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The Making Of Christian Malta From The Early

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dell'esercito nemico, finchè si ricoverarono di qua e di là dal Po sul
Mantovano.
Fu in questi tempi che il re Cristianissimo, per bisogno di un
eccellente generale in Fiandra, richiamò il duca di Vandomo, e in
luogo suo a comandar l'armi in Italia spedì Luigi duca d'Orleans suo
nipote, principe che se non potea competere coll'altro nella
sperienza militare, certo l'uguagliava nei valore, e il superava nella
penetrazione e vivacità della mente. Venuto questo generoso
principe col maresciallo di Marsin a Mantova, dove il Vandomo gli
rassegnò il bastone del comando, passò dipoi a riconoscere i varii siti
e tutte le forze franzesi. Trovò egli con suo rammarico ben diversa la
faccia delle cose da quello che gli era stato supposto, talmente che si
vide forzato a richiamar dal Piemonte alquante brigate per premura
di opporsi all'avanzamento dell'oste nemica, e intanto si andò a
postare a San Benedetto sul Mantovano di qua dal Po. Ma il principe
Eugenio, al cui cuore non permetteva posa alcuna il pericolo
dell'assediato Torino, e l'urgente bisogno del parente duca di Savoia,
animosamente proseguiva il suo viaggio. Nel dì 17 di luglio passò il
Po alla Polesella, e quasi che le sue truppe avessero l'ali, si videro
nel dì 19 comparire sino al Finale di Modena alcuni suoi ussari e
cavalli leggieri. Sul fine del mese valicò l'armata cesarea il Panaro e
la Secchia a San Martino, e giunta sotto Carpi, costrinse cinquecento
Franzesi a rendersi prigionieri, ed ivi prese riposo, finchè colà
giungesse tutta la sua artiglieria. Nel dì 13 d'agosto entrò il principe
Eugenio nella città di Reggio, con farvi prigione quel presidio
franzese, e lasciar ivi tutti i suoi malati con sufficiente guernigione di
sani. Altra gente lasciò egli all'Adige, Po, Panaro ed altri luoghi, per
mantener la comunicazione con lo Stato veneto. Progrediva in
questo mentre il memorabile assedio di Torino, e maraviglie di valore
facevano tutto dì non meno gli aggressori che i difensori. Le
artiglierie, le bombe, le mine giocavano continuamente da ambe le
parti, e gran sangue costavano le sortite che di tanto in tanto si
facevano ora dalla città ed ora dalla cittadella. Pure sollecitando il
duca della Fogliada i lavori e le offese, si vide in fine spalancata
un'ampia breccia nelle mura d'essa cittadella, ed aperto il varco agli
ultimi tentativi dell'armi franzesi. Furono ben fatti nel di dentro non
pochi argini e ripari; ma in fine conveniva confessare ridotta
all'agonia quella forte piazza, perchè di troppo sminuito per le
malattie e ferite il presidio, e consumate oramai quasi tutte le
munizioni da guerra. Erano dunque riposte tutte le speranze
nell'avvicinamento del soccorso cesareo, condotto dal principe
Eugenio, e nel potersi sostenere tanto ch'egli giugnesse.
Ora mentre esso principe marciava coll'esercito suo di qua dal Po
alla volta del Parmigiano e Piacentino, il duca di Orleans, dopo aver
lasciato un corpo di truppe al tenente generale Medavì, affinchè si
opponesse sul Bresciano ai disegni delle truppe assiane che calavano
in Italia, valicò a Guastalla il Po coll'esercito suo, e cominciò dall'altra
parte di quel fiume a costeggiare i nemici, perchè non si sentiva
voglia di affrontarsi con loro, se non avea sicuro il giuoco. Continuò
l'armata cesarea i suoi passi senza mettersi apprensione delle
angustie della Stradella, e di aver da passare per paese guernito di
piazze nemiche. Era già sul fine di agosto, quando il duca di Savoia
tutto pien di giubilo, e scortato da alcune centinaia di cavalli, giunse
a consolar gli occhi suoi colla vista del tanto sospirato soccorso, e
della presenza del principe Eugenio, con cui cominciò a divisare
quanto occorreva nell'imminente bisogno. Ciò che recava loro non
lieve affanno, era la mancanza dei viveri in paese sbrollo per sì lunga
guerra e qualche scarsezza di munizione da guerra. Ma di questo si
prese cura la fortuna, perchè nel dì 5 di settembre venne loro avviso
che dalla valle di Susa calava un grosso convoglio di ottocento e
forse più muli e bestie da soma, che conducevano al campo franzese
polve da fuoco, farine, armi ed altre munizioni, sotto la scorta di
cinquecento cavalli. Non è da chiedere se di buona voglia accorsero
colà i Tedeschi. A riserva di ducento bestie che si salvarono colla
fuga, il resto fu preso in un punto, e poco dopo anche il castello di
Pianezza, in cui furono fatti prigioni da ducento Franzesi, fra' quali
molti uffiziali, con trovarsi ivi anche altra copia di vettovaglie. Avendo
poscia il duca di Savoia unite all'esercito cesareo quelle poche truppe
regolate che gli restavano, e comandata l'occorrente copia di milizie
forensi e di guastatori, fu determinato nel consiglio di avventurar la
battaglia nel dì 17 di settembre. Intanto era giunto il duca di Orleans
ad unirsi col duca della Fogliada sotto Torino. Tenuto fu un gran
consiglio dai generali, per fissar la maniera di accogliere la visita
dell'esercito imperiale. Il sentimento del duca generalissimo,
sostenuto da più ragioni, e da non pochi uffiziali applaudito, era di
abbandonar le trincee, e, uscendo in aperta campagna, di far
giornata campale co' nemici. Di diverso parere fu il maresciallo di
Marsin, dato come per aio al duca d'Orleans insistendo egli che non
si avesse in un momento a perdere il frutto di tante fatiche per
ridurre agli estremi la cittadella di Torino; essere tanta la superiorità
delle proprie forze, sì ben muniti e forti i trinceramenti, che il tentare
i Tedeschi di superarli era un cercare l'inevitabil loro rovina. Ma
persistendo il duca d'Orleans nel suo proponimento, diede fine il
Marsin alla disputa con isfoderare un ordine della corte di non
abbandonare le trincee: il che ebbe a far disperare il duca, che ad
alta voce predisse l'esito infelice della sconsigliata risoluzione; ma
convenne ubbidire.
Appena spuntò in cielo l'alba del dì 7 di settembre, che tutto il
cesareo esercito con gran festa, impaziente di combattere, corse
all'armi, e, secondo le disposizioni fatte, s'inviò in ordinanza, ma
senza toccar tamburi o trombe verso i trinceramenti nemici formati
fra la Dora e la Stura. Alti erano gli argini, profonde le fosse,
guernite le linee tutte d'artiglieria e moschetteria, che con terribil
fuoco e furor di palle cominciarono a salutare gli arditi aggressori.
