Ephemerides Carmeliticae 27 (1976/1) 80-143
IL D E S ID E R IO DI « V E D E R E IL VO LT O DI D IO »
N E L L A P IE T À ’ D E I S A L M I
« Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio » (M t, 5, 8). Assimi
lati ad « angeli nel cielo » (M t. 22, 30), gli eletti « vedono il volto del
Padre che è nei cieli » (M t. 18, 10). L ’Apocalisse annuncia che i servi
di Dio e dell’Agnello « vedranno il suo volto » (22, 4). Paolo Aposto
lo, dal canto suo, precisa la dinamica celeste della carità con questi
termini : « Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa;
ma allora vedrem o faccia a faccia » (1 Cor. 13, 12); lo stesso descri
verà la condizione presente e temporanea del popolo di Dio come
un essere « in esilio lontano dal Signore », un camminare « nella fede
e non in visione » (2 Cor. 5, 6. 7). « Visione » è anche il termine a
cui tende e in cui si risolve la speranza di coloro i quali, avendo ri
cevuto nel cuore « le prim izie dello Spirito », anelano al possesso
pieno della loro eredità gloriosa (Rom . 8, 17. 23-25).
« Visione », « vedere Dio », « vedere il volto di Dio » : queste
espressioni, con le quali si designa la perfezione celeste della voca
zione evangelica, hanno una radice veterotestamentaria indubbia,
che è possibile rintracciare sia a livello di linguaggio che a livello
ulteriore di pensiero e di pietà vissuta. « Tu non potrai vedere il mio
volto, dice ad esempio il Signore a Mosè, perché nessun uomo può
vederm i e restare vivo » (Es. 33, 20). D'altro lato, ascoltiamo un sal
mista esclamare: « Quando verrò e vedrò il volto di Dio? » (Sai.
42, 3). E n ell’uno come nell’altro caso, si tratta di una esperienza
vitale di Dio, desiderata come possibile, negata come impossibile.
Come indicato dal titolo, studieremo la tematica religiosa che fa
capo, nel libro dei Salmi, al desiderio di « vedere il volto di Dio »
testé riferito. In una prim a parte, esamineremo tale desiderio alla
luce dalla dinamica antropologica di cui esso appare quale espres
sione caratteristica: una consapevole e sofferta « sete di Dio ». In
una seconda parte, analizzeremo per conto suo la formula « volto
di Dio » e ne situeremo l ’impiego nella generale pietà dei Salmi, con
particolare attenzione al tema della « ricerca di Dio » e « ricerca del
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 81
volto di Dio ». In una terza ed ultima parte, cercheremo di puntua
lizzare il valore specificamente veterotestamentario del desiderio di
« vedere il volto di Dio », con l'intento ulteriore di determinare se
e in quale misura tale valore della pietà israelitica può dirsi coin
volgere il mistero della m orte e di una vita post m ortem in comu
nione immutabile col Signore.
I. - L a M IA A N IM A HA SETE DI Dio
Intesa nella sua più larga accezione, la pietà del desiderio di Dio,
all’interno della quale emerge l'aspirazione a « vedere il volto di
Dio », è presente in larghi strati del Salterio, dove s’esprime con do
vizia di immagini e di concetti appropriiati. In questa prim a parte,
impostiamo il nostro studio intorno ad un simbolo che definisce in
m odo assai incisivo l'intensità vitale di questa pietà: il simbolo del
la sete. Presenteremo in prim o luogo tale im piego nei testi dove ri
corre; ne esamineremo in secondo luogo la testimonianza religiosa.
1. - Assetati di D io
Tre Salmi sono direttamente coinvolti: 42-43; 63 e 143. La sim
bolica della « sete » vi addita una aspirazione, intensamente vissuta,
a sperimentare in qualche modo Dio attraverso una conoscenza con
creta della sua benevolenza e un vivere più intim o nella sua
amicizia.
a) I l lamento del levita esiliato: Sai. 42-43
Il titolo solitamente attribuito a questa preghiera è senz’altro
giustificato *. L ’orante è certamente un esiliato : si trova in terra pa
gan a2. Il suo esilio, tuttavia, egli lo vive come indigenza religiosa: è
1 Si deve leggere Sai. 42 e 43 com e una unica orazione. Notiam o, ad esem
pio, il ritornello (42, 6. 12; 43, 5 ) che ne m anifesta l’unità sia form ale che di con
tenuto. V edere H . H . R o w l e y , The Structure of Ps. X L I I - X L I I I , in Biblica 21
(1940) 45-50. — « E ’ orm ai pacifico che i due salm i 42 e 43 siano stati in origine
un unico salmo. T rop pi elementi stanno ad attestarlo... » (G. C a s t e l l i n o , L ibro dei
Salmi, « L a S acra Bibbia... a cu ra di S. G arofalo », 3 ed., Torino-Rom a, p. 126).
2 L ’insulto della dom anda canzonatoria: « D o v ’è il tuo Dio? » (42, 4. 11) è
una tipica esperienza degli Israeliti costretti a vivere in terra pagana (79, 10;
115, 2; Mi. 7, 10; Gl. 2, 17). L o scandalo di un D io protettore che abbandon a
il suo popolo in b a lìa dei suoi nemici (cfr. anche Es. 32, 12; Ez. 36, 20 ss.; Sai.
126, 2).
82 GIO VAN N I HELEW A
lontano dal « monte sacro » e dalle « dimore » del suo Dio (43, 3);
e il suo « cuore si strugge » al ricordo dei « canti di gioia » che ac
compagnavano le celebrazioni festive nella « casa di Dio » (42, 5). E ’
un le v ita 3.
Oltre ad essere un lamento, la preghiera di questo levita esiliato
è anche desiderio e speranza: desidera ardentemente di ritrovarsi
nel tempio e affida questo suo anelito al Signore (43, 3). La sua no
stalgia, tuttavia, è eminentemente religiosa: egli sperimenta il suo
esilio fisico da Sion come un vivere lontano dal S ignore4, e come
un’aspirazione a ricongiungersi col Signore nel luogo santo che Lo
ospita in patria. Colui che è stato domestico del santuario si sente
nella terra dei pagani come « dimenticato » e « rigettato » dal suo
Dio (42, 10; 43, 2). Spera di ripresentarsi all’altare di Dio come chi
spera di stare di nuovo con « il Dio della sua gioia » (43, 4). Attra
verso dunque il desiderio di ritrovarsi nel tempio, il levita esprime
un altro desiderio, religiosamente ancora più significativo: quello di
ritrovare in qualche m odo il suo Signore. E ’ la sostanza della sua
esperienza e il tema principale della sua preghiera.
Siamo di fronte ad una religiosità inconfondibile, centrata sulla
verità di un rapporto personale con Dio; una religiosità per sé libera
da condizionamenti di tempo e di luogo, anche se concretata storica
mente nell’animo di un pio legato a form ule e concetti tipici del suo
tempo ed am biente5. Quella infatti che possiamo chiamare l’anima
del Salmo, si palesa tutta intera nei prim i due versetti:
Come la cerva anela
ai corsi d’acqua,
così l’anima mia anela
a te, o Dio.
La mia anima ha sete di Dio
del Dio Vivente:
quando verrò e vedrò
il volto di Dio? (vv. 2-3).
3 E ’ tipico della pietà levitica l'attaccam ento am oroso al tempio, e la con
vinzione di trovare nella « casa di Dio » l ’am biente adatto p e r la p ro p ria pie
nezza religiosa (Sai. 23, 6; 27, 4-5; 84, 2-5...).
4 Ricordiam o l ’espressione paolina: « in esilio lontano dal Signore » (2 Cor.
2, 6). E ’ l’esilio caratteristico dell’anim a religiosa. Ovviamente, la situazione del
levita orante ha solam ente un rapp orto d'analogia con quella prospettata da
Paolo...
5 Pensiam o in m odo speciale alla teologia israelitica della presenza divina
nell’unico santuario di Gerusalem m e, divenuta dogm a indiscutibile a partire
dalla riform a « deuteronom ica » di Giosia: 2 Re 23 ; Dt. 12, 2-12 (cfr. Gv. 4, 19-
24). — R. de V a u x , Les institutions de VAncien Testament, I I : Institutions mili-
taires. Institutions religieuses, Paris 1960, pp. 149-173, 175-193. N . L o h f i n k , Die B u n -
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 83
L ’orante si presenta. Con pennellate d’alto lirismo, egli dice tut
to; il resto rimane bello, ma aggiunge solamente tratti circostanziali
ed integrativi. Il nostro levita è un assetato di D io — e tale sua
esperienza, acuita certo daH’amarezza dell’esilio e dal ricordo del
tempio lontano, ha nella perfezione di una pietà profondamente vis
suta la sua unica radice proporzionata. L ’acoento è puro e il senti
mento autentico, sì da rendere percepibile, quasi plasticamente, la
verità di una dinamica personale sita ai vertici dei valori religiosi
e, cosa assai significativa, da portarci istintivamente ad accogliere
la formula « vedere il volto di Dio » nel senso di un’aspirazione as
soluta, quasi non fosse dizione tradizionale dal tenore israelitico piut
tosto lim ita to6.
b ) Come terra riarsa : Sai. 63, 2-3 e 143, 6
Il Salterio Ebraico premette al Sai. 63 questo titolo : « Salmo di
Davide, quando dimorava nel deserto di G iu d a » (v. 1). Il riferim en
to ai fatti raccontati in 1 Sam. 22, 1 ss. è certamente secondario, e
si spiega dal contenuto dei due versetti iniziali:
Dio, tu sei il mio Dio, io ti ce rco 7;
di te ha sete l’anima mia,
per te langue la mia carne,
dersurkunde des Königs Josias. E in e Frage an die Deuteronom ium sforschung,
in Biblica 44 ( 1963 > 261-288, 461-498. — Sulla teologia del Tem pio e, in particolare,
la presenza di Dio nel Tem pio, leggere: J. D a n i é l o u , Le Signe du Tem pie ou de
la Présence de Dieu, Paris 1942; W . F. A l b r i g h t , Archaeology and thè Religion of
Israel, B altim ore 1942, pp. 142-155; M.-J. C o n g a r , L e M ystère du Tem pie o u V E co
nom ie de la Présence de Dieu à sa creature, de la Genèse à l’Apocalypse, Paris
1958; altra bibliografia in R. J. M c K e l v e y , The N e w Tempie. The Church in thè
N e w Testament (O x fo rd Theological M onographs, 3), O xford University Press,
1969, pp. 207-216.
6 E ' chiaro che il Salm ista anela a « vedere il volto di Dio » quale è possi
bile fa rlo nel santuario e nella m isura in cui lo consente la teologia israelitica
del tempo. Il tenore religioso e concettuale di questa fo rm u la veterotestamen
taria verrà da noi studiato in seguito.
7 II verbo usato qui significa letteralmente: alzarsi di bu on mattino per
an dare incontro a qualcuno o per conseguire qualcosa. Im plicita l ’idea di un
im pegno sollecito nella ricerca di un valore (P r. 1, 28; 8, 17) o di un rapporto
con una persona (G b. 7, 21; Pr. 7, 15; Sir. 6, 36). Il v erbo è adoperato anche per
significare un desiderio forte da parte dell’uom o religioso di incontrare e tro
vare Dio, con l ’intento di godere della sua presenza, di conoscerne m eglio la vo
lontà, di sperim entare la sua grazia: Is. 26, 9; Os. 5, 15; Sai. 78, 34... Risulta
chiara la dinam ica convogliata in Sai. 63, 2: « io ti cerco » sin d a ll’aurora, cioè,
col desiderio intim o e sentito di realizzare in te le mie aspirazioni più p ro
fonde — come del resto viene esplicitato col sim bolo seguente della « sete ».
84 GIOVANNI H ELEW A
come terra arida, riarsa, senz’acqua®.
Sì, nel santuario ti (voglio) vedere
per contemplare la tua potenza e la tua g lo ria 9.
Anche questo orante è un esponente della tipica pietà « leviti-
ca », tutta centrata sul privilegio e la gioia di vivere nel luogo santo
che ospita la presenza del Signore. La sua, inoltre, è la « sete » di
chi aspira con l’intera sua vitalità religiosa a realizzare la propria
pienezza personale in un rapporto intimo col suo Dio. Uguale anche
la trasparenza simbolica, anche se all’immagine della « cerva asseta
ta » si sostituisce quella di una « terra riarsa » in attesa dell’acqua
emolliente e risuscitante.
La stessa immagine della terra assetata mette a nudola dispo
sizione dell’umile orante del Salmo 143:
A te protendo le mani,
la mia anima è come terra riarsa davanti a te (v. 6).
E ’ chiara la dinamica religiosa: come ima terra riarsa attende
l’acqua, così l’anima del pio Israelita ha sete di Dio, aspira a rice
vere da Dio testimonianze concrete della sua benignità. Non si avver
te in questa preghiera alcuna allusione inequivocabile al tempio e
alla particolare presenza di Dio nel santuario; ma la pietà che vi si
esprime spunta dalla medesima matrice che generò le due preghiere
precedenti : un desiderio intenso di sperimentare la grazia del Si
gnore e di vivere in rapporto d’intimità con l u i10.
2. - Esigenza vitale
« Come la cerva... »; « come una terra riarsa... ». Desiderare Dio
come l’assetato desidera l ’acqua: ecco la dinamica religiosa attesta
ta nei tre testi riferiti sopra. Quello della « sete » è un simbolo di
8 II Testo M assoretico ha: « in una terra arida... »; è senz’altro un ritocco in
funzione della rilettura che applicava il Salm o alla situazione di D avide nel de
serto di Giuda.
» N o n è necessario correggere il Testo M assoretico e tradurre, come la B ib
b ia della c e i : « nel santuario ti ho cercato, per contem plare la tua potenza e la
tua gloria ». Del resto, l ’idea della « ricerca » è già presente nel contesto (cfr.
sopra n. 7). Questo v. 3 è da leggere com e u n ’ulteriore specificazione del desi
derio espresso precedentemente.
io Notiam o le suppliche: « N o n nasconderm i il tuo v o lto ...» (v. 7 ); «F a m m i
sentire al m attino il tuo amore... Fam m i conoscere la strada che devo seguire,
perché a te innalzo la m ia anim a » (v. 8); « Insegnam i a com piere il tuo bene
placito, perché sei tu il m io Dio » (v. 10).
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 85
straordinaria efficacia espressiva, radicato com ’è in una esperienza
elementare e delle più vitali. Che la pietà israelitica l ’abbia adope
rato per definire una disposizione dell’uomo religioso nei confronti
di Dio è senz’altro rivelatore della intensità con cui un Israelita po
teva sentire nell’intimo e l’assenza di Dio e il desiderio della sua
presenza.
a) Sete: indigenza e desiderio
La sete è ambivalente: è mancanza d’acqua vissuta come deside
rio d’acqua. E ’ indigenza e tensione, povertà e dinamismo. Trattan
dosi poi di acqua, sia la mancanza che il desiderio sono avvertiti
con intensità di vita.
Laddove adopera in senso religioso l’immagine della « sete », la
Bibbia adotta l’uno o l’altro aspetto, oppure i due insieme ma con
accentuazione diversa a seconda dei contesti. Presupposto comune:
nei confronti di Dio e dei suoi doni l’uomo si trova in una condizione
di necessità vitale analoga a quella che l’individuo prova sul piano
naturale in rapporto all’acqua dissetante.
Qualche volta, specie nel contesto del « giudizio di Dio », l’imma
gine della sete indica unilateralmente una condizione negativa di
povertà e d’infelicità: punito da Dio e privato delle benedizioni di
vine, il popolo è come un suolo assetato, luogo d’indigenza e di
m o rte It. E ’ un concetto statico, tutt’intero esauribile nella verità di
una situazione chiusa di desolazione e di v u o to 12. Interessante a
tale riguardo il messaggio di Am. 8, 11-12:
Ecco, verranno giorni...
in cui manderò la fam e nel paese,
non fame di pane, non sete di acqua,
ma di udire la parola di Jahve.
Allora andranno titubando da un mare all’altro,
e vagheranno da settentrione a oriente
in cerca della parola di Jahve
e non ila troveranno!
11 I.s. 44, 3; 49, 10; Ez. 19, 13; la stessa im m agine è applicata alle nazioni:
Ger. 48, 18; 50, 12.
12 E ’ la condizione di chi è sprofondato in una indigenza di morte, sì da non
poter più contare sulle p ro prie energie per sollevarsi. Prostrazione radicale (A m .
8, 13), dalla quale l’uom o potrà liberarsi solamente grazie ad un intervento di
vino simile ad u n ’azione risuscitante (Is. 44, 3; 49, 9-10).
86 GIOVANNI HELEWA
« Non sete d ’acqua, ma di udire la parola del Signore » : il con
cetto è trasferito schiettamente al piano delle più specifiche realtà
religiose. Castigo tuttavia di Dio, questa « sete » è intesa come un
male: stanco di parlare senza trovare ascolto13, il Signore tace e
abbandona Israele alla sua m iseria 14. Silenzio punitivo di Dio che
stabilisce il popolo in uno stato di privazione radicale, come di m or
te 15. Quanto alla ricerca della parola divina riferita nel v. 12, essa
va letta nella medesima linea di sottrazione punitiva : è una « ricer
ca » vana, fatta da una umanità profondamente disorientata; il pro
feta ne parla per mettere ulteriormente in risalto l ’indigenza in cui
il silenzio di Dio fa piombare il popolo sordo e disobbediente 16.
Più positivo e articolato si presenta l’uso dell'immagine della
« sete » in Is. 55, 1 ss. : « 0 voi tutti assetati venite alPacqua... ». Il
contesto non è più punitivo, ma salvifico: gli « assetati » sono nel
l’indigenza, certo, e ilo sono perché hanno ricevuto dal Signore
« doppio castigo per tutti i loro peccati » 17; ma sono anche invitati
a partecipare ai beni della salvezza divina. E l’invito presuppone al
meno la possibilità che in seno al popolo castigato e ridotto in mi
seria sia nata una « sete » positiva e dinamica, atteggiamento di
ascolto e di ricerca impegnata: « Porgete l’orecchio e venite a me,
ascoltate e vivrà la vostra anima » (v. 3); « cercate il Signore, men
tre si fa trovare; invocatelo, mentre è vicino » (v. 6). Rivolte a degli
« assetati », simili esortazioni sono accolte e realizzano la loro p ro
messa nella misura in cui l’esperienza della privazione viene assor
bita in una tensione verso la salvezza, e sublimata in desiderio di
ricevere dal Signore i beni da lui offerti — tensione e desiderio dai
connotati etici e religiosi inconfondibili.
Un messaggio parallelo è da leggere nell'invito che in Pr. 9, 1-6
rivolge la Sapienza a coloro che hanno bisogno di « mangiare » e di
« bere ». Il simbolo della « sete » vi è implicito; ma alla pari del te
sto isaiano, il pensiero è centrato sulla realtà di una umanità in
stato di necessità vitale, alla quale si promettono beni atti a co>l-
13 U n rim provero frequente presso Gerem ia: 7, 25-28; 25, 4; 26, 5; 29, 19; 44,
4-5; cfr. 2 Cr. 36, 15-16; Mt. 23, 34-36.
14 Leggere U. D e v e s c o v i , I silenzi di Jahvé, i n Rivista Biblica 10 (1962) 225-
239.
15 L ’assenza della paro la di Dio è m orte per l’uom o (cfr. Dt. 8, 3; 32, 47);
m entre la « p a ro la » concessa ai profeti è segno della benevolenza del Signore
nei confronti del suo popolo (O s. 12, 11; Dt. 18, 15-18; Sai. 74, 9; Lam . 2, 9).
>6 Un a idea an aloga si ritrova presso Osea (5, 6). D iversa la ricerca di Dio
riferita in Am . 5, 4. 6. 14, dove si tratta di impegno positivo, di disposizione
aperta alle esigenze della volontà divina.
17 Is. 40, 2. T ra 40, 1-2 e 55, 1 ss. ab b iam o tutta la profezia conosciuta come
il « L ib ro della Consolazione d ’Israele ». E ’ prom essa di salvezza imminente
rivolta al popolo che patisce gli effetti del castigo di Dio.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 87
marne la povertà. Anche qui, inoltre, l’uso simbolico è articolato.
La ricchezza del dono di Dio è promessa secondo la dialettica di un
« invito » pressante a « venire », ad accostarsi alla tavola imbandita,
e fatta dipendere, pertanto, dalla risposta di ciascuno a simile in
vito: dalia « sete » e « fame » concepite come negazione di bene vi
tale sono presupposte scaturire una « sete » e una « fame » che si
concretano alla stregua di un tendere sollecito a quanto offre la Sa
pienza. In altre parole, la Sapienza invita gli indigenti a sfamarsi e
dissetarsi al suo banchetto, ma ne approfitteranno solamente coloro
che accoglieranno l’invito col desiderio appropriato di tanto dono i?.
Il simbolo della « sete », già veicolo di una spiritualità della ri
cerca di Dio e del desiderio dei suoi doni, compie nella stessa linea
un passo ulteriore in Sir. 24, 19-21 :
Venite a me, voi che m i desiderate
e saziatevi dei m iei prodotti.
Poiché il ricordo di me è più dolce del miele,
il possedermi più dolce di un favo di miele.
Quanti si nutrono di me avranno ancora fame,
e quanti bevono di me avranno ancora sete.
La Sapienza chiama di nuovo a sé gli affamati e gli assetati. E ’
ovvio che i chiamati sono nell’indigenza ed hanno oggettivamente
bisogno del dono offerto loro; ma l’accento è posto non già su tale
stato di privazione — come avveniva nei testi finora studiati — ,
bensì sull’atteggiamento religioso di quei bisognosi: « Venite a me,
voi che mi desiderate » 19. In loro, la povertà ha generato una aper
tura al dono di Dio, la mancanza un desiderio consapevole ed
impegnato.
Una situazione ulteriore è prospettata nel v. 21 : « Quanti si nu
trono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno
ancora sete ». Alla « sete » nata dalla privazione, ecco subentrare una
« sete » legata all’abbondanza! Quest’im piego dell’immagine è molto
significativo, specie se lo confrontiamo con l’invito « saziatevi » del
v. 19. E ’ indicata per la prima volta nella Bibbia, con sicurezza d’in
tuito e chiarezza di termini, una dimensione essenziale della « sete-
desiderio » nel contesto del vivere religioso : è una « sete », e in
18 « Io am o coloro che mi am ano; e mi troveranno coloro che m i cerca
no », si legge in Pr. 8, 17. Cfr. anche Sap. 6, 12; Sir. 6, 27.
19 U n a im postazione analoga si avverte n ell’invito di Gesù: « Chi ha sete,
venga a m e; e beva chi crede in m e » (G v . 7, 37), dove l’assetato è concepito
come un credente che si accosta a Cristo p e r ricevere dalla sua fonte l ’acqua
vitale dello Spirito.
88 G IOVANNI HELEWA
quanto tale è tensione dell’anima verso valori di cui si avverte in
tensamente l’assenza; ma i valori così desiderati suscitano la « sete »
del fedele non già dall’esterno, quasi fossero ancora estranei a lui,
bensì invece a partire da una ricchezza posseduta nell’intimo. Per
questo, la lacuna avvertita è solamente relativa, e si concreta come
aspirazione a possedere ulteriormente, in modo più perfetto, quanto
già si è conseguito per dono di Dio. In altre parole, il dono di Dio
suscita una « sete » proporzionata del dono di Dio m edesim o — un
desiderio di meglio possederlo, di gustarne con pienezza maggiore
la « dolcezza », desiderio tanto più intenso quanto più abbondante è
stata la donazione divina.
Quella riferita in Sir. 24, 19-21, punto d’arrivo di una tematica
lineare, è una « sete » che definisce una disposizione religiosa che si
verifica come una perfezione interiore protesa per proprio dinamismo
a possedersi sempre più compiutamente. Meglio ancora, essa appa
re come il privilegio di chi, avendo già gustato il dono di Dio, vive
nel presente questa sua ricchezza avvertendone intensamente la li
mitatezza ed anelando, con autentico desiderio di povero, a meglio
conoscere la « dolcezza » del S ignore20.
b ) I l desiderio di D io degli am ici di D io
La testimonianza convergente di Sai. 42, 3; 63, 2 e 143, 6 appar
tiene alla stessa linea teologica che abbiamo visto emergere in Is.
55, 1 ss. e Pr. 9, 1-6, e perfezionarsi in Sir. 24, 19-21; ne illustra poi la
verità in chiave di religione personalmente vissuta.
