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La Censura Musicale Durante Il Periodo Fascista

Il documento analizza la censura musicale durante il periodo fascista in Italia, evidenziando come il regime di Mussolini controllasse non solo la musica di protesta, ma anche generi come il jazz e canzoni d'amore. La censura si manifestò attraverso l'abolizione di programmi radiofonici dedicati al jazz e la creazione di canzoni di propaganda, mentre il regime tentava di promuovere una musica autarchica. Nonostante le restrizioni, il jazz continuò a diffondersi tra i giovani, che trovavano modi per eludere la censura.

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La Censura Musicale Durante Il Periodo Fascista

Il documento analizza la censura musicale durante il periodo fascista in Italia, evidenziando come il regime di Mussolini controllasse non solo la musica di protesta, ma anche generi come il jazz e canzoni d'amore. La censura si manifestò attraverso l'abolizione di programmi radiofonici dedicati al jazz e la creazione di canzoni di propaganda, mentre il regime tentava di promuovere una musica autarchica. Nonostante le restrizioni, il jazz continuò a diffondersi tra i giovani, che trovavano modi per eludere la censura.

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LA CENSURA MUSICALE DURANTE IL PERIODO FASCISTA

Tutte le forme di governo si avvalgono dell’uso della censura per oscurare il dissenso e, di
conseguenza, avere maggior controllo sulle masse. In particolar modo la censura è evidente
nelle dittature. Essa comprende svariati campi: dalla politica all’informazione, passando per la
letteratura, il cinema e il teatro, fino ai nuovi media di oggi come internet e i vari social
network. Tuttavia ci sono aree scarsamente considerate dagli studiosi, probabilmente perché
ritenute apparentemente innocue, ma che non sfuggono, invece, all’attenzione del censore.
Una di queste è la musica.
La prima cosa a cui si può pensare quando si parla di censura musicale nei totalitarismi è la
proibizione dei canti di lotta, di rivolta contro il potere costituito. Certamente si tratta anche di
questo, ma non solo: andando a fondo nella ricerca è possibile scoprire che il controllo di uno
stato autoritario si spinge fino all’occultamento di canzonette leggere o d’amore e di
componimenti musicali meramente strumentali.
Questo interessante tipo di censura può essere approfondito considerando l’uso che ne ha
fatto una delle dittature che hanno segnato indelebilmente il Novecento: il fascismo.
Durante il periodo fascista gli organi di controllo del partito di Mussolini non solo si
occuparono della stampa, di film, di libri e di pièce teatrali, ma si accanirono anche sul jazz,
musica proveniente d’oltreoceano, e sulle canzoni italiane di quei tempi.
1. La censura fascista del jazz
Il jazz è una tipologia di musica difficilmente delimitabile. Molti studiosi hanno provato e
riprovato a circoscrivere il fenomeno all’interno di un’unica definizione, ma sempre con
risultati criticabili. Arrigo Polillo, uno dei maggiori esperti di jazz in Italia e nel mondo, più che
darne una definizione, ne delinea le caratteristiche principali:
In linea di principio, sebbene non sempre e non completamente nella pratica, nel jazz la
figura del creatore della musica e quella del suo esecutore si fondono e si identificano nella
figura del solista che improvvisa, o quanto meno che tende a improvvisare, basandosi su un
tema che ha il valore di spunto e di banda di riferimento per lui e per chi collabora con lui alla
creazione/esecuzione musicale.[1]
Il jazz arriva in Italia durante la Grande Guerra, grazie ai soldati americani che lo suonavano
nei momenti di tregua. Tuttavia questo genere musicale si diffuse negli anni trenta attraverso i
film americani e, da subito, riuscì a conquistare il pubblico della penisola. Ad essere più
corretti, il tipo di jazz che esaltò la gioventù italiana è il ragtime, la musica suonata dai:
«pianisti neri e bianchi, nei saloons, nei bar, nei bordelli, e anche nei locali eleganti»,[2]
caratterizzata dal cosiddetto ritmo sincopato, ovvero:
lo spostamento dell’accento ritmico dalla sua sede normale. Il tempo forte, il battere, resta al
suo posto, ma il suono che si accompagna a questo battere viene emesso un attimo prima,
come un pre-eco. Di qui un andamento ritmico un po’ strano e quasi goffo, ma che nello
stesso tempo comunica al corpo dell’ascoltatore un fremito, un bisogno di muoversi, di
danzare.[3]
In Italia, dunque, si vennero a formare le prime grandi orchestre jazz, dalla Blue Star di Pippo
Barzizza all’Orchestra Angelini, e ciò portò i giovani a riversarsi nelle sale da ballo.