Ma a sì scortese ricevimento s'era preparato il coraggio tedesco. Per
due ore continuò il sanguinoso combattimento, studiandosi gli uni di
entrar nelle trincee, e gli altri di ripulsarli. Fu creduto che circa due
mila imperiali vi perdessero la vita prima di poter superare que' forti
ostacoli. Ma in fine li superarono, e data ne fu la gloria ai Prussiani
condotti dal principe di Anhalt, che de' primi sboccarono nella
circonvallazione nemica. Per la troppo lunga estension delle linee era
distribuita, anzi dispersa la milizia de' Gallispani. Però non sì tosto vi
penetrò il grosso corpo dei Prussiani, che si sparse il terrore e la
costernazione per gli altri vicini postamenti. Fecero bensì vigorosa
resistenza alcuni corpi di riserva, o pure riuniti, sì fanti che cavalli,
ma in fine rimasero rovesciati dall'empito de' nemici; e da che furono
da' guastatori spianate molte di quelle barriere, il resto dell'esercito
cesareo entrato potè menar le mani. Allora non pensarono più i
Gallispani che a salvarsi; e chi potè fuggire, fuggì. Al duca d'Orleans
toccarono alcune ferite, dalle quali fu obbligato a ritirarsi per farsi
curare. Il maresciallo di Marsin gravemente ferito fu preso, ma nel dì
seguente morì, risparmiando a sè stesso il dispiacere di comparire a
Parigi colla testa bassa per iscusare l'infelicità dei suoi consigli. A
udire le relazioni de' vincitori, più di quattro mila e cinquecento
furono i Gallispani rimasti uccisi nel campo; più di sette mila i fatti
prigioni, parte nel campo stesso, e parte alla Montagna e a Chieri,
colla guernigion di Civasso, fra i quali almeno ducento uffiziali. A sì
fatta lista si può ben far qualche detrazione. Certo è che vennero in
mano del vittorioso duca Vittorio Amedeo più di cento cinquanta
pezzi di cannone e circa sessanta mortai. Il doppio si legge nelle
relazioni suddette. Oltre a ciò, un'immensa quantità di bombe,
granate, palle, polveri da fuoco ed altri militari attrezzi, con forse due
o più mila tra cavalli, muli e buoi. Gran bagaglio, molta argenteria e
tutte le tende rimasero in preda dei soldati, e fu detto che fin la
cassa di guerra entrasse nel ricco bottino. Non finì la giornata che il
duca di Savoia col principe Eugenio fece la sua entrata in Torino fra i
viva del suo festeggiante popolo, e a dirittura si portò alla cattedrale
a tributare i suoi ringraziamenti all'Altissimo, dalla cui clemenza e
protezione riconosceva sì memorabil vittoria. Il poco di polve che
oramai restava al conte Daun per difesa di Torino servì a
solennizzare quel Te Deum col rimbombo di tutte le artiglierie. E tale
fu quella famosa giornata e vittoria, che tanto più riempiè di stupore
l'Europa tutta, non che l'Italia, perchè non potea l'oste cesarea
ascendere a più di trenta mila persone, e forse nè pur vi arrivava per
li tanti malati lasciati indietro, e per li tanti staccamenti rimasti nel
Ferrarese, al Finale di Modena, a Carpi, Reggio ed altri luoghi, affine
di assicurarsi la ritirata in caso di bisogno. Laddove nell'esercito
Gallispano, secondo la comune credenza, si contavano circa
cinquanta mila combattenti, se non che i Franzesi dopo sì gran
percossa ne sminuirono di molto il numero; e veramente tenevano
anche essi qua e là de' presidii, e già dicemmo che un corpo d'essi
stato era spedito in rinforzo al conte di Medavì, di cui ora convien
fare menzione.
Era calato in Italia Federico principe d'Hassia Cassel con cinque
mila e secento soldati tra fanti e cavalli di sua nazione, e andò ad
accoppiarsi con altri quattro mila fanti e secento cavalli cesarei
comandali del generale Vetzel. Dopo aver egli espugnato Goito sul
Mantovano, passò ad assediare Castiglion delle Stiviere, e, presa la
terra, bersagliava il castello. Ma nel dì 19 di settembre colà giunse il
tenente general franzese conte di Medavì con egual nerbo, e forse
maggiore, di gente, e gli diede battaglia. Se ne andò sconfitto
l'hassiano con perdita di più di due mila persone (i Franzesi dissero
molto più), di alquante bandiere e stendardi, dell'artiglieria grossa e
minuta, delle munizioni e bagaglio. Di questa vittoria avrebbe saputo
prevalersi il Medavì, se non avesse atteso a liberar la terra di
Castiglione, e non gli fosse giunto il funesto avviso della liberazion di
Torino, due giorni prima accaduta. Corso egli colla sua gente a
Milano; il principe di Hassia andò poscia ad unire il resto delle sue
truppe col principe Eugenio, e il generale Vetzel colle sue venne a
formare una specie di blocco alla città di Modena. Non bastò alla
fortuna di mostrar sì favorevole il volto ai collegati in Italia colla
vittoria di Torino; avvenne anche un'altra mirabil contingenza, che
servì a coronare quella gran giornata. Se i Franzesi nella fuga
avessero volte le gambe verso il Monferrato e Stato di Milano, tanti
ne restavano tuttavia di loro, tante piazze da loro dipendenti
(giacchè comandavano agli Stati di Mantova e Modena, a tutto il
Milanese e Monferrato, e quasi a tutto il Piemonte), che potevano
lungamente contrastare ai cesarei il dominio di quegli stati, e forse
anche ristringere il duca di Savoia e il principe Eugenio, sprovveduto
di tutto, ne' contorni di Torino. Ma i fuggitivi Gallispani presero le
strade che guidano in Francia; e sembrando loro di aver sempre alle
reni le sciable tedesche, affrettarono i passi per valicar l'Alpi. Raccolti
ch'ebbe il duca d'Orleans quanti potè de' suoi, tenuto fu consiglio se
si avesse a marciare verso la Francia o verso Milano. Il passaggio
alla volta del Milanese non parve sicuro, giacchè, oltre alla gran
diserzione, si trovavano le truppe col timore in corpo per la patita
disgrazia; più facile dunque il ricoverarsi nel Delfinato, dove già tanti
di essi s'erano incamminati. Così fecero; laonde restò più libero il
campo all'armi collegate per cogliere il frutto dell'insigne loro vittoria.
Non perdè tempo il duca Vittorio Amedeo col principe Eugenio
dopo la presa di Civasso a ripigliare Ivrea, Trino Verrua, Crescentino,
Asti, Vercelli ed altri luoghi del Piemonte. Entrate le lor truppe nello
Stato di Milano, Novara nel dì 20 di settembre aprì loro le porte.
