratta pur
sempre di un uomo, ossia di un essere fallibile - nonostante la sua sincerità - o
capace di mentire nonostante la cognizione della verità.
Si va allora in cerca di uno che non possa ingannarsi né ingannare, di uno che
conosca le cose come sono, voglia dirle come le conosce e le comunichi di fatto.
Poiché quest'uno non può essere che Dio, lo si chiama a interporre la sua autorità, a
confermare con essa la verità delle nostre affermazioni e la sincerità delle nostre
promesse.
Il giuramento nasce dunque dalla necessità o dal desiderio di dare della propria
affermazione una garanzia assoluta e dalla convinzione che tale garanzia la può dare
Dio soltanto11.
Proprio perché il giuramento nasce nel modo indicato contiene da una parte un
riconoscimento della singolare eccellenza divina, dall'altra è esposto al pericolo di
porre Dio su un piano puramente strumentale. Volendo, infatti, col giuramento dare
una garanzia assoluta, veniamo per ciò stesso e con ciò stesso, a dire che Dio è
verità assoluta, che Lui, e Lui solo, non può né ingannarsi né ingan-
_______________
11 Cfr. su questo punto S. Tommaso, Summa Theol., II-II, q. 89, a. 1.
270
nare, ch'Egli quindi eccelle su tutti gli altri12. D'altra parte tale riconoscimento non è
il fine del giuramento, ma solo la premessa: partendo da tale presupposto Lo
chiamiamo a confermare la verità di quanto diciamo. Nel giuramento non si tende
propriamente a riconoscere l'inconcussa veracità divina ma a dare una prova
irrefutabile della verità delle proprie parole e della esecuzione delle promesse.
Abbiamo dunque nel giuramento sia il riconoscimento della sovraeminente veracità
divina, sia il perseguimento di un fine utilitario 13.
Proprio per tale motivo il giuramento produce veramente l'effetto desiderato se si
sa che colui che lo emette ha una grandissima sensibilità religiosa. Si noti bene: non
ha importanza che sia religioso colui a cui il giuramento è fatto; basta che sia
fortemente religioso colui che lo fa. Se questi è convinto che Dio esiste, che conosce
ogni cosa, che non può esser chiamato a testimoniare il falso si può
ragionevolmente ricavare che, se non altro, è sincero.
Per tale motivo si può capire che il giuramento venga chiesto soprattutto alle
persone di forte sensibilità religiosa e da persone per nulla religiose. Che sia così
risulta dal breve accenno storico. Perché sia così discende abbastanza facilmente da
tutto quello che abbiam detto. Il non credente si avvarrà molto facilmente di questo
mezzo per premere sulla coscienza del credente e forzarlo a dire la verità.
Tutto ciò non vale evidentemente quando il giuramento è emesso da Dio o quando
è emesso da uomini che non hanno nessuna fede
_________________
12 «In hoc ipso quod invocat Deum in testem, recognoscit eum habere omnium
cognitionem et infallibilem veritatem» (S. Tommaso, Summa Theol., II-II, q. 89, a. 1
ad 2). «In hoc ipso quod homo per Deum iurat, profitetur Deum potiorem, utpote
cuius veritas est indefectibilis et cognitio universalis» (ibid., a. 4).
13 Hinc efficitur quoque, ut iusiurandum sit actus religionis extraordinariae quidem;
etenim, invocando Deum testem vel sponsorem summum, confitetur iurans Deum
esse veracem, Deum omnia scire, Deum esse iustum ... Sane spectat homo iurans
rationem iuris, spectat verum eruendum, utitur nomine Dei ad fines humanos, sane
id, quod iureiurando confirmatur, non mutatur in actum religionis, quippe cum actus
morales speciem trahant a fine, nihilo minus manifesta nota religiosa iurisiurandi
nullo modo potest negari, invocando enim nomen Domini ilio modo patrat actum
religionis; uterque finis, finis humanus, quem iurans per se intendit, et altior finis
religionis, non inter se pugnant, nam homo iurans Deum ita veneratur, ut proximi
utilitas sequatur, similiter Deus ipse in operando suum honorem simulque nostram
utilitatem intendit. Quare nefas est iuriiurando detrahere notam religiosam» (O.
SCHILLING. Theologia moralis specialis ..., n. 321).
271
in lui. Allora il giuramento non è altro che un modo più solenne di affermare, un
modo particolarmente forte di dire e quindi particolarmente efficace 14.

3. Quanto alle dottrine:


A) Nel Vecchio Testamento non si combatte il giuramento come tale15, ma il
giuramento falso, e il giuramento inutile, il giuramento in nome di dei stranieri.
«Non giurate nel nome di dei stranieri» - si dice in Es.23,13 - «che non deve
nemmeno udirsi sulle vostre labbra». «Non giurerai il falso nel nome mio» - si dice in
Lev.19,12 - «e non profanerai il nome del Dio tuo». «Solo per il nome di lui (Dio)
giurerai»16.