La « sete » dei tre salmisti è senz’altro radicata in una condizio
ne di privazione e spunta da una esperienza di patimento che si ve
rifica quale sentimento vivissimo di una assenza, quella precisa-
mente di Dio e della sua grazia, assenza avvertita come lacuna d’e
sistenza e im perfezione di vita. La lettera dei tre predetti salmi dice
ai Spiegando questo testo del Siracide alla luce di Gv. 4, 13, S a n T o m m a s o
scrive: « Differentia est in ter rem spiritualem et tem poralem . Licet
d ’A q u i n o
enim u traque generet sitim, tam en aliter et aliter: q uia res tem poralis habita,
causat quidem sitim non sui ipsius, sed alterius rei; spiritualis vero tollit sitim
alterius rei, et causat sui ipsius sitim. Cuius ratio est, quia res tem poralis ante-
quam habeatur, aestim atur m agni pretii et sufficiens; sed postquam habetur,
quia nec tanta, nec sufficiens ad quietandum desiderium invenitur, ideo non
satiat desiderium , quin ad aliud haben dum moveatur. Res vero spiritualis non
cognoscitur, nisi cum habeatur... E t ideo non habita, non movet desiderium ;
sed cum habetu r et cognoscitur, tunc delectat affectum et m ovet desiderium ,
non quidem ad aliud habendum , sed quia im perfecte percipitur pro p ter reci
p ie n ts im perfectionem , m ovet ut ipsa perfecte habeatur » ( Super Evangelium S.
Ioannis Lectura, cap. IV , lect. 2, ed. R. C a i , n. 586).
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 89
tutta l’amarezza di simile stato. Non sta qui, tuttavia, il nerbo es
senziale del loro messaggio. Quella che v'incontriamo è anzitutto una
« sete » positiva, dinamica, vissuta primariamente come desiderio
di Dio, come ricerca della sua intimità, come anelito ad una sua pre
senza che ricolm i di bene e di felicità d’anima del fedele. E ’ espres
sione di pietà avanzata, per cui l ’essere amico del Signore e oggetto
della sua benevolenza è concepito come vertice e pienezza deil’esisten-
za. « Dio della mia gioia » (43, 4); « Meglio della vita il tuo amore »
(63, 4); «F a m m i sentire al mattino il tuo a m o re » (143, 8): senti
menti come questi non germogliano certo in un terreno arido e riar
so. Solamente chi è già ricco di Dio può in questo m odo « anelare »
a Dio (42, 2), « cercare » Dio (63, 2), « protendere le sue mani » e
« innalzare la sua anima » a Dio (143, 6. 8) — cioè, dire col linguag
gio della preghiera la sua « sete di Dio ».
Ed è contro lo sfondo di simile perfezione che dobbiamo ap
prezzare il senso penoso di privazione insistentemente palesato dai
nostri oranti. Esso allora ci apparirà come consapevolezza acuta,
conseguita a partire da quanto si è potuti « gustare » di Dio, di
quanto ancora manca perché possa il fedele autorealizzarsi in Dio
e trovare in lui compiuta felicità. Si verifica qui la dinamica deli
neata in Sir. 24, 21. E ’ la « sete » di chi, avendo bevuto di Dio, ha
ormai le facoltà tese verso Dio come verso una fonte di dolcezza di
cui non può più fare a meno e dalla quale attende, con crescente
anelito, una somma di beni introvabili per ilui in qualsiasi altra di
rezione 21.
Che poi tale desiderio tragga da circostanze avverse — esilio,
persecuzione, pericolo, ecc. — un supplemento d’urgenza e una ca
ratteristica colorazione di sofferenza, ciò non deve distogliere lo
sguardo dalla verità fondamentale dell’esperienza vissuta, che è
quella di un'aspirazione vitale, intensamente e dolorosamente senti
ta, ad una sempre maggiore intimità col Signore. « Dio della mia
gioia »: paradosso eloquente di una « gioia » non estranea ma con
seguita e vissuta, la quale però suscita nell'intim o un ardente e sof
ferto anelito a conoscere nel Signore il gusto di una « gioia » ulte
riore. Anelito che si nutre progressivamente dell’esperienza parziale
del suo oggetto22.
21 N o n è certo fortuito, in questo tipo di pietà, il « ricordo » della gioia
sperim entata nell’intim ità divina (42, 5 = 43, 4; 63, 7-8; 143, 5).
22 E ’ un aspetto del desiderio di Dio fortem ente sottolineato da S a n G i o
v a n n i d e l l a C r o c e : Cantico Spirituale « B », XI, 3-4; Fiam m a V iva d ’am ore « B »,
I I I , 18 ss. In quest’ultim o sviluppo, il D ottore M istico riferisce il detto di San
G regorio M agno: « Q uando l ’anim a desidera veram ente il Signore, possiede già
quello che am a » (M L : 76, 1220), e afferm a poco dopo: « L ’anim a tanto più pos
siede D io quanto più lo desidera » ( I I I , 23). Cfr. sopra n. 20.
90 G IOVANNI HELEWA
c) Aspirazione di vita
Lo stesso simbolo religioso della « sete » ci rivela ulteriormente
la misura d’autenticità raggiunta dalla pietà dei tre oranti da noi in
terrogati, manifestando quanto fosse istintivo e vitale il desiderio
che sorreggeva la loro preghiera.
L ’esperienza della sete, dicevamo, realtà elementare e universale,
è tra le più adatte a servire una simbolica religiosa intenta a con
vogliare nozioni ed esprimere percezioni improntate a verità ed in
tensità. La Bibbia ne è esempio prestigioso. A dire il vero, il favore
che la Bibbia riserva alla simbolica religiosa della « sete » ha radi
ci particolari nell’ambiente e storico e geografico in cui ebbe ad in
carnarsi la Rivelazione. Mondo medio-orientale dove predomina il
deserto e dove l ’elemento etnico porta nell’anima il ricordo di un’o
rigine tribale spuntata nella asprezza di terre sabbiose, quello della
Bibbia ha della « sete » una conoscenza da specialisti, acquisita lun
go ile generazioni alla scuola qualificata della vita — un tipo di vita
in cui lo spettro della sete, da una parte e la ricerca dell’acqua, dal
l’altra, erano componenti ordinarie deH’esistenza.
Sete e acqua. La rarità di questo elemento vitale predisponeva la
mente israelitica ad innalzarlo a simbolo di prosperità, di ogni bene
di vita, anzi della vita medesima. Parallelamente, la « sete » si vide
adoperata come immagine di ogni condizione in cui l ’uomo, privato
dei beni della vita, aspira a questi come alla vita stessa23. Introdot
to nella sfera dell’espressione religiosa, il duplice simbolismo riten
ne questo suo orientamento vitale e radicale.
Si comprende, pertanto, la frequenza con la quale la Bibbia ri
corda, ad esempio, il m iracolo mosaico della roccia trasformata in
fonte d ’acqua viva nel deserto24; un ricordo in cui Israele, popolo
che conosceva la m ortale aridità del deserto25, celebrava precisa-
mente la bontà munifica del Signore, dimostratosi principio di vita
per una umanità « assetata » che di tale bontà aveva bisogno per
23 La frequenza di questa sim bolica nella B ib b ia trova un riscontro interes
sante nella classica poesia araba, dove l ’acqua e la sete sono tra le im m agini
più frequenti ed incisive. Affinità letteraria che rispecchia u n ’affinità m entale
generata nella verità di una esistenza am bientale analoga.
24 Es. 15, 22 ss.; 17, 1 ss.; N u m . 20, 1 ss., cfr. Is. 48, 21; Sai. 78, 15-16- 105, 41;
114, 8; 107, 4-5... anche 1 Cor. 10, 4.
25 Dt. 8, 15; 32, 10; Ger. 2, 6; Os. 2, 5; 13, 5... P er gli Israeliti, il « d e s e r t o »
è anzitutto il « lu o g o della s e t e » (Dt. 8, 15; Is. 35, 7; Sai. 107, 33), la verifica
zione dell’aridità e dell’arsu ra (Is. 35, 1; 41, 8; Ger. 50, 12; Ez. 19, 13; Sai. 63, 2;
78, 17; Gb. 30, 3...), dell’estrem o languore (Is . 32, 2; Sai. 143, 6). M olto espressivo
Os. 13, 5: il deserto è detto ’ eretz tal'ubót => un hapax veterotestam entario, il
cui significato è però assai chiaro: terra del calore ardente e allo stesso tem po
della sete (l’ara b o lahiba: « ardere », detto insieme del fuoco e della sete).
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO D I DIO 91
non soccombere; un ricordo pure in cui Israele esprimeva il con
vincimento che solamente nel Signore si può trovare la « fonte »
indispensabile per sopravvivere nel deserto della storia 26. Come l’ac
qua per chi transita nel deserto e patisce la sete, così i doni di Dio
per il suo popolo: salvezza e v ita 27; vita anche l ’acqua che uscirà
dal tempio rinnovato, ridiventato dimora del Sign ore28. Gli è che per
Israele il Signore, come nel passato così anche nel presente e nel
futuro, è « la fonte d ’acqua viva » (Ger. 2, 13) e, in quanto tale, la
«fo n t e stessa della v it a » (Sai. 36, 10): questo, in linguaggio squisi
tamente biblico, significa per Israele avere nel Signore il suo unico
Salvatore29.
« Fonte della vita »: ¡l’espressione dev’essere accolta nel senso
più concreto e comprensivo. L ’acqua è vita; così pure il Signore
« che disseta i suoi al torrente delle sue d e lizie » (Sài. 36, 9. 10). La
stessa convinzione informa la preghiera dei Salmi 42-43; 63 e 143. I
tre « assetati » sono tesi verso Dio come verso il bene stesso della
vita; desiderano il Signore con la dinamica di un istinto radicale,
quello precisamente della vita medesima. Quella che provano non è
un’aspirazione marginale, suscitata da fattori occasionali; è invece
un impeto dell’essere che vuole realizzarsi in Dio.
« La mia anima ha sete di Dio, del Dio Vivente ». L ’immagine
non è fortuita o gratuita; è linguauggio analogico, certo, ma che
ha con l'oggetto che intende esprimere un rapporto di coerenza istin
tiva. Spontaneamente i nostri oranti tendono la loro anima al Si
gnore alla stregua di « assetati » che desiderano l’acqua desiderando
la vita. L ’analogia, ovviamente, è consapevolmente accolta da loro,
ma non è frutto di particolare sforzo analitico o di faticosa elabo
razione concettuale; è germogliata a livello d'intuizione primaria,
dove precisamente spunta nell’intimo la coscienza di un desiderio
vitale, di un anelito ad essere autorealizzandosi. Quanto alla descri
zione ¡letteraria di tale « sete » dell’anima, essa appartiene ad uno
stadio ulteriore e tutto sommato secondario dell’esperienza vissuta:
quello in cui l ’orante, fattosi poeta, dice a se stesso, in prim o luogo
e a noi, in secondo ¡luogo, la verità che egli vive e la profondità del
le aspirazioni che percepisce nel cuore.
26 Dt. 8, 14-16; Sai. 107, 4-5.
27 I.s. 12, 3; 35, 7; 41, 17-20; 44, 3-4; 55, 1 ss.
28 Ez. 47, 1-12 = , 43, 1-2; Gl. 4, 18; Za. 14, 8; Sai. 46, 5.
29 Os. 13, 4-5. L a lezione com plessiva della storia della salvezza, specialmente
il ricordo dell’esperienza vissuta nella « terra del calore ardente e della sete »
(v. 5 ; cfr. sopra n. 25), deve convincere Israele che « non c’è salvatore fu o ri del
Signore » e che il Signore è per il suo popolo « la fonte di acqua viva » (Ger.
2, 6. 13).
92 GIOVANNI HELEWA
A questo stadio di verbo letterario appartengono le immagini
impiegate per illustrare la natura e /l’intensità della « sete di Dio »
sperimentata dai tre salmisti.
« Per te langue la mia carne, come terra arida, riarsa, senz’ac
qua » (Sai. 63, 2; anche 143, 6). Spettacolo di desolazione e negazio
ne di vita, l'immagine della terra riarsa era certo fam iliare ad un
abitante della Palestina. C’era il deserto, terra della sete, regione del
la privazione e della m o rte 30; c ’era pure la visione ricorrente dei
campi dissecati dal così detto « khamsin », vento bruciante del de
serto che lascia dietro a sé la natura come prostrata (Is. 40, 7);
c ’era infine lo spettro sempre minaccioso della siccità seminatrice
di lutto, quando la natura è come colpita da languore m orta le31.
Così la « carne » del fedele « assetato » di Dio. E ’ un senso di p ri
vazione profonda, che tocca le radici delPesistenza. Ma l ’analogia
trascende la negazione. Dalla natura riarsa sale al cielo un gemito
che chiama l ’acqua vivificante; dalla « carne » languente del fedele
prorom pe un anelito di vita, che è un desiderare il Signore con la
forza istintiva della vita stessa non rassegnata a soccombere.
Non meno incisiva è l’immagine della « cerva che anela ai corsi
d’acqua » impiegata in Sai. 42, 2.
Dobbiamo pensare all’animale medio-orientale, a casa propria
nelle regioni steppose al margine del grande deserto; animale fiero,
nervoso, scattante, dall’istinto mirabilmente adattato all’aridità del
l ’ambiente; fiuta l ’acqua a grande distanza e, specie alla fine dalla
giornata, freccia nella direzione giusta con perfetta sicurezza d'orien
tamento. Im magine concreta di un essere tutt’intero disponibilità al
richiamo vitale dall’acqua. Ma il cervo è anche animale fragile che
vive nel bisogno immediato dell’acqua; asciutto e sprovvisto di ri
sèrva liquida, ne patisce presto la mancanza — e quello che ordina
riamente è simbolo di scatto e di vita lità 32, divento subito imma
gine di spossatezza e di languore33. E ’ come un’alterazione della na
tura, simile a quella che per la sete ancora trasforma la cerva m e
desima, da figura di grazia e di am abilità34, in una madre crudele
Cfr. sopra n. 25.
M Leggere le descrizioni in Ger. 8, 18-23 e 14, 2-6; anche Os. 4, 3; Gl. 1,
16-20.
32 « A llo ra lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del
m uto, perché scatureranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella step
pa » (Is. 35, 6).
33 « D alla figlia di Sion si è ritirato ogni suo splendore ; i suoi principi
sono diventati come cervi che non trovano pascolo; cam m inano senza forze
davanti all’inseguitore » (Lam . 1 ,6 ).
34 A lla « cerva am abile » e alla « gazella graziosa » è paragonata la sposa
giovane, in opposizione alla donna « straniera » (Pr. 5, 18-20).
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 93
che abbandona il proprio p a rto 35.
A tutto questo poteva pensare il poeta-orante quando parago
nava la sua « sete di Dio » all’anelito della cerva ai corsi d’acqua.
E ’ certamente un desiderio di vita, un’aspirazione della natura al
necessario, all’indispensabile, all’unico bene che ha significato e
concretezza per l’anima pia.
Notiam o pure il verbo usato dal Salmista: ' arag, che Z o r e l l c o s ì
traduce: sursum enisus est, desideravit, e ila cui forza possiamo ap
prezzare alla lettura dell’unico altro brano biblico dove esso appare:
A te. Signore, io grido,
perché il fuoco ha divorato i pascoli della steppa,
e la vampa ha bruciato tutti gli alberi della campagna.
Anche le bestie dei campi anelano a te,
perché sono secchi i corsi d'acqua
e il fuoco ha divorato i pascoli della steppa (Gl. 1, 19-20).
Tempo di siccità e di carestia36. Come l’uomo, così anche le be
stie non trovano più nella natura di ché vivere : « anche le bestie
dei campi anelano a te » — sospiro verso l’alto, essendosi inariditi i
« corsi d’acqua ». L ’affinità con Sai. 42, 2 è innegabile. Quello form u
lato da Gioele è un grido di desiderio che la creazione assetata, ane
lando alla vita, eleva al Creatore. Della stessa intensità, maturato
però come « sete » religiosa, è l’anelito del Salmista; l ’assenza di
Dio, l’orante la sperimenta come siccità dell’anima, come arsura del
l’essere — e il suo anelito a Dio spunta dall’intimo quale sospiro
verso la « fonte della vita » (cfr. Sai. 36, 10), quale tensione di un
istinto di sopravvivenza che cerca in Dio solo, con la spontaneità
della natura, il bene sommo della vita.
* * *
Concludiamo questa prima parte dedicata alla pietà del desi
derio di Dio in genere, pietà in seno alla quale emerge l’anelito a
« vedere il volto di Dio » (Sai. 42, 3). Abbiamo interrogato la testi
monianza dei Salmi 42-43; 63 e 143, perché ci siamo di proposito
soffermati sul simbolo religioso della « sete ». I tre oranti sono nel
l’intimo, e al di là di ogni altro dato riferito nelle loro preghiere,
degli « assetati di Dio ». Tali essi si presentano, indicando la so
35 A causa della siccità che arse i cam pi, anche « la cerva parto rì e abba n
donò il parto » (G er. 14, 5); da paragonare con G b. 39, 14.
36 Flagello anche delle cavallette: 1, 4-7; 2, 3-9; cfr. Dt. 28, 38; Am . 4, 9;
7, 1-2; MI. 3, 11.
94 G IOVANNI HELEWA
stanza della loro esperienza religiosa. Desiderano Dio, la gioia della
sua intimità, la conoscenza della sua bontà, alla stregua di un asse
tato che desidera l’acqua.
Questa loro pietà, noi abbiamo voluto esaminarla anche alla
luce dalla generale simbolica e tematica religiosa che nella Bibbia fa
capo, in vario m odo e con ricchezza e profondità d’intuito, a quella
esperienza elementare ed inconfondibile che chiamiamo appunto
« sete ».
In un prim o tempo, abbiamo seguito una linea tematica che par
te da Am. 8, 11-12 e giunge, attraverso Pr. 9, 1-6 e Is. 55, 1 ss., ad
una formulazione di grande impegno teologico in Sir. 24, 19-21 : la
« sete » religiosa, da immagine negativa e statica di privazione e d’in
digenza quale appare nel prim o testo, si evolve poi in immagine po
sitiva e dinamica di ricerca e di desiderio — ricerca e desiderio di
Dio da parte di coloro i quali, avendo conseguito una conoscenza
del dono di Dio, aspirano ad un possesso ulteriore del medesimo.
Tale dinamica ci permise di definire una prima dimensione della
« sete di Dio » vissuta dai predetti salmisti : è l’aspirazione di ami
ci di Dio a conoscere una intimità maggiore con Dio; confidenti del
Signore resi consapevoli di quanto ancora manca loro per realizzar
si compiutamente nel Signore, i tre oranti anelano, con il dinamismo
di una « sete » che addita una pietà avanzata, alla pienezza di ciò
che portano già nell’intimo. La loro è una « sete » nata dall’abbon
danza: un desiderio di Dio e del suo amore, che si nutre progressi
vamente delil’esperienza del suo oggetto.
In un secondo tempo, la simbolica generale della « sete » e del-
1'« acqua » tipica del mondo palestinese e biblico ci consentì di ap
prezzare valori ulteriori presenti in quell'esperienza religiosa degli
« assetati di Dio »: si desidera Dio con la verità e la spontaneità di
un istinto di vita; si anela alla gioia in Dio con l’intensità di una
aspirazione vitale; si cerca in Dio, desiderato come « fonte della v i
ta », il bene stesso della vita. Per l’individuo assetato e per la na
tura riarsa, l’acqua è sinonimo di vita e di risurrezione. Analoga la
percezione che i tre oranti hanno il privilegio di avvertire nel cuo
re; il loro desiderio di Dio, intenso e sofferto, prorom pe dall’intimo
come espressione d’essere, come dinamismo di vita. « Assetati di
Dio » e presentandosi come tali con l ’ausilio di un linguaggio che
non mente, questi pii Israeliti vanno senz’altro accolti da noi come
testimoni prestigiosi di una pietà altissima vissuta all’insegna del
vero e dell'autentico.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 95
II. - Q uando vedrò il v o lto di D io
Esigenza vitale di Dio sperimentata come aspirazione dell’ani-
ma a Dio e come desiderio intenso di gustare meglio la sua presen
za e di conoscere più perfettamente il sapore della sua grazia, la
« sete » dei pii del Salterio riceve in Sai. 42, 3 una illustrazione che
ne precisa il tenore religioso: « Quando verrò e vedrò il volto di
Dio? ». Analoga è l’aspirazione dell’assetato che ascoltammo pregare
in Sai. 63, 3 : « N el santuario ti voglio vedere per contem plare la tua
potenza e la tua gloria » 37. Quanto all’umile orante del Salmo 143,
egli supplica : « N on nascondermi il tuo volto, perché non sia come
chi scende nella fo s s a » (v. 7).
Desiderando Dio, il fedele ne desidera in qualche m odo la visio
ne; e questo valore è specificato come un vedere il vo lto di Dio. L ’ac
costamento è teologicamente impegnativo e solleva non pochi que
siti nella mente di chi si preoccupa di comprendere tutta la ricchez
za di siffatto desiderio, non già in assoluto, certo, ma situandolo
nel suo genuino contesto veterotestamentario.
In questa seconda parte, perciò, studieremo prima, per conto
suo, la formula « v o lt o di D io »; cercheremo poi di definire i valori
religiosi che i pii Israeliti potevano perseguire quando esprimevano
il loro desiderio di vedere in qualche modo il volto di Dio.
1. - I l « volto di D io »
Panim, sostantivo dalla form a plurale, tradotto generalmente
con « faccia » o « volto », convoglia un’idea primaria suscettibile di
vario impiego: la parte anteriore di una cosa rispetto a chi la fissa
con ilo sguardo o si dirige verso di essa. Così, ad esempio, il voca
bolo esprime valori lessici come questi: l ’ingresso di una tenda o
la facciata di un ed ific io 38; l ’avanguardia di un esercito in m ovi
m en to39, oppure la prima fila di un esercito in battaglia40; la su
perficie della terra, deli-acqua, di un terreno, di un campo, ecc.41;
37 Cfr. sopra n. 9.
38 Es. 26, 9; Ez. 41, 14... E ’ la parte anteriore della tenda o del tempio ri
spetto a chi vi si dirige p er entrarvi.
39 Gl. 2, 20. Il profeta p arla di un flagello di cavallette,descritto come in
vasione di un esercito innum erevole (1, 5-6; 2, 3-5). L ’avanguardia di questo
esercito è detta panim, perché è la parte che direttam ente vedono coloro che
stanno per subirne l ’impeto.
40 2 Sam . 11, 15: « Ponete U ria in prim a fila, dove più ferve la battaglia ». E ’
il panim della battaglia, cioè, il punto dove i due eserciti opposti sono diret
tamente a contatto, fronteggiandosi attivamente,
« Gen. 2, 6; 8, 9; Es. 16, 14; N u m . 11, 31; 1 Sam . 14, 25;Is. 28, 25...
96 G IOVANNI H ELEW A
l ’aspetto esterno di una cosa o di una faccenda42.
Applicato alle persone, il sostantivo ne designa la parte ante
riore del capo, cioè, la « faccia », per lo più in senso materiale e fì
sico 43; ne designa anche il « volto », inteso come imago a n im iM, la
sede cioè dove s’im prim ono e si fanno visibili i vari pensieri o di
sposizioni dell’an im o45. Panim può indicare pure la « persona » stes
sa di un individu o46; usato in questo senso nella locuzione « vedere
la faccia », esso significa « stare in presenza di qualcuno », « venire
da qualcuno », « presentarsi a lui » — specie nel senso di un’udienza
concessa o chiesta47.
Questi significati si ripresentano allorquando panim è detto « di
Dio », designandone in qualche modo la « faccia » o il « volto ». In
genere si tratta di Dio stesso48, ma non già in Sé bensì piuttosto in
rapporto all'uomo, in chiave cioè di rivelazione o di comunione.
Così ad esempio, nel « volto di Dio », considerato appunto come
imago anim i di Dio, si esprime da disposizione di Dio medesimo ver
so l ’uomo, ossia, il m odo in cui Egli consente di « rivolgersi » all’uo
42 Is. 24, 1: l ’ira di Dio altera l ’aspetto della terra; 2 Sam . 14, 20: Io a b dà
al caso di Assalonne u n ’altra « faccia », cioè, cerca di farlo apparire in una
luce diversa, non rispondente ai fatti.
43 Esem pi; « s i lavò la fa c c ia » (G en. 43, 31); « s i p rostrò con la faccia a
t e r r a » (Gen. 17, 3. 17; Gio. 7, 6...); « s i copriva la fa c c ia » (Is . 6, 2), ecc....
44 C i c e r o n e : « anim i est... om nis actio et imago animi vultus, indices ocu-
li » (D e Oratore, I I I , 59, 221); « ...vultus denique perspiciam us omnis, qui sen-
sus anim i plerum qu e indicant » (ibid., I I, 35, 148). Anche Orator, 18, 60.