In quegli anni il MinCulPop istituì l’Eiar (Ente italiano per le audizioni radiofoniche), strumento
utilizzato dal fascismo per sovraintendere le trasmissioni radiofoniche e il loro contenuto.
L’atteggiamento dell’Eiar nei confronti del jazz è decisamente interessante per il fatto che, nel
corso degli anni trenta e durante la guerra, è mutato molteplici volte: dapprima: «non esitò a
definirlo “musica negroide” o “musica afro-demo-pluto-giudo-masso-epilettoide»,
successivamente «dal ’27 al ’29 […] l’Eiar si collegò quasi giornalmente con locali da ballo di
Torino, Milano, Roma e, più, raramente, di Napoli. Nel ’29 varò un programma giornaliero che
durò per tutto l’anno dal titolo Eiar jazz!». Ma questo idillio con la musica d’oltreoceano ha vita
breve: «nel 1930 Eiar jazz! fu abolito e fino al 1935 la parola jazz comparve una sola volta alla
radio».[4] Nel 1936 l’Eiar ritorna a trasmettere programmi di musica jazz ma, ancora una
volta: Nel 1938 nuovo, repentino mutamento. Le trasmissioni jazz scompaiono quasi del tutto
dai programmi dell’Eiar. A tenere desto l’interesse per la musica d’oltre oceano rimangono
solamente Barzizza e improvvisamente, la sera del giugno di quell’anno, Gorni Kramer, che
esegue uno dopo l’altro Questo è swing, Piano stomp, After you’ve gone, Diga Diga Doo, Star
Dust, Tiger rag. Dopodiché non rimise più la fisarmonica davanti a un microfono di regime.[5]
I punti di vista e gli umori dei fascisti nei confronti del jazz sono percepibili attraverso gli
articoli del «Radiocorriere», il «primo organo ufficiale dell’Eiar» il quale «aveva iniziato le sue
pubblicazioni il 18 gennaio 1925 con il nome di “Radiorario” poi mutato in “Radiocorriere” nel
1930».[6] Nello spazio intitolato La posta della direzione si vengono a formare due diversi
atteggiamenti nei confronti del ritmo sincopato: da un lato chi lo appoggia, dall’altro chi lo
disprezza. In particolar modo quest’ultima frangia tende a considerare che:
la gioventù italiana, tutta tesa verso splendide conquiste future, non poteva essere preda di
manie musicali tipiche di «esteti cretini» o di «coloro — non meno scemi — che accettano ogni
cosa purché abbia un’impronta di modernismo». La vera gioventù italiana rifiutava il fascino
dei modelli stranieri e rivendicava con fierezza la propria identità e fisionomia.[7]
I motivi per cui molti fascisti si opposero al jazz vanno ricercati nell’aspetto autarchico dello
stato dittatoriale mussoliniano. Accettare una musica di origine non italiana significava cedere
sul piano della supremazia della patria. Tale affermazione è ben esemplificata in questo
articolo apparso su «Il Popolo d’Italia» nel 30 marzo 1938 intitolato:
È nefando e ingiurioso per la tradizione, e quindi per la stirpe, riportare in soffitta violini,
mandolini e chitarre per dare fiato ai sassofoni e percuotere timpani secondo barbare melodie
che vivono soltanto per le effemeridi della moda! È stupido, è ridicolo, è antifascista andare in
solluchero per le danze ombelicali di una mulatta o accorrere come babbei a ogni
americanata d’oltre oceano!