Inoltre si invita a mantenere con particolare cura le promesse giurate. «Ecco quello
che mi ha prescritto il Signore» - dice Mosè in Num.30,1 - «Se un uomo ha fatto al
Signore un voto, o s'è legato con un giuramento, non farà che la sua parola sia vana,
ma adempirà tutto quanto ha promesso».
Infine si invita ad essere cauti nel giurare. Si dice infatti in Eccli.23, 9-11:
«Al giuramento non abituar la tua bocca, molte invero son le cadute per causa di
esso,
_______________
14 «Gli uomini giurano per chi è maggiore di loro e per essi il giuramento di
confermazione è fine di ogni controversia. Per la qual cosa volendo Dio abbondare
nel far conoscere agli eredi della promessa l'immutabilità del suo consiglio, vi pose
di mezzo il giuramento .... (Ebr.6, 16 s.). È ovvio che Dio non può chiamar se stesso
come teste di se stesso.
«Neque enim Deus ideo iurat, quod fide credentis indigeat aut testimoniorum
adstipulationibus destitutus suffragìum sacramenti requirat homines, quin fidem
nobis adsciscimus sacramento et ideo iuramus ut credamur vera dixisse. Deus autem
et cum loquitur fidelis est, cuius sermo sacramentum est; non enim propter
sacramentum fidelis Deus, sed propter Deum etiam sacramentum fidele est» (S.
AMBROGIO, De Cain et Abel, I, 43).
«Vox illa (iuro) ... ex usu loquendi quotidiano revera non sufficit, quia saepe
tantummodo significat acriorem affirmationem. (O. SCHILLING, Theologla moralis
specialis ..., n. 321).
15 In alcuni posti, per es. in Es.22, 10 s. lo si comanda addirittura: «se alcuno
affiderà ad un suo prossimo un asino, un bove, una pecora, o un animale qualsiasi
perché glielo guardi, e questo verrà morto o reso inutile o rapito dai nemici, senza
che nessuno abbia veduto, (il guardiano) giurerà di non aver steso la mano alla roba
del prossimo suo; il padrone accetterà questo giuramento e l'altro non sarà
obbligato a restituire». Nel Salm.14,4 fra le qualità del vero cultore di Dio c'è anche
che «giura al suo prossimo e non l'inganna» e nel Salm.23,4 si dice che salirà al
monte del Signore colui che «non giura al prossimo con frode», Cfr. anche Ger.4,2.
16 Deut.6, 13; cfr. anche 10, 20.
272
e il nome di Dio non sia di continuo sulla tua bocca; né t'immischiare col nome dei
santi, perché non ne andrai impunito.
Come uno schiavo messo continuamente alla tortura, non manca di lividure; così chi
giura e pronunzia (ogni momento) il nome (del Signore), non sarà esente da
peccato».
B) Nel tardo giudaismo il giurare era divenuto così frequente che gli scribi cercarono
in qualche modo di regolamentarlo e di contenerlo con una casistica assai
complicata17.
C) Cristo aggira la complessa casistica farisaica insistendo sulla necessità di non
giurare: «Avete udito che fu detto agli antichi: Non spergiurare, ma adempi i tuoi
giuramenti al Signore. Io però vi dico di non giurare in modo alcuno, né per il cielo
che è trono di Dio, né per la terra ch'è sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme
ch'è la città del gran re; né giurare per la tua testa, perché non puoi far bianco o
nero un solo capello. Ma sia il vostro parlare: sì, sì; no, no, ché il di più di questo
viene dal maligno»18. Sullo stesso argomento Cristo ritorna nel cap. 23 di Matteo:
«Guai a voi, guide cieche, le quali dite: "Se uno giura per il tempio, non è niente; ma
se giura per l'oro del tempio, resta obbligato". Stolti e ciechi; e che cosa è da più,
l'oro o il tempio che santifica l'oro? "Se uno giura per l'altare, non è niente; ma chi
avrà giurato per l'offerta che c'è sopra, resta obbligato". Ciechi! e cosa è da più,
l'offerta o l'altare che santifica l'offerta? Chi dunque giura per l'altare, giura e per
esso e per tutte le cose che ci stan sopra; e chi giura per il tempio, giura e per esso e
per colui che lo abita; e chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio, e per colui che
ci siede»19.
La stessa posizione abbiamo in S. Giacomo: «Soprattutto, fratelli miei, non vogliate
giurare né per il cielo, né per la terra, né qualsivoglia altro giuramento. Ma sia il
vostro parlare: Sì, sì; no, no, affinché non cadiate in condannazione»20
____________________
17 Vedi ciò che riferisce Strack-Billerbeck nel commento a Matt. 5,33 s., 23,16 ss.,
14,24 s. (Kommentar zum Neuen Testament ..., I, 324 ss.). Vedi anche ciò che
riferisce J. BONSIRVEN, S. J., Textes rabbiniques des deux premiers siècles chrétiens
... alla voce «serment».
18 Matt. 5, 33-37.
19 Matt. 23, 16-22.
20 5,12.