43 « Io m i accorgo dal volto di vostro padre che egli verso di m e non è
più come p rim a » (Gen. 31, 5; anche v. 2) ; « Il cuore dell’uom o cam bia il suo
volto, o in bene o in m ale » (Sir. 13, 25). N e l « volto » dell’altro si possono
leggere: benevolenza (P r. 16, 15), gioia (P r. 15, 13), sapienza (Qo. 8, 1); op
pure: irritazione (Pr. 25, 23), im pudenza (Pr. 7, 13), abbattim ento (G en. 4, 5),
confusione (Ger. 7, 19; Sai. 44, 16), ecc.... Tuttavia, non sem pre il « volto » rivela
il cuore (Qo. 7, 3; cfr. 1 Sam . 16, 7).
46 2 Sam . 17, 11: andare « in persona » alla battaglia; Dt. 7, 10: D io punisce
« nella sua stessa persona » chi lo odia (cfr. 24, 16); Sai. 42, 6: « salvezza del
m io volto », cioè, salvezza mia.
47 « N o n vedere più la m ia faccia », dice il Faraone a Mosè, cioè, « non ti
presentare più a m e » (E s . 10, 28); « L o placherò con il dono che m i precede
e in seguito m i presenterò a lui (v ed rò la sua faccia) ; forse m i accoglierà con
b en ev o len z a» (Gen. 32, 21; cfr. 33, 10). « U d i e n z a » concessa da G iuseppe ai
suoi fratelli: Gen. 43, 3; 44, 23. 26. Interessante 2 Re 25, 19: gli intim i del re
sono detti: « coloro che vedono la faccia del re », coloro cioè a cui è concesso
il privilegio di stare in presenza del re...
48 Es. 33, 14. 15: le due espressioni « la m ia faccia an drà (con v o i) » e « la
tua faccia an drà (con n o i) », significano: D io stesso, in persona, accom pagnerà
gli E brei nel loro cam m ino verso la T e rra Prom essa (cfr. v. 16). Es. 33, 20:
« Tu non potrai vedere il m io volto, perché nessun uom o può vederm i... ». Anche
Sai. 24, 6; 105, 4 = i 1 Cr. 16, 11, dove « cercare il Signore » e « cercare il volto
del Signore » sono espressioni equivalenti...
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 97
m o: con benevolenza49, oppure con severità pu nitiva50, con ira e
propositi di condanna51. N ello stesso senso si dice che Dio « nascon
de il suo volto », lo « rivolge o ¡lo distorna dall’uomo » 52: punizione
che si concreta come « silenzio » di Dio, come sottrazione di ogni
sua comunicazione di grazia.
Questi prim i esempi additano già il « volto di Dio » come una
nozione che appartiene al contesto teologico della rivelazione, intesa
nel suo significato più ampio (verbis et gestis), in chiave special-
mente di operazione salvifica o punitiva. Si vuole esprimere l’idea
che Dio « si rivolge all’uomo » manifestandogli la sua grazia o la
sua ira con la parola concreta della sua azione; oppure che Dio « si
rivolge dall’uomo », punendolo precisamente con il linguaggio giu
diziale del silenzio e della privazione.
Una dinamica complementare, con accentuazione dialogica,
emerge laddove la pietà umana si presenta come tesa in qualche
m odo al « volto di Dio ». Sono testi in cui, ad esempio, si esprime
il desiderio di « vedere il volto di Dio » 53, si supplica Dio di « fare
splendere il suo volto » 54, di « non nascondere il suo volto » 55. Si ve
rifica in questi casi, da parte dell’uomo, il valore contenuto nell’e
sortazione profetica: « Volgetevi a me » (Is. 45, 22), dove il verbo
panàh convoglia l’idea che l ’uomo dirige il proprio « volto » verso
D io 56, con l’intento d’intuire nella misura consentitagli il mistero
della sua volontà e con il desiderio di vedersi oggetto della sua be
49 Si p a rla per lo più della « luce del volto » di Dio: Sai. 4, 7;44, 4; 89, 16...
o ppu re di D io che « i llu m i n a » o « fa splendere il suo v o lt o »: Sai.31,17;67, 2;
N u m . 6, 25...
so Ger. 3, 12; 21, 10; Ez. 14, 8, ecc.
si Sai. 21, 10; 34, 17; 80, 17, ecc.
52 Dt. 31, 17; Is. 54, 8; Ez. 7, 22; 2 Cr. 30, 9, ecc.
53 Sai. 42, 3; anche tutti quei contesti in cui si p a rla di recarsi al santuario
per « vedere il volto di Dio » (E s . 23, 15; 34, 23. 24; Dt. 16, 16; 31, 11; 1 Sam.
1, 22; Is. 1, 12): i M assoreti, ritenendo troppo ardita tale form u la, hanno cre
duto di dovere m odificare le vocali del testo consonantico e sostituire la fo rm a
attiva del verbo « vedere » con una fo rm a dal senso passivo, ottenendo così
una lezione non certo originale: « essere visti da D io », oppu re « com parire da
vanti al volto di D io ».
54 Sai. 31, 17; 67, 2; Dn. 9, 17; N u m . 6, 24-25.
55 Sai. 27, 9; 69, 18; 102, 3; 143, 7.
55 U verbo panàh ha ovviam ente un rapp orto term inologico stretto con il
sostantivo pantm. I l suo valore prim ario, com e quello del vocabolario che fa
capo alla radice pnh, interessa il rapp orto reciproco di due realtà site l’una
di fronte all’altra, e tendenti in qualche m odo l’u n a all’altra. A pplicato infatti
ad u n ’azione um ana, panàh si trova a significare, ad esempio: « voltarsi » per
gu ardare (E s. 2, 12; 2 Re 23, 16), « v o l g e r e » lo sgu ardo (E s . 16, 10; N u m . 12, 10;
Is. 8, 21), « d i r i g e r s i » verso una m eta (Ct. 6, 1; 1 Sam. 13, 17 s.). Im plicita in
questi esem pi è l ’idea che l ’uom o orienta il p ro p rio « volto », in senso dinamico,
verso una cosa o una persona che gli sta davanti. Notiam o al rigu ardo espres
sioni com e queste: « alzare il volto », nel senso di « alzare lo sguardo » (2 Re
98 G IOVANNI HELEWA
nevolenza operante. E dato che il « volto » è espressione e rivela
zione del pensiero e delle disposizioni intime di una persona57, si
spiega l'uso analogico in questione : orientando il proprio « volto »
verso il « volto di Dio », l'uomo intende porsi come si suol dire
« faccia a faccia » con Dio, al fine preciso di leggere nel « volto di
vino », con la maggiore immediatezza e chiarezza possibile, il pen
siero e le disposizioni di Dio medesimo nei suoi confronti — ricer
ca di una « parola » divina che nella normalità dei casi è desiderata
operante e benigna.
Concludendo questo prim o esame, diciamo che il « volto di Dio »
— nozione analogica che appartiene al linguaggio della rivelazione
e portatrice di verità dialogica — è designazione in un certo qual
modo di una dialettica di mediazione nel contesto generale del rap
porto Dio-uomo. E ’ la pagina che dal mistero di Dio e della sua
volontà la fede umana cerca di leggere, la sede dove la pietà umana
aspira ad intuire una testimonianza parlante della bontà e dell’am o
re di Dio medesimo. Il « volto di Dio » è Dio stesso, ma neilil’atto di
dire una « parola » sua e di palesare una sua « disposizione » : rive
lazione improntata a concretezza sperimentabile e chiarezza inequi
vocabile, alla stregua precisamente di una comunione « faccia a
faccia » di due interlocutori.
2. - « Vedere il volto di D io »
« Quando verrò e vedrò il volto di Dio? », esclamava l’assetato
di Dio in Sai. 42, 3. Il « volto di Dio », quella testimonianza del pen
siero e delle disposizioni di Dio medesimo nei riguardi dell’uomo,
il pio Israelta aspira a vederlo col desiderio vitale di chi anela alla
propria pienezza personale58. Cerchiamo adesso di seguire, nel con
creto, questa caratteristica dinamica della pietà biblica, quale la tro
viamo verificata nelle preghiere dei Salmi.
a) « N on nascondermi il tuo volto »
Notiam o in prim o luogo il parallelismo concettuale delle due
preghiere seguenti:
9, 32; Esd. 9, 6 ); «c h in a re la fa c c ia », nel senso di «g u a r d a r e verso il b a s s o »
(Dn. 10, 15); « porre la faccia », nel senso di « intendere andare » (Ger. 42, 15;
cfr. Le. 9, 51)...
57 Cfr. sopra nn. 44 e 45.
ss L ’autenticità e l ’intensità vitale di questo desiderio furono messe in luce
nella prim a parte di questo nostro studio.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 99
Rispondimi presto, Jahve,
viene meno il mio spirito.
Non nascondermi il tuo volto,
perché non sia come quelli che scendon nella fossa (143, 7).
A te, Jahve, io grido, mia roccia;
non farti sordo con me!
Perché se tu ti fai muto con me,
10 sono come quelli che scendon nella fossa (28, 1).
11 parallelismo è evidente. Perché non sia uguagliato a « quelli
che scendono nella fossa », l’orante nei due casi chiede al Signore
una grazia di v it a 59. E questa, espressa nel prim o testo con la sup
plica « non nascondermi il tuo volto », è indicata nel secondo con
le parole: « se tu ti fai muto con me ». Il fedele desidera in qual
che modo una « visione » del « volto di Dio »; e tale « visione » si
deve concretare, secondo la dinamica dalila sua preghiera, come pa
rola rivelatrice di Dio medesimo, detta in risposta al grido suppli
cante dell’infelice e quindi col linguaggio operante della bontà
divina.
Questa dialettica orante si chiarisce ulteriormente allorquando
esaminiamo le due formule impiegate nel secondo testo e da noi
tradotte così : « sordo con me », « muto con me ». Nell'originale
ebraico abbiamo l ’espressione m im m enni, la cui traduzione let
terale è da me: idea della distanza, della separazione, del disin
teressamento, dell’abbandono60. Il contesto, perciò, richiederebbe
una versione come questa: non farti sordo e muto (voltandoti) via
da me. Ne risulta più comprensibile la preghiera parallela « non
nascondermi il tuo volto » : a Dio si chiede di mostrare il suo « vol
to », cioè, di « voltarsi » verso il fedele dandogli una testimonianza
concreta della sua volontà di salvezza.
La stessa dinamica si avverte in due altre preghiere dove la
formula « non nascondermi il tuo volto » è parallela a: « piega ver
so di me l’orecchio » (Sai. 102, 3) e « volgiti a me nella tua grande
tenerezza » (Sai. 69, 17-18). N el fare vedere il suo volto (panlm ), il
Signore « si volge » (panàh) al suo fedele con il movimento benigno
di chi è disposto ad ascoltare per poter rispondere e dare.
Aggiungiamo l ’invocazione affine che riguarda « la luce del vol
w L a « t o s s a » , infatti, è qui designazione dello sceol (cfr. Sai, 30, 4; 88 4-7;
Pr. 1, 12; Is. 14, 15; 38, 18; Ez. 31, 16).
60 Sai. 22, 12: « Da m e ( m im m enni) non stare lontano... »; 35, 22: « non farti
sordo (o m uto), da m e non stare lontano »; 38, 22: « N o n abbandon arm i, Si
gnore, da m e non stare lontano ».
100 G IOVANNI H ELEW A
to » d ivin o61. Splende il «v o lt o di D io » quando Dio stesso, rivelan
do attivamente i tesori della sua bontà, fa vedere o sperimentare al
suo popolo e al singolo fedele i suoi doni di felicità e di salvezza62.
Questa « luce del volto di Dio » è parola di amore (Sai. 44, 4), di mi
sericordia e pietà (31, 17; 67, 2), di perdono (Dn. 9, 17).
Ecco quindi una tematica assai lineare: la visione del « volto di
Dio » equivale nel concreto aM’esperienza della bontà di Dio. Il Si
gnore fa vedere il suo volto allorquando, ascoltando e rispondendo,
Egli « va incontro » a chi lo invoca e « si volge » a chi lo suppli
c a 63, manifestando col linguaggio dell'azione salvifica il mistero del
suo pensiero e della sua volontà.
b) « I l tuo volto, Signore, io cerco »
Per « vedere » il « volto di Dio » nel senso sopra esposto, il pio
Israelita deve fissare in alto lo sguardo bramoso daLl’anima, dirige
re verso il Signore medesimo la propria vitalità religiosa, col desi
derio precisamente di un incontro « faccia a faccia » col Signore. In
altre parole, Dio « fa vedere » il suo « volto » a chi ha il proprio
« volto » orientato verso di lui.
Di nuovo un impiego della form ula « non nascondermi il tuo
volto » c’introdurrà in questa ulteriore dinamica della pietà che
studiamo:
Ascolta, Jahve, la mia voce.
10 grido: abbi pietà di me! Rispondimi!
Di te ha detto il m io cuore:
« Cercate il suo volto! » M.
11 tuo volto, Jahve, io cerco.
Non nascondermi il tuo volto... (Sai. 27, 7-9).
N el chiedere al Signore di non celare da lui il suo volto, il Sal
mista esprime una pietà dalla fisionomia particolarmente dinamica:
« Sai. 4, 7; 31, 17; 67, 2; 80, 4. 20; 119, 135; Dn.9, 17; N u m . 6, 24-25; cfr.
anche Sai. 44, 4; 89, 16; 90, 8.
« Com e « nella luce del volto del re è la vita » (Pr. 16, 15), cosi l ’uom o
« vede ogni bene » quando il Signore « fa splendere la luce del suo volto »
(Sai. 4, 7).
63 Idea parallela: « Ecco, l'occhio del Signore verso quelli che lo temono,
che sperano nella sua grazia » (Sai. 33, 18); « Gli occhi del Signore verso i giu
sti, i suoi orecchi verso il loro grido di a iu t o » (34, 16). Interessante notare che
nel v. 17 dello stesso salm o si p a rla del « volto di Dio »...
64 Di questo v . 8 i critici propon gono m olte correzioni diverse. G . C a s t e l l i n o ,
op. cit., p. 93.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 101
è un « cercare il volto di Dio ». Il movimento devozionale è chiara
mente delineato : il fedele si porta da Dio, orienta il suo sguardo ver
so il « volto di Dio », con la fiducia che il Signore non gli rifiuterà
il bene che tanto desidera, quello appunto di « vedere » in qualche
modo « il volto di Dio » — un bene specificato poi nel v. 13 dello
stesso Salmo: vedere la bontà del Signore nella terra dei viventi.
Ci si rivolge al Signore « cercando il suo volto ». Si tratta in
fondo di « cercare il Signore », attraverso precisamente la mediazio
ne rivelatrice di quel che viene chiamato il suo « volto », ossia, ogni
manifestazione di Sé che il Signore benigno consente di accordare
a coloro che ricorrono a lu i65 con l’impegno sincero di tutto il vive
re religioso66. L ’equazione concreta delle due form ule è indicata nei
due testi seguenti:
Ecco la generazione di coloro che lo cercano,
che cercano il tuo volto, Dio di Giacobbe (Sai. 24, 6).
Cercate il Signore e la sua potenza,
cercate sempre il suo volto (Sai. 105, 4 = 1 Cr. 16, 11).
Per meglio comprendere ancora la dinamica di siffatta pietà
— reciprocità di tendenza, incontro di sguardi, ricorso e risposta,
presenza mutua — , esaminiamo più distintamente le due formule
predette: « cercare il Signore » e « cercare il suo volto ».
« Cercate il Signore... cercate il suo volto »
Originariamente, l’espressione « cercare il Signore » significava
frequentare i santuari, recarsi cioè con intento religioso nei luoghi
dove il Dio d’Israele ha scelto di stabilire una sua particolare pre
senza 67; così pure l ’espressione « cercare il volto del Signore » : Da
vide si reca nel santuario per « cercare il volto di Jahve », proprio
come chi si reca nel palazzo reale per « cercare il volto » del sovra
no 6S. Allo stesso contesto ideale di visita da compiersi nel luogo sacro
65 Os. 5, 15: « Cercheranno il m io volto e ricorreranno a m e nella loro
angoscia ».
66 « Se il m io popolo, sul quale è stato invocato il m io nome, si um ilierà,
pregherà e ricercherà il mio volto, perdonerò il suo peccato e risanerò il suo
paese » (2 Cr. 7, 14).
« Dt. 12, 5; 2 Sam. 12, 16. 20; Am . 5, 4-5; 2 Cr. 1, 5; cfr. Es. 33, 7.
68 2 Sam . 21, 1 = . 1 Re 10, 24. Sappiam o del resto che « vedere il volto di
D io » significa in m olti contesti: com piere il dovere del pellegrinaggio nel san
tuario di Dio, o semplicemente recarsi nel santuario per scopo religioso (cfr.
sopra nn. 53 e 47).
102 GIOVANNI HELEW A
della presenza divina appartiene Za. 8, 20-23, dove è predetto che le
nazioni si dirigeranno verso Gerusalemme per « cercarvi il Signo
re » ed « im plorarvi il volto del Signore ».
E ’ significativo che il recarsi nel luogo dove dimora il Signore
sia detto un « cercare il Signore », un « cercare il suo volto ». Si
tratta infatti di farsi presente nel santuario con l’intento di rice
vere un bene ritenuto legato alla presenza di Dio ivi concretata. Lo
indicano i due verbi più frequentemente usati in tali contesti : biqqesh
e darash, specialmente il secondo69. Questo verbo significa propria
mente impegnarsi nella ricerca di una cosa con l’intento consapevo
le di meglio conoscerla e sperimentarne la verità; impegno fatto di
sforzo investigativo e di studio accurato70. Per questo, « cercare
Dio » può significare andare in un luogo sacro per « consultare » il
Sign ore71, ricorrere al ministero di un uomo di Dio per interrogare
il Signore e conoscere con precisione la sua volon tà72. Interessante
la testimonianza di Is. 45, 19, dove l’esortazione « cercatemi » è un
invito ad interrogare la parola di Dio per conoscere i disegni di
Dio sulle nazioni, a leggere nel libro universale delle opere di Dio
il mistero della sua vo lon tà 73.
Quest’ultim o im piego mostra come il « cercare Dio » potesse
diventare in Israele un’affermazione caratteristica del vivere etico
religioso inteso come impegno di conoscere la volontà del Signore
e conformarsi alle sue esigenze. Amos, ad esempio, proclama che la
sola autentica « ricerca di Dio », al di là della frequentazione dei
69 II prim o verbo è più generico e congloba tutti i sensi norm alm ente con
vogliati dal latino « q u a e r e r e » o dall'italiano « c e r c a r e » ; nel secondo verbo è
più chiara l ’idea d e ll’im pegno e dello sforzo in chiave intellettiva o etico-reli
giosa, come diciam o sopra nel testo. I due verbi, tuttavia, vengono spesso
usati come sinonim i: Sai. 24, 6; 105, 4 = 1 Cr. 16, 11; So. 1, 6... Per il vocabo
lario ebraico della « ricerca di Dio », leggere: G . T u r b e s s i , « Quaerere D eu m ». Il
tema della « ricerca di D io » nella S. Scrittura, in Rivista Biblica 10 (1962) pp.
284-289.
K> Dt. 13, 15. « Esam inerai la cosa, fa rai una inchiesta, interrogherai con
c u r a ...»; Dt. 17, 4: «Q u a n d o ciò ti sia riferito, o tu ne abbia sentito parlare,
inform atene d iligen tem en te»; Qo. 1, 13: « M i sono proposto di ricercare e in
vestigare con la sapienza tutto ciò che si fa sotto il cielo. Occupazione
penosa... ».
11 Rebecca « andò a consultare il Signore » per sapere la ragione della irre
quietezza dei gemelli che portava nel seno (Gen. 25, 22). N e lla tenda del conve
gno eretta da M osè « si recava chiunque volesse consultare » il Signore (Es.
33, 7).
12 La notizia storica riferita in 1 Sam . 9, 9: « In passato in Israele, quando
uno andava a consultare Dio, diceva: Su, andiam o dal veggente » (leggere vv.
6-10). Anche 1 Re 22, 8; Es. 18, IS
IS « Cercate nel lib ro del Signore e leggete », si esorta in Is. 34, 16. N o n è
chiaro se si tratta di una raccolta di profezie, oppure di un libro m etaforico,
quello cioè dei decreti del Signore riguardanti la creazione.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 103
santuari, è quella che cerca il bene e fugge il male; solamente essa
conduce alla v it a 74. Valore specifico della religiosità israelitica, la
nozione si presenta in asserzioni globali ed incisive come questa che
si legge in Dt. 4, 29: « Cercherai il Signore tuo Dio e lo troverai,
se lo cercherai con tutto il cuore e tutta l ’anima »; e queste altre
in Sai. 119, 2 e 10: «B e a ti quelli che le sue testimonianze osserva
no, e con tutto il cuore lo cercano »; « Con tutto il cuore mio ti
cerco; non farm i deviare dai tuoi precetti ». « Con tutto il cuore » 7S:
è veramente tendere al Signore con un impegno che coinvolge l ’in
tera vitalità dell’uomo religioso7é.
Siamo in un contesto del vivere etico-religioso ormai sciolto
dalla materialità delle visite ai santuari; e anche laddove una pre
senza effettiva nel luogo sacro è ancora presupposta, il valore che
si vuole realizzare « cercandovi il Signore » è decisamente vitale,
conglobando l ’intera dinamica di una pietà intenta ad esprimersi in
conoscenza sempre più intima del Signore ed accordo sempre più
perfetto con le esigenze della sua vo lon tà 77. E ’ questo prim ato del
l'interiore che spiega la frequenza e la varietà con cui l’espressione
« cercare il Signore » viene impiegata nella letteratura biblica, sì da
costituire come uno strumento linguistico preferito per designare il
fatto religioso vissuto consapevolmente quale ricerca di un rappor
to di vita col Signore. Per il peccatore, si tratta di ritornare al Si
gnore col desiderio di placarne l’ira e d’incamminarsi decisamente
nelle sue v ie 78. Per il fedele, si tratta d’impegnarsi nel proposito di
seguire il Signore e di vivere in comunione di volontà con lu i79, di
porre nel Signore ogni sua fiducia e speranza, attendendo da lui
ogni bene di v it a 80.
74 Leggere insieme 5, 14-15 e 5, 4-6. Un esem pio della preoccupazione dei p ro
feti di ricordare al popolo gli autentici valori del vivere etico-religioso.
75 La fo rm u la specifica la « ricerca di D io » anche in Ger. 29, 13; 2 Cr. 15,
12-13; 31, 21.
76 Significativo senz’altro il fatto che la form u la totalitaria « con tutto il cuo
re » precisa im perativi fondam entali come quelli di am are il Signore, di ser
virlo, di obbedire alla sua voce, di convertirsi a lui (Dt. 6, 5; 10, 12-13; 13, 4;
30, 2. 6. 10...).
77 Am . 5, 4-6. 14-15; Sai. 24, 6; 63, 2-3...
18 Is. 9, 12; 55, 6-7; Ger. 29, 13; 50, 4 s.; Sai. 78, 34. D a notare l ’espressione
« mi faccio c e rc a re » (darash in fo rm a nifal): Id d io si lascia consultare, placare,
invocare dal popolo peccatore (E z. 36, 37; anche 14, 3; 20, 3. 31); questo im
piego trova in Is. 65, 1 un esem pio incisivo: « M i feci ricercare da chi non mi
interrogava, mi feci trovare da chi non mi cercava. Dissi: Eccom i, eccomi, a
gente che non invocava il m io nom e ».
79 Os. 10, 12; Ger. 10, 21; So. 1, 6; Is. 65, 10; 1 Cr. 22, 19; 28, 9; Esd. 4, 2;
Sai. 119, 2. 10... In Is. 51, 1, « cercare il Signore » equivale a « cercare la giusti
zia » (cfr. Mt. 6, 33).
M Os. 3, 5; Is. 31, 1; Sai. 9, 11; 34, 5; 40, 17; 69, 7; 105, 4;Lam . 3, 25-26...
104 G IOVANNI H ELEW A
Si comprende pertanto che la nozione sia impiegata per defi
nire l ’autentica devozione e l ’autentico pio tra i figli d’Isra ele31.
Darash e biqqesh sono allora in form a participiale, col valore di
nom i verbali che designano un tipo d’uom o definibile da un’attività
prevalente e come professionale: precisamente quella di un « cerca
tore di D io »;
Esultino e gioiscano in te
coloro che ti cercano;
dicano sempre: « E ’ grande Iddio! »
coloro che amano la tua salvezza (Sai. 40, 17).