Ma non è solo questo a spingere i fascisti contro questo tipo di musica. Come nota
giustamente Pietro Cavallo:
l’avversione al jazz e ai balli d’importazione era dovuta certamente al tentativo di mantenere
sotto tensione giovani che di lì a poco avrebbero dovuto «portare la civiltà» tra i selvaggi. Ma
probabilmente vi contribuiva anche lo sconcerto che una nuova forma musicale, con la sua
ritmica così diversa dalla melodia tradizionale, provocava. […] Non a caso, negli anni ’35-’36,
l’avversione di alcuni nei confronti del jazz finiva col diventare avversione nei riguardi di altri
aspetti delle società capitalistico-occidentali e, in particolare, della società americana […].[8]
Nonostante ciò, la musica jazz imperversava nella penisola e i giovani dimenticavano timori e
paure ballando. Ma negli anni che precedettero la guerra, quella che prima era solamente
una polemica interna tra promotori e detrattori del jazz, divenne una vera e propria questione
di stato.
Inizialmente il regime, attraverso l’Eiar, cominciò col rifiutare l’esecuzione di musica jazz
straniera, tentando di spronare la realizzazione di una forma di gez, come veniva scritto sui
giornali d’allora, di matrice italica:
Il giornale [Radiocorriere, ndr], ricordando il «categorico dovere» dei cittadini di seguire gli
indirizzi autarchici del regime, sosteneva che era obbligo di ogni compositore «cooperare alla
valorizzazione del gez italiano» ed auspicava una regolamentazione del tipo di quella
esistente in Germania dove «non entra un pezzo di musica senza l’approvazione del Ministro
della Propaganda».[9]
Secondo le riviste di allora, l’Italia non aveva nulla da invidiare alla musica estera: «La
battaglia autarchica va condotta su tutti i fronti, senza eccezioni; non si deve quindi trascurare
nemmeno il settore della musica, dove l’Italia non ha nulla da imparare all’estero ed è gloriosa
del suo patrimonio tradizionale».[10] Successivamente, con l’entrata in vigore delle leggi
razziali a partire dal 1938, cominciò una vera e propria campagna contro il jazz, che veniva
considerato «una delle armi giudaiche più forti e più sicure».[11] Vennero emesse delle
ordinanze che obbligavano a chiudere i locali dove si poteva ballare e proibivano la diffusione
di musica americana. Adriano Mazzoletti nel suo libro Il jazz in Italia. Dalle origini al
dopoguerra riporta il testo di un documento riservato, datato 16 giugno 1941, inviato alle
Federazioni dei Fasci di Combattimento dal Segretario del Partito Nazionale Fascista, il quale
permette di capire fino a che punto si spinse l’accanimento contro il jazz:
Ho destituito dall’incarico e punito con il ritiro della tessera un gerarca per l’incomprensione
dimostrata nelle seguenti circostanze: 1°) consentiva un rinfresco con relative danze
protrattesi fino a tarda notte; 2°) in occasione della concessione di un’onorificenza
partecipava a un pranzo durante il quale, tra l’altro, venivano consumati generi non consentiti
all’attuale economia di guerra. A carico degli altri responsabili sono stati adottati opportuni
provvedimenti disciplinari.[12]
Dunque, lo stato fascista lungo il periodo bellico non permetteva il ballo e il suono di “generi
non consentiti”. In base a quanto detto prima, i motivi che sottostanno a tale provvedimento
sono l’autarchia e il fatto che la danza e questo tipo di musica “sincopata” distraessero la
gioventù italiana da quelli che erano i suoi obblighi, ovvero servire il Duce e combattere per la
gloria dell’Italia.