273
D) Sul significato preciso delle parole di Gesù e di S. Giacomo non è mancato
qualcuno (per es. Quaccheri e Mennoniti) che ha assunto posizioni rigide e quindi ha
negato la liceità di qualsiasi giuramento. Si tratta però di gruppi ristretti21.
Nella tradizione abbiamo tre serie di testi: una che invita a non giurare; una che
condanna coloro che respingono il giuramento, ed una che invita ad usar molta
cautela.
Per la prima serie si veda ad esempio il Concilio di Aquisgrana che dice ai monaci
«ne iurent, ne forte periurent»22. Per la seconda posizione si veda ad esempio la
condanna dei Valdesi e di Vicleff23.
Per la terza serie si veda ad esempio la Bulla Supra montem di Nicolao I riguardante
la regola del terz'ordine dove a proposito del giuramento si dice: «A iuramentis
autem solemnibus omnes abstineant, nisi necessitate cogente in casibus per
indulgentiam Apostolicae Sedis exceptis, videlicet, pro pace, fide, calumnia et
testimonio perhibendo, ac etiam in contractu emptionis, venditionis et donationis,
ubi videbitur expedire. In communi quoque loquela vitent, prout poterunt,
iuramenta. Et qui die aliqua minus caute iuraverint lapsu linguae (prout contingere
in multiloquio consuevit) die ipso in sero, cum debet recogitare quid fecerit, dicat
tribus vi-
__________________
21 Ecco per es. che cosa dice N. H. Soe nella sua morale cristiana: «Diese Griinde
machen es mòglich festzustellen, dass der Christ, wenn der Staat es fordert, einen
Eeid leisten kann ... Sonst aber muss ein Christ so als einer, der dìe Wahrheit liebt,
bekannt sein, dass es iiberfliissig und sinnlos erschiene, wenn er seine Aussagen
durch einen Eid bekràftigen wiirde... Deswegen wird der Christ nicht nur daran
arbeiten, dass alles gedankenlose Schworen und Fluchen aufhort, sondern sich auch
um ein solches Vertrauen zwischen den Menschen bemuhen, dass die Anwendung
des Eides als ein Missbrauch erkannt wird. Das ist der rechte Weg des Gehorsams
gegen das Wort Jesu» (N. H. SOE, Christliche Ethik ..., Chr. Kaiser Verlag, Miinchen
1949, p. 281).
22 Cit. in DE GUIBERT, S. J., Documenta ecclesiastica ..., p. 72.
23 «Tertius istorum error in Waldensium errore coniurat, quonìam et ii et illi in
nullum eventum asserunt fore iurandum, dogmatizantes mortalis criminis
contagione pollui et poena teneri, quos contigerit iuramenti religione constringi...»
(Giovanni XXII, Costituzione Gloriosam Ecclesiam del 23 gennaio 1318 contro i
fraticelli, in D. 487).
«Iuramenta illicita sunt, quae fiunt ad corroborandos humanos contractus et
commercia civilia» (Errores Iohannis Vicleff, in D. 623).
«Item, utrum credat et asserat, quod in nullo casu sit licitum iurare»
(lnterrogationes Wicleffitis et Hussitis proponendae, in D. 662).
Vedi anche la condanna degli errori di Quesnel, in D. 1451.
274
cibus orationem dominicam, propter incaute facta huiusmodi iuramenta ...»24.
Sulla stessa linea è stata tutta la tradizione dei teologi. Ricordiamo a titolo
d'esempio la posizione di S. Tommaso. Nella II-II, q. 89, a. 5 si chiede se il
giuramento sia cosa desiderabile e rinnovabile spesso e risponde testualmente: «Id
quod non quaeritur nisi ad subveniendum infirmitati vel defectui, non numeratur
inter ea guae sunt per se appetenda, sed inter ea guae sunt necessaria; sicut patet
de medicina guae quaeritur ad subveniendum infirmitati. Iuramentum autem
quaeritur ad subveniendum alicui defectui, quo scilicet unus homo alteri discredit. Et
ideo iuramentum non est habendum inter ea guae sunt per se appetenda, sed inter
ea guae sunt huic vitae necessaria, quibus indebite utitur quicumque eis utitur ultra
terminos necessitatis».
La tradizione cattolica non condanna quindi il giuramento, ma solo suggerisce
cautela nel suo uso25. E in tal senso intende le parole di Cristo26.

II. - Aspetto morale.


Passiamo ora all'aspetto morale: è lecito giurare? A quali condizioni? Siamo tenuti a
farlo?
I. Legge naturale. In base alla sola riflessione razionale possiamo dire che a certe
condizioni il giuramento è legittimo e necessario. Ci possono essere infatti dei casi in
cui sia augurabile o addirittura necessario dare delle proprie affermazioni una
garanzia ineccepibile. Si pensi quando si tratta di decidere della vita fisica di una
persona in un processo, quando si tratta di affidare un mandato importantissimo ad
una persona (es.: capo militare in tempo di guerra, capo di Stato, capo religioso,
ecc.). Ora l'unico modo per dare una garanzia di tal genere è il giuramento. Per
conseguenza
___________________
24 Cit. in DE GUIBERT, S. J., Documenta ecclesiastica ..., p. 134.
25 «Non condemnamus iuramentum, imo credimus puro corde quod cum veritate
et iudicio et iustitia licitum sit iurare» (Lettera di Innocenzo III al vescovo di
Tarragona, in M. P. L. 215, 1512, D. 425).