Non arrossiscan di me quelli che sperano in te,
Adonai, Jahve Sabaòt;
per m e non si vergognino coloro che ti cercano,
o Dio d'Israele (Sai. 69, 7).
Videro, gli umili, e si rallegrano;
voi che cercate Jahve, viva il nostro cuore! (Sai. 69, 33).
E il testo già citato, dove « cercare Dio » e « cercare il volto di
Dio » ci sono apparsi sinonimi :
Ecco la generazione di coloro che lo cercano,
che cercano il tuo volto, Dio di Giacobbe (Sai. 24, 6).
Abbiamo in questi testi un vero ritratto spirituale del « cercato
re di Dio »: egli appartiene alla « generazione » o categoria degli
« umili », di coloro che « sperano » nel Signore, che « amano la sal
vezza » del Signore; un tipo d’uomo che nei w . 3-5 del Salmo 24 è
così presentato:
Chi (potrà) salire al monte di Jahve?
e chi (p otrà ) stare nel suo luogo santo?
Il puro di mani e il mondo di cuore;
che non indusse alla menzogna l ’anima sua
e non giurò ad inganno.
Otterrà benedizione da Jahve,
giustizia da Dio sua salvezza...82.
81 Anche nel N u o v o Testam ento « cercare Dio » è designazione globale del
l ’autentico vivere religioso: E b r. 11, 6. L a fo rm u la come tale vi si presenta p o
chissime volte (Att. 17, 27; Rom . 3, 11); m a l ’attività religiosa della « r i c e r c a » ,
applicata sia a Dio che ai valori dello spirito, è frequentem ente riferita. Leg
gere di nuovo G. T u r b e s s i , art. cìt., pp. 294-296.
82 Notiam o di nuovo com e il recarsi al santuario, dato origin ario insito alla
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 105
Questa è la generazione di coloro che « cercano il Signore »,
che « cercano il volto del Signore » (v. 6).
Il fatto è che le due form ule definiscono un comportamento ba
silare dell’uomo religioso, se è vero che la religione autentica, a li
vello di vita consapevolmente vissuta, consiste in un impegno co
stante nel proposito di meglio conoscere Dio e le esigenze della sua
volontà, in un desiderio di avvicinarsi il più possibile a Dio in co
munione d’intento e di vita, nella volontà di trovare in Dio solo la
radice della propria felicità, neH’aprirsi con animo disponibile ad
ogni manifestazione di bontà divina. E ’ in fondo il comportamento
di coloro che orientano il loro « volto » verso il « volto di Dio » 83,
interrogandolo e sperando da Dio medesimo una parola di verità e di
grazia; il comportamento distintivo di coloro che stabiliscono i loro
passi nelle vie del Signore e indirizzano ogni loro vitalità, quali pel
legrini deH’esistenza, nel cammino che conduce al Signore, mossi
dal desiderio di trovarlo, « faccia a faccia », quale Presenza rivelatri
ce di bontà e suscitatrice di pienezza interiore.
« Gustate e vedete che buono è il Signore »
Siamo in grado adesso di apprezzare la ricchezza spirituale del
l’esperienza testimoniata nel Salmo 27, dove avvertim m o già un
accostamento eloquente di tre formule: « Il tuo volto, Signore, io
cerco »; « non nascondermi il tuo volto »; « sono certo di vedere la
bontà del Signore » (w . 8. 9. 13). La spiritualità di un « cercatore di
Dio » si concreta come desiderio di « vedere » il « volto di Dio »; e
tale visione è bramata come conoscenza intima della « bontà del Si
gnore », ossia, del cumulo di .grazie che il Signore medesimo, fa t
tosi trovabile da chi lo « cerca », manifesta di volere riservare al
suo fedele. E ’ una esperienza di Dio il bene a cui tende l ’orante:
attraverso la « visione » della « bontà » divina, visione fatta di cono
scenza e di gusto vitale, si ha una certa quale rivelazione di Dio
medesimo, una testimonianza della sua presenza, una « visione » del
suo « volto »
fo rm u la « cercare Dio » e « cercare il volto di Dio », è assorbito nel verificarsi
di un valore più largo, specificamente spirituale: un cam m inare dell’anim a re
ligiosa verso il Signore, un im pegnarsi nello stare in com unione di volontà
con Dio.
83 Interessante la sequenza in Salm o 34: « Cercai il Signore e m i rispose ; e
da tutte le mie anzie mi trasse » (v. 5). — « G uardate a lui e sarete raggianti;
i vostri volti non saranno confusi » (v. 6). Sul « volto » di coloro che « cercano
il Signore », si stam pa in qualche m odo un riflesso della « luce del volto di
Dio » (cfr. sopra n. 61).
84 Affinità concettuale delle frasi seguenti: « Sono certo di vedere la bontà
106 G IOVANNI HELEW A
L ’orante è certo di « vedere » in qualche modo la bontà del suo
Dio — e questa sua fiducia che il Signore non gli « nasconderà il
suo volto », non è pretesa ingiustificata; avendo deciso come impe
gno di tutta la sua vita di « cercare il volto del Signore », egli è fi
ducioso che il Signore si farà trovare da lui e gli rivelerà i tratti be
nigni del suo « volto », poiché sarà il Signore medesimo a « inse
gnargli la sua via » e guidarlo nel cammino della rettitudine che con
duce a lui (v. 11). Non sorprende, perciò, che lo stesso m otivo si
ritrovi nel Salmo 143, dove la sete di Dio espressa con l’invocazione
« non nascondermi il tuo volto » (w . 6 e 7) porta per interna log i
ca a pregare ; « Fammi udire di mattino il tuo amore... Fammi co
noscere la strada che devo seguire... Insegnami a compiere il tuo be
neplacito... » (vv. 8 e 10). « Ricerca di Dio », desiderio di « vedere
il volto di Dio » : i due aspetti sono inseparabili nella concretezza di
una pietà che aspira a vedere e gustare quanto è buono il Signore.
Insieme, infatti, essi definiscono la tensione religiosa formulata in
Sai. 26, 3: « Il tuo amore è davanti ai miei occhi, e nella tua verità
dirigo i miei passi » 85.
Il pellegrino « cercava il Signore » dirigendosi verso il luogo
santo dove il Signore medesimo, ivi presente, gli avrebbe dato di
« vedere il suo volto » con una parola d’insegnamento o di grazia.
Così l ’uomo religioso impegnato nella « ricerca del Signore » ; il suo
esistere è un camminare nelle « vie » del Signore, un seguire la stra
da che porta al santuario di una comunione con Dio, dove il « vol
to di Dio » si fa in qualche modo visibile, rivelazione nell’intim o ed
esperienza vitale della bontà e salvezza del Signore. « Sì, nel santua
rio ti voglio vedere, per contemplare la tua potenza e la tua glo
ria », diceva l ’altro assetato di Dio, che pure era un « cercatore del
Signore » (Sai. 63, 2-3). Parlava del santuario locale di Gerusalem
me, certo, dove la sua fede gli diceva che ila gloria e la potenza del
Signore erano presenti. Ma la sua pietà era ricerca e desiderio, os
sia, una dinamica vitale tendente al possesso di un valore d’esperien
za atto a concretarsi quale pienezza personale; « come d’adipe e di
grasso si sazia l’anima mia; labbra esultanti, lode nella mia bocca »
(v. 6). Non lo attrae dunque la semplice certezza della presenza
divina nel tempio, ma piuttosto che tale presenza è in qualche modo
« visibile »: « gloria » e « potenza » del Signore disposte a rivelarsi
del Signore sulla terra dei viventi » (27, 13); «G u s ta te e vedete che è bu on o il
S ig n o r e » (34, 9 ); « N o n vedrò più Jahve sulla terra dei v iv e n ti» (Is. 38, 11),
cioè, non potrò più sperim entare la bontà del Signore ; infine: « M olti dicono:
' Chi ci farà vedere il bene? risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo
volto » (Sai. 4, 7).
85 Cfr. Sai. 25, 4-6; 86, 11-13.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 107
alla sua esperienza. E ’ questo il vailore che egli cerca nel santuario,
cercandovi il Signore. E se gli chiediamo in quale veste egli deside
ra « vedere » il Signore e « contemplare » la sua potenza e la sua
gloria, il nostro assetato risponde nel v. 4: « Il tuo amore è meglio
della vita ». Nelle dimore del suo Dio, egli aspira a « vedere » Dio
stesso attraverso la testimonianza operante ed inequivocabile del
suo a m ore86.
Il levita orante e assetato del Dio Vivente del Salmo 42-43 non
disse altra cosa quando l ’udimmo esclamare : « Quando verrò e vedrò
il volto di Dio? » (42, 3). II suo è un anelito a ritrovarsi nel tempio
per gustare la gioia di contemplare, faccia a faccia, il Dio Vivente
disposto a rivelarsi a lui nella sua casa. Esiliato, egli è mosso dal
desiderio di un « pellegrino », di un « cercatore del Signore ». Sa
di avere una strada da percorrere, e per questo chiede : « Manda la
tua duce e la tua verità; siano esse a guidarmi, mi portino al tuo
monte santo e alle tue dimore » (43, 3). Cammino geografico, certo,
ma più profondamente cammino della vita verso la fonte d’acqua
che è il Signore. E ’ un uomo che ha il « volto » diretto verso il « vol
to di Dio », tutt’intero proteso al bene supremo di una « rivelazio
ne » riservatagli da Dio nel santuario della sua presenza. La luce e
la verità del Signore lo porteranno dal Signore medesimo; è già
esperienza di Dio, ma che ne prom ette un’altra, dove la sete dell'a
nima verrà appagata: la visione del volto di Dio. E questa « paro
la » di Dio pronunciata nel cuore quale testimonianza di bontà divi
na e verificazione di presenza reciproca di Dio e del suo fedele, è
desiderata al termine del « cammino » come m otivo di perenne cele
brazione. Il ritornello del Salmo illustra bene questa dinamica reli
giosa :
Perché ti rattristi, anima mia?
Perché su di me gemi?
Spera in Dio che ancor lo loderò
salvezza del m io volto e Dio mio.
86 Con la B ible de Jérusalem abbiam o tradotto con « am ore » l ’ebraico hesed.
P arola chiave della spiritualità veterotestam entaria, hesed esprim e, come dice
m olto bene J. L ê v é q u e , « toutes les nuances de la solidarité interpersonnelle, de
puis la loyauté ju s q u ’à l’amitié, l ’am ou r et la grâce, en passant p a r le fair play,
la fidélité, et toutes les form es de la bonté et de la bienveillance » (J o b et son
Dieu. Essai d’exégèse et de théologie biblique, coll. « Etudes B ibliqu es », Paris
1970, tome I, p. 316). Num erosi gli studi dedicati a questo vocabolo, tra cui:
N . G l ü c k , Das W ort hesed im alttestamentlichen Sprachgebrauch, coll. « Beihefte
zur Zeitschrift f. d. alttest. Wissenschaft, 47 », B erlin o 1927; W . F. L o f t h o u s e , H en
and H esed in the Old Testament, in Zeitschrift f. d. alttest. Wissenschaft 51
(1933) 29-35; H. S to e b e , Die Bedeutung des W ortes Häsed im Alten Testament, in
Vetus Testament, I I, 1952, 244-254; J. A. M o n t g o m e r y , H ebrew H esed and Greek
Charis, in The Harvard Theological R eview 32 (1959) 97-102.
108 GIO VAN N I HELEWA
« Salvezza del mio volto » — « Quando vedrò il volto diDio? ».
Difficilmente possiamo pensare che l’accostamento siafortuito. Il
bene a cui anela l ’orante è Dio stesso posseduto come « salvezza »
personale. E tale pienezza, desiderata comie un « vedere il volto di
Dio », s’imprimerà sul « volto » del fedele quale riflesso della luce
stessa, testimonianza di bontà, che emana dal « volto di Dio » 87. E ’
come dire: la benignità dello sguardo di Dio diventerà scintilla di
gioia nello sguardo del fedele che l ’avrà sperimentata.
N ella « visione » del « volto divino » si verifica, secondo l’intero
messaggio del Salmo 42-43, una esperienza del tipo di quella che fa
gridare un altro salmista: « Guardate a lui e sarete raggianti... Gu
state e vedete che buono è il Signore » (34, 6. 9) — esperienza con
creta in cui la bontà divina, rivelatasi operante e fattasi « gustabi-
le » come cibo delizioso, genera nel fedele da essa raggiunto uno
stato di pienezza interiore paragonabile alla gioia illuminata e illu
minante di una vita ritrovata;
Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio;
(tale) che i figli d'Adamo
all’ombra delle tue ali si rifugiano.
S’inebriano dell’adipe della tua casa;
e al torrente delle tue delizie li disseti88.
Invero presso te è la fonte di vita,
nella tua luce vedrem o la lu c e 89 (Sai. 36, 8-10)90.
* * *
Concludiamo questa seconda parte. « Il tuo volto, Signore, io
cerco »; « Non nascondermi il tuo volto »; « Fà splendere il tuo vo l
to sul tuo servo » : espressioni equivalenti di una pietà dinamica,
vissuta come cammino impegnato dell'anima verso Dio e che trae
8? Cfr. sopra nn. 83 e 61.
88 « Torrente delle tue delizie »: allusione p ro babile al « torrente che usciva
da Eden per irrigare » il giardino (Gen. 2, 10) ; la stessa term inologia è usata
nei due testi. I l santuario che ospita il Signore sarebbe come un nuovo Eden,
luogo di delizie. P er il tem a del torrente che esce dal Tem pio, cfr. Sai. 46, 5; Ez.
47, 1 ss.; Gl. 4, 18; Za. 14, 8...
S9 « V edere luce » equivale ad « avere vita »; cfr. Sai. 49, 20; Gb. 3, 16. R i
cordiam o anche Is. 9, 1: « I l popolo che cam m inava nelle tenebre vide una
grande lu c e ...»; la salvezza di Dio è com e risurrezione nella gioia (vv. seguen
ti). Questo significato, del resto, risponde all’espressione precedente: « fonte di
vita ».
» Questi vv. sono anim ati dalla stessa pietà centrata sulla presenza di Dio
nel santuario e la gioia di una vita d ’intimità con lui, che abbiam o già visto
caratterizzare altri salm i studiati sopra: 27; 42-43 ; 63... Cfr. anche i Salm i 16;
23; 49; 73...
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 109
ogni suo vigore da un desiderio vitale — sete radicale — di « vedere
il volto di Dio » e in tale « visione » conseguire gioia piena. « La mia
anima ha sete di Dio, del Dio Vivente; quando verrò e vedrò il vol
to di Dio? ».
Dalla testimonianza globale da noi interrogata, appare chiaro
che il veTbo « vedere » e il sostantivo « volto » sono nozioni correla
tive all’interno di una dinamica religiosa caratteristica.
Il « volto di Dio » è Dio stesso che si volge alla sua creatura; è
il Signore in persona, ma in quanto si lascia « vedere » e trovare da
chi lo « cerca con tutto il cuore », cioè, con l ’impegno di tutte le fa
coltà vitali. La nozione appartiene in proprio al contesto teologico
della rivelazione, intesa questa nel suo significato più ampio : mani
festazione del mistero di Dio e della sua volontà. Im ago anim i vultus.
Applicata al « volto di Dio » dalla pietà israelitica, questa intuizione
universale ed elementare convoglia una duplice idea: da una parte,
il « volto di Dio » è il mistero del beneplacito di Dio reso « visibile »
nei confronti dal fedele; dall’altra parte, tale manifestazione si con
creta come bontà divina che si riversa sul fedele in doni di salvezza
e di vita.
Il verbo correlativo « vedere » conferma questa impostazione, il
lustrandola ulteriormente. Anelando a « vedere » il « volto di Dio »,
il pio « cercatore del Signore » aspira ad appagare la sua « sete » re
ligiosa col « gusto » intimo di un’esperienza inequivocabile, quella
precisamente della bontà che il Signore stesso riserva a coloro che
ricorrono a lui. « Visione » che è certezza conseguita col linguaggio
rivelatore della testimonianza operante e concreta, quella a cui ten
dono i pii del Salterio si verifica come valore sito al vertice dell’esi
stenza religiosa : in essa si compie l ’aspirazione primaria degli « as
setati di Dio », che è quella di avvicinarsi a Dio in comunione di vita,
di avere di Dio la conoscenza più limpida che sia possibile alla pie
tà umana di conseguire, di sperimentare un’intimità con Dio nella
misura massima in cui Dio consente di farsi presente ai suoi. Come,
infatti, il « volto » è la rivelazione più diretta di una persona, così
anche la « visione » è solita definire la conoscenza più immediata che
si possa avere di un oggetto o di un valore a cui si tende.
« Volto » e « visione »: le due nozioni indicano insieme nel con
testo che studiano la dinamica di una pietà vissuta come desiderio
e ricerca di una pienezza personale da verificarsi nella esperienza
appagante di una duplice presenza viva — presenza del fedele che
trova il « Dio della sua gioia » e presenza di Dio medesimo che si
lascia trovare dal suo fedele con la testimonianza della sua bontà;
presenza reciproca fatta di dialogo trasparente, di due sguardi che
s’incontrano in comunione intima: lo sguardo benigno e illuminante
11 0 GIOVANNI HELEWA
di Dio, lo sguardo raggiante e gioioso del fedele. Tale il bene di vita
bramato dagli assetati-cercatori di Dio nell’Antico Israele, amanti
desiderosi di « vedere il volto di Dio » e in tale visione di « gustare
quanto è buono il Signore ».
II I. - Dio, la m ia parte per sem pre
Quando ascoltiamo i pii del Salterio anelare, in vario modo ma
con uguale convincimento personale, a vedere il volto di Dio, sorge
quasi istintivamente nella nostra mente un quesito di natura bibli
ca e teologica: è l'espressione di una pietà in anticipo rispetto alle
strutture concettuali vigenti in Israele aM’epoca stessa in cui nac
quero i salmi interessati? Il quesito è giustificato, a prim o intuito,
da quanto ci è stato dato di costatare nelle due parti precedenti:
l’anelito a « vedere il volto di Dio » non spunta nell’ambiente devo
zionale degli assetati-cercatori di Dio come semplice desiderio di
una presenza materiale nel santuario dove era ritenuto dimorare il
Signore91, ma esprime un’esigenza vitale, intensamente e autentica
mente vissuta, di perfezione religiosa traducibile come aspirazione
ad un contatto personale con Dio, contatto improntato ad intimità
dialogica e concretezza d'esperienza.
La domanda, ovviamente, presuppone da parte di chi la pone il
possesso di certezze teologiche derivanti dalla rivelazione ulteriore
degli ultimissimi libri del Vecchio Testamento e da quella perfettiva
del Nuovo Testamento. Essa tuttavia interessa direttamente la teo
logia raggiunta in Israele intorno alle relazioni possibili tra l ’uomo
e Dio a livello di pietà individuale e in chiave di realizzazione per
sonale; interessa pure la consistenza oggettiva che conviene ricono
scere, alla luce di detta teologia, a quella dinamica religiosa che fa
capo al desiderio di « vedere il volto di Dio ».
1. - « L'uom o non può vederm i e restare vivo »
Es. 33, 18-23, dove la « visione » del « volto di Dio » è prospetta
ta in modo caratteristico e con linguaggio assiomatico, offre non po
chi elementi tradizionali atti a precisare il valore religioso che po-
91 A d esem pio: Es. 23, 15; 34, 23. 24; Dt. 16, 16; 31, 11; 1 Sam. 1, 22; Is.
1, 12. Sono testi dove la form u la indica semplicemente l'atto di com piere un
pellegrinaggio nel santuario della presenza divina o di visitare D io nel suo
tempio. Cfr. sopra nn. 53, 67 e 68.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 111
levano consapevolmente perseguire i cercatori ed assetati di Dio
quando dichiaravano di aspirare a « vedere il volto di Dio ».
Non è certo che il testo sia unitario dail punto di vista della cri
tica letteraria92; il suo messaggio, tuttavia, è assai lineare. A Mosè
che chiede: « Mostrami la tua gloria » 93, il Signore promette di fare
passare davanti a lui « tutta la sua bontà » 94, e di pronunciare da
vanti a lui « il nome di Jahve » (vv. 18-19). La rivelazione è possibile,
ma non nella misura che pretendeva Mosè. Una limitazione, infatti,
è fissata: « Ma non potrai vedere il mio volto, perché l ’uomo non può
vedermi e restare vivo » (v. 20). E ’ impossibile una visione della
« gloria » divina nel senso di una intuizione immediata dell’essere
segreto di Dio. Precisando tale impossibilità, il testo soggiunge:
« Ecco un luogo vicino a me. Tu sfarai sopra la rupe: quando passe
rà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con
la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie
spalle, ma il mio volto non lo si può vedere » (vv. 21-23). Visione di
Dio, sì, ma nella misura in cui tale esperienza è consentita ad un fi
glio d’Adamo.
a) Epifania del « nome di Jahve »
La lettura del brano precedente richiede d’essere completata
con quella di Es. 34, 5-7, dove proprio la promessa fatta in Es. 33, 19:
« Pronuncierò davanti a te il nome di Jahve », viene effettivamente
com piuta95. Quella parte della sua « bontà » o « gloria » intuibile per
sé dall’occhio umano, il Signore la manifesta incarnata nel mistero
92 Le tre sentenze successive attribuite al Signore e introdotte ciascuna con
la form u la « e disse » (vv. 19. 20. 21) fanno sospettare che l’una o l ’altra alm e
no sia stata aggiunta in un secondo tempo. M. N o n i, ad esempio, pensa che i
vv. 18 e 21-23, legati insieme dal concetto di « gloria », appartengono p ro b a b il
mente ad uno stadio prim ario (Das zweìte B uch M ose. Exodus, « Das Alte
Testament Deutch, 5 » , Gòttingen, 2. Auflage, 1961, p. 212).
93 Tutto il c. 33, com posto per lo più in fo rm a di dialogo tra M osè e Jahve,
è unificato intorno alla realtà della presenza di Dio in mezzo al suo popolo!
presenza indispensabile di cui si cerca di com prendere teologicamente e la pos
sibilità e la m odalità concreta. La dom anda: « M ostram i la tua gloria », s ’inse
risce perfettam ente in questa tematica.
94 « Tùb », nel contesto, non significa « bontà » in senso m orale (com passio
ne, m isericordia, am ore, come ad esem pio hesed), bensì « b o n t à » in senso qua
si fisico e ontologico: « splendore », « bellezza », « eccellenza ». E ’ una nozione
parallela in qualche m odo a quella di « gloria ».
95 Sull'unità tematica di tutto lo sviluppo Es. 33, 12-34, 10, leggere: J. B e u m e r ,
D ie Gottesschau des Moses, in Geist und Leben 21 (1948) 221-230; A. C l a m e r , L ’E -
xode, « L a Sainte Bible, Pirot-Clam er, I , 2 » , Paris 1955, pp. 266-270; A .- M . B e s n a r d ,
Le m ystère du nom, coll. « Lectio Divina, 35 », Paris 1962, pp. 43-53.
112 G IOVANNI HELEW A
del suo N o m e : « Il Signore passò davanti a lui proclamando : Jahve,
Jahve, Dio di m isericordia e di pietà, lento a ll’ira e ricco di grazia
e di fedeltà... » (34, 6 s.). Senza doverci occupare di tutta la proble
matica suscitata da questa proalamazione epifanica del N om e divi
n o 96, rileviamone il significato essenziale in questo preciso contesto
di teofania biblica: il Nom e divino, rivelazione di Dio stesso, è in
separabile dall’« agire » di Dio nella storia della salvezza. L ’epifania
della sua « bointà-gloria », il Signore la compie all’interno di una te
stimonianza globale, determinata dalla sua libera e sovrana volon
t à 97: la testimonianza della storia della salvezza, opera temporale di
grazia e di giudizio in cui il Signore dice il proprio mistero a Israe
le, e in cui Israele trova la pagina dove contemplare i tratti del suo
Dio e leggere con sicurezza il carattere personale del suo Signore.
« Mostrami ila tua gloria » — e Jahve pronuncia davanti a Mosè il
suo Nome, espressione avvertibile della sua santità e come verbo
del suo essere, sacramento del m istero che di sé Iddio manifesta a
Israele attraverso il documento normativo della storia della sal
vezza 98.