Erasi ritirato da Milano a Pizzighittone, con poscia passare a Mantova
il principe di Vaudemont governatore; e però i magistrati veggendo
avvicinarsi alla suddetta metropoli di Milano il principe Eugenio, nel
dì 24 di esso mese spedirono i loro deputati ad offerirgli le chiavi. Vi
entrarono poscia gli imperiali; fu cantato solenne Te Deum, e posto il
blocco a quel castello, fortissimo bensì di mura e bastioni, ma mal
provveduto di viveri. Lodi, Vigevano, Cassano, Arona, Trezzo, Lecco,
Soncino, Como ed altri luoghi vennero anch'essi all'ubbidienza di
Carlo III re di Spagna. Sollevatosi il popolo dell'importante città di
Pavia, al vedere aperta la trincea dai Tedeschi sotto la lor città,
obbligò quella guernigion gallispana a capitolar la resa nel principio
d'ottobre. Fu dipoi posto l'assedio a Pizzighittone, a cui intervenne
anche il duca di Savoia. Ma a lui premendo sopra ogni altra cosa
l'acquisto d'Alessandria, perchè, secondo i patti, dovea questa
passare in suo dominio col Monferrato, Mantovano, Valenza e
Lomellina, colà inviò il principe Eugenio, e fece aprir la trincea sotto
quella città. Non vi fu però bisogno di breccia; questa fu fatta ben
larga da un magazzino di polve che era sulle mura della città, a cui o
per accidente o per manifattura di uomini, fu attaccato il fuoco. Per
sì orrendo scoppio andarono a terra moltissime case, e sopra tutto
un convento vicino, o pur due, di religiose, e sotto le rovine rimasero
seppellite circa mille persone. Perciò il general conte Colmenero si
trovò forzato a rendere la città nel dì 21 d'ottobre. Perchè egli poi
conseguì l'importante governo del castello di Milano sua vita natural
durante, ebbe origine la fama ch'egli avesse comperato quel posto
col sacrifizio della suddetta città d'Alessandria, cioè col detestabile
incendio di quel magazzino. Poco prima erano entrati i cesarei nella
città di Tortona; e ritiratosi quel presidio di ducento uomini nella
cittadella, perchè si ostinò nella difesa, un giorno entrativi gli
assedianti con un feroce assalto, li misero tutti a fil di spada. Nel dì
29 di ottobre la guernigion franzese di Pizzighittone capitolò la resa,
e se ne andò a Cremona. Passarono dipoi il duca Vittorio Amedeo e il
principe Eugenio, già dichiarato governator di Milano, sotto Casale di
Monferrato. Venne la città, nel dì 16 di novembre, all'ubbidienza di
esso duca, che ne prese per sè il possesso, e fu riconosciuto per
signore del Monferrato da quella cittadinanza. Nella notte precedente
al dì 20 di novembre i cesarei, che teneano bloccata la città di
Modena, assistiti da alcune migliaia di contadini armati, entrarono in
essa, acclamando i nomi dell'imperadore e del duca Rinaldo d'Este; e
tosto formarono il blocco di quella cittadella, siccome ancora di
Mont'Alfonso e Sestola, due altre fortezze d'esso duca di Modena. Fu
anche messo da' collegati l'assedio a Valenza. Qualche altro migliaio
di Franzesi, nel perdere le suddette piazze, restò prigioniere degli
Alemanni o del duca di Savoia. Circa mille e ottocento nel solo
Casale vennero in loro potere. Oggetto di gran meraviglia fu presso
gl'Italiani il mirar tanti effetti di una sola vittoria, e il rapido acquisto
fatto in sì poco tempo da' collegati.
Non furono in quest'anno meno strepitose le scene della guerra
in altri paesi. Uscirono di buon'ora in campagna l'elettor di Baviera e
il maresciallo di Villeroy, già rimesso in libertà, coll'esercito franzese
in Fiandra. Non dormiva il duca di Marboroug generale della lega in
quelle parti; e poste anch'egli in ordine le sue forze, marciò contro i
nemici, e si trovarono a fronte le due armate presso di Rameglì nel
dì 25 di maggio, cioè nella domenica di Pentecoste. Mentre i collegati
erano dietro a forzar quella terra, si attaccò una fiera battaglia che
durò più di due ore. Finalmente, trovandosi i Franzesi inferiori nel
numero della cavalleria, bisognò che cedessero all'empito della
contraria, e andarono in rotta, inseguiti poi per due altre ore da'
vincitori. Fu creduto che in quel terribile conflitto perdessero la vita
quattro mila Franzesi, ed altrettanti fossero feriti colla perdita di
molte artiglierie, bandiere e stendardi. Più di tre mila con ducento
uffiziali rimasero prigionieri; ma forse il maggior loro danno
provenne dalla smoderata diserzione, di modo che quell'armata restò
per qualche tempo in una somma fiacchezza, e convenne rinforzarla
con truppe tirate dall'Alsazia, ma senza che ella potesse da lì innanzi
arrestare il torrente de' nemici. Anche questa vittoria si tirò dietro
delle straordinarie conseguenze. Lovanio e Brusselles tardarono poco
a riconoscere per loro signore Carlo III re di Spagna. Altrettanto
fecero Bruges, Dam e Odenard. Pareva che la ricca e nobil città
d'Anversa non volesse il giogo, perchè presidiata da dodici
battaglioni gallispani; ma quella cittadinanza e il comandante della
cittadella, ben affetti al nome austriaco, tanto operarono, che nel dì
6 di giugno, avendo quel presidio ottenuto onorevoli patti, ne fece la
consegna all'armi de' collegati. Fu posto l'assedio ad Ostenda, e in
meno di otto giorni, cioè nel dì 6 di luglio, entrarono in possesso pel
re Carlo III gli Anglolandi, siccome ancora fecero nel dì seguente in
Neoporto, e poscia in Coutrai. La forza fu quella che fece piegare il
collo a Menin, piazza, in cui si trovò gran resistenza. Dendermonda
ed Ath vennero anch'esse alla loro ubbidienza, di modo che anche in
quella parte ebbero un terribile scacco l'armi delle due corone. Nè fu
pur loro più propizia la fortuna in Ispagna. Stava sul cuore del re
Filippo V la perdita della riguardevol città di Barcellona, al cui
esempio s'era ribellata quasi tutta la Catalogna e il regno di Valenza.
Per ricuperarla non perdonò a spesa e diligenza alcuna; raunò un
buon esercito di Spagnuoli; ebbe dal re Cristianissimo avolo suo un
poderoso rinforzo di truppe, condotto dal duca di Noaglies. Ciò fatto,
siccome principe generoso, volle in persona intervenire a
quell'impresa, per maggiormente accalorarla. Si mosse da Madrid
verso il fine di febbraio, e giunse sotto Barcellona, al cui assedio fu
dato principio. Dentro vi era lo stesso re Carlo III, che, veggendo la
città sfornita di soldatesche, ed aperte tutte le breccie dell'anno
precedente, fu in forse se dovea ritirarsi. Tale nondimeno a lui parve
l'asserzione e il coraggio di quel popolo, che determinò di non
abbandonarlo. Mirabili cose fecero que' cittadini, sì uomini che
donne, ed anche i religiosi claustrali, per preparar ripari, per
difendersi sino all'ultimo fiato, ben consapevoli che colla perdita della
città andavano a perdere i tanti lor privilegii, e correano pericolo le
loro stesse vite. Tutti i loro sforzi non poteano impedire la grandine
delle bombe e i frequenti, anzi continui, tiri delle batterie nemiche:
offese che rovesciarono gran copia di case, e già formavano
considerabili breccie nelle mura. Di peggio vi fu, perchè riuscì agli
assedianti d'insignorirsi dei due forti del Mongiovì, dove perirono
quasi tutti quei pochi Inglesi ed Olandesi ch'erano ivi alla difesa. Si
trovò allora agli estremi la città; e contuttochè i fedeli Catalani mai
nè per le morti nè per le incredibili fatiche si avvilissero, pure fu dai
più consigliato il re Carlo a sottrarsi alla rovina imminente con
tentare la fuga per mare, benchè la flotta franzese tenesse bloccato
quel porto. Ma più potè in lui l'amore conceputo verso i poveri
cittadini che il proprio pericolo. S'egli si ritirava, la città tosto era
perduta. Arrivò in fine, nel dì 8 di maggio, il sospirato soccorso della
flotta anglolanda, che fece ritirar la franzese a Tolone, e sbarcò in
Barcellona più di cinque mila combattenti, con inesplicabil gioia di
quella cittadinanza. Sì poderoso aiuto, e il restare aperto il mare ad
altri soccorsi, fecero risolvere il re Filippo V a sciogliere quell'assedio,
e a ritirarsi non già per l'Aragona, ma pel Rossiglione in Francia.
Accadde la levata del campo nella mattina del dì 12 di maggio, in cui
seguì uno dei maggiori ecclissi del sole tre ore prima del mezzo
giorno: avvenimento che notabilmente accrebbe il terrore nell'armata
che si ritirava in gran fretta. Lasciarono gli Spagnuoli nel campo più
di cento cannoni con ventisette mortari, cinque mila barili di polve,
due mila bombe, con gran quantità di altri militari attrezzi, e di
munizioni da bocca e da guerra. Furono poi nella marcia inseguiti,
flagellati e svaligiati da una continua persecuzione de' Micheletti alla
coda e ai fianchi. Passò il re Filippo per Perpignano e per la Navarra,
e si restituì sollecitamente a Madrid.