26 «Illo verbo "omnino" monet Dominus, ne iusiurandum pro re optata habeamus,
tamquam bonum optandum appetamus, vetamur igitur sine necessitate iurare» (O.
SCHILLING, Theologia moralis specialis, ... n. 324).
275
ci possono essere dei casi in cui il giuramento è lecito e addirittura doveroso.
Dopo quanto si è detto le singole affermazioni dovrebbero esser chiare. Chiare pure
risultano le condizioni della liceità. Occorre innanzi tutto che l'affermazione sia vera
e che la volontà di mantenere sia sincera, altrimenti avremmo un giuramento falso.
Occorre inoltre che l'affermazione, che con il giuramento si conferma, sia lecita: non
sempre infatti la verità si può dire né tutte le promesse si possono fare; ci sono delle
verità che si debbono nascondere e dei segreti da conservare e delle promesse che
non si possono fare. Occorre infine che sia necessario dare delle proprie
affermazioni una garanzia così grande. Non è quindi lecito giurare se la cosa non è
vera o la volontà non sincera, se l'affermazione - pur essendo vera - non si può fare
o anche solo se non c'è motivo di dare o di richiedere una garanzia così grande21.
Secondo la nota espressione tradizionale, il giuramento non può essere prestato se
non in veritate, in iustitia et in iudicio.
Né si può opporre quell'aspetto quasi strumentale di cui si è parlato nello studio
della genesi del giuramento. Se è vero infatti che il giuramento non tende
direttamente a riconoscere l'infinita eccellenza divina nel campo della verità, è pur
vero che tale riconoscimento contiene. È come per la preghiera di domanda:
partendo dal fatto che solo Dio ci può aiutare, ricorriamo a Lui e doman-
___________________
27 «Il giuramento è un atto essenzialmente religioso; ma è insieme un indice dello
scarso valore che la parola umana comunemente riceve. Quest'ultima
considerazione fa sì che il giuramento non possa essere posto alla pari degli altri atti
di culto; nella linea dei mezzi comandati o consigliati per il perfezionamento dello
spirito. Per questo la parola di Cristo suona piuttosto aspra nei riguardi del
medesimo, mentre tende a risollevare tra i suoi discepoli la semplicità del linguaggio
ispirata alla mutua fiducia» (A. LANZA-P. PALAZZINI, Principi di Teologia Morale, vol.
II: Le virtù, Studium, Roma 1954, p. 96 s.).
Dice molto opportunamente lo Schilling: «Iuramentum ... est auctoritas
extraordinaria veritatis et fidei ideoque pro ultima ratione habenda est et respectu
maiestatis divinae et imbecillitatis humanae; esset enim non magnae reverentiae, si
quis Deum testem invocaret propter aliquid vile, et quod attinet ad humanam
imbecillitatem, haec inducit facile ad peccata oris. Institutum est iusiurandum, ut sit
tamquam remedium imbecillitatis humanae, et ad probandum, quod dicimus,
necessarium instrumentum, itaque iuramentum adhibere debemus similiter ac
medicamentum, adhibendum est tantummodo, si gravis et iusta causa subest. Quod
valet, quamquam iusiurandum est actus religionis; est enim actus extraordinarius.
Quae cum ita sint, pastores animarum et magistratus civiles debent reverrntiam
iuramenti religiose augere. Illud praecipue a Domino admonemur, ne faciles
mrrnum et propensi ad iurandum simus, idque sedulo docendum erit et fidelium
auribus inculcandum» (Theologia moralis specialis ..., n. 325).
276
diamo il Suo aiuto. Nel giuramento si parte dal fatto che solo Dio può dare la
garanzia che ci occorre e lo preghiamo di darla.
Nemmeno si può parlare di contrasto con l'insegnamento di Cristo in quanto, come
abbiam visto, Cristo non proibisce il giuramento ma spinge il cristiano ad essere egli
stesso garanzia della verità delle sue affermazioni.
Possiamo quindi concludere: a certe condizioni il giuramento è lecito e può essere
addirittura necessario. Si può quindi peccare sia non giurando quando è necessario,
sia giurando quando non è necessario.
2. La legge umana. Le attuali legislazioni conservano il giuramento sia nel suo
aspetto assertorio, sia nel suo aspetto promissario. Prendono atto dell'importanza
del giuramento come mezzo per essere più sicuri di quanto uno afferma o di quanto
promette e quindi fanno ricorso ad esso tutte le volte che hanno interesse ad essere
più sicuri sia sulla prima che sulla seconda cosa.
Vediamo un breve cenno della legislazione canonica e della nostra legge civile.
A) Nella legislazione canonica si parla del giuramento nei canoni 1316-13 (27).