N el definire il quadro e la m odalità in cui il Signore consente
di manifestarsi ai suoi e di farsi presente al suo popolo, Es. 33, 18-
23 e 34, 5-7 precisano che tale manifestazione e tale presenza non
sono illim itate né intaccano l ’integrità del mistero divino o riducono
l ’abisso che separa la santità di Dio dalla indegnità (direm m o onto
logica) dei figli d'Adamo. Il Signore fa « vedere » a Mosè quel che di
Sé è comunicabile all’intelligenza umana, e non già la verità imme
diata del suo essere. E ’ ciò che intendeva l ’immagine ingenua ma
espressiva di Es. 33, 23 : « Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non
lo si può vedere ». V i leggiamo una economia della auto-manifesta
96 Sul significato delle fo rm u le tradizionali di cui è com posta questa pro
clamazione, leggere: J. S c h a r b e r t , Form geschichte und Exegese von Ex. 34, 6 s.,
in Biblica 38 (1957) 130-150.
97 Notiam o la fo rm u la parallela in Es. 33, 19, anch’essa legata alla rivela
zione del N o m e: « H o pietà di chi ho pietà e faccio m isericordia a chi faccio
m isericordia ». L ib ertà di Dio nelle sue scelte, gratuità dei suoi doni. Così la
fo rm u la verrà com presa anche da P aolo Apostolo in Rom . 9, 15. N e l mom ento
stesso in cui concede una rivelazione del suo mistero, Iddio afferm a la sovrana
libertà e l’intoccabile trascendenza del suo volere. M edesim a logica epifanica
nella celebre fo rm u la di Es. 3, 14: ’ ehjeh ’ asher ' eh jeh : indeterminatezza vo
luta al servizio di una verità basilare, quella della trascendenza assoluta del
l ’essere e dell’agire divino (cfr. G . v o n R a o , Theologie des Alten Testaments, I :
Die Theologie der geschichtlichen Überlieferungen Israels, 3 ed., M ünchen 1961,
pp. 181-188).
98 Secondo la tradizione « E », il N o m e con cui Israele è chiam ato a ricor
dare e ad orare il suo Dio « di generazione in generazione » è questo: « Jahve,
il Dio dei vostri p a d r i...» (E s . 3, 15 s.). Inserzione della ep ifania del m istero di
vino nelle strutture oggettive della storia della salvezza.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 113
zione divina articolata con la strumentalità dialettica deil’afferma-
zione e nella negazione: l ’affermazione riguarda il Nom e del Signore,
rivelazione di Dio incarnata nel verbo globale della storia della sal
vezza; quanto alla negazione, essa precisa i confini oltre i quali non
può estendersi l ’intuito dell’uomo.
Non possiamo minimizzare la portata di tale insegnamento, di
cui è evidente il carattere universale e assoluto. E ’ conclusione ragio
nata, formulata con intento didattico e tratta con certezza intellet
tiva da premesse ritenute indiscutibili: Dio considerato nella san
tità stessa della sua divinità; l ’uomo considerato nella povertà crea-
turale della sua umanità. Il Signore si rivela a Israele parlando ed
operando ", salvando e giudicando100 — ma questo suo manifestarsi,
se da una parte ha valore oggettivo di epifania divina realizzata come
vera comunicazione d’intelligenza « teologica » e concreta esperien
za di Dio, presuppone dall'altra parte sempre incolmato l’abisso che
separa l ’uomo-creatura dal Dio-Santo, abisso che mantiene integra
la trascendenza della divinità e preclude ogni visione immediata del
Signore.
b) « Faccia a faccia »?
« L ’uomo non può vedermi e restare vivo ». La sentenza suona
come un assioma teologico, e dev’essere accolta come vertice nozio-
nale nel Vecchio Testamento di una tematica centrata sulla verità
della santità e dell'assoluto mistero del Dio d’Israele. La tematica
affiora qua e là nel contesto delle teofanie e in quello sacrale della
presenza di Dio in mezzo al suo popolo. V i troviamo l'idea della
m orte che attende coloro che si avvicinano indebitamente alla sfe
ra sacra della divin ità 101; alla stessa linea tradizionale di pensiero
appartengono i testi che parlano di uno stupore riconoscente oppure
99 Pensiam o alla tradizionale fo rm u la teologica g estis verbisque, con la qua
le si suole caratterizzare la rivelazione divina attuata precisam ente com e « sto
ria di salvezza ». Cfr. la costituzione dogm atica D e i V e rb u m del Concilio V atica
no II, cap. I, 2.
100 Salvando e giudicando. Ci riferiam o in m odo particolare a Es. 34, 6-7,
dove precisam ente la rivelazione del N o m e si articola secondo questi due
aspetti. Salvando: « D io di m isericordia e di pietà, lento a ll’ira e ricco di grazia
e di fedeltà... » (v. 6b); giudicando: « ...ma non lascia senza punizione, che ca
stiga la colpa dei padri nei figli... » (v. 7). L e due form ule sono frequenti nella
B ib b ia , m a ricorrono altrove sem pre separate, eccetto questo testo e N u m .
14, 18, il quale ne dipende certamente.
101 Es. 19, 21; Lev. 16, 2; N u m . 4, 20; 1 Sam . 6, 19-20: notiam o la p aro la
attribuita agli abitanti di BetJShemesh: « Chi m ai potrà stare alla presenza di
Jahve, questo D io così santo? » (v. 20).
114 G IOVANNI H ELEW A
di un timore religioso da parte di coloro che hanno « visto » il Si
gnore e sono rimasti in v it a 102.
Una precisazione, tuttavia, s’impone a proposito di queste ulti
me testimonianze, qualora ile vogliamo interpretare alla duce dell’as
sioma teologico form ulato in Es. 33, 20. Sembrerebbe a prim a vista
che la portata radicale e assoluta di detto assioma fosse contraddet
ta da tanti esempi di personaggi biblici di cui si dice che hanno
« visto » Idd io senza morirne. Esaminando però da vicino il tenore
circostanziato dei testi interessati, troviamo che le « visioni » di Dio
vi sono riferite, volutamente o meno, in modo tale da dovere essere
comprese tutte in un senso decisamente attenuato, il quale esclude
queU'immediatezza visiva di cui Es. 33, 20 insegna appunto l ’impos
sibilità.
« H o visto Dio faccia a faccia, eppure sono rimasto salvo », dice
Giacobbe al termine della sua « lotta con Dio » (Gen. 32, 31); ma il
racconto, anche se arcaico e popolare, riferisoe .l ’azione con parti
colari troppo fisici e materiali perché possa avere la pretesa di in
carnare sic et sim pliciter la santità stessa di Dio nel misterioso per
sonaggio che lotta col patriarca. Il racconto fa capire, certamente,
che si trattò di Dio stesso e che Giacobbe ebbe una sorta d’esperien
za teofanica; tutto però si compie con la mediazione di form e che
rispettano l’integrità del mistero divino. Dal resto, si ha un’afferma
zione dalla irraggiungibile trascendenza e dell’assoluta libertà di Dio
nel v. 30, dove il misterioso lottatore rifiuta di consegnare il suo
« nome » a Giacobbe, dopo che questi gli aveva detto il su o 103. Iddio
non rivela il suo essere più intimo per la semplice ragione che l ’uo
mo è incapace di penetrarne l’essenza104. Questo è lo sfondo concet
tuale che emerge attraverso la materialità della descrizione; e con
tro tale sfondo dobbiamo comprendere l'esclamazione messa sulla
bocca di Giacobbe : « H o visto Dio faccia a faccia, eppure sono ri
masto salvo » — reazione tipica dell'uomo messo a contatto con la
sfera divina del sacro, tim ore e sconcerto, senza che si debba indi
102 Gen. 32, 31; Dt. 5, 24; Gdc. 6, 22-23; 13, 22; Is. 6, 5.
103 Leggere al rigu ardo: G. v o n R a d , Das erste Buch M ose. Genesis Kap. 25,
19-50, 26, « D as Alte Testam ent Deutch, 4 », Gôttingen 1949, ad loc.
lot A. C l a m e r : « Jacob a bien dit quel était son nom à la dem ande de l ’être
mystérieux, m ais celui-ci n ’entend pas lui dire le sien. Dans l ’ancien Orient le
nom n ’était pas quelque chose d ’accidentel qui s’ajoutait à la personne, mais
en exprim ait la nature m êm e et s'identifiait avec elle; connaître le nom de
q u e lq u ’un équivalait à posséder pou voir sur lui. Ce n ’est pas à dire que dans
le cas présent... l’être divin craindrait de tom ber sous l’em pire de celui qui
viendrait à connaître son nom m ais il s ’agit de l’incapacité de l ’hom m e à péné
trer son essence, dont le nom est l ’expression, et en même temps de l’indépen
dance de l ’être divin à l’égard de tout être » {La Genèse, « L a Sainte Bible,
Pirot-Clam er, I, 1 », Paris 1953, p. 395).
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 115
viduarvi una « visione » immediata dell’essere divino stesso.
Una simile impostazione informa ila presentazione delle due « ap
parizioni » divine a Gedeone e ai genitori di Sansone, « visioni » che
suscitano in questi il timore di m orire (Gdc. 6, 22-23; 13, 22). Anche
qui, infatti, si ricorre ad una categoria teofanica, quella del così det
to « angelo del Signore », il cui impiego in questo genere di contesti
addita una sottostante riflessione teologica intenta a rendere con
cettualmente accettabile il fatto di un contatto personale con D io 105.
Questa figura non vi è concepita come un semplice « messaggero »
mandato da Jabve e quindi distinto da Jahve, ma interviene come
una form a epifanica del Signore m edesim o106. V i dobbiamo scorge
re una figura intermedia tra Jahve e l ’uomo; ma non già nel senso
di un « inviato » da parte del Signore, bensì piuttosto ned senso di
una mediazione visiva, la quale ha lo scopo di indicare sì una mani
festazione personale di Dio, ma salvaguardando l ’assoluto della tra
scendenza divina. Strumentalità creaturale impiegata da un pensie
ro dal linguaggio nozionale alquanto p rim itivo ma dalle convinzioni
teologiche non poco evolute, quella dell'« angelo del Signore » deter
mina senz’altro la consistenza reale di quell’esperienza sacrale defi
nita come ima « visione » di Dio « faccia a faccia ».
E ’ sostanzialmente analoga l’esperienza vissuta da Isaia profe
ta nella celebre sua « visione » vocazionale107. Mentre i Serafini si
coprono il volto dinanzi al Dio S an to10S, il profeta è preso da terro
re e si crede perduto perché, pur essendo un uomo « dalle labbra
i°5 Gen. 16, 7-14; 21, 17-19; 22, 11; 31, 11-16; Es. 3, 2-6... Sono contesti in cui
la figura d e ll'« angelo del Signore » è veicolo d ’esperienza « teofanica », e che
vanno distinti da quelli, più num erosi, dove la stessa figura interviene come
« personificazione » dell’aiuto di Jahve concesso a Israele nel quadro generale
del rapp orto d'alleanza. Cfr. G. v o n R a o , Theologie des Alteri Testaments, I, pp.
284-286.
Esem pi: « A g a r chiam ò Jahve, che le aveva parlato: T u sei il D io che
vede (E l-R oì) » (G en. 16, 13). — L ’angelo del Signore dice a G iacobbe: « Io sono
il Dio di B e t e l» (G en. 31, 11. 12). — « L ’angelo del Signore apparve (a M o sè ) in
una fiam m a di fuoco in mezzo ad un roveto »; ed è il Signore m edesim o (Es.
3, 2. 4-6). — Gedeone disse: « Adonai Jahve, ho dunque visto l ’angelo del Si
gnore faccia a faccia » (Gdc. 6, 22). — Il fu tu ro padre di Sansone dice alla m o
glie: « N o i m orirem o certamente, perché abbiam o visto Dio » (Gdc. 13, 22). L ’an
gelo è Dio stesso, apparso in fo rm a um anam ente recepibile.
107 Leggere: J. S t e i n m a n n , Le prophète Isdie. Sa vie, son oeuvre et son temps,
coll. « Lectio Divina », Paris 1950: « L a vision inaugurale et la vocation prophé-
tique », pp. 32-50; F. M o n t a g n i n i , La vocazione di Isaia, in B ibbia e Oriente 6
(1964) 163-172; B . R é n a u d , La vocation d ’Isàie. Expérience de la foi, in La V ie Spi
rituale 119 (1968) 129-145.
108 Is. 6, 2. — « M osè allora si velò il viso, perché aveva p au ra di guardare
verso D i o » (E s. 3, 6); « E l i a si coprì il volto con il m a n te llo » (1 Re 19, 13).
In Es. 33, 22. 23 è detto che il Signore stesso copre M osè con la m an o; cfr.
anche 34, 8...
116 G IOVANNI HELEW A
impure..., i suoi occhi hanno visto il Re, il Signore degli eserciti » 109.
La sua, tuttavia, non può essere stata una visione immediata di Dio,
dato che nel v. 4 si precisava che il tempio era « ripieno di fum o ».
Di nuovo un elemento strumentale tratto dalla sfera del creato. N e l
la presentazione infatti tradizionale delle teofanie, il « fumo » serve
un duplice scopo; indicare una presenza speoiale del Signore e, allo
stesso tempo, salvaguardare la trascendenza dal Dio d’Israele affer
mandone precisamente d’invisibile santità no.
Veramente, lungi dal contraddire l'insegnamento radicale del
l’assioma formulato in Es. 33, 20, le testimonianze precedenti man
tengono intatto il principio che « d’uomo non può vedere Dio e re
stare vivo ». I personaggi interrogati sono rimasti in vita, certo, ma
la loro non fu una visione immediata del Dio Santo — del tipo cioè
prospettato appunto in Es. 33, 20. 23 — , anche se qualche volta si
usa l ’espressione « faccia a faccia ». Quella che venne loro concessa
era l ’esperienza privilegiata di una presenza rivelatrice di Dio, sì,
ma attuata con la strumentalità mediatrice di elementi creaturali
dalla natura sensibile e dal valore semplicemente indicativo. Le nar
razioni in questione lo fanno notare sufficientemente, aderendo così
a quella che possiamo chiamare una tradizione normativa in pro
posito m.
c) «V e d e re D i o » : ambivalenza e analogia
Il messaggio che abbiamo cercato di deggere nei precedenti con
testi teofanici è tale da metterci in guardia contro una interpreta
zione univoca dell’espressione « vedere Dio » o « vedere il volto di
Dio » nella letteratura veterotestamentaria. Quando la « visione » di
Dio è presentata come un fatto avvenuto, essa designa allora una
esperienza del tipo incontrato sopra, in cui cioè è stato dato all’uo
m o di conoscersi oggetto di una speciale epifania divina — m anife
stazione tuttavia incarnata in form e creaturali che per natura loro
affermano e negano: affermano la presenza viva della divinità e ne-
1M Is. 6, 5. R icordiam o la reazione alquanto simile di Pietro in Le. 5, 8:
« Signore, allontanati da me, che sono un peccatore ». Reazione istintiva di un
figlio d'A dam o di fronte ad ogni m anifestazione di santità divina,
no Cfr. Es. 19 16; 40, 34-35; 1 Re 8, 10-12; Ez. 10, 4, ecc.
in A doperan do un concetto di teologia evoluta, diciam o che questi perso
naggi avvertirono la presenza sacrale di Dio, presenza viva e personale, in virtù
di un fattore ulteriore, che solo poteva perm ettere loro di accogliere ciò che
vedevano e udivano come « segno » realm ente teofanico: la luce intima della
fede, luce oscura che insieme afferm a e nega. Afferm a in qualche m odo la « vi
sione », di cui però nega la chiarezza.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO D I DIO 117
gano la visione immediata del Dio Santo. Quando, invece, come in
Es. 33, 20. 23, la « visione » di Dio vien detta radicalmente impossi
bile ad ogni figlio d’Adamo, il pensiero allora si riferisce al concetto
di una esperienza di Dio al di là di ogni tipo di strumentalità m e
diatrice di form e o figure, una « visione » cioè che si attuerebbe con
piena chiarezza d’intuito e perfetta immediatezza dialogica.
La negazione di questo genere di « visione » divina, articolo di
fede indiscutibile, accompagna quale sfondo immancabile ogni as
serzione teofanica nel Vecchio Testamento ed offre all’interprete un
m etro teologico sicuro con cui misurare la reale consistenza ricono
sciuta dal pensiero israelitico alle diverse esperienze teofaniche rife
rite qua e là nei Libri Sacri. Non solo. Il criterio è applicabile pure,
col dovuto trasferimento nozionale, a tutti i contesti dove, come
appunto nelle preghiere del desiderio di Dio, emerge l’aspirazione
della pietà israelitica a « vedere » in qualche modo il Signore.
Il passaggio dal contesto teofanico a quello della pietà personale
è giustificato. Ambedue fanno capo, nella Bibbia, al tema suprema
mente religioso della « visione di Dio » : il prim o in chiave di epifa
nia divina all'interno delle strutture oggettive e sacrali della storia
della salvezza; il secondo in termini di dinamismo vitale proteso a
realizzarsi in un rapporto personale sempre più appagante col Si
gnore. Ma nonostante tale differenza, il « vedere Dio » porta nelle
due situazioni una innegabile analogia nozionale, fondata sul fatto di
un contatto con Dio avvertito o desiderato come esperienza p rivi
legiata sita al vertice dei valori religiosi.
L ’analogia è confermata dalla terminologia. Pensiamo alla for
mula « vedere il volto di Dio » già studiata come espressione caratte
ristica della sete o desiderio di Dio che animava esponenti avanzati
della pietà israelitica. Orbene, la form ula è presente anche in Es.
33, 20. 23 : « Non potrai vedere il mio volto, perché l ’uomo non può
vedermi e restare vivo... il m io volto non lo si può vedere ». L ’accosta
mento è interessante per due m otivi: da una parte, è confermato
che « vedere il volto di Dio » e « vedere Dio » è la stessa cosa112;
dall’altra parte, si ripresenta il criterio interpretativo tracciato poco
sopra : quando la sua « visione » da parte dell’uomo è presupposta
possibile, il « volto di Dio », pur sempre indicando Dio stesso, non
può in alcun m odo venire accolto come espressione di rivelazione
divina assoluta, come invece è il caso in Es. 33, 20. 23, dove appun
to la « visione » del « volto di Dio » è radicalmente esclusa. In al
tre parole, quando si propone di « cercare il volto di Dio » (Sai. 27,
7-9), supplica Dio di « non nascondergli il suo volto » (Sai. 143, 7),
>12 Cfr. sopra n. 48.
118 G IO VAN N I HELEW A
esprime il desiderio di «v e d e re il volto di D io » (Sai. 42, 3), il pio
Israelita protende sì verso un’esperienza di Dio che soddisfi le sue
aspirazioni vitali più profonde, ma ila sua mente « teologica » rima
ne portatrice di una determinazione indiscussa, quella tracciata dal
detto assiomatico; « L ’uomo non può vedermi e restare vivo ».
Pertanto, si avvera qui, analogicamente, la stessa dinamica che
abbiamo scorto informare ogni concreta manifestazione teofanica:
nel « volto di Dio » la pietà israelitica ricerca Dio stesso, ma attra
verso la mediazione di una sua presenza operante che sia avverti
bile e sperimentabile personalmente, in quanto adattata alla capa
cità ricettiva della fragilità umana. L ’abisso che separa l ’uomo-
creatura dal Dio-Santo rimane invalicabile; e se i pii Israeliti dichia
rano di voler « vedere » il volto di Dio, da loro coscienza israelitica
proibisce loro, col veto di una fede tradizionale, di dare a tale loro
aspirazione la form a di un desiderio che sanno essere al di là di ogni
possibile appagamento. Come nelle teofanie ricordate era dato al
l ’uomo di « vedere » Dio attraverso la mediazione e il velo creaturale
di elementi sensibili, così la pietà israelitica anela a « vedere » il
volto di Dio aspirando ad una conoscenza del Signore il più possi
bile diretta ed intima, ma realizzabile unicamente col verbo di una
bontà operante e di un amore testimoniato concretamente nella
realtà sperimentabile del suo effetto: « Gustate e vedete che è buo
no il Signore ».
Ciò significa che la formula « vedere il volto di Dio » non p o
teva essere intesa dagli assetati di Dio tra i figli d’Israelle nel senso
di una intuizione immediata della santità divina, bensì piuttosto
come la designazione di un’esperienza privilegiata di Dio incarnata
in valori di vita che provengono da Dio ma non sono Dio, realtà
che rivelano in qualche modo Dio ma lasciano integra la sostanza
del suo mistero. Paradossalmente, ma con verità oggettiva insita al
tenore della fede israelitica in proposito, quello desiderato dai pii
Israeliti è un « vedere il volto di Dio » che non oltrepassa, a livello
d’esperienza personale, i lim iti tracciati dalla parola del Signore a
Mosè: « Vedrai le mie spalle, ma il m io volto non lo si può vede
re » 113. « Visione » di qualche cosa di Dio, non già di Dio medesimo;
è un « vedere » realizzato come un « non vedere »: affermazione e
negazione per mezzo del linguaggio dell’immagine, la cui dialettica
suona come determinazione teologica dell’economia delle epifanie
ha Es. 33 , 23. E ’ anche un « vedere » Dio, il cui tenore oggettivo rim ane
dentro i limiti epifanici della rivelazione del N o m e divino, che vedem m o sopra
essere una manifestazione di Dio stesso, si, ma incarnata nel suo « agire » lun
go la storia della salvezza.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 119
divine in genere e, a livello specifico di pietà personale, come pre
cisazione delle possibilità aperte all’uomo desideroso di avvicinarsi
in comunione di vita al suo Signore.
2. - « M eglio della vita il tuo amore »
Sotto il segno di questa affermazione dell’assetato di Dio del
Salmo 63, cercheremo ora di stabilire il valore religioso del desi
derio di « vedere il volto di Dio » della pietà veterotestamentaria alla
luce dei dati completivi che in questa linea medesima offre il mes
saggio globale del Nuovo Testamento. Più precisamente, ci propo
niamo di esaminare se e in quale misura tale aspirazione degli asse
tati-cercatori di Dio, espressione dell’alta pietà israelitica, è inseri
bile nella dinamica religiosa che un cristiano vive concretamente
allorquando anela, da parte sua e confortato dalle verità di fede che
possiede, a « vedere il volto » del suo Dio. Com’è ovvio, la nostra
analisi sarà primariamente interessata alla possibilità di individuare
in detta aspirazione della pietà dei Salmi la presenza oggettiva di
una ricerca di pienezza personale che postuli, per esigenza insita alla
sua natura, il conseguimento di beni di vita siti al di là di un’esi
stenza meramente terrestre.
a) « Sulla terra dei viventi »
E ’ un fatto che la formula assiomatica: « L ’uomo non può ve
dermi e restare vivo » (Es. 33, 20), intende semplicemente insegnare
la radicale impossibilità per un figlio d’Adamo di « vedere » Iddio
neH’immediatezza del suo essere, senza che alcuna prospettiva ven
ga aperta, direttamente o indirettamente, sui rapporti che potreb
bero stabilirsi tra l’uomo e Dio in una ipotetica esistenza dopo la
morte. Il testo appartiene ad un mondo concettuale che ignorava
la metafisica religiosa dell’aldilà e che riteneva l ’esistenza umana,
concepita come « vita », tutt'intera rinchiusa con i suoi valori spe
cifici nello spazio temporale sito tra la nascita e la m o r te m. E ’
H4 Sul mistero della condizione um ana post m ortem e sull’em ergere della
certezza di una vita fu tu ra presso Dio nel contesto generale della teologia vete
rotestam entaria, leggere: P. D h o r m e , Le séjou r des m orts chez les Babyloniens et
les H ébreux, in R evue Biblique, 1907, pp. 59-78; F. N o t s c h e r , Altorientalischer und
alttestamentlicher Auferstehungsglauben, W u rtzb u rg 1926; A. P a r r o t , Le « Refrige-
rium » dans l ’au-delà, Paris 1937; E. F. S u t c l i f f e , The Old Testament and thè F u
ture Life, O xford 1946;l C. B a r t h , D ie E rrettung vom Tode ìrt den individuellen
12 0 G IO VAN N I HELEW A
questo lo spazio in cui esiste quel « vivente » chiamato uomo —1 e in
esso è esclusa la visione immediata di Dio. Con rigore di logica,
possiamo leggere le parole « e restare vivo » come urna precisazione
ulteriore, aggiunta per dare maggiore forza assertiva alla dottrina
già sufficientemente formulata nella prima proposizione : « l ’uomo
non può vedermi... » 115.