Ma mentre sotto Barcellona si trovava impegnato esso monarca,
il milord Gallovay, che comandava le truppe inglesi nel Portogallo,
benchè poco si accordasse il suo parere con quello dei generali
portoghesi, pure tanto fece, che unitamente passarono sotto
Alcantara, e la presero. Apertasi con ciò la strada fino a Madrid, colà
dipoi s'incamminò il loro esercito, e pervenne al celebratissimo
monistero dell'Escuriale. Non si credè sicuro allora in Madrid il re
Filippo, e però, scortato con quattro mila cavalli e cinque mila fanti
dal duca di Bervic, si ritirò altrove con tutta la corte. Nel dì 2 di luglio
fu solennemente proclamato nella città di Madrid Carlo III per re di
Spagna. S'egli sollecitava il suo viaggio a quella capitale, e se
l'armata dei collegati avesse senza dimora inseguito il re Filippo,
forse restavano in precipizio gli affari della real casa di Borbone in
quelle parti. Ma il re Carlo, udita la sollevazione d'Aragona in suo
favore, volle passar prima a Saragozza, per ricevere ivi gli omaggi di
quei popoli. Intanto rinforzato il re Filippo dai soccorsi spediti dal re
Cristianissimo, dopo aver fatto ritirar gli alleati inferiori di forze,
rientrò nella scompigliata città di Madrid. Corse dei gravi pericoli il re
Carlo, perchè abbandonato dai Portoghesi; pure ebbe la fortuna di
scampare a Valenza, dove con gran plauso fu ricevuto da quel
popolo. L'odio inveterato che passa fra i Castigliani e Portoghesi, e il
maggiore che professavano i primi contro gli Anglolandi per la
diversità della religione, sommamente giovarono al re Filippo, e
nocquero all'emulo suo. Intanto anche Cartagena ed Alicante, per
timor della flotta possente dei collegati, alzò la bandiera del re Carlo.
In questa confusione restarono nel presente anno le cose della
Spagna. In esso ancora ad una fiera calamità fu sottoposto
l'Abbruzzo per un orribil tremuoto, che nel dì 3 di novembre
interamente desolò una gran quantità di terre colla morte di
assaissimi di quegli abitanti, e con recare gravissimi danni eziandio a
molte altre. Di tal disavventura partecipò anche la Calabria. Parea
che in questi tempi un tal flagello fosse divenuto cosa familiare. Di
gravi contribuzioni esigerono i Tedeschi nel verno dai principi d'Italia;
e non esentarono da esse, e nè pur dai quartieri gli Stati di Parma e
Piacenza, ancorchè protetti dalle bandiere di San Pietro. L'accordo
fatto dal duca Francesco Farnese, nel dì 14 di dicembre, di pagare
novanta mila doble agl'imperiali, fu dipoi riprovato dal sommo
pontefice, che passò anche a fulminar censure contra di quei bravi
esattori: il che maggiormente alterò la corte di Vienna contro la
romana.
Cristo mdccvii. Indizione xv.
Anno di Clemente XI papa 8.
Giuseppe imperadore 3.

Per tutto il gennaio di quest'anno era durato il blocco della


cittadella di Modena, quando giunsero artiglierie, colle quali fu
risoluto di farle un più aspro trattamento. Erette le batterie,
cominciarono, nel dì 31 di esso mese, a flagellare le mura, ed era già
formata la breccia. Arrivò improvvisamente in questo tempo da
Bologna lo stesso duca di Modena Rinaldo d'Este, che agevolò ai
Franzesi con vantaggiose condizioni la resa della piazza. Nel dì 7 di
febbraio se ne andò quella guernigione con tutti gli onori; e giacchè
anche Mont'Alfonso capitolò nel dì 25 di esso mese, e Sestola nel dì
4 di marzo, rientrò il duca in possesso di tutti i suoi Stati. Continuò
ancora per questo verno il blocco del castello di Milano, il cui
comandante, perchè le tavole degli uffiziali scarseggiavano di viveri,
obbligò quella città colle minaccie dei cannoni a somministrarne. Non
si può dire quanto restasse dipoi sorpresa la pubblica curiosità,
allorchè si propalò un accordo stipulato in Milano nel dì 13 di marzo
fra i ministri dell'imperador Giuseppe e del re Carlo III suo fratello, e
quei del re Cristianissimo Luigi XIV, per cui fu convenuto che i
Franzesi evacuerebbono tutta la Lombardia. Ritenevano essi tuttavia
il castello di Milano, Cremona, Mantova, la Mirandola, Sabbioneta,
Valenza e il Finale di Spagna; di tutto fecero cessione agli Austriaci
fratelli: risoluzione che parve strana alle picciole teste d'alcuni, ma
che molto ben convenne alla saviezza del gabinetto di Francia. È
incredibile la spesa che facea il re Cristianissimo per mantenere la
guerra in Italia; senza paragone più gli sarebbe costato questo
impegno, da che le vittoriose armi cesaree e savoiarde gli aveano o
serrati o troppo difficultati i passi in Italia. Troppe città e piazze si
erano perdute. Contuttochè il conte di Medavì conservasse ancora
nel Mantovano circa dodicimila soldati, pure un nulla era questo al
bisogno. Alla Francia sopra tutto premeva di ricuperar le truppe
esistenti in Lombardia, e le migliaia ancora di quelle che erano
restate prigioniere: punto che le fu accordato con tutti i comodi ed
onori militari, affinchè potessero tali milizie passar sicure in Francia.
Sicchè la real casa di Borbone, poco anzi padrona dei ducati di
Milano, di Modena, di Mantova, Guastalla, del Monferrato, del Finale,
di varii luoghi nella Lunigiana, e della maggior parte del Piemonte,
eccola di repente spogliata di tutto, prendere la legge dalla fortuna,
e da chi poc'anzi non avea nè pure un palmo di terreno in Italia. Per
sostenere la sola guerra d'Italia, che poi nulla fruttò, impiegò il re
Cristianissimo più di settanta milioni di luigi d'oro. Parrà cosa
incredibile, ma io la tengo da chi dicea di saperla da buon luogo.
Restarono dunque in man dei Franzesi solamente la Savoia, Nizza e
Villafranca, e la lor gran potenza fu astretta a consegnar la città di
Mantova col suo ducato, e insieme la Mirandola all'armi di Cesare,
lasciando i duchi di quelle città pentiti, ma tardi, d'aver voluto senza
necessità sposare il loro partito. All'incontro il generoso e insieme
fortunato Vittorio Amedeo duca di Savoia, dopo essersi trovato in sì
pericoloso giuoco alla vigilia di perdere in una giornata anche la sua
capitale, quasi unica tavola del suo naufragio; all'improvviso ricuperò
tutti i suoi stati di Lombardia, e inoltre dall'Augusto Giuseppe
ricevette l'investitura di Casale col Monferrato Mantovano, e di
Alessandria, Valenza, Lomellina, Valsesia e varii feudi delle Langhe,
con glorioso accrescimento alla real sua casa. Abbandonarono i
Franzesi l'Italia, ma ci lasciarono una funesta eredità dei loro
insegnamenti ed esempli, perchè s'introdusse una gran libertà di
commercio fra l'uno e l'altro sesso; e l'amore del giuoco anche nel
sesso femmineo si aumentò, e si diè bando ai riguardi e rigori
dell'età passata.