Innanzi tutto il Codice definisce il giuramento «invocazione del nome di Dio in
testimonianza della verità» (can. 1316, § 1) e ricorda che può prestarsi solo «in
veritate, in iudicio, in iustitia» (can. 1316, § 1). Ricorda inoltre che «qui libere iurat
se aliquid facturum, peculiari religionis obligatione tenetur implendi quod
iureiurando firmaverit» (can. 1317, § 1), a meno che si tratti di cosa diretta «in
damnum aliorum, aut in praeiudicium boni publici vel salutis aeternae» (can. 1318, §
2). Il giuramento «per vim aut metum gravem extortum valet, sed a superiore
ecclesiastico relaxari potest» (can. 1317, § 2).
In particolare il Codice di Diritto canonico richiede il giuramento: agli amministratori
dei beni ecclesiastici28. alla superiora generale nel processo sugli scritti di una serva
di Dio29, ai cardi-
____________________
28 «Antequam administratores bonorum ecclesiasticorum... suum munus ineant,
debent se bene et fideliter administraturos coram Ordinario loci vel vicario foraneo
iureiurando cavere» (can. 1522, I).
29 «Si agatur de Serva Dei guae ad aliquam religionem pertinuerit, suprema
religionis Moderatrix vel Antistita monasterii iusiurandum pariter praestet se
diligentem scri-
277
nali 30, ai chierici che chiedono l'incardinazione in un'altra diocesi 31, agli ufficiali
della Curia32, a coloro che sono promossi all'episcopato33, ai giudici dei tribunali
ecclesiastici34, agli ordinandi35, ecc.
B) La legislazione italiana richiede il giuramento:
a) nella procedura penale ai testi, ai periti e agli interpreti36.
b) nel processo civile37.
Inoltre sono previste pene per chi giura il falso: «chiunque, come parte in giudizio
civile, giura il falso è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Nel caso di
giuramento deferito d'ufficio, il colpevole non è punibile, se ritratta il falso prima
che sulla domanda giudiziale sia pronunciata sentenza definitiva, anche se non
irrevocabile. La condanna importa l'interdizione dai pubblici uffici» 38.
Fra i giuramenti particolari ricordiamo a titolo d'esempio quello del presidente della
repubblica: l'art. 91 della costituzione stabilisce infatti che egli «prima di assumere le
sue funzioni presta giuramento di fedeltà alla repubblica e di osservanza della
Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune». Il giuramento deve anche
essere prestato da chiunque entra nelle file dell'esercito39. «Col giuramento il
militare vincola solennemente la sua parola d'onore: il militare spergiuro è
macchiato d'infamia» 40
III. - Aspetto pastorale.
Le considerazioni fatte sulla genesi psicologica del giuramento
_____________________
ptorum perquisitionem peregisse, omnia quae possidebat Servae Dei scripta
tradidisse ...» (can. 2047, § 2).
30 «Promotus (cardinalis) absens a Curia debet in recipiendo bireto rubro iurare se
intra annum, nisi legitimo detineatur impedimento, Summum Pontificem aditurum»
(can. 234).
31 «Ad incardinationem alieni clerici Ordinarius ne deveniat, nisi ... clericus
iureiurando coram eodem Ordinario eiusve delegato declaraverit se in perpetuum
novae dioecesis servitio velle addici ad normam sacrorum canonum» (can. 117, 3°).
32 Can. 364, § 2, 1°.
33 Can. 332, § 2.
34 Cfr. can. 1621, 1491, § 2, 2037, 2144.
35 Cfr. can. 956, 994, § 2.
36 Vedi ad es. gli art. 357, 449, 658 al. 2° del codice di procedura penale.
37 Vedi ad es. gli art. 2736-2739 del codice civile.
38 Art. 371 del cod. pen.
39 Regolamento di disciplina militare, p. I, c. 1, n. 1.
40 Ibid. Si vede quindi che nel campo civile il giuramento non è sempre una
invocazione di Dio in testimonianza della verità,
278
e le citazioni dalla Sacra Scrittura permettono di dire subito che dal punto di vista
pastorale ciò che maggiormente importa non è di giurare, ma di istituire un tipo di
vita che sia di per sé prova della verità delle proprie affermazioni e della sincerità
delle proprie intenzioni. Il cristiano non potrà mai dimenticare le parole di Gesù: «sia
il vostro parlare: sì, sì; no, no, ché il di più di questo viene dal maligno».
Quando poi il giuramento deve essere prestato venga fatto con tutta quella serietà
e quella preparazione che un atto così importante richiede.
279

CAPITOLO VI

VOTO

Anche il voto può essere studiato da punti di vista diversi: fenomenologico, morale,
pastorale.