Anche i pii del Salterio che aspiravano a « vedere il volto di
Dio » comprendevano questo traguardo di perfezione religiosa con
seguibile unicamente nel presente, nel quadro cioè di quella che era
considerata come la sola esistenza effettiva concessa all’uomo 116. Sa
pevano questi pii, come rilevato precedentemente, che il « volto di
Dio » a cui tendevano non poteva rivelare loro con chiarezza di v i
sione la verità immediata di Colui che adoravano come il Santo
d’Israele; ma non per questo il loro anelito veniva proiettato verso
le realtà future di un’esistenza dopo la morte, come se nutrissero
la speranza di conseguire in un’altra vita la « visione » preclusa loro
nel presente. Ignoravano, in altri termini, la m olteplice antitesi tra
« esilio terrestre » e « patria celeste », tra « fede » e « visione », tra
« vedere come in uno specchio, in maniera confusa » e « vedere fac
cia a faccia », tra vita celeste posseduta nel mistero e vita celeste
manifestata in gloria — antitesi articolata mediante la quale un
Paolo Apostolo illustrerà precisamente la dinamica di una speranza
vissuta nel « presente » lontano dal Signore e protesa verso la per-
Klage- und Dankliedern des A lt en Testaments, B asilea 1947; R . T o u r n a Y, L ’escha
tologie individuelle dans les Psaum es, in R evu e Bibliquà 56 (194 9) 481-506 ; P. v a n
I m s c h o o t , Théologie de l'Ancien Testament, Tom e II : L ’hom m e, Tourn ai 1956, pp.
51 ss. ; R . M a r t i n - A c h a r d , D e la m o rt à la résurrection d ’après l’Ancien Testa
m ent, Neuchâtel 1956; W . M a r c h e l , D e resurrectione et de retributione statim
post m ortem secundum 2 Mach, com parandum cum 4 Mach., in V e rb u m D om ini
34 (1 9 5 6 ) 327-341j E . G a l b i a t i - G . S a l d a r i n i , L'escatologia individuale nell'Antico Te
stamento, in Rivista Biblica 10 (1 9 6 2 ) 113-135; C . L a r c h e r , Etudes sur le livre de la
Sagesse, coll. « E tudes B ibliq u es », Paris 1969, ch. I V : « L ’im m ortalité de l’âme
et les rétributions transcendantes », pp. 237-327...
U5 N o tiam o Es. 33, 23: « il m io volto non lo si può vedere ». Del resto, que
sta è la verità che em erge laddove si p a rla di m orte a proposito di coloro
che avrebbero « visto » Iddio. E ’ sem plicemente l ’affermazione che l ’uom o, con
siderato appunto come un « vivente », è radicalm ente incapace di intuire l ’es
senza della divinità. Nessuna im plicita nozione di una « vita dopo la m orte »
in cui sarebbe possibile vedere Dio. In altre parole, il testo non intende inse
gnare che occorre m orire p er poter vedere Dio.
115 U n a qualche visione di Dio riservata ad u n ’altra vita attesa dopo la
m orte esulava senz’altro d a ll’orizzonte concettuale di siffatta pietà. L a fede in
una sopravvivenza del giusto presso Dio è conquista m olto tardiva del pensie
ro israelitico (cfr. Dn. 12, 2-3; Sap. 3, 1 ss.; 2 Mac. 7, 9), e non possiam o attri
bu irla sic et simpliciter, senza tradire in larga m isura la loro esperienza, a que
gli assetati-cercatori di Dio che diedero fo rm a nei Salm i al loro desiderio di
« vedere » il Signore.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 121
fez ione « futura » di un’esistenza eterna presso il Signore tn.
Significativi a tale riguardo gli accenti di nihilismo religioso con
cui Israele si rappresentava la condizione in cui versano i m orti:
Di essi tu non conservi il ricordo,
e sono tagliati fuori dalla tua mano...
Compi forse prodigi per i morti?
0 sorgono le ombre a darti lode?
Si celebra forse la tua bontà nel sepolcro,
la tua fedeltà nell'Abaddón118?
Nelle tenebre si conoscono forse i tuoi prodigi,
la tua giustizia nella terra d’o b lìo 119? (Sai. 88, 6. 11-13).
M orire significava per il pio Israelita « non vedere più il Signo
re », mentre « rimanere sulla terra dei viventi » significava potere an
cora « camminare alla presenza del Signore » e « vedere la bontà del
Signore » 120.
Da una parte, quindi, gli assetati di Dio nel Vecchio Testamento
protendevano verso una « visione » del « volto divino » che sapevano
priva di chiarezza e d’immediatezza; dall’altra parte, questi stessi
esponenti della pietà israelitica concepivano tale loro desiderio tutto
intero esauribile dentro i confini di una esistenza « sulla terra dei v i
venti », esistenza chiusa a valori effettivi di vita e di religione al ter
mine del suo decorso tem porale121. E la duplice limitazione è da
tenersi presente come criterio d’interpretazione, se vogliam o apprez
zare nella sua genuina realtà veterotestamentaria il desiderio del
Dio Vivente espresso qua e là nei Salmi ed evitare una lettura ana-
117 Cfr. 1 Cor. 13, 12; 2 Cor. 5, 6. 7; FU. 3, 20; Col. 3, 34...
n* ’ Abbadori', dal verbo ’ abad, perire, corrom persi, an dare in rovina, spa
rire, cessare d ’esistere; è usato qui come term ine equivalente di sceol, e può
essere tradotto: (lu ogo d i) Perdizione o di Sterm inio (cfr. Ap. 9, 11); il concetto
dom inante è quello di una privazione di quei valori caratteristici che costitui
scono l’esistere e il vivere. Il term ine è p ro p rio della letteratura sapienziale:
G b. 26, 6; 28, 22; Pr. 15, 11; 27, 20; anche G b. 31, 12, nel senso di «c o m p le ta
estinzione ».
119 Terra d ’oblìo: « Come espressione è un hapax e sta a indicare che coloro
i quali vi giungono vengono dimenticati, praticam ente, non solo dagli uomini,
m a perfino da Dio, con cui cessano le relazioni ordinarie che legano a lui i
singoli individui, finché sono su questa terra » (G . C a s t e l l i n o , op. cit., p. 214).
N ello ' Abbadón, vera « terra d 'o b lìo », cessano le attività vitali dell’uom o, e
quindi anche quelle religiose della lode e dell’adorazione (Sai. 6, 6; 30, 10; Qo.
9, 5. 6. 10; Sir. 17, 23).
1» Is. 38, 11; Sai. 116, 9; 27, 13.
121 V a sottolineato il verbo da noi usato: « concepivano ». Com e infatti ri
leverem o più tardi, il pro blem a dell’aldilà nella pietà individuale dei Salm i è
solubile unicam ente sulla b ase di una doverosa distinzione m etodologica tra
form ulazione concettualè e dinam ica vitale.
12 2 GIO VAN N I HELEW A
cronística imposta ai testi antichi da una possibile e quanto mai
diformante ingerenza di nozioni nate in tempi più recenti.
b) Form ulazione concettuale e dinamica di vita
Queste nozioni evolute, tuttavia, noi le possediamo, edotti come
siamo dal messaggio completivo del Nuovo Testamento, dove è arti
colo di fede la vocazione deM’individuo ad una misteriosa ma reale
visione « faccia a faccia » del Signore, esperienza che attende il giu
sto dopo la m orte e che gli darà di « conoscere perfettamente, come
anche lui è conosciuto » (1 Cor. 13, 12). E quando pensiamo che tale
esperienza celeste è attesa come perfezione di un processo dinamico
di conoscenza e di amicizia tra l ’uomo e Dio iniziato sin da questa
vita terrestre — processo che include già nel presente da verità di
una qualche « visione » di Dio — , appare allora possibile e giustifi
cato, in termini strettamente teologici e nei lim iti del buon senso
esegetico, proiettare sulla pietà vissuta dagli antichi assetati di Dio
la ¡luce di un ulteriore criterio interpretativo: anche se disponeva
di un bagaglio concettuale im perfetto che impediva ad essa di pro
tendersi consapevolmente ad una visione celeste di Dio, detta pietà
poteva esprimere, non certo con linguaggio discorsivo ma con la te
stimonianza della sua realtà oggettiva, un dinamismo vitale orientato
verso il medesimo bene sommo di una esistenza gloriosa presso Dio.
Ovviamente, d’impiego di simile criterio presuppone acquisita la
possibilità di distinguere, all’interno del fatto religioso in genere e
della pietà israelitica in particolare, dimensione vitale e dimensione
form ale, vita vissuta e vita discorsivamente affermata, esperienza in
dividuale e linguaggio sociale, dinamica religiosa e formulazione con
cettuale, rapporto oggettivo con Dio e comprensione nozionale di
tale rapporto medesimo. Figli del loro tempo e del loro popolo, i
pii Israeliti che ascoltiamo nei Salmi esprimere la loro sete di Dio,
dovevano per forza dare alle form ule che usavano il senso consen
tito ¡loro dalla fede esplicitamente posseduta in seno alla comunità
a cui appartenevano. A livello più intimo, tuttavia, essi vivevano
una loro esperienza personalissima, ricca di valori che forse non av
vertivano sul piano della coscienza razionale, ricchezza reale ma
non necessariamente esauribile dal sussidio del linguaggio form ale
e deH’articolazione concettuale. I due strati rimangono complemen
tari, certo, ma è doveroso presupporre in tale contesto che la realtà
oggettiva della esperienza vissuta possa trascendere, come valore
religioso, i lim iti nozionali imposti dal tempo e dall’ambiente alla
testimonianza formale che ebbe compito di esprimerla.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 123
Tale impostazione metodologica è resa ancora più impellente
dalla perfezione stessa del messaggio neotestamentario in materia
di aspirazione religiosa alla visione di Dio — perfezione che nello
stabilire concettualmente la dinamica « celeste » di tale aspirazione,
rivela al teologo quanto lacunosa fosse, a questo livello medesimo,
la corrispondente esperienza israelitica e gli permette, d’altro canto,
di supplire con l ’informazione che possiede ai difetti d’intelligenza
a cui erano soggetti gli esponenti antichi della sete di Dio. In altre
parole, siamo in grado di determinare il valore religioso insito nel
desiderio della pietà israelitica di « vedere il volto di Dio » meglio di
coloro stessi che l ’hanno vissuto o l’hanno form ulato nella poesia
dei S a lm i122. Unica condizione perché si giustifichi un simile ricorso
al lume suppletivo del Nuovo Testamento: potere riferire gli accen
ti che esprimono tale aspirazione ad una esperienza vitale di pietà
autentica, poterli cioè leggere come testimonianza verace di un de
siderio di Dio in cui individui concreti realizzarono una propria loro
identità. Infatti, solamente nella misura in cui era autentico eser
cizio d’intimità divina la pietà israelitica può dirsi oggettivamente
portatrice di valori religiosi atti ad essere integrati, organicamente
ed omogeneamente, nella ricchezza strutturata offertaci ormai dal
messaggio evangelico in materia.
Orbene, detta condizione si verifica pienamente. E ’ un fatto che
il valore che più immediatamente colpisce il lettore moderno dei
Salmi è precisamente l ’autenticità della religione che vi si esprime,
la veridicità umana dei sentimenti devozionali che vi si trovano cri
stallizzati. Non possiamo leggere queste preghiere dell’antico Israele
senza avvertire la presenza viva di una umanità intenta ad esprim e
re se stessa al cospetto di Dio. La costatazione è quasi istintiva e
non necessita da parte nostra un particolare sforzo dimostrativo.
Diciamo solamente che essa diventa anche m otivo d’ammirazione
allorquando pensiamo che tale pietà, così ovviamente genuina ed
impegnata, potè per lunghi secoli prosperare pur non prevalendosi
del conforto di una fede nella sopravvivenza personale e la retribu
zione divina dopo la morte. Del resto, una riprova che nei Salmi è
presente una testimonianza convincente di una pietà vissuta all’in
segna del vero e dell’autentico, la possiamo trovare nel fatto che l ’o
rante cristiano fa naturalmente sue queste preghiere, s’immedesima
spontaneamente con coloro che vi hanno consegnato il loro slancio
122 N o n è pretesa cam pata in aria, specie se, stabilendo schiettamente il
discorso a livello di teologia biblica, ci riferiam o alla verità basilare dell’unità
progressiva dei due Testamenti — unità che deve pure trovare riscontro, al di
là delle strutture e dei regim i organicam ente costituiti, nella realtà concreta
della religiosità vissuta a livello personale.
124 G IOVANNI H ELEW A
verso Dio; più ancora, egli non trova difficoltà nall’inserire gli ac
centi che vi legge nella dinamica di una pietà che è tipicamente sua,
nella prospettiva cioè di un perfezionamento risolutore sito nel fu
turo di un’esistenza eterna presso il Signore.
Più particolarmente, questo valore d’autenticità religiosa, l ’o
rante cristiano l’avverte istintivamente quando impiega i Salmi del
la « sete di Dio », come ad esempio 42-43 e 63. Ricordiam o a tale pro
posito l ’intensità e la verità con cui vi si tende al bene dell’intimità
divina, bene sommo ricercato come pienezza di vita, desiderato col
dinamismo di un vivere proteso ad autorealizzarsi123. « La mia anima
ha sete di Dio, del Dio Vivente... Quando verrò e vedrò il volto di
D io ? »: è davvero degno di nota e teologicamente istruttivo costa
tare la naturalezza con cui facciamo nostri questi aneliti del pio le
vita, incorporandone la verità nella dinamica di una nostra speran
za « evangelica » proiettata verso il possesso di Dio nella chiarezza
di una visione celeste. Inform ati dall’esegesi, sappiamo che questa
sete di Dio e questo desiderio di vedere il volto di Dio spuntarono
nell’animo di un orante che ignorava ancora la possibilità di una
visione divina post m ortem e che limitava pertanto la sua aspira
zione al conseguimento di un bene atteso sì come vertice d'esisten
za ma pur sempre confinato dentro gli orizzonti terreni di un vive
re nel presente. Conosciamo, in altre parole, la lacunosità su que
sto punto preciso della pietà israelitica e ne misuriamo anche il non
indifferente peso. Siamo perciò perfettamente consapevoli di confe
rire a detti aneliti una portata che trascende senz’altro il loro teno
re originario nella coscienza dell’Israelita che li emetteva a suo tem
po nell’esercizio della sua pietà personale. Ciò nonostante, non ci
sentiamo inibiti daH’usare i suoi stessi accenti per esprimere come
nostro proprio desiderio vitale quanto egli ignorava, anelando al pari
suo a « vedere il volto di Dio », ma intendendo con ciò la perfezio
ne di una visione « faccia a faccia » nel cielo. Il fatto è che prolun
gando in tale m odo la sete di Dio testimoniata nei Salmi, l'orante
cristiano non avverte, a livello di pietà in atto, alcuna forzatura im
posta da parte sua alle antiche form ule che recita; al contrario, egli
accoglie queste come strumento espressivo perfettamente intonato
ai suoi propri desideri d’etern ità124.
Questa sintonia tra la lettera dei Salmi e le aspirazioni vive del
la pietà evangelica porta un messaggio teologico che l’esegeta cre
123 E ’ stata questa la conclusione della prim a parte del nostro studio.
124 In altre parole, non si verifica in sim ili casi un tipo d ’esegesi accomo-
datizia o semplicemente allegorica, aliena al senso genuino degli accenti reli
giosi così adoperati; al contrario, si ha la convinzione istintiva di farn e em er
gere il vigore nascosto e la verità vitale.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 125
dente non può affatto ignorare : invita a ritenere che la sete di Dio e
il desiderio di vedere il volto di Dio dei pii Israeliti, pur legati sto
ricamente ad un mondo onerato da insufficienza concettuale, espri
mevano in profondità la dinamica di una pietà che convogliava, a
livello di vita vissuta, ricchezze oggettive e valori devozionali per
natura loro protesi a realizzarsi nella perfezione di quel vertice del
l'esperienza religiosa che esulava ancora dal discorso teologico dei
figli d’Israele, ma che sappiamo noi essere il possesso eterno di Dio
nella visione celeste del suo volto ,25.
c) Sete d'assoluto al di là della mutevolezza del tem po
Questa dimensione « celeste » deilla sete di Dio vissuta antica
mente in Israele, la possiamo ora illustrare concretamente esami
nando il testo di alcuni Salmi dove il tema emerge in modo parti
colarmente felice. Come i tre Salmi studiati precedentemente (42-
43; 63 e 143), sono ancora preghiere che trasmettono gli accenti ac
corati di un intenso desiderio di conoscere una intimità sempre più
stretta col Signore, di un’aspirazione vitale ad una presenza reci
proca e duratura del fedele e del suo Dio collocata dall’orante m e
desimo al di là dei vailori specifici dell’esistenza quotidiana — ane
liti che suonano come sete d’assoluto ed affermazione istintiva della
relatività di ogni bene di vita che non sia conseguibile come pos
sesso sereno e sicuro di Dio. In queste preghiere, infatti, troveremo
una delle sedi dell’esperienza israelitica dove germ ogliò e poté ela
borarsi quel processo evolutivo della coscienza dell’uomo biblico che
avrebbe un giorno raggiunto la certezza nozionale di un’esistenza
perenne presso il Signore e di una visione chiara del volto divino
promessa al fedele dopo la morte.
125 E ’ ovvio che quanto detto in questo sviluppo è ancorato ad una verità
fondam entale che spesso si dimentica o si è tentati di sottovalutare: la sostanziale
identità della vita teologale — fede, speranza, carità — nel Vecchio e nel N u o vo
Testamento. Diciam o « v i t a » , cioè il fatto religioso vissuto nel cuore dei giusti.
Ricordiam o a questo proposito la dottrina della fede im plicita degli antichi, fede
uguale nella sostanza a quella esplicita dell’uom o evangelico; com e pu re l ’inse
gnam ento di San T om m aso d ’A quino che la « legge nuova » era valore vissuto
nell'intim o dei giusti del Vecchio Testam ento ( G . H e l e w a , La legge vecchia e la
legge nuova secondo San Tom m aso d’Aquino, in Ephem erides Carmeliticae 25
(1974) pp. 113-121). — Questa tematica delle virtù teologali vissute autenticamen
te, con la sostanza del loro valore cristiano, dalla pietà dei figli di Israele, è
stata m olto bene trattata da P. G r e l o t nel suo lib ro m agistrale: Sens chrétien de
VAncien Testament. Esquisse d'un traité dogm atique (B iblioth èqu e de Théologie.
Sèrie I. Théologie Dogm atique, voi. 3), Paris 1962: « L a vie d ’Israel dans le
m ystère du Christ », pp. 141-165.
12 6 G IOVANNI H ELEW A
E ’ un fatto che la pietà del desiderio di Dio che incontriamo
nei Salmi prosperò in Israele all’interno e come manifestazione par
ticolare di un movimento religioso più largo, assai bene documen
tato e dalle implicazioni teologiche profonde: l’em ergere della co
scienza individuale nel contesto globale dei rapporti d’Israele col suo
Dio 126. Questo movimento, iniziato già verso la fine dell’era monar
chica e proseguito con impulso maggiore durante l ’esilio e nell’epo
ca della restaurazione, rispondeva ad una esigenza religiosa avver
tita allora in modo sempre più incalzante e che urtava contro i dati
tradizionali di una visione del vivere israelitico improntata a collet
tivismo piuttosto unilaterale: rendere intelligibile all'individuo in
quanto tale la sua identità propria dentro le strutture comunitarie
della religione stabilita e, più profondamente ancora, definire alla
luce della fede i termini di una relazione personale, viva e concreta,
dell’individuo col Signore Dio d’Israele.
Tale esigenza, sappiamo, nacque come dinamica di maturazione
teologica in prim o luogo sotto la spinta di un perché? innalzato ver
so il m istero di Dio dal profondo di ima esperienza basilare : « Per
ché le cose degli empi prosperano? » 127. « Tutto ho visto nei giorni
della mia vanità: perire il giusto nonostante da sua giustizia, vivere
a lungo Tempio nonostante la sua iniquità » 12S. La prosperità degli
empi e la sofferenza dei giusti! Per superarne l’assurdità esistenziale
con un linguaggio di fede degno della « giustizia » del Signore, ur
geva una risposta che trascendesse la logica spietatamente collet
tiva ed automaticamente retributiva delle tradizionali sanzioni del
l’alleanza l29. Per natura sua questo perché? doveva portare ad una
promozione dell’individuo e della responsabilità personale nel qua
dro generale del fatto relig ioso130 e, congiuntamente, ad una nuo
va valutazione di diversi dati dell’esistenza umana. Non è nostro in
tento né compito esaminare nei particolari questo fenomeno d’evo
U6 F . S p a d a f o r a , Collettivism o e individualismo nel Vecchio Testamento, R o
vigo 1933; A. R. J o h n s o n , The Vitality of the Individual in the Thought of Ancien
Israel, Cardiff 1949; J. de F r a i n e , In divid u et société dans la religion de l’Ancien
Testament, in Biblica 33 (1952) 324-355, 445-475.
127 C fr. Ger. 12, 1 ss.; G b. 21; Sai. 49; 73, ecc.
128 Qo. 7, 15. 8, 14: « S u lla terra si ha questa delusione: vi sono giusti ai
q uali tocca la sorte m eritata dagli em pi con le loro opere, e vi sono em pi ai
q uali tocca la sorte m eritata dai giusti con le loro opere. Io dico che anche
questo è vanità ».
129 Cfr. Lev. 26, 3 ss.; Dt. 28; 30, 15-20... Le così dette « benedizioni » e « m a
ledizioni » condizionali dell’alleanza (Dt. 11, 26-29; 27, 11-14; Gio. 8, 32-35), la cui
logica inform a pu re dal di dentro gran parte dell'esortazione profetica.
1» C f r . E z . 14, 12 s s . ; 18 ; 33, 18-20. L e g g e r e : J . H a r v e y , Collectivism e et indivi
dualisme. Ez. 18, 1-32 et Jér. 31, 29, in Sciences Ecclésiastiques 10 (1 9 5 8 ) 167-202.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 127
luzione teologica131. Diciamo solamente, riferendo una conclusione
esegetica ormai pacificamente acquisita, che esso diede al pensiero
israelitico la spinta psicologica e gli strumenti nozionali di cui ave
va bisogno per proiettarsi al di là degli orizzonti meramente terre
stri dentro i quali si era fino ad allora rinchiusa ila fede tradizio
nale e postulare, come im perativo assoluto di « giustizia » divina, la
verità di una risurrezione individuale e di una esistenza personale
e vitale presso Dio al termine dello spazio temporale assegnato a
ciascuno 132.
Orbene, è di massimo interesse notare che tale progresso, at
tuato quale fu in chiave di promozione religiosa della coscienza in
dividuale e della responsabilità personale, ebbe a concretarsi anche
in due linee parallele lungo le quali potè precisamente prosperare
la pietà israelitica, in genere e quella più caratteristica della sete
di Dio, in particolare: 1) una spiritualizzazione di categorie tradizio
nalmente legate al mondo collettivo del culto ed impiegate ora co
me formulazioni precise di pietà distintamente personale; 2) una
nuova valutazione dei beni dell'esistenza temporale alla luce del bene
eminentemente religioso e personale della intimità divina. Due linee
di sviluppo che integravano una medesima dinamica protesa a sta
bilire su basi intelligibili e vitali l’identità dell’individuo al cospetto
del Signore e nel quadro generale del fatto israelitico133.
Spiritualizzazione di categorie istituzionali
Incontriamo in prim o iluogo un’autentica novità di linguaggio
religioso: nozioni che nel passato esprimevano unicamente realtà
istituzionali e cultuali vengono ora impiegate anche per definire va
lori spirituali di pietà personale134. E in questa linea, particolare at
131 U n a bibliografia sul problem a si trova in: J. L e v e q u e , Job et son Dieu
(E tu des bibliqu es), I-II, Paris 1970, pp. 723-757.
132 « The approaches to a belief in an individual resurrection fou nd in the
O ld Testament are due to a dem and fo r the accom plishm ent o f justice »
(J. P e d e r s e n , Wisdom and Im m ortality, in Vetus Testam entum Suppl. 3 (1955)
p. 245). Cfr. bibliografia data sopra n. 114.
133 « Les idées sur la vie d ’outre-tom be ont évolué peu a peu, mais lente
ment, sous l’influence de deux facteurs surtout: a) le prem ier est l ’expérience
de la vie, qui a fini p a r ébran ler chez plusieurs la théorie traditionnelle de la
rétribution du bien et du m al dans la vie présente (cfr. sopra n. 1 3 2 ); b ) le
second è la spiritualisation de la piété israélite, qui, chez certains, s’élève à
l ’espérance d'une union du rable avec D i o » (P . v a n I m s c h o o t , op. cit., p. 5 7 s . ) .
Leggere anche le m agistrali pagine di G . v o n R ad , Théologie des Alten Testaments,
I , P P . 381-415.