Essendosi gagliardamente invigorito di truppe il duca di Savoia, si
pensò quale impresa si avesse da eleggere per far guerra alla
Francia in casa sua, giacchè la Francia più non pensava a farla a
casa altrui nelle parti d'Italia. Volevano il duca Vittorio Amedeo e il
principe Eugenio che si portassero l'armi contro il Delfinato e
Lionese, siccome più pratici dei paesi; ma d'uopo fu che si
accomodassero alla risoluta volontà degl'Inglesi, ai quali sembrava
più utile ed anche facile l'acquisto di Tolone, porto di tanta
importanza nella Provenza, perchè sarebbe l'assedio di esso
secondato dalla flotta anglolanda. Sapevano i principi di Savoia
quanto male in altre occasioni precedenti fossero riusciti i conti e i
tentativi dell'armi cesaree e savoiarde in quelle parti; pure loro
malgrado consentirono a sì fatta spedizione. Incredibili fatiche, stenti
e spese costò il condurre l'esercito per l'aspre montagne di Tenda, e
per le vicinanze di Nizza e Villafranca occupate da' Franzesi. Si
scarseggiava dappertutto di viveri e di foraggi; pure, ad onta dei
tanti disagi, per li quali mancò nel cammino molta gente, pervenne
l'oste collegata per Cagnes, Frejus, Arce e Sauliers in vicinanza di
Tolone nel dì 26 di luglio. Ma due giorni prima il vigilante maresciallo
di Tessè con marcie sforzate correndo, avea introdotto in quella città
piuttosto un esercito che una guernigione, e s'era affaccendato in
formare ripari e fortificazioni a tutti i siti. Sicchè fu ben dato principio
alle offese contra Tolone, ma con poca o niuna speranza di buon
esito; tanta era la copia dei difensori. S'impadronirono bensì gli
alleati di due forti, spinsero bombe nella piazza; ma chiariti che si
gittava la polve e il tempo; che ogni dì più s'ingrossava l'esercito del
Tessè; che veniva gente fino di Spagna; che i duchi di Borgogna e
Berrì erano in moto per venire alla testa delle lor milizie; e che la
flotta anglolanda più avea da combattere coi venti che colla terra;
finalmente fu preso il partito di sloggiare e di tornarsene in Italia.
Con buon ordine fu eseguita la ritirata nella notte precedente al dì 22
di agosto; e passato felicemente il Varo, si restituì l'armata alleata in
Italia, minore di quel ch'era prima, perchè di trentasei mila
combattenti appena la metà si salvò. Ora qui si aprì il campo alle
dicerie dei politici, che sognarono misteri segreti nel duca di Savoia,
senza far mente alle vere cagioni dell'infelice riuscita di quella
impresa. Giunti in Piemonte i collegati, poco stettero in ozio. Restava
tuttavia in man de' Franzesi la città di Susa, corteggiata da alcuni
forti, alzati da essi sulle alture dei monti che attorniano quella valle.
S'impadronirono essi collegati, nel dì 22 di settembre, della città, e
nel dì 4 di ottobre anche della cittadella, con farne prigioniere il
presidio. Presero anche di assalto il forte di Catinat, restando parte
di quella guernigione tagliata a pezzi. Con queste imprese terminò la
campagna in Piemonte.
Comune opinione fu che l'infelice spedizione dell'armi collegate in
Provenza producesse almen questo vantaggio; che la Francia
impegnata alla propria difesa non inviasse soccorso al regno di
Napoli, minacciato dall'imperador Giuseppe. A tale acquisto
ardentemente pensava la corte di Vienna, animata spezialmente da
segrete relazioni che i popoli di quel regno, oltre al concetto di
essere amanti di nuovo governo, a braccia aperte aspettavano chi
venisse a ristabilir ivi il dominio austriaco, con iscacciarne la real
casa di Borbone. Non l'intendevano così gli Anglolandi per altri loro
riflessi; ma Cesare stette forte nel suo proponimento, considerando,
fra le altre cose, che parte della sua cavalleria resterebbe oziosa in
Piemonte, siccome avvenne, per non potere esporsi a troppi
patimenti nell'aspro passaggio verso la Provenza. Fu dunque scelto
per condottiere d'una picciola armata, consistente in cinque mila
fanti e tre o forse più mila cavalli (benchè la fama ne accrescesse
molto più la dose) il valoroso conte Daun per marciare alla volta di
Napoli; giacchè si giudicavano bastanti così poche forze a
conquistare un regno dove mancavano difensori, le fortezze erano
sprovvedute, e l'amore dei popoli serviva di sicurezza per un esito
favorevole. Nel dì 12 di maggio si mise in marcia questo
distaccamento, passando per Romagna e per la Marca; ad Ancona
ricevette un treno di artiglieria, e verso la metà di giugno per Tivoli e
Palestrina nel dì 24 pervenne ai contini del regno. Avea per tempo il
duca di Ascalona vicerè fatti quei preparamenti che a lui furono
possibili per opporsi a questo temporale. Poche truppe regolate si
trovavano al suo comando; ne arruolò molte di nuove; diede l'armi al
popolo di Napoli, mostrando confidenza in esso; ma in fine modo
non appariva di uscire in campagna, e d'impedire l'ingresso ai nemici
nel regno. Contuttociò don Tommaso d'Aquino principe di
Castiglione, don Niccola Pignatelli duca di Bisaccia, ed altri uffiziali
con alcune migliaia di armati si postarono al Garigliano; ma, al
comparire degli Alemanni, considerando meglio essi che nulla si
poteano promettere da gente collettizia, si ritirarono a Napoli. Perciò
senza colpo di spada vennero in poter dei Tedeschi Capoa ed Aversa;
e l'esercito, senza trovare ostacolo alcuno, si presentò, nel dì 7 di
luglio alla città di Napoli, essendosi ritirato il duca di Ascalona a
Gaeta.
Portate dai deputati le chiavi di essa metropoli al conte di
Martinitz dichiarato vicerè, entrò egli colla fanteria nella città fra le
incessanti acclamazioni del popolo la cui sfrenata allegrezza passò
fino a mettere in pezzi la bella statua equestre di bronzo eretta al re
Filippo V, e a gittarla in mare. Da li a pochi giorni i tre castelli di
Napoli si arrenderono; la guernigion di Castelnuovo prese partito fra
gli Austriaci. Con gran solennità fu poi preso possesso di quella gran
città a nome del re Carlo III. Ritiratosi il principe di Castiglione verso
la Puglia con circa mille cavalli, trovò in quel di Avellino barricate le
strade. Rivoltosi a Salerno, ed inseguito dalla cavalleria cesarea,
quivi fu preso, e la sua squadra parte si sbandò, parte restò
prigioniera. L'esempio di Napoli si tirò dietro il resto delle città e
provincie di quel regno, a riserva dell'Abbruzzo, che fece qualche
resistenza, a cagione del duca d'Atri; ma speditovi il generale Vetzel
con truppe, ubbidì ancora quella contrada, se non che il presidio di
Pescara si tenne saldo fino ai primi dì di settembre. La sola città di
Gaeta, dove con circa tre mila soldati si era rifugiato ed afforzato il
duca d'Ascalona, sembrava disposta a fare una più lunga e vigorosa
difesa, giacchè era anch'essa assistita per mare dalle galee del duca
di Tursi. Sotto d'essa andò ad accamparsi il conte Daun, e disposte le
batterie, queste arrivarono in fine a formare una ben larga breccia
nelle mura, di modo che nel dì 30 di settembre fu risoluto di salire
per essa. Ossia che l'Ascalona poco si intendesse del mestier della
guerra, o che troppo confidasse nella più che mediocre bravura de'
suoi guerrieri, e in un argine di ritirata alzato dietro la breccia, si
lasciò sconsigliatamente venire addosso il torrente. Montarono i
cesarei intrepidamente la breccia, e quando si credeano di aver fatto
assai con prender ivi posto, avvedutisi del disordine dei difensori,
seguitarono innanzi, e furiosi entrarono nell'infelice città. Andò essa
tutta a sacco con tutte le conseguenze di somiglianti spettacoli,
essendo solamente restate esenti dal furor militare le chiese e i
conventi. Fu creduto ascendere il bottino a più di un milione di
ducati. Gran macello fu fatto di presidiari. Il mal accorto duca
d'Ascalona, cagione di tanta sciagura, covava sempre la speranza del
suo scampo nelle suddette galee; ma per disavventura erano esse
quel dì ite a caricar vettovaglie, e però gli convenne ritirarsi colla
gente, che potè sottrar alle sciable tedesche, nel castello. Fu poi
obbligato di rendersi a discrezione insieme col duca di Bisaccia e col
principe di Cellamare, che pubblicamente furono condotti prigionieri
fra gli improperii del popolo, minacciante all'Ascalona come cosa
degna di lui, la forca, pel sangue dei Napoletani da lui sparso in
occasion della congiura, già maneggiata e malamente eseguita
contra del re Filippo V. Fu poi richiamato in Germania il conte di
Martinitz, e il governo di Napoli restò al conte Daun.