I. - Aspetto fenomenologico.
1. Il fatto del voto e le sue forme. Il voto è un fatto frequente nella storia. Lo
incontriamo nell'antichità e oggi. Nel mondo classico si ricordi: Ettore che prima di
affrontare Aiace vota le sue armi al tempio di Apollo1, gli Ateniesi che prima della
battaglia di Maratona promisero ad Artemide di sacrificare tante capre quanti
nemici avrebbero ucciso onde poi dovettero sacrificare ogni anno 500 capre2. Il
dittatore Postumio promette un tempio a Castore3. Nella storia del popolo ebraico
si ricorda ad esempio il voto di Giacobbe di dare fra l'altro le decime di tutto quanto
avrebbe ricevuto da Dio se fosse tornato a casa sano e salvo 4, il voto degli israeliti
guidati da Mosè di distruggere la città dei cananei (Num.21,2), il voto di Jefte di
sacrificare la prima persona che gli si sarebbe fatta incontro se fosse tornato
vittorioso (Giud.11, 30-31), e il voto di Anna, poi madre di Samuele, se avesse avuto
un figlio maschio, di consacrarlo a Dio, ecc. Un voto caratteristico del popolo ebraico
è il nazireato, ossia l'impegno temporaneo (almeno trenta giorni) o perpetuo di
astenersi dal vino, e dalle bevande ineb-
______________
1 Il. VII, 32.
2 SENOFONTE, Anabasi, 3, 2, 12.
3 Tito LIVIO, Deche di storia romana, II, 20,
4 Gn.28, 20-22.
280
brianti, dal tagliarsi i capelli, dal toccar le salme, ecc. Nazirei perpetui furono, ad
esempio, Sansone, Samuele e S. Giovanni Battista.
Nel Cristianesimo particolare importanza hanno i voti di povertà, castità e
ubbidienza che vengono emessi nella professione religiosa.
Se osserviamo attentamente il voto nel suo presentarsi storico, vediamo subito che
si trova in forme diverse e quanto al soggetto che lo emette e quanto alla cosa
promessa o data e quanto alla forma e quanto alle conseguenze, ecc.
Il soggetto può essere un singolo individuo o un gruppo.
La cosa promessa può essere un'azione o una cosa da farsi (es. il voto di Giacobbe,
di Jefte) o da evitarsi (es. il voto di Sansone).
La forma può essere assoluta o condizionata.
Si arriva così alle distinzioni tradizionali del voto, in
1) voto personale, reale, misto a seconda che ha per oggetto un'azione od
omissione della persona (es. pellegrinaggio), una cosa (per es. un'elemosina) o l'uno
e l'altra assieme;
2) voto assoluto o condizionato, a seconda che si appone o no una condizione;
3) voto individuale o collettivo.

2. Genesi psicologica del voto. Se guardiamo alle circostanze in cui nasce il voto ed
ai motivi che lo fanno sorgere li possiamo ridurre a due fondamentali: situazioni di
bisogno, situazioni di generoso amore.
Innanzi tutto da una situazione di bisogno. È noto che la volontà umana si piega
facilmente mediante regali o promesse di regali: non sono molti quelli che sanno
resistere dinanzi ad un dono o alla promessa di esso.
Per tale fatto quando si vuol ottenere un favore da una persona si è naturalmente
inclinati a fargli o a promettergli una ricompensa. Quanto all'oggetto si cerca di
scegliere la cosa più bella e più gradita almeno relativamente alle proprie possibilità.
Quanto alla forma, per esercitare una pressione maggiore si sceglie solitamente la
forma condizionata: «se mi fa questo piacere ...» ; «se mi concede questo favore ...»
; «se mi ottiene questo posto ...».
Qualcosa di analogo avviene riguardo a Dio. In certi momenti o in certe circostanze
vediamo chiaramente che soltanto Dio può ac-
281
contentare i nostri desideri e accogliere le nostre domande: gli altri non possono o
non vogliono aiutarci. Allora ci rivolgiamo a Dio e anche riguardo a Lui siamo inclinati
a fargli dei doni o a prometterglieli. Anche riguardo a Lui siamo portati a offrire o a
promettere la cosa migliore, almeno per quello che ci è possibile.
Il voto fatto a Dio parte quindi dal riconoscimento che Egli solo può accogliere la
domanda nostra e tende a chiederglielo in modo molto efficace.
Da tale punto di vista risulta già che il voto tende a offrire qualche cosa di non
rigorosamente dovuto, qualche cosa di essenzialmente libero. Inoltre tende a offrire
il meglio che abbiamo e la cosa più gradita. Se, potendo offrire una cosa molto bella,
ne offriamo una poco bella, oppure, se potendo offrire una cosa molto gradita a
colui da cui ci aspettiamo il favore ne offriamo una poco gradita, anziché far piacere
offendiamo e quindi anziché propiziarci la volontà dell'altro ce la inimichiamo
ulteriormente.
Da un altro lato però il voto importa un pericolo di minor libertà: spesso infatti il
male che ci incombe e da cui cerchiamo di liberarci o il bene che vorremmo avere e
che non riusciamo a procurarci è così grande da obnubilare fortemente o
totalmente la nostra volontà. Pur di toglierci il male o procurarci il bene che
desideriamo appassionatamente siamo portati a promettere le cose più grandi:
queste sfumano nel tempo e diventano sacrifici di poco conto di fronte alla
privazione che ci angustia.