Interessante è notare come la censura colpisca tutto ciò che ha una forma di diffusione. Il
jazz, una musica fatta solo di note e ingegno del musicista, sprovvista di un testo che possa
in qualche modo veicolare dei messaggi politici, diventa centrale all’occhio del censore
fascista perché in essa stessa si racchiude un messaggio di apertura verso nuove culture e di
libertà.
Tuttavia ogni volta che c’è una forma di censura, c’è anche una conseguente forma di
ribellione ad essa:
[…] anche all’eiar c’era chi riusciva a contrabbandare un po’ di jazz. Era il pianista Giampiero
Glauri [pseudonimo di Piero Piccioni, egregio pianista jazz e grande compositore di musiche
per film del Novecento. Ndr] che il 13 maggio 1940 eseguì musiche sincopate, dove fra un
brano di Cergoli e uno di Mascheroni, infilò Night and Day di Cole Porter ovviamente
ribattezzato Notte e giorno, I Know That You Know (Io so che voi sapete […]), e Midnight in a
Madhouse (Mezzanotte in un manicomio).[13]
Attraverso questa notizia è possibile capire che, nonostante tutto, la censura del jazz non era
così difficile da eludere se bastava tradurre il titolo di una canzone americana in italiano per
farla franca!
2. La censura fascista delle canzoni
Le canzoni, a differenza della musica delle orchestre jazz, sono composte da melodia e testo.
La forza delle canzoni è che, attraverso la musicalità della melodia, le parole vengono
ricordate in maniera maggiore e senza particolare sforzo. Questo lo sapeva bene il regime
fascista, in quanto molte furono le canzoni e gli inni che vennero creati per veicolare le
proprie idee politiche alla popolazione: come nota Gianni Borgna, i temi principali delle
canzoni fasciste erano la politica, la campagna e la guerra. Il primo serviva per assoggettare il
popolo al regime con inni come Balilla!, l’inno ufficiale dei fanciulli fascisti, Canto delle donne
fasciste e Giovinezza. Il secondo rimandava ad una vita bucolica, al lavoro nei campi con
canzoni come Reginella campagnola (1935), Amor di pastorello o Fiorin fiorello (1938). Il
terzo, invece, si manifestò con l’inizio della campagna in Etiopia; quindi ecco comparire
canzoni come Sul lago Tana, Africanina (1936), Ti saluto (vado in Abissinia) (1935) e la
famosa Faccetta nera (1935). È proprio da quest’ultima che si può cominciare a vedere nel
dettaglio quale fu l’azione censoria del regime sulle canzoni italiane. Faccetta nera,
probabilmente la canzone ancora oggi più ricordata del regime, fu, inizialmente, vittima di
censura:
alle autorità non piacque, vuoi perché scritta in dialetto, vuoi, soprattutto, perché piena
d’ammirazione e di simpatia per la bella abissina. Cosicché un anno più tardi l’autore dovette
ampiamente rimaneggiarla. Ma anche questo non fu sufficiente. A Faccetta nera si cercò di
contrapporre, ma senza successo, Faccetta bianca, una scialba composizione di Grio e
Macedonio.[14]
Il pericolo della canzone, in questo caso, consisteva nei versi in cui la donna etiope viene
ammirata ed esaltata, a scapito della donna italiana. Inoltre, particolare attenzione venne
probabilmente prestata per il verso in cui si ipotizza di portare la giovane abissina a Roma,
un’immagine d’inclusione che contrasta con l’Italia fascista dell’epoca (di lì a tre anni
sarebbero subentrate le leggi razziali): «Faccetta nera, piccola abissina/Ti porteremo a Roma,
liberata/Dal sole nostro tu sarai baciata/Sarai in camicia nera pure tu».[15]
Nel 1939 venne redatto il Regio decreto legge 2 febbraio 1939, n. 467 che titolava
Riordinamento della Discoteca di Stato e istituzione di una particolare censura dei nuovi testi
originali da incidere sui dischi, nel quale l’articolo 12 recitava:
Tutti i nuovi testi originali da incidere su dischi debbono essere preventivamente approvati.