Di questo felice passo proseguivano in Italia gli affari del re Carlo
III, mentre in Ispagna andavano a precipizio. L'arrivo di poderosi
rinforzi mandati dai Franzesi, e de' ricchi galeoni venuti dall'America,
prestarono al re Filippo il comodo di unire una buona armata, e di
spedirla contro l'emulo Carlo III. Era dall'altra parte uscito in
campagna milord Gallovai colle truppe anglolande e catalane; e
quantunque caldamente fosse stato consigliato dal conte di
Peterboroug e da altri ufficiali di tenersi unicamente sulla difesa,
pure, sedotto dai contrarii impetuosi consigli del generale Stenop,
ardentemente bramava di venir ad un fatto d'armi, lusingandosi che
nulla potesse resistere al valore de' suoi. Si trovarono in vicinanza le
due nemiche armate nel dì 22 d'aprile, non lungi dalla città
d'Almanza nel regno di Valenza. Voleva il duca di Bervich, generale
del re Filippo, differir le operazioni, finchè il duca d'Orleans, spedito
da Parigi a Madrid con titolo di generalissimo, arrivasse al campo,
per lasciare a lui l'onore della sperata vittoria; ma non gli diede il
Gallovai tanto di tempo, perchè nel dì 25 d'esso aprile andò ad
attaccare la zuffa. Non erano forse disuguali nel numero le schiere
de' contendenti; pure l'armata de' collegati si trovava inferiore di
cavalleria, e le truppe portoghesi non sapeano che brutto giuoco
fossero le battaglie. Si combattè con gran vigore da ambe le parti, e
gl'Inglesi fecero maraviglie, sostenendo per grande spazio di tempo il
peso del conflitto; ma in fine sbaragliati cederono il campo ai
vincitori Gallispani. Si calcolò che degli alleati restassero ben cinque
mila estinti, oltre ad una copiosa quantità di feriti, e che i rimasti
prigionieri ascendessero al numero di quattro mila. Gran sangue
ancora costò ai Gallispani questa felice giornata, perchè v'ebbero da
quattro mila tra morti e feriti. Ma in mano loro venne tutta
l'artiglieria nemica e il minuto bagaglio con assai bandiere e
stendardi. Lamentaronsi forte gl'Inglesi della vana spedizione fatta
da' cesarei e Piemontesi in Provenza; perchè se le truppe inutilmente
consumate in quella impresa fossero state spedite in Ispagna, come
essi ne facevano istanza, si lusingavano di stabilir ivi senza dubbio il
trono del re Carlo.
Gran tracollo diede questa sconfitta alla fortuna d'esso re Carlo.
Imperocchè, giunto al campo il duca d'Orleans, non perdè tempo a
ricuperare Valenza ed altri luoghi di quel regno, che provarono il
gastigo della loro affezione al nome austriaco. Lasciato poi il corpo
maggior dell'armata al duca di Bervich e al general Asfeld, affinchè
seguitassero le conquiste nel Valenziano e Murcia, egli con otto o
dieci mila combattenti marciò alla volta dell'Aragona, e trovati que'
popoli atterriti per la rotta d'Almanza, facilmente li ridusse
all'ubbidienza del re Filippo V, da cui furono poi privati di tutti i
privilegii, spogliati d'armi, e severamente puniti in altre guise. A
tante contentezze della corte di Madrid si aggiunse, nel dì 25
d'agosto, l'aver la regina Maria Gabriella di Savoia dato alla luce un
figlio maschio, a cui fu posto il nome di Luigi, e dato il titolo di
principe d'Asturias. Fu poi nell'autunno costretta dal duca d'Orleans
l'importante città di Lerida con un vigoroso assedio a rendersi.
Fermossi in quest'anno il re Carlo III in Barcellona, per animare i
suoi Catalani nelle disgrazie, mangiando intanto il pane del dolore;
perciocchè, oltre al non venirgli alcun nuovo soccorso nè dalle
potenze marittime, nè dall'Italia, da ogni parte fioccavano famiglie
nobili di Valenza ed Aragona sue parziali, che a lui si rifugiavano,
cercando di che vivere. In Fiandra e al Reno continuò anche
nell'anno presente la guerra, ma senza che succedessero fatti od
imprese, delle quali importi al lettore che io l'informi.
Cristo mdccviii. Indizione i.
Anno di Clemente XI papa 9.
Giuseppe imperadore 4.

Attese in quest'anno il conte Daun vicerè di Napoli a rimettere


sotto il dominio del re Carlo III le piazze spettanti alla Spagna nelle
maremme di Siena. Spedito colà un corpo di truppe, il generale
Vetzel non ebbe a spendere gran tempo e fatica per ridurre alla resa
Santo Stefano ed Orbitello, fortezza pel sito assai riguardevole. Da lì
a non molto venne ai suoi voleri anche la città di Piombino col suo
castello. Ma in Porto Ercole e Portolongone si trovarono difensori
risoluti di custodire in quei porti la signoria di Filippo V. Convenne
dunque trasportar colà da Napoli artiglierie e munizioni per
adoperare la forza. Ma verso il principio di novembre il comandante
di Porto Longone, sbarcata gente ad Orbitello, col nembo di molte
bombe fece provare il suo sdegno a quella piazza. Era già stata
destinata in moglie al re Carlo III la principessa Elisabetta Cristina di
Brunsvich della linea di Wolfembutel, che a questo fine abbracciò la
religione cattolica. Si mosse di Germania nella primavera del
presente anno questa graziosissima principessa, dichiarata regina di
Spagna, e calò in Italia. Suo condottiere era il principe di Lorena
vescovo di Osnabruch. Magnifico ricevimento le fece per li suoi Stati
la veneta repubblica. Nel dì 26 di maggio furono ad inchinarla in
Desenzano Rinaldo d'Este duca di Modena, e il principe don Giovanni
Gastone, spedito dal gran duca Cosimo de Medici suo padre, e
poscia in Brescia Francesco Farnese duca di Parma. Passata essa
regina a Milano, ed ivi accolta con gran pompa e solennità, fu poi a
visitar le deliziose isole Borromee, e nel dì 7 di luglio s'inviò a San
Pier d'Arena, dove imbarcata nella flotta inglese nel dì 15 sciolse le
vele verso Barcellona. Dappoichè la memorabil vittoria degl'imperiali
sotto Torino sconvolse tutte le misure de' Franzesi per conto
dell'Italia, destramente sul principio del precedente anno aveano essi
consigliato Ferdinando Carlo Gonzaga duca di Mantova di passare
per sua maggior sicurezza a Venezia. Elesse più tosto la duchessa
sua moglie di ritirarsi in Francia, che di seguitarlo, e portatasi a
Parigi, quivi, nel dì 19 di dicembre del 1710, mancata di vita, liberò
quella corte dall'obbligo di pagarle un'annua convenevol pensione.