Quando poi il male è scongiurato o il bene ottenuto allora l'esecuzione della
promessa si presenta in tutta la sua entità - soprattutto se molto lunga nel tempo - e
ci accorgiamo della sua gravità e del sacrificio ch'essa comporta. Onde siamo
inclinati a scrollarci di spalle la promessa fatta e quasi a rinnegarla.
La seconda radice del voto è la riconoscenza. Anche qui si verifica la medesima
curva psicologica. La gioia del desiderio soddisfatto porta in un primo tempo a dare
le cose più grandi o a fare le promesse maggiori: niente appare degno per
ricompensare chi ci ha fatto un dono così grande. Siamo quindi ancora una volta
portati a offrire o a dare la cosa più bella e più gradita - sempre concretamente
parlando -. Senonché anche qui col passare del tempo la grandezza del dono
ricevuto tende a divenire psicologicamente meno evidente e meno motiva, mentre
la grandezza del sa-
282
crificio (soprattutto se si tratta di prestazioni continuate) tende a divenire sempre
più chiara e più pesante.
Di qui la tendenza a ritirare il proprio dono o a cessare le prestazioni promesse.
Veniamo ora allo
II. - Aspetto morale.
È lecito fare voti? Siamo tenuti a farne?
1) Già la ragione risponde di sì. Nel voto non abbiamo in fondo che una
manifestazione di un interno atteggiamento, una forma di culto esterno.
Riconoscendo che solo Dio può darci ciò di cui abbiamo bisogno, Glielo chiediamo e
Gli diamo o Gli promettiamo il meglio che abbiamo; riconoscendo che da Dio ci è
venuto un gran beneficio, lo ringraziamo e Gli diamo ciò che di meglio possediamo.
Per ciò stesso però dovrà trattarsi di qualche cosa di non dovuto o di dato come se
non fosse dovuto e della cosa migliore concretamente parlando. Si potrà dare o
promettere anche qualche cosa di già dovuto, ma la si dà quasi come se non fosse
dovuta e quindi se venisse a mancare il titolo per cui è dovuto la si darebbe
ugualmente e forse più volentieri. Per conseguenza si assume un dovere nuovo:
dovere di religione. Per es. nel far voto di non offendere la castità si prescinde quasi
dal fatto che già si è tenuti a esser casti e lo si promette come se non si fosse tenuti;
perciò si assume un dovere nuovo: quello di restar casti perché se ne è fatta
promessa a Dio, così che venendo meno si pecca sia contro la virtù della castità, sia
contro la virtù della religione.
2) La rivelazione suppone costantemente la liceità del far voti e insiste soprattutto
sulla necessità di esser cauti nell'emetterli e di osservarli quando si son fatti, a meno
che sian in contrasto con la legge morale. «Se un uomo ha fatto al Signore un voto» -
si dice in Num.30,2 - «o s'è legato con una promessa non farà che la sua parola sia
vana, ma adempirà tutto quanto ha promesso». «Quando avrai fatto un voto al
Signore Dio tuo» - si dice nel Deut.23, 21-23 - «non indugiare ad adempirlo, perché il
Signore Dio tuo te ne chiederà conto e se avrai indugiato ti sarà ascritto a peccato.
Se non promettevi non era peccato; ma quello che una
283
volta è uscito dalle tue labbra lo devi mantenere e fare come hai promesso al
Signore Dio tuo, come di tua volontà e di tua bocca hai promesso n. Il Salm.15,4
mette fra coloro che sono degni ospiti di Dio colui che «giurato a suo scapito, pur
non cambia», ossia quello che osserva i giuramenti anche quando gliene viene un
danno. Il Salm.75,12 dice: «Fate voti al Signore Dio nostro e adempiteli». E
l’Eccli.5,3: «Quando hai fatto un voto a Dio, non indugiare a scioglierlo; perché a Lui
dispiacciono i negligenti; quanto hai promesso mantienilo. Meglio non fare voti che
farli e non adempirli».
Dai Padri ricordiamo solo due passi di S. Ambrogio nel De Officlis dove dice che
tanto Jefte quanto Erode non erano tenuti a mantenere il giuramento, anzi erano
tenuti a non mantenerlo. «È anche contro il dovere talvolta mantenere una
promessa, un giuramento, come Erode, che giurò di dare alla figliuola qualunque
cosa le chiedesse ... E che dire di Jefte, il quale, perché aveva promesso di sacrificare
a Dio ciò che prima gli fosse venuto incontro, sacrificò la figliuola ...? Sarebbe stato
meglio non fare tale promessa, che poi mantenerla con un parricidio» 5.
«Quanto meglio sarebbe stato uno spergiuro che tal giuramento!
Se si può chiamare spergiuro il non mantenere ciò che aveva promesso, esaltato dai
fumi del vino, e ciò che aveva promesso tra i giri delle danze» 6.
3) L'attuale legislazione incomincia a definire il voto come «promessa deliberata e
libera fatto a Dio di un bene possibile e migliore» (can. 1307, § 1).