Pertanto ogni editore fonografico e fotomeccanico italiano o straniero che eserciti tale attività
nel Regno rimetterà al prefetto, nella cui circoscrizione risiede, il testo che vuole incidere, in
duplice copia, una delle quali gli verrà restituita munita del nulla osta per l’incisione. I Prefetti
daranno immediata notizia dei nulla osta concessi al Ministero della cultura popolare. Contro i
provvedimenti del Prefetto è ammesso ricorso nel termine di trenta giorni, al Ministro per la
cultura popolare che decide in via definitiva sentito quello per l’interno.[16]
Le canzoni che vennero proibite durante il regime fascista furono molte; i motivi per cui
venivano censurate, svariati. Tuttavia si possono individuare delle linee tematiche a cui la
censura teneva particolarmente: una è quella della disillusione. Si cercava di eliminare tutte le
canzoni nelle quali era possibile individuare anche una minima traccia di disinganno nei
confronti dell’operato del regime. Fu censurata, per esempio, nel 1940 Signora Illusione, testo
di Bixio Cherubini e musica di Armando Fragna. Il testo attirò l’attenzione dei censori a causa
del verso: «Illusione dolce chimera sei tu», dopodiché tutta la canzone fu letta con un doppio
significato. Cito alcuni versi che potevano essere considerati equivoci: «Quante parole velate
di dolce passione/quante lusinghe ci dà… chi ci vuole bene/ma fra le tante tu sola signora
illusione/ci dai la forza d’amar… senza parlar […] Quando d’un sogno rimane la sola visione/e
ci sentiamo morir… di nostalgia tu ci fai credere ancora signora illusione/che questo amore
durerà… l’eternità».[17] In questi versi è facile leggere tra le righe e individuare i riferimenti
alle promesse disattese dal fascismo, alla nostalgia di un tempo passato.
Va notato che spesso la censura attacca canzoni in cui non è l’autore del testo a inserire
doppi sensi, ma bensì l’ascoltatore a trovarli. È il caso di Maramao perché sei morto.
Composta da Mario Panzeri e Mario Consiglio viene accusata di deridere Costanzo Ciano,
presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni:
Si tratta in realtà di un equivoco generato a Livorno da alcuni studenti, che sistemano di
nascosto un cartello con le prime parole del ritornello della canzone vicino alla base di un
monumento progettato per rendere onore alla memoria di Ciano padre. «Maramao perché sei
morto, pane e vin non ti mancava, l’insalata era nell’orto…» dice la canzone riferendosi alla
scomparsa di un gatto […]. Mario Panzeri viene convocato dal capo della censura, Salvatore
Criscuolo, per dare spiegazioni. Dimostra di aver composto la canzone prima della morte di
Ciano e il caso viene archiviato tanto più che si tratta della ripresa di una storiella tramandata
da secoli in Lazio e in Abruzzo.[18]
Lo stesso si può dire di Un’ora sola ti vorrei (1938), testo di Umberto Bertini e musica di Paola
Marchetti, considerata pericolosa soprattutto per il verso: «Un’ora sola ti vorrei/per dirti quello
che non sai»[19]: «una frase sconveniente se pronunciata per strada sotto un ritratto del
Duce»;[20] o ancora più eclatante è il caso di Tiempe belle, canzone napoletana del 1916,
censurata nel 1939 perché poteva essere utilizzata attribuendole un senso di nostalgia del
periodo prefascista!