Portò seco il duca a Venezia un'incredibile afflizione, che crebbe poi a
dismisura all'udire caduta in mano dell'imperadore la sua capitale, e
al trovarsi spogliato di tutti i suoi Stati. Nè a mitigar questa piaga
serviva punto la promessa del re Cristianissimo di pagargli ogni anno
quattro cento mila franchi, e di rimetterlo in casa alla pace. Il
laceravano continuamente i rimorsi delle sue sconsigliate risoluzioni,
e la notizia di non esser compatito da alcuno; laonde cominciò a
patire oppressioni di cuore, con pericolo di soffocarsi, allorchè si
metteva a giacere. Ora in Venezia ed ora a Padova cercando rimedii
ai mali non men del corpo che dell'animo, si ridusse in fine agli
estremi. Stava la corte di Vienna con l'occhio aperto al di lui
vacillante stato, e prima ch'egli prendesse congedo dal mondo
fulminò contra di lui una fiera sentenza, dichiarando lui reo di
fellonia, e decaduti i suoi Stati al fisco cesareo. L'ultimo dì della vita
di questo infelice principe fu il dì 5 di luglio dell'anno presente in
Padova; e corse tosto fama che il veleno gli avesse abbreviati i
giorni, quasichè in tanti disordini della sua vita licenziosa in addietro
e i succeduti crepacuori non avessero assai possanza per condurlo al
sepolcro in età di cinquantasette anni. Non lasciò dopo di sè prole
legittima; e quantunque Vincenzo Gonzaga duca di Guastalla facesse
più e più istanze e ricorsi per succedere nel ducato di Mantova,
siccome chiamato nelle investiture, ed anche per patti confermati dal
fu Augusto Leopoldo, nè allora nè di poi potè conseguire il suo
intento. Solamente gli venne fatto di riportare il possesso e dominio
del principato di Bozzolo, di Sabbioneta, Ostiano e Pomponesco.
Avrebbe dovuto il popolo di Mantova compiagnere tanta mutazione
di cose, e la perdita de' proprii principi, che seco portava la dolorosa
pensione di divenir provincia, con altre assai gravi conseguenze, che
non importa riferire. E tanto più perchè l'estinto duca trattava
amorevolmente e con discreti tributi i sudditi suoi, e teneva in feste
quella allor ben popolata città. Contuttociò la sfrenata libidine sua,
per cui non era in sicuro l'onor delle donne, e massimamente delle
nobili; e i tanti sgherri ch'egli manteneva per far delle vendette,
spezialmente se gli saltavano in capo ghiribizzi di gelosie, tale
impressione lasciarono, non dirò in tutti, ma nella miglior parte del
popolo, che o non deplorarono, o giudicarono anche fortuna ciò che
gli altri Stati han considerato, e tuttavia considerano, per una delle
loro maggiori sventure. E quivi si provò che un solo principe cattivo
fece perdere, per così dire, la memoria e il desiderio di tanti illustri e
saggi suoi predecessori, che aveano in alto grado nobilitata,
arricchita e renduta celebre dappertutto la città di Mantova. Cento si
richieggono ad edificare, un solo basta a distruggere tutto.
Non poche differenze ancora insorsero fra la corte imperiale e
Vittorio Amedeo duca di Savoia a cagione del Vigevanasco, già
promesso a questo principe nei precedenti patti, ma senza che il
consiglio aulico di Vienna sapesse mai condiscendere a questa
cessione. Indarno si mossero Inglesi e Olandesi a sostenere le di lui
ragioni, vieppiù perchè il duca si mostrava renitente ad uscire in
campagna, se non era soddisfatto. Tante belle parole nondimeno e
promesse furono spese in tale occasione, che il duca nel mese di
luglio si mosse coll'armi sue e collegate. Il conte di Daun fu
richiamato da Napoli al comando delle truppe cesaree in Piemonte, e
in suo luogo con titolo di vicerè passò il cardinal Vincenzo Grimani
Veneto a quel governo, e ne prese il possesso nel dì 4 di luglio.
Parevano risoluti gli alleati di penetrare colle lor forze nel Delfinato,
dove il maresciallo di Villars, benchè inferiore di gente, avea prese le
possibili precauzioni per la difesa. Ma le mire del duca di Savoia
erano di torre ai Franzesi quelle fortezze che aprivano loro il
passaggio verso l'Italia. Perciò, dopo essersi avanzata l'armata
collegata per quelle aspre montagne, cioè per la Morienna, per la
Tarantasia, per la valle d'Aosta e pel Monsenisio, minacciando la
Savoia, all'improvviso sul principio di agosto, voltato cammino e
faccia, tagliò ai Franzesi l'ulterior comunicazione coi forti della
Perosa, di Exiles e delle Fenestrelle. Fu nel medesimo tempo impreso
l'assedio dei due primi, ed ambedue nei dì 11 e 12 d'agosto esposero
bandiera bianca, restando prigioniere quelle guernigioni. Di là si
passò a strignere le Fenestrelle, fortezza di maggior nerbo, ma che
bersagliata fieramente dalle nemiche batterie, nel dì 21 del mese
suddetto capitolò la resa, con restare ivi ancora prigioniere di guerra
il presidio. Ciò fatto, si ritirò quell'armata a Pinerolo, e con tali
imprese ebbe fine in esse parti la campagna, non essendosi fatto
altro tentativo, sì perchè, cadendo di buona ora le nevi in quei monti,
impediscono i passi alle operazioni militari, e sì perchè l'armi cesaree
erano richiamate in Italia per un'altra scena, a cui s'era dato
principio.
Ancorchè nelle presenti scabrose contingenze con somma
prudenza e da padre comune si fosse governato il pontefice
Clemente XI, senza prendere impegno alcuno fra le potenze
guerreggianti; pure provò quanto sia difficile il soddisfare a tutti, e il
conservare il credito e vantaggio della neutralità in mezzo a due
contrarii fuochi. Dichiarossi infatti malsoddisfatta di lui la corte di
Vienna, sì per l'affare di Figheruolo, come dicemmo all'anno 1704, e
sì per le scomuniche fulminate dal santo padre nel dì primo di agosto
del precedente anno contro i ministri cesarei a cagion delle
contribuzioni esatte dal ducato di Parma e Piacenza, come ancora
varii altri atti di questo pontefice, geloso mantenitore dell'immunità
ecclesiastica. Ora da che l'imperadore Giuseppe si vide forte in Italia
per l'espulsione dell'armi delle due corone, non tardò a far provare i
suoi risentimenti alla corte di Roma, ordinando che non passassero a
Roma le rendite dei beni ecclesiastici del regno di Napoli, e
risvegliando le pretensioni già mosse dall'Augusto suo padre, per li
feudi e Stati imperiali dell'Italia. Uno di questi pretendeva il consiglio
aulico che fosse la città di Comacchio, posta sull'Adriatico fra
Ravenna e Ferrara, colle sue ricche valli pescareccie, siccome quella
che la casa d'Este fin dall'anno 1354 riconosceva dal sacro romano
imperio per investiture continuate fino al regnante duca di Modena
Rinaldo d'Este; e che quantunque non compresa nel ducato di
Ferrara, pure fu occupata dal papa Clemente VIII nel 1598, ed era
tuttavia detenuta dalla camera apostolica, non ostante i reclami fatti
più volte dai principi estensi. Similmente eccitò le pretensioni cesaree
sopra Parma e Piacenza, ancorchè per due secoli la Sede apostolica
ne fosse in possesso, e ne desse pubblicamente le investiture alla
casa Farnese. Adunque verso la metà di maggio si fece massa di
milizie imperiali sul Ferrarese, e senza far novità contro la città
stessa di Ferrara, passò nel dì 24 di esso mese un corpo di Tedeschi
ad impossessarsi della città di Comacchio. Venne anche ordine da
Vienna e da Barcellona al senato di Milano d'intimare al duca di
Parma di prendere fra quindici giorni la investitura di Parma e
Piacenza come feudi imperiali e dipendenze dello Stato di Milano.