134 Si cominciò a parlare, ad esempio, di una circoncisione del cuore (Dt.
10, 16; 30, 6; Ger. 4, 4); la lode divina, la contrizione del cuore, la preghiera
128 GIOVANNI H ELEW A
tenzione meritano due temi nati nello stesso contesto socio-religioso
dove ebbe a prosperare la devozione degli assetait-cercatori di Dio:
quello del fedele che « si nasconde » e « cerca rifugio » presso il Si
gnore e quello che fa capo dall’idea che il Signore è la preziosa
« parte d’eredità » del suo fedele.
Conosciamo già il desiderio del pio Israelita di ritrovarsi nel
santuario del Signore, desiderio vissuto come sete di Dio ed aspira
zione ad una stretta e garantita intimità divina (Sai. 42-43 e 63). E
sappiamo che tale dinamica è riferibile, esegeticamente, ad una an
tica tradizione secondo cui si « cercava il Signore » nella sua dimora
terrestre per ottenere da lui una parola di rivelazione; soltanto che
adesso vi si « cerca il Signore » per poterlo meglio celebrare e per
« vedere il suo volto », ossia, conoscere e sperimentare la sua bontà.
Questo prolungamento « spirituale » si verificò in un contesto gene
rale di pietà israelitica dove si faceva strada un fenomeno parallelo,
riguardante ila stessa istituzione del santuario divino. Pensiamo ap
punto al tema, presente qua e là nei Salmi, secondo cui il fedele af
flitto cerca e trova « rifugio » presso il S ign ore13s. N on è diffìcile ac
corgersi che assistiamo qui ad un im piego nuovo impresso ad un
dato tradizionale: la funzione del santuario come asilo offerto dalla
comunità a coloro che si trovano perseguiti dalla vendetta di sangue
per un om icidio involontario 136. Il concetto si ripresenta analogo nei
Salmi, ma staccato ormai dalla materialità dell’antica istituzione
sacra e, rivestito di senso « spirituale », entra a fare parte del lin
guaggio generale della preghiera e della pietà individuale.
e l ’invocazione vennero dette « oblazione » e « sacrificio » eminentemente gra
diti al Signore (Sai. 50, 14. 23; 51, 19; 141, 2). Ricordiam o p u re l’espressione
« cercare D io » o « cercare il volto di Dio » (so pra, parte II ), la quale ebbe ad
evolversi in designazione globale della religiosità impegnata, superando così il
suo legam e originale con i pellegrinaggi e le visite al santuario per « consulta
re » il Signore. N e lla stessa linea s ’inserisce anche la nozione della toràh « im
m essa nell’intim o » e « scritta sui cuori » del celebre oracolo gerem iano sulla
« nuova alleanza » (G er. 31, 31-34). — S arebbe senz'altro errato vedere in tali
« spiritualizzazioni » un rifiuto di categorie tradizionali ritenute anacronistiche
o la volontà di superare in nom e dell’autenticità religiosa la stretta sfera delle
realtà cultuali; al contrario, esse servivano a dare m aggiore vitalità ai valori
ereditati dal passato, prolungandone il significato specifico nella direzione di un
inserim ento effettivo dei singoli nella vita com unitaria del popolo di Dio. L ’indi
viduo è chiam ato a vivere personalm ente, con aderenza alla globale verità israe
litica, le ricchezze di una religione com unitaria, sì, m a allo stesso tem po p o r
tatrice di valori realizzabili nell’intimo di ciascuno. Prom ozione dell'individuo
e, parallelam ente, arricchim ento del m essaggio religioso incarnato nei riti e
nelle istituzioni della comunità.
m Sài. 16, 1; 17,8; 27,1. 5; 36,8; 57,2; 59, 17; 61, 4-5; 62, 8 . 9 - 63 8;
91; 94, 22.
134 Es. 21, 13-14; 1 Re 1, 50-53; 2, 28-29; cfr. anche N u m . 35, 9-34; Dt. 4, 41-
43; 19, 1-13; Gio. 20, 1-9. — R. d e V a u x , Les institutions de VAncien Testament,
I, pp. 247-250; I I , p. 96.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 129
Il processo evolutivo in questo caso è davvero notevode. « R ifu
giandosi » presso il Signore, gli aranti ricercano soprattutto il bene
di una consolazione spirituale, la beatitudine di una intima comu
nione di vita con Dio. Come in un « luogo di delizie » (Sai. 16, 6),
essi « si saziano dell'abbondanza della casa » divina (Sai. 36, 9); ma
questi accenti non hanno necessariamente un senso materiale: « Co
me a lauto convito si sazierà la mia anima e con labbra giubilanti
ti loderà la mia bocca » (Sai. 63, 6). Il santuario è quello di Geru
salemme . e il rifugio trovato « sotto le ali » del Signore è da inten
dersi per lo più in senso lo c a le 137; per il fedele, tuttavia, il favore
consiste principalmente nell’essere in tale m odo vicino al Signore
stesso: « A te si stringe l ’anima mia... » (Sai. 63, 9). Si parla sempre
di « rifugio » come lo vuole il ricordo dall’antica istituzione, ma il
concetto è trasferito su un altro piano: è un ricorrere al Signore
neM’afflizione dell’anima per trovare in Lui e in Lui solo protezione
e m otivo di celebrazione. Non è tanto il santuario locale quanto in
vece il Signore stesso che si trova ad essere « rifugio » dell’orante :
« Ed io canterò la tua potenza, al mattino esalterò il tuo amore;
perché sei stato per me una fortezza, un rifugio nel giorno della mia
angoscia » (Sai. 59, 17). Assistiamo ormai ad una pietà aperta ancora
ai richiami tradizionali del santuario, certo, ma più profondamente
sorretta dal desiderio di un contatto personale ed intimo col Signo
re che vi abita: « Solo in Dio riposa l'anima mia... » (Sai. 62, 6); « Io
pongo sempre innanzi a me il Signore... » (Sai. 16, 8); « Una cosa ho
chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Si
gnore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Si
gnore... » (Sai. 27, 4). Accenti che ricordano l’anelito del levita esi
liato : « La mia anima ha sete di Dio, del Dio Vivente; quando ver
rò e vedrò il volto di Dio? » (Sai. 42, 3; cfr. 63, 2-3).
Come accennato sopra, accanto a questa tematica e radicata
nello stesso contesto di pietà personale ne emerge un’altra dove, in
nome ancora della promozione dell'individuo, vediamo verificarsi
un analogo trasferimento sul piano dello stretto vivere « spiritua
le » di una tradizionale categoria istituzionale. In uno dei Salmi ri
feriti sopra, infatti, leggiamo queste parole;
Jahve, mia parte e m io c a lice138,
tu rendi spaziosa la mia sorte;
1*7 Sai. 17, 8; 36, 8; 61, 5; 63, 8; 91, 4.
U8 « M io calice » (k ósi) : è figura frequente nella B ib b ia per indicare la sorte
b u on a (Sai. 16, 5; 23, 5) o cattiva (S ai. 11, 6; 75, 9; cfr. Mt. 20, 22; Ap. 14, 10;
16, 19). Anche il tema profetico del calice della collera di Dio: Is. 51, 17.22; Ger.
25, 15; Lam . 4, 21 ; Ez. 23, 31 s.; H ab . 2, 16.
130 G IOVANNI HELEWA
le corde caddero per me in sito am eno139;
sì, è magnifica la mia eredità (Sai. 16, 5-6).
Le tre espressioni; « p a r t e » ( heleq), « s o r t e » (gó ra l) e « e r e
dità » (nahalàh), appartengono al linguaggio tecnico di una istituzio
ne socio-religiosa, quella della lottizzazione del territorio nazionale
in possedimenti tribali o fam igliari (cfr. Mi. 2, 5). Si deve risalire in
proposito alla tradizione conservata in Giosuè 13 ss., secondo la
quale il Signore stesso distribuì la terra donata al suo popolo fra le
diverse tribù, assegnando a ciascuna una sua parte d'eredità. Den
tro tale tradizione viene riconosciuto alla tribù di Levi uno statuto
speciale 140 — e a questo fatto si riferisce più direttamente ili testo
poc’anzi citato del Salmo 16. Dei discendenti di Levi si dice che
« non furono compresi nel censimento dei figli d’Israele, non aven
do essi alcuna eredità in mezzo ai figli d’Israele » 141. N on ricevono
dunque alcun territorio nella partizione di Canaan; e la ragione ne
è dichiarata a più riprese: il Signore, Dio d'Israele, è la loro « par
te » e la loro « eredità » l42. Come appare da Num. 18, 21-24, la pre
scrizione intendeva inizialmente precisare il modo in cui si doveva
provvedere al sostentamento della tribù sacerdotale : « Ai figli di
Levi io dò in eredità ogni decima percepita in Israele per il servi
zio che fanno, il servizio della tenda del convegno... Per questo
dico loro: Non possederanno alcuna eredità in mezzo ai figli d’Israe
le ». E ’ chiara pertanto l’originaria portata materiale della istitu
zione 143 La parola tuttavia del Signore: « Io sono la tua parte e la
tua eredità » (Num. 18, 20), racchiudeva nella sua straordinaria fo r
za espressiva valori di vita che andavano ben oltre i lim iti di un
semplice regim e di sostentamento materiale...
« Io sono la tua parte e la tua eredità ». Trasmessa di genera
zione in generazione, la parola portava l'affermazione di un m odo di
vivere speciale, di una relazione col Signore che distingueva i figli di
139 Le « corde » (habalim) che « cadono per l’orante in sito am eno » stanno
per indicare lo strum ento — appunto una o più corde — p er m isu rare territori
o terreni (Za. 2, 5; Mi. 2, 5; Sai. 78, 55; cfr. 2 Sam . 8, 2); possono anche indi
care il territorio misurato, la porzione che tocca a qualcuno in eredità (D t 32 9 •
Gio. 17, 14; 19, 9; Ez. 14, 13; Sai. 105, 11 = , 1 Cr. 16, 18...).
140 R . d e V a u x , op. cit., I I , p. 216.
141 N u m . 26, 62. In 1, 47 ss. si precisa che i Leviti non vennero com presi nel
censimento generale a causa del loro speciale statuto cultuale: sono al servizio
del santuario.
142 N u m . 18, 20; Dt. 10, 9; 18, 1-2; Gio. 13, 14. 33; Sir. 45, 22. L a fo rm u la ap
partiene senz’altro ad un fondo tradizionale gelosamente conservato in Israele
lungo le generazioni. In Gio. 18, 7 si ha un'altra form ula: « Il sacerdozio di
Jahve sarà la loro eredità ».
143 Cfr. Dt. 18, 1 ; Sir. 45, 20-21.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 131
Levi dalla massa dei loro connazionali. E la relazione, eminentemente
religiosa perché fondata sulla realtà del culto divino, era suscettibile
di venire interpretata in chiave specificamente spirituale: avendo nel
Signore stesso la loro « parte » e la loro « eredità », i figli di Levi era
no chiamati ad accogliere questa loro condizione come un privilegio
divino indipendente dalle normali espressioni della potenza tribale
e superiore ad ogni tipo di prosperità materiale. Più profondamente
ancora, vi potevano avvertire l’offerta di una comunione col Signo
re sorretta dalla solidità dal Signore medesima, una comunione che
non poteva venire meno perché garantita dalla parola divina e per
conseguenza non malestabile dall’incostanza di fattori esterni.
Questa dinamica spirituale dell’antica istituzione, la troviamo
realizzata nei Salmi, laddove degli oranti esprimono la loro devo
zione dicendo al Signore: « Tu sei la mia parte e la mia eredità 144.
E ’ più che probabile che gli autori di queste preghiere fossero dei
leviti, come del resto la m aggior parte di coloro che ascoltammo in
precedenza: le gioie che si riprom ettono dal loro dimorare presso
il Signore li additano con sufficiente chiarezza quali m em bri della
numerosa corporazione dei cantori levitici del Tempio. Ma l ’interes
se teologico della loro esperienza non sta tanto nell’avere conservato
il linguaggio tradizionale della loro tribù, quanto invece nell’averlo
impiegato come veicolo espressivo di una pietà a carattere spicca
tamente individuale. Si presentano a noi soprattutto come dei fedeli
protesi a realizzare una loro pietà personale, mossi da aspirazioni
religiose che trascendono i valori istituzionali di una semplice iden
tità levitica. Sanno di essere portatori di una tradizione che vedeva
nel Signora la « parte » e la « eredità » dei figli di Levi, ma questo an
tico dato sacrale è da loro vissuto ad un nuovo livello devozionale,
esistenzialmente staccato ormai dai consueti fattori tribali. Testim o
nianza ulteriore di come venerabili categorie comunitarie potevano
subire in Israele, in nome della religione fattasi vitalità personale,
un trasferimento tale sul piano dal vivere « spirituale » da farle li
berare improvvisamente ricchezze religiose fino ad allora insospet
tate.
Nuova valutazione dei beni dell'esistenza
« Fuori di te nulla bram o sulla terra: vengono meno la mia oar-
ne e il m io cuore, ma la roccia del m io cuore è Dio, è Dio la mia
parte per sempre » (Sai. 73, 25-26); « Gioia piena nella tua presen
m Sai. 16, 5-6; 73, 2 6 ; anche Lam . 3, 24.
132 G IO VAN N I HELEWA
za, dolcezza senza fine alla tua d e stra » (Sai. 16, 11). Nuova atmo
sfera, in cui l ’avere nel Signore la propria « parte d’eredità » è de
siderato o vissuto come pienezza personale e superamento di ogni
valore di vita non trovabile nel Signore medesimo. E in questi ac
centi di alta spiritualità vediamo em ergere quella che abbiamo so
pra definita come la linea di una nuova valutazione dei beni della
esistenza temporale alla luce dal bene eminentemente religioso del
l’intimità divina. Questa linea, inseparabile concretamente dalla dina
mica generale che vedeva nell’Israele tardivo la promozione religio
sa dell’individuo, è in fondo una conquista della pietà israelitica
della sete o desiderio di Dio, pietà che in larga misura si esprimeva
precisamente come tensione del fedele afflitto verso una consolazio
ne interiore estranea ai beni materiali della vita e ricercata per con
seguenza nel bene sicuro di una comunione spirituale col Signore.
« Meglio della vita il tuo amore » 145, poteva dire un assetato di
Dio (Sai. 63, 4). Collocata nel suo genuino contesto israelitico, la pa
rola apre prospettive di significativa portata teologica. Permette in
fatti di misurare quanto fosse ormai cambiata la relativa im portan
za di ogni valore e quale cammino è stato percorso nella direzione
di uno sganciamento liberatore della religione dal peso di concezioni
antiquate. La benedizione del Signore, espressione concreta del suo
amore, è sempre stata e rimane al vertice delle aspirazioni umane;
ma essa veniva identificata con il dono della vita e della prosperità
goduta « sulla terra dei viventi ». L ’asserzione di Sai. 63, 4 spezza
ormai la cerchia di siffatta visione materiale e temporale. L ’amore
di Dio è dichiarato valore più della vita stessa — e la novità non
può essere sottovalutata: rivela la scoperta dello «s p ir itu a le » come
una realtà che trascende la fragilità del « corporeo ». N e ll’amore
stesso di Dio, grazia di comunione e d’intimità, è insita la benedi
zione verso la quale il pio Israelita indirizza ormai ogni sua aspira
zione. « Fuori di te nulla bramo sulla terra », avevamo letto nella
preghiera del fedele che ha trovato nel Signore ila sua « parte d’ere
dità » per sempre (Sai. 73, 25). Perfezione di una spiritualità che ha
raggiunto la certezza che la vera prosperità, quella che sola realizza
l'anelito più profondo della persona religiosa, non può consistere
nella variabilità ingannatrice dei beni materiali, neppure nel dono
stesso di una lunga vita; è da ricercarsi invece unicamente nel Si
gnore, il cui amore è valore desiderabile in sé e per sé, al di là e al
di sopra di ogni sua possibile conferma visibile.
Per apprezzare meglio la portata e il significato di tale progres
M5 Cfr. sopra n. 86.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 133
so, dobbiamo ricordare che esso venne compiuto nel contesto di
una pietà resasi consapevole della dimensione individuale del fatto
religioso e acutamente interessata al problem a della responsabilità
personale e al mistero della « giustizia » divina. « Ecco, questi sono
gli empi: sempre tranquilli, ammassano ricchezze », costata l’orante
che abbiamo or ora sentito (Sai. 73, 12); e subito dopo egli si do
manda: « Invano dunque ho conservato puro il mio cuore e ho la
vato nell’innocenza le mie mani? » (v. 13). Erano concreti il rischio
dello scandalo e la tentazione di « invidiare i prepotenti, vedendo
la prosperità dei malvagi » (Vv. 2-3). Che il nostro orante abbia su
perato lo scoglio, lo dimostra l'atto di fede drammaticamente fo r
mulato in apertura del Salmo : « E ’ certamente buono Idd io con il
giusto, Iddio con i puri di cuore » (v. 1). Ma questa proclamazione,
che rivendica a Dio il privilegio di una « giustizia » inattaccabile, il
Salmista la trae dal fondo di una esperienza personalissma, vissuta
all’insegna di uno scetticismo radicale nei confronti di tutto ciò che
l’antica visione accoglieva unilateralmente come prova della bontà
divina: la prosperità materiale, la buona salute, la numerosa discen
denza, la vecchiaia serena. Questi beni della vita e la lunga vita stes
sa, egli sa che sono valori piuttosto capricciosi donati o tolti indif
ferentemente ai giusti ed agli empi, fragili anche ed incostanti —
valori sprovvisti dell’unico messaggio che ricerca la sua anima: una
certezza d ’assoluto che stabilisca la sua fede nel mistero della « giu
stizia » di Dio su basi non alterabili dalla variabilità delle fortune
umane. E 1’« assoluto » a cui anela, l ’orante lo trova in Dio solo,
ricercato perfino al di là di ogni bene che da Dio medesimo possa ri
versarsi sull’uomo: « Il mio bene è stare vicino a Dio » (v. 28).
Trovare, infatti, il proprio unico bene nello « stare vicino a Dio »
significa nel contesto del Salmo 73 lasciarsi portare dalla dinamica
di una pietà ormai radicata nello « spirituale » e fattasi intimità di
vina sicura ed appagante. « Fuori di te nulla bramo sulla t e r r a » (v.
25): è superato lo scandalo e vinta la tentazione d’invidiare i m al
vagi, poiché il giusto, essendo fam iliare di Dio ed avendo nel Signo
re la sua « parte d’eredità », è fatto partecipe di una ricchezza igno
rata dagli empi e decisamente superiore ad ogni specie di prospe
rità materiale conosciuta « sulla terra dei viventi » 146. Fuori di Dio
ogni bene è relativo, indegno di polarizzare le aspirazioni dell’uomo
146 Notiam o l’accostamento concettuale usato dal m edesim o orante del S al
m o 73, nel v. 26b: « Za roccia del m io cuore è Dio; è Dio la mia parte p e r sem
p re ». N e ll’avere in D io la sua « p a r t e » , il Salm ista sa di potere prevalersi della
solidità stessa di Dio, infinitamente più sicura di ogni possibile prosperità m a
teriale. Intuizione affine in Sai. 16, 8: « Io pongo sem pre innanzi a me il Signo
re ; sta alla m ia destra, non posso vacillare ».
134 G IOVANNI H ELEW A
spirituale; solamente nell’assoluto di Dio questi può realizzare gli
aneliti che porta nel cuore. E l’antitesi « relativo-assoluto », compo
nente essenziale deU’esperienza in questione, si traduce necessaria
mente come rifiuto m otivato del temporaneo e tensione vitale verso
il permanente. Dinamica che pone il problema della m orte quale
inappellabile verificazione della « giustizia » divina nel destino del
l ’individuo.
d) In tim ità divina al di là della m orte ?
Era inevitabile che il nuovo clima spirituale, in cui l’amore di
Dio era detto valere più della vita stessa (Sai. 63, 4) e l’intimità di
vina era ricercata come valore assoluto al di là del volto mutevole
ed ingannatore dell’esistenza, dovesse suscitare delle esigenze e teo
logiche e vitali che interrogassero in ultima analisi la realtà della
morte. Che consolazione trovare nella certezza che il ricordo degli
empi sarà cancellato dalla terra 147, se l ’esperienza insegna che nella
m orte giusti ed ingiusti hanno una medesima s o rte 1W? Sarebbe su
periore alla vita l ’amore di Dio, se esso dovesse terminare con la
vita m edesim a149? Nella esperienza religiosa degli assetati di Dio e
di coloro che avevano in Dio solo la loro « parte d’eredità » e il
loro sommo bene, era insita una esigenza spirituale di pienezza e,
per conseguenza, anche di permanenza: « Gioia piena nella tua pre
senza, dolcezza senza fine alla tua d e stra » (Sai. 16, 11). E tale esi
genza doveva per natura sua portare i nostri oranti a prospettare la
loro intimità con Dio anche in rapporto alla morte.
Non dobbiamo attenderci di incontrare al riguardo delle affer
mazioni chiare e concettualmente sicure; più che altro, emerge una
tensione verso una comunione con Dio desiderata permanente, ten
sione che per proprio dinamismo vitale abbraccia anche il mistero
della morte; quanto al linguaggio discorsivo impiegato per espri
merla, esso procede per allusioni intuitive più che per concetti teo
147 D avvero la consolazione che si poteva trovare in una dottrina com e quel
la riferita in Sai. 34, 17; 37, 20. 27-40, era decisamente al di sotto delle esigenze
di una mente pervenuta alla m aturità spirituale di oranti com e quelli che ab
biam o finora interrogati.
U8 Qo. 7, 15. Leggere anche tutto il c. 21 del L ib ro di G iobbe. Quanto alla
dottrina tradizionale di una punizione dell’em pio nella sua discendenza (E s.
34, 7; Dt. 5, 9), dottrina corretta più tardi (Dt. 24, 16; Ger. 31, 29; Ez. 18) m a
sem pre legata al concetto di una retribuzione « sulla terra dei viventi », essa
non pu ò sodd isfare un uom o com e G iobbe: la sorte del giusto e d e ll’ingiusto
nella m orte e oltre rim ane uguale (21, 23 ss.).
149 Is. 38, 18; Sai. 6, 6; 88, 11-13; cfr. sopra nn. 119, 120.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 135
logicamente posseduti — testimonianza di un tempo in cui la dot
trina della morte e della vita post m ortem attendeva ancora la per
fezione nozionale che la vediamo rivestire negli ultimi libri del V ec
chio Testamento ]5°, nonché nel messaggio globale del Nuovo Testa
mento.
Avendo riposto il suo « rifugio » nel Signore e trovato in Lui la
sua « parte d’eredità », l ’orante del Salmo 16 prosegue:
10 pongo sempre innanzi a me il Signore,
sta alila mia destra, non posso vacillare.
Di questo gioisce il mio cuore, esullta la mia anima,
anche la mia carne riposerà al sicuro;
perché non abbandonerai la mia vita allo sceol,
né lascerai che il tuo amico veda la fossa.
Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena nella tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra ( w . 8-11).
11 linguaggio non è senza ambiguità dal punto di vista esegeti
co e teologico. Una prima interpretazione e forse la più ovvia può
essere questa: l’orante sente alegiare sopra di sé la minaccia della
m orte ed esprime la certezza che il Signore non lo lascerà morire
nel presente ma lo rimetterà di nuovo nella corrente della v it a 151.
D’altra parte, tuttavia, non possiamo dimenticare che il brano rice
vette più tardi una lettura più impegnata: la versione greca dei
Settanta cambiò « fo s s a » in « corru zion e» («n o n lascerai che il tuo
pio veda la corruzione »), dando alla speranza formulata nel v. lOb
un orientamento post m ortem assai marcato; e la chiesa apostolica,
da parte sua, vide nel testo una profezia messianica che annunciava
la risurrezione di C risto IH. Questa testimonianza è significativa, se
non altro perché incoraggia l’esegeta a tentare una lettura che su
150 Dn. 12, 2; 2 Mac. 7, 9; Sap. 2, 21 ss.; 3, 1 ss.; 5, 15 ss....
151 E ’ un am m alato? un perseguitato? è davvero in pericolo di morte? I w .
2-4, che nella struttura del Salm o dovrebbero corrispondere ad una esposizione
del p ro p rio caso da parte dell’orante, sono m olto oscuri a m otivo della corru
zione del testo ebraico, e vengon ricostruiti e interpretati dai critici m oderni
nelle form e più svariate. U n a cosa, tuttavia, sem brerebbe certa, specialmente
alla luce di v. 4b, assai bene conservato: l’orante contrappone la p ro p ria fede
religiosa a quella dei potenti che seguono il culto degli idoli e che trascinano
dietro a loro, per m inaccia o semplicemente per allettamento, coloro che non
sanno resistere col rifiugiarsi nel Signore. E ’ invece quel che fa il Salm ista:
egli ha scelto il Signore come unico suo bene e al Signore chiede aiuto. A l di là
di ógni possibile m inaccia im minente o m eno di morte, questo pio Israelita
intende sfuggire anzitutto al pericolo di lasciarsi tentare d a ll’esempio dei
potenti...