Un’altra linea tematica è quella della derisione delle autorità. I censori fascisti ascoltavano le
canzoni e intravedevano possibili prese in giro dei politici più in vista. Spesso, però, si trattava
solo di testi assolutamente privi di significato, utilizzati semplicemente per accompagnare la
melodia, ma ogni parola che poteva in qualche modo essere ricollegata a qualche figura
importante o a qualche atteggiamento particolare faceva scattare il sistema censorio: questo
accade per canzoni come Crapa pelada e Pippo non lo sa. La prima canzone è un fox trot
scritto da Gorni Kramer e Giovanni Giacobetti. Il ritornello recita: «Crapa pelada l’ha fa i
turtei/ghe ne dà minga ai so fradei./I sò fradei fan la fritada/ ghe ne dan minga a Crapa
Pelada.»;[21] un verso privo di significati specifici, ma la paranoia del regime riuscì ad
individuare dei sottintesi contro Benito Mussolini:
Troppo evidente sembrava l’allusione alla «testa pelata» del Duce perché la canzone, per di
più molto jazzistica, passasse inosservata. In più la descrizione dei tortelli e frittate da spartire
sembrava un’allusione alla spartizione dei territori coloniali da parte delle potenze europee,
non gradita a Mussolini. Kramer paga con l’esclusione dalla radio mentre la canzone finisce in
una lista nera […].[22]
La seconda è una canzone scritta ancora una volta da Gorni Kramer e musicata da Mario
Panzeri. Venne resa celebre dal Trio Lescano, composto da tre sorelle olandesi: Alexandrina
Evelin (Alessandra), Judik (Giuditta) e Catharina Matje (Caterina) Leschan. Il testo recita:
«Pippo pippo non lo sa/che quando passa ride tutta la città/e le sartine dalle vetrine/gli fan
mille mossettine./Ma lui con grande serietà/saluta tutti fa un inchino e se ne va./Si crede bello
come un Apollo/e saltella come un pollo.»[23]. Anche qui siamo di fronte a una sorta di
filastrocca, a dei versi apparentemente privi di significato, ma nei quali la censura fascista
vide la possibilità di un messaggio contro un gerarca del PNF: «questa volta il problema è
essenzialmente l’identità di questo Pippo che “quando passa ride tutta la città”. La censura
identifica Pippo con Achille Starace, capo di stato maggiore della milizia, che spesso sfila
mostrando con orgoglio la sua divisa nera. La radio-diffusione della canzone viene
proibita.».[24] L’identificazione del protagonista di questa canzonetta con Starace è frutto
della paranoia del regime, sempre pronto a vedere in ogni testo un pericolo. Nel 1962 Gorni
Kramer racconterà qual’era la vera identità di Pippo:
Era il 1939, ero a Viareggio, dove mi esibivo al Kursaal. Ma capivo di non ingranare. I giovani
volevano jazz e motivi americani, ma con l’aria che tirava, non sempre li si poteva
accontentare. Una sera incontrai il Maestro Pippo Barzizza e mi sfogai con lui. ‘Infine cosa
vuole questa gente? Io cerco di accontentare gli americanofili e gli autarchici, i seguaci dello
swing e i patiti dei vecchi valzer paesani. Niente da fare. Che cosa non va?’ Pippo si strinse
nelle spalle. ‘E chi lo sa? Io non lo voglio nemmeno sapere’. E mi piantò in asso. Piuttosto
deluso, andai nel mio camerino. ‘Pippo non lo sa, Pippo non lo sa’, continuavo a ripetermi. Le
parole, divenute quasi ossessive, si trasformavano in musica. Buttai giù le prime note, poi
preso da una specie di smania e lì per lì con i miei colleghi orchestrammo il motivo. La
musica, eseguita senza parole, piacque immediatamente. Ci voleva, forse, per tirare su gli
spiriti piuttosto depressi. Qualche giorno dopo l’Europa precipitava nel baratro della guerra.
Ma a Viareggio, già ‘oscurata’, si sentiva fischiare, nelle placide sere settembrine: ‘Pippo non
lo sa’…[25]
Non sempre i racconti degli uomini sono veritieri, tuttavia possiamo credere che la canzone
Pippo non lo sa non celasse alcun riferimento specifico contro gerarchi fascisti, sia perché
non ci sono notizie riguardo un antifascismo militante da parte di Kramer, sia perché
l