Distingue poi i voti in pubblici e privati, solenni e semplici, personali, reali e misti.
Pubblici sono i voti accettati dal legittimo superiore a nome della Chiesa; altrimenti
sono privati. Solenni sono quelli riconosciuti come tali dalla Chiesa1.
__________
5 I, 255.
6 III, 77. Ricordiamo anche le seguenti espressioni di Urbano I: «Quicumque ... videat
ne pollicitationem suam irritam faciat: sed hoc, quod domino est pollicitus, fideliter
custodiat, ne damnationem, sed praemium sibi acquirat: quoniam satius est non
vovere, quam votum prout melius potest, non perficere» (URBANUS I, Epistola. in
Mansi, I, 751).
7 Can. 1308, § 2,
284
Ricorda che tutti quelli che hanno un congruente uso di ragione possono emettere
voti a meno che siano proibiti dal diritto8. L'attuale legislazione riconosce che il voto
può essere emesso anche in seguito a timore. Dichiara però ipso iure nulli tutti i voti
emessi in seguito a timore grave e ingiusto9.
Ricorda che il voto deve essere adempiuto ex virtute religionis10. L'obbligo riguarda
colui che ha emesso il voto, a meno che si tratti di voto reale nel qual caso passa agli
eredi 11.
Inoltre riguarda la cosa votata a meno che il cambiamento non sia in una cosa
equivalente o migliore e non si tratti di materia riservata. Si deve cioè fare ciò che si
è promesso col voto a meno che si tratti di materia equivalente o addirittura
migliore, e a meno che si tratti di voti riservati. Stabilisce poi che «riservati alla Santa
Sede sono soltanto i voti di castità perfetta e perpetua e il voto di entrare in una
religione di voti solenni, emessi in forma assoluta e dopo compiuto il diciottesimo
anno di età» 12.
Il voto può esser irritato da chi ha potere dominativo sulla volontà del votante, in tal
maniera che in nessun caso il voto revivisca13. Invece chi ha potere non sulla
volontà del votante, ma soltanto sulla materia del voto ha facoltà di sospenderne
l'esecuzione fin quando gliene deriverebbe un danno14. «Godono del potere di
irritare i voti i padri nei riguardi dei figli impuberi e probabilmente anche a riguardo
dei figli puberi non ancora emancipati, il tutore e secondo alcuni anche la madre
purché non lo vietino il padre o il tutore. Si disputa se il marito possa irritare i voti
della consorte, che non abbiano diretta relazione con il matrimonio in quanto tale. Il
superiore religioso può irritare tutti i voti dei suoi sudditi, emessi dopo la
professione religiosa; può irritare anche quelli dei novizi, ma solo indirettamente. La
stessa facoltà compete alla Superiora delle suore, nei riguardi delle proprie suddite
...»15.
Dal voto si può dispensare. Tale potere l'hanno il Papa, gli Or-
_______________
8 Can. 1307, § 2.
9 Can. 1307, § 3.
10 Can. 1307, § 1.
11 Can. 1310.
12 Can. 1309.
13 Can. 1312, § 1.
14 Can. 1312, § 2.
15 E. LIO, Voto, in. Enciclopedia cattolica», 12, 1630.
285
dinari, i superiori delle religioni clericali esenti16 e i delegati dalla S. Sede17.
In particolare stabilisce che il voto semplice di verginità, di castità perfetta, di non
sposarsi, di accedere agli ordini sacri o allo stato religioso costituisca impedimento
impediente al matrimonio18.

III. - Aspetto pastorale.


Le indicazioni della genesi del voto e i richiami della rivelazione permettono di
avviare l'aspetto pastorale.
Poiché in materia di voto il pericolo è di esagerare quando si fanno e di minimizzarli
o di annullarli dopo che si è ottenuto ciò che si desiderava, occorrerà molta cautela
prima di farli e molta generosità dopo che si son fatti.
Prima di emetterli sarà bene riflettere parecchio soprattutto se si tratta di voti
destinati a durare nel tempo e, più ancora, se devono abbracciare tutta la vita. Dato
anzi lo stato di tendenziale turbamento in cui il soggetto si trova sarà bene rivolgersi
ad un terzo e stare al suo consiglio: chi si affida ad una persona seria prima di
emettere un voto difficilmente commetterà errore.
Dopo bisognerà attenersi alla massima lealtà con Dio ed alla massima generosità.
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16 Cfr. can. 514, § 1.
17 Can. 1313. Si ricordi la differenza fra dispensa e irritazione del voto. La irritazione
è fatta in nome proprio mentre la dispensa è fatta in nome di Dio; l'irritazione
richiede solo la potestà dominativa, mentre la dispensa richiede il potere di
giurisdizione; l'irritazione richiede la giusta causa solo ad liceitatem mentre la
dispensa la richiede anche ad validitatem: l'irritazione può avvenire anche contro la
volontà di chi ha emesso il voto; la dispensa invece richiede il consenso del vovente.
18 Can. 1058, § 1.

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