152 S u l problem a: « fossa » oppure « corruzione », nonché sulla dimensione
m essianica del Salm o, leggere: A. V a c c a r i , Psalm i 15 (V u lg .) interpretatio catho-
136 G IO VAN N I HELEW A
peri la periferia letterale del Salmo e colga la dinamica vitale della
preghiera in esso cristallizzata. Il proposito è delicato, certo, ma è
legittim ato da quanto sappiamo dei fermenti spirituali che sorreg
gevano la pietà personale in Israele nell’epoca post-esilica. Il no
stro orante ha trovato nel Signore la sua « parte » e la sua « eredi
tà » (w . 5-6), convinto della importanza solo relativa di ogni altro
bene dell’esistenza e mosso dalla speranza di realizzare così la pro
pria pienezza interiore (w . 8 e 11). Una tale disposizone, tesa com ’è
verso lo « spirituale » e il « permanente » al di là del « corporeo »
e del « temporaneo », non può non verificarsi a livello di pietà vis
suta come aspirazione ad una intim ità indissolubile col Signore. Esi
genza traducibile come necessità di sfuggire in qualche m odo alla
m orte come all’unico fattore che potrebbe separare il pio da questo
suo bene suprem o1S3. La teologia è imprecisa e la fede nella risur
rezione non è ancora consapevolmente posseduta; rimane tuttavia
che l ’anelito vitale del pio Israelita ha un suo linguaggio che non
possiamo sottovalutare: la m orte stessa è fatta oggetto d’interro
gazione nel quadro di una pietà protesa a realizzarsi come intimità
senza fine col Signore.
A livello di idee riflesse, sarebbe certamente erroneo attribuire
al Salmista la speranza di un « vivere con Dio post m ortem »; egli
pensa al presente. A livello tuttavia di logica vitale, ¡la sua speranza
e il suo anelito, centrati come sono sul bene di un « vivere con Dio »
improntato a pienezza di gioia e compiutezza di comunione, addi
tano senz’altro una dinamica intima, oggettivamente presente, tesa
ad un valore di permanenza che non possiamo, noi, apprezzare e
giudicare senza riferirlo al fatto della m orte come ad una sua veri
ficazione decisiva.
Intim ità senza fine col Signore: è di nuovo l ’aspirazione che in
form a la pietà del Salmo 49, specialmente nei w . 15-16:
Come pecore avviate allo sceol,
sarà loro pastore la Morte...
Al mattino svanisce ogni loro parvenza;
lo sceol: ecco la loro dimora.
Ma Dio riscatterà la mia anima
dalle unghie dello sceol, e mi prenderà.
lica, in V e rb u m D om ini 13 (1933) 321-332; id., Antica e nuova interpretazione del
Salmo 16 (V o lg . 15), in Biblica 14 (1933) 408-434; L. A r n a ld ic h , Carácter mesiùnico
del Salmo 16 (V g . 15), 10-11 (E d. V e rd a d y V id a ), M a d rid 1946 (Pontificium Athe-
naeum Antonianum , Facultas Theologica — Thesis ad Lauream , n. 31).
153 Si ricordi che il Salm ista prospetta questa sua intimità col Signore rea
lizzabile nel presente, « sulla terra dei viventi ». E gli vede la m orte come la
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 137
I l brano pone problem i di restituzione testuale154, ma il suo mes
saggio spirituale è sufficientemente lineare, qualora lo leggiamo con
attenzione al tema globale del Salmo. L ’orante è preoccupato dal
problema della sorte finale che spetta rispettivamente ai giusti ed
agli ingiusti: deve essere diversa — e ciò coinvolge il mistero della
morte. Questa è personificata: come un pastore guida il suo greg
ge, così essa conduce gli empi allo sceol come alla loro dimora de
finitiva. Quanto al fedele, egli spera di sfuggire a siffatta sorte: Id
dio lo « prenderà » e lo libererà dal potere dello sceol. E ’ probabile
l’im piego del verbo « prendere » ( laqah) con riferim ento allusivo alla
tradizione riguardante la scomparsa di Elia e di E n o c 15S. E ’ accerta
to, infatti, che Israele non lim itava il potere di Dio al mondo dell’esi
stenza terrena, ma lo riteneva operante anche in altre sfere avvolte
nel m istero della m orte 156. La novità tuttavia del nostro brano sta
nel fatto che l ’orante attende di essere « preso » dal Signore come
grazia di liberazione dal potere dello sceol, grazia concepita come
oggetto di speranza da parte del giusto e privilegio che separa la
sorte finale di coloro che confidano nel Signore da quella che atten
de coloro che si vantano della loro ricchezza,57. La dottrina infatti
del v. 16 va interpretata alla luce dell’idea che il ricco orgoglioso
dovrà rimanere nella morte, mentre il pio umile è fatto partecipe
di un rapporto d'amicizia con Dio destinato a non cessare mai.
Difficile non pensare alla speranza di una vita dopo la morte, se è
vero che la m orte è concepita come momento di separazione decisiva
dei giusti dagli ingiusti, da una parte, e come verificazione supre
ma della fiducia nel Signore vissuta dal giusto lungo il corso della
sua esistenza temporale, dall’altra. La speranza rimane implicita, è
vero, come se il pensiero esitasse ancora di fronte al mistero del
l’aldilà; ma essa prorompe come esigenza d’intelligibilità religiosa
dal fondo dinamico di una pietà protesa ad autorealizzarsi in inti
vedevano i suoi contem poranei: stato di privazione dove cessano i norm ali
rapp orti vitali tra il fedele e D io (cfr. sopra nn. 119, 120, 149).
154 G. C a s t e l l i n o , op. cit., p. 825. Sono problem i, del resto, che interessano so
lam ente il v. 15.
155 2 Re 2, 9-10; Gen. 5, 24 (P ). G. v o n R a d nota a proposito di Enoc che il
docum ento sacerdotale, con la concisa indicazione che il patriarca prediluviano
« cam m inò con Dio » e « scom parve perché D io l ’aveva preso », apre prospetti
ve p rofonde dove em erge « la libertà dell’elezione divina, una potenza che non
conosce alcun limite, nem m eno la maledizione della m orte » (Das erste Buch M ose.
Genesis, « Das Alte Testam ent Deutch, 2 », ad loc.). L o stesso autore segnala il
possibile rapp orto di Sai. 49, 16 e 73, 24 con 2 R e 2, 10 e Gen. 5, 24 (Theologie des
A. T., I, pp. 403-404). Su tale rapp orto m edesim o, cfr. P. G r e l o t , La legende d ’H é -
noch dans les Apocryphes et dans la Bible. Origine et signification, in Rech. de
Se. Religieuse 46 (1 9 5 8 ) p. 2 1 0 ; anche E. G a l b i a t i -G . S a l o a r i n i , art. cit., p. 123.
156 Cfr. Am. 9, 2; Ger. 23, 23-24; Sai. 139, 8-12; Pr. 15, 11; Gb. 11, 8.
151 Cfr. sopra n. 148.
138 GIOVANNI HELEW A
mità perenne col Signore, e ciò precisamente come affermazione
quasi istintiva del necessario contrasto della fine rispettiva dei su
perbi e degli amici di Dio.
Questo messaggio del Salmo 49 permette a sua volta una lettu
ra adeguata dei vv. 23-28 del Salmo 73:
Ma io sono con te sempre:
tu mi hai preso per la mano destra.
Secondo il tuo consiglio mi condurrai
e poi alila gloria m i prenderai.
Chi altri ho per me in cielo?
E fuori di te nulla bramo sulla terra.
Vengono meno la mia carne e il muo cuore,
ma la roccia del mio cuore è Dio
è Dio la mia parte per sempre.
Ecco, periranno coloro che da te si allontanano...
Ma il mio bene è stare vicino a Dio;
nel Signore Dio ho posto il mio rifu gio...158.
I due Salmi 49 e 73 riferiscono sostanzialmente una medesima
esperienza e tendono verso un medesimo principio d’intelligibilità:
come concreterà il Signore (la sua benevolenza verso i suoi amici, al
lorquando si vedono prosperare gli empi? L ’orante è in cerca di con
solazione che sorregga la sua pietà — ed egli la trova nella certezza
seguente: come il fedele ha scelto nel Signore la sua « parte » per
sempre e posto in Lui il suo rifugio, così anche il Signore tiene
saldamente il suo fedele presso di Sé, rimanendo la sua « parte » e
il suo « bene » in ogni possibile situazione della esistenza. Pace e si
curezza per colui che nulla brama in vita se non lo stare vicino al
Signore: l ’intimità con Dio è tale da non potere essere distrutta.
Questa è avvertita nell’intim o come un bene che per natura sua por
ta esigenze di perennità. Possono venire meno il cuore e la carne
del pio fedele (v. 26), ma il suo desiderio tende ad un bene che vale
più della vita stessa (cfr. Sai. 63, 4): l ’amore di Dio che, a differenza
della vita medesima, è saldo e durevole quanto il Signore che lo
garantisce.
Come si vede, anche nel Salmo 73 la prospettiva di una esistenza
post m ortem presso il Signore rimane implicita. Ogni possibile va
lore è eminentemente assicurato al fedele nel presente bene sommo
della sua comunione con Dio. Per questo, una m orte che venisse a
158 M.-J. L a g r a n g e vedeva in questi w . 23-28 del Salm o 73 le parole più belle
dell'Antico Testam ento {Le Messianism e dans les Psaumes, in R evu e B iblique
2 (1905) p. 195.
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 139
porre fine a siffatto stato è avvertita nell'intim o come un assurdo
insopportabile. « Dio la mia parte per sempre »: dobbiamo accoglie
re la formula nel suo senso più letterale; è l’espressione di una spe
ranza di perennità radicata nella dinamica di una relazione con Dio
che non può venire meno. Se da una parte periranno sicuramente
coloro che si allontanano da Dio (v. 27), dall’altra parte l’amico del
Signore è liberato dall’angoscia di dovere m orire e si vede aprire
davanti un sentiero che porta alla vita (cfr. Sai. 16, 11). Questo sen
tiero, è vero, non è detto attraversare la barriera della m orte e con
durre ad una esistenza ulteriore presso Dio; ma il fedele vede in
esso la negazione della morte nel proprio destino personale, e ciò
nella misura in cui la morte medesima è da lui intesa come sepa-
ratrioe da Dio : « non abbandonerai la mia vita allo sceol, né lasce
rai che il tuo amico veda la fossa » (Sai. 16, 10). Allorquando pen
siamo aU’inevitabilità della morte, non possiamo non avvertire in tale
speranza una dinamica vitale protesa oggettivamente, anche se non
espressa nozionalmente, verso il bene im perituro di un’esistenza fu
tura presso Dio, al di là del volto mutevole delle fortune terrestri.
Ed è questo lo sfondo contro il quale si staglia con forza, acqui
standone prospettiva e intelligibilità, la certezza formulata nello stes
so Salmo 73 al v. 24b: « e poi alla gloria mi prenderai » 159. Di nuo
vo il verbo laqah, col suo misterioso messaggio d’intervento divino
nel destino supremo del giu sto160. Gloria di Dio? gloria dell’orante
medesimo? Impossibile decidere, come è impossibile determinare fino
a quale punto la mente dell’orante è consapevolmente aperta ai va
lori « teologici » di uno stato post m ortem . Rimane però il fatto di
una certezza di « gloria » insita al rapporto tra il giusto e il suo Dio
e carica di speranza vitalmente tesa al permanente e il d efin itivo161.
159 Si potrebbe anche tradurre: « e dietro (oltre) la gloria mi prenderai ».
Tuttavia, ’ ahar può benissim o essere qui un avverbio di tem po: « poi », postea
(cfr. Os. 3, 5; Gen. 10, 18; 18, 5; Es. 5, 1; Pr. 24, 27; G b. 18, 2...). In tale caso,
kabód è da intendersi, gram m aticalm ente, com e accusativo indiretto di luogo o
di m aniera (cfr. J. JoiiON, Gram m aire de l’hébreu biblique, 2 ed., R om a 1947, pp.
377-382). Quanto alla correzione proposta in K ittei: « e dietro a te per mano
m i prenderai », non se ne vede francam ente la giustificazione sia testuale che
grammaticale...
160 Cfr. sopra n. 155.
1*1 Riferendosi al v. 24 e all’interpretazione di « gloria » nel senso di « ono
re » ricuperato dall'orante, E. G a l b i a t i -G . S a l d a r i n i scrivono: « Con quale dirit
to si vuole attenuarne la portata, come se il Salm ista sperasse solo di essere
onorato da D io (v. 24) sulla terra, m entre invece egli ci tiene a dire che non
desidera altro che D io ? » (art. cit., p. 128). A dire il vero, anche il Salm o 49,
la cui affinità tematica con Sai. 73 è evidente, impiegai la nozione di « gloria »
nel senso di « onore » e precisam ente in rapp orto alla m orte intesa come m o
mento decisivo nella sorte dell’uom o (v. 18). Perciò, non insistiam o tanto su
questo vocabolo quanto invece sulla dinam ica della preghiera tesa ad una co
m unione con Dio all’insegna della permanenza...
140 G IO VAN N I H ELEW A
Possiamo a questo punto concludere con la parola del Libro
della Sapienza: « L a lloro speranza era piena d’im m orta lità » (3, 4).
Stupenda definizione dell’esperienza religiosa vissuta dai « giusti »:
nella loro « giustizia » stessa è insita una esigenza di im m ortalità
(1, 15). Come l’intende l ’autore, questa dinamica della pietà autenti
ca (cfr. 1, 1-2) segue la linea di un progresso vitale iniziato ante m or-
tem e pienamente realizzabile post m ortem .
« I giusti vivono per sempre » (5, 15): si tratta della vita spe
cifica del « giusto », valore spirituale che consiste naU’essere intimo
amico del Signore; iniziata nel tempo dell’esistenza terrena, questa
vita non finisce più: per natura sua è immortale, destinata cioè a
perseverare oltre la m orte in una esistenza futura e perenne presso
il Signore >62. « Quanti confidano in lui comprenderanno la verità;
coloro che gli sono fedeli vivranno presso di lui nell’a m o re 163, per
ché grazia e m isericordia sono riservate ai suoi eletti » (3, 9). La « ve
rità » che comprenderanno i giusti è quella medesima che possede
vano i nostri Salmisti a livello d’esigenza vitale: ricchezza assoluta
e bene sommo dell’esistenza, l’intimità con Dio è vita per sé perma
nente, è Dio stesso posseduto come « parte per sempre » del suo
fedele. La loro speranza era davvero piena d’immortalità — solamen
te che tale dinamica è adesso compresa, con certezza teologica si
cura del fatto suo, come un estendersi senza fine della comunione
con Dio attraverso la m orte stessa ed oltre i confini temporanei del
l’esistenza « sulla terra dei viventi ». In questo senso, i giusti sono
detti ora « vivere per sempre » (5, 15): è il progresso che attendeva
ancora la pietà personale dei Salmi per conseguire come verità teo
logica il bene che implicitamente perseguiva come esigenza di vita 164.
162 « L a m ort ne sem ble pas devoir interrom pre ces relations d ’amitié, d ’in
timité avec D io ou avec sa Sagesse. E lle les consacre plutôt au plus haut
degré... » (C. L a r c h e r , Etudes sur le livre de la Sagesse, p. 311).
>63 Si può anche tradurre, articolando diversam ente la frase: « e coloro che
sono fedeli nell’am ore vivranno presso di lui... ». S arebbe ancora più m arcata
la dinam ica d ’im m ortalità insita alla vita presente dei giusti.
>64 II testo veterotestam entario che m aggiorm ente si avvicina a Sai. 16, 8-11;
49, 15-16 e 73, 23-28, è senz’altro quello celebre del L ibro di G iobbe, 19, 25-27. R i
m andiam o il lettore a ll’eccellente studio di J. Lévêque, Job et son Dieu, II , pp.
467-489 e 494-497. Con ragione l ’autore elim ina dalla coscienza riflessa di G io bbe
ogni attesa di qualche intervento di D io da com piersi al di là della m orte; m a
con uguale ragione egli scorge nella speranza del giusto sofferente una dinam i
ca vitale centrata unicam ente sulla realtà non fallace di una com unione perso
nale con Dio, solida e per sé im m utabile come lo è D io medesimo. « Job igno
re comment Dieu s’y pren dra po u r éterniser Son amitié, mais il sait que ce
g o ’el qui aim e est étem el. Sans s ’attarder à des considérations anthropologiques
sur le statut des défunts, Job rejoint d ’em blée le fondem ent théologique de
l ’espérance: l ’éternité et la fidélité divines. Ainsi, au m om ent où Job renonce
au leurre d ’une justification hum aine, p a r ses amis ou p a r la postérité, et se
tourne vers Dieu seul parce q u ’en définitive son am our rédem pteur ne saurait
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 141
Co n c l u s io n e generale
« La loro speranza era piena d’im m ortalità ». La parola del Li
bro della Sapienza rivela la ricchezza di vita che portavano nell'intim o
gli esponenti della pietà israelitica, in genere e gli assetati-ricercatori
del Signore, in particolare. Anelavano questi a « vedere il volto di
Dio », mossi dalla dinamica di ima pietà personale tesa a conseguire,
in pienezza di gioia e come risposta suprema agli interrogativi fon
damentali deU’esistenza, il bene sommo di una comunione col Si
gnore al di là di ogni valore che potesse dirigere altrove lo sguardo
dell’anima. E tale loro aspirazione « era piena d’im m ortalità », anche
se la loro mente discorsiva e il loro linguaggio riflesso rimanevano
onerati dall'insufficienza di una teologia ancora stretta dentro gli
orizzonti temporali della « terra dei viventi ».
« Quando vedrò il volto di Dio? ». Abbiamo voluto penetrare nel
santuario intimo della pietà veterotestamentaria del desiderio di
Dio, con l ’intento di cogliere il messaggio genuino di questo anelito
del levita, esiliato da Sion, sì, ma più profondamente « in esilio lon
tano dal Signore ». Potemmo così precisare il valore religioso e di
linguaggio e di vita che conviene riconoscere a detta aspirazione.
La formula « vedere il volto di Dio » ci è apparsa ambivalente,
pur sempre designando una esperienza di Dio stesso improntata a
concretezza vitale. Laddove s’intende insegnare il'incolmabile abisso
che separa l ’uomo-creatura dal Dio-Santo, la form ula definisce ap
punto quel che la fede israelitica ha sempre ritenuto impossibile:
conoscere Dio nella verità immediata dal suo essere, penetrare con
sguardo intuitivo il mistero stesso dalla divinità santa. N ei contesti
però dove em erge la pietà della rioerca e del desiderio di Dio, « ve
dere il volto di Dio » e altre form ule equivalenti si trovano a desi
gnare uin’aspirazione legittim a dell’uomo religioso, anzi, un bene d'e
sperienza sito al vertice dei valori spirituali dell’esistenza.
In questo caso, infatti, il pio Israelita, sempre consapevole del
la radicale impossibilità di conoscere il Dio Santo così come Egli è,
tende ad una certa quale esperienza di Dio il più possibile immedia
ta, inequivocabile, appagante. Il « volto di Dio », quella imago animi
del Signore, è detto allora oggetto di « visione » in quanto designa
zione globale della bontà stessa del Signore che il fedele anela a
« vedere », cioè, a conoscere come rivelazione del Signore medesimo
da compiersi in lui con linguaggio concreto ed operante; il linguag-
m entir, il accède à la conviction qui gît au coeur de l'espérance théologale:
toute survie de l ’hom m e est d ’avance enclose dans la vie de Dieu. Intuition
belle et profonde; m alheureusem ent fugitive » (p. 489).
142 G IOVANNI HELEWA
gio appunto della bontà divina effettivamente riversata sul fedele e
fattasi nel suo intimo oggetto di « gusto » e motivo di celebrazione.
« Gustate e vedete che è buono il Signore ». Non è visione imme
diata di Dio, ma testimonianza o verificazione vitale di una comu
nione con Dio rivelata al pio Israelita mediante il verbo inequivo
cabile dei suoi effetti: manifestazione d’amore che risponda alle aspi
razioni più profonde dell'uomo religioso e realizzi in lui uno stato
di pienezza interiore e di gioia compiuta.
Di questa aspirazione potemmo altresì apprezzare e la religio
sità impegnata e da dinamica vitale. Coloro che anelavano a « vedere
il volto di Dio » erano dei cercatori di D io : la loro pietà li muoveva
a studiare le « vie del Signore » per potere seguire, con l ’impegno
« di tutto il cuore e di tutta l'anim a », la strada che appunto li
avrebbe condotti al Signore. Pellegrini deH’esistenza, la loro ricerca
di Dio si concretava come una « ricerca della giustizia ». Erano dun
que dei giusti, e questi giusti si presentarono a noi come degli asse
tati di D io : già amici di Dio e conoscitori del « gusto » dei doni
divini, si protendevano verso una ulteriore presenza di Dio deside
rata piena; e tale loro desiderio spuntava dalle radici dell’essere
con l’intensità di un istinto di vita e come esigenza di autorealizza
zione in intimità dialogica con Dio.
Ed è precisamente dal fondo di una simile pietà che il deside
rio di « vedere il volto di Dio » poteva emergere come « speranza
piena d’immortalità ».
« Il volto di Dio » che anelavano a « vedere », ila « bontà » di
Dio che bramavano di « gustare », la comunione con Dio in cui aspi
ravano a stabilirsi, erano in realtà altrettante espressioni equiva
lenti di un valore supremo a cui tendevano quegli assetati e cerca
tori di Dio con la dinamica stessa del loro vivere religioso — va
lore che il pio orante del Salmo 63 ebbe così a designare; « Meglio
della vita il tuo amore ». Siamo nel cuore di un nuovo clima spiri
tuale dove l’intimità divina è ricercata in sé e per sé, decisamente
al di là di ogni bene materiale o temporaneo che da Dio stesso po
trebbe riservarsi sul fedele. Avere in Dio la propria « parte d’eredi
tà » : ecco la totale ed esclusiva ricchezza desiderata da quei pii
Israeliti — e la desideravano come un patrimonio personale che
non può deludere, libero dalla mutevolezza costituzionale dell’esi
stenza, in quanto precisamente fondato sulla solidità stessa dell’a
m ore divino. E quando pensiamo che tale anelito alla pienezza e alla
permanenza nasceva nell’intimo di uomini religiosi che si interroga
vano, alla luce della fede che avevano nella giustizia-amore di Dio,
sulla sorte finale dei giusti e degli ingiusti, diventa allora impera
tivo introdurre il mistero della m orte come componente essenziale
I L DESIDERIO DI VEDERE I L VOLTO DI DIO 143
della loro testimonianza. E la morte vi è presente non già come
protagonista ostile bensì piuttosto come verificazione suprema della
dinamica di vita che portava quei pii dei Salmi a bramare la visio
ne del volto di Dio. Al di là, infatti, del raziocinio e del verbo discor
sivo, la loro esperienza era informata oggettivamente da esigenze
d'immortalità, perché tale il principio d’intelligibilità che ne sorreg
geva la dinamica. E stanno a conferm arlo i tentennamenti concet
tuali che incontrammo al riguardo nei Salmi 16, 48 e 73, il cui mes
saggio addita con ciò stesso una religiosità ¡lavorata da fermenti spi
rituali pronti ormai a fare esplodere le otri vecchie di nozioni logore
e cristallizzarsi in certezze appaganti come quelle del Libro della
Sapienza.
Non chiediamo agli esponenti dall’alta pietà israelitica di con
ferm are ila nostra fede nelle gloriose promesse evangeliche, né cer
chiamo nella loro dottrina un supplemento d’intelligenza rispetto a
quanto rivela il Nuovo Testamento circa la futura visione « faccia
a faccia » del Signore. Il loro messaggio è specificamente vetero
testamentario. Ma non per questo è privo d'attualità, specie se l'ac
cogliamo come una testimonianza di pietà concretamente vissuta.
E sotto questo aspetto preciso, il loro apporto è davvero prezioso.
Anelando a « vedere il volto di Dio » mossi da esigenza vitale dal
linguaggio proprio e in anticipo rispetto a quello che poteva essere
al loro tempo il linguaggio riflesso delle nozioni ricevute, questi pii
Israeliti ricordano ai cultori dello spirito di tutti i tempi che la
speranza della visione gloriosa di Dio è essenzialmente comunione
con Dio protesa a conseguire la propria pienezza.
G io v a n n i H elew a