Da tali novità commosso il sommo pontefice, giudicò debito suo
di mettersi in istato di ripulsar colla forza gli attentati degli Alemanni,
e a sì fatta risoluzione lo animarono spezialmente i ministri di Francia
e Spagna, impiegando larghe promesse di soccorsi, che poi non si
videro mai comparire. Però avuto ricorso al tesoro di castello
Sant'Angelo, e trovate altre maniere di accumular pecunia, si fece in
Roma e per gli Stati della Chiesa un armamento di circa venti mila
soldati, dei quali fu dato il comando a Ferdinando Marsili Bolognese,
generale dell'imperadore, e famoso ancora per la sua singolar
letteratura. Passarono queste truppe a guernir i posti del Ferrarese,
Bolognese e Romagna, e seguirono anche ostilità nelle ville
confinanti a Comacchio. Il duca di Modena Rinaldo per sua
precauzione fece anch'egli di molta gente. Ora intenzione della corte
cesarea non era già di far guerra al papa, ma solamente di tirarlo a
qualche convenevole aggiustamento; pure, vedendo sì grande
apparato d'armi, ordinò al conte Wirico di Daun, suo primario
generale in Italia, di cercare colle brusche ciò che i suoi ministri in
Roma non poteano ottener col maneggio. Calati dunque varii
reggimenti verso il Ferrarese, il suddetto generale Daun, nel dì 27
d'ottobre, marciò contro Bondeno, e vi fece prigionieri più di mille
soldati pontifizii, liberò dal blocco Comacchio, e s'impadronì di Cento.
Appresso andò quasi tutto il resto dell'armata imperiale a prendere
quartieri di verno sul Ferrarese e Bolognese, e formò una specie di
blocco alla stessa città di Ferrara e a Forte Urbano. Inoltrossi ancora
ad Imola e Faenza, da dove sloggiarono presto le milizie pontificie,
che aveano dianzi determinato di far quivi piazza d'armi. Intanto
anche le penne cominciarono la guerra, avendo la corte romana
pubblicate le ragioni del suo dominio in Comacchio, alle quali
contrappose tosto altre scritture il duca di Modena, che istruirono il
pubblico del diritto imperiale ed estense sopra quella città. Oltre a
questi sì strepitosi sconcerti, provò papa Clemente XI nel presente
anno molti affanni e cure a cagion de' riti cinesi, da che intese che
monsignore di Tournon da lui inviato per visitatore alla stessa Cina,
ed ultimamente creato cardinale, avea incontrato delle gravissime
traversie nell'esecuzione dell'apostolico suo ministero.
Nel maggio di quest'anno fece il re Cristianissimo Luigi XIV la
spedizione del giovine cattolico re della Gran Bretagna Giacomo III
verso la Scozia con poderosa flotta, per suscitare in quelle parti
qualche incendio. Ma sì opportune e gagliarde furono le precauzioni
prese dalla corte di Londra e dagli Olandesi, che lo sventurato
principe fu astretto a ritornarsene a Dunquerque, contento di avere
scampato il grave pericolo, a cui fu esposta insieme colla flotta la sua
real persona. Con grandi forze entrarono dipoi i Franzesi in
campagna nell'anno presente, giacchè i lor desiderii e trattati di pace
coi ministri delle potenze collegate s'erano sciolti in fumo, ed
improvvisamente si fecero padroni di Gante e di Bruges. Al comando
di quell'armata passò lo stesso duca di Borgogna colla direzione del
valoroso duca di Vandomo; ed erasi già accampata l'oste loro presso
Odenard, dove si trovò il comandante ben risoluto alla difesa. Allora
fu che gli insigni due generali dell'esercito alleato, cioè il principe
Eugenio di Savoia, e milord duca di Marlboroug, s'affrettarono di
venire alle mani co' Franzesi. Nel dì 11 di luglio attaccarono essi la
battaglia con tal maestria e vigore, che ne riportarono vittoria. La
notte sopraggiunta favorì non poco la fuga o ritirata dei Franzesi.
Contuttociò, se si ha da credere alla relazion de' vincitori, d'essi
Franzesi restarono sul campo quattro mila estinti, laddove, secondo il
conto dei vinti, nè pur giunsero a due mila. S'accordarono bensì le
notizie in dire che rimasero prigionieri sette mila di essi, fra' quali
cinquecento uffiziali. Si portò dipoi il principe Eugenio all'assedio
dell'importante città di Lilla, fortificata al maggior segno dal famoso
ingegnere Vauban. Costò gran sangue l'espugnazion di sì gran
fortezza, difesa con sommo valore dal maresciallo di Bouflers; e
secondo lo scandaglio degl'intendenti vi perirono degli offensori circa
diciotto mila persone, senza parlar dei feriti. Nel dì 22 d'ottobre la
città si rendè; nel dì 9 di dicembre la cittadella. In questo mentre,
per fare una diversione, Massimiliano duca di Baviera mise l'assedio
a Brusselles; ma accorsi i due generali de' collegati, il fecero
precipitosamente ritirar di là; dopo di che ricuperarono Gante e
Bruges, coronando con sì gloriose imprese la presente campagna.
Nella Spagna non furono men considerabili gli avvenimenti di
guerra. Arrivò a Barcellona spedito dall'Italia il saggio maresciallo
conte Guido di Staremberg al comando dell'armata del re Carlo III in
Catalogna; ma colà ben tardi andarono capitando i rinforzi di gente
italiana e palatina inviati per mare. Di questa lentezza non lasciò di
profittare il vigilante duca d'Orleans generalissimo dell'armi delle due
corone. Verso il dì 21 di giugno mise l'assedio a Tortosa, e la
costrinse alla resa. Anche nel Valenziano i porti di Denia e d'Alicante
ritornarono per forza all'ubbidienza del re Filippo V. Ma queste
perdite furono compensate da altri acquisti. Imperciocchè, avendo la
flotta inglese sbarcato nell'isola di Sardegna verso la metà d'agosto
un grosso corpo di milizie austriache, trovò quei popoli portati
dall'antica affezione verso la casa d'Austria, che non solo niuna
resistenza fecero, ma con festa inalberarono tosto le bandiere del re
Carlo III. Il vicerè spagnuolo non tardò a capitolar la resa di Cagliari,
con ottener tutto quanto desiderò di onori militari. Amoreggiavano
da gran tempo anche gl'Inglesi l'isola di Minorica, per brama di
mettere il piede in Maone, porto dei più riguardevoli e sicuri del
Mediterraneo, e di quivi fondare una buona scala al loro commercio.
Nel dì 14 di settembre il generale inglese Stenop sbarcò in quell'isola
più di due mila combattenti, e gli abitanti corsero a soggettarsi. Nel
dì 26 marciò contro il castello e porto di Maone, e fra due giorni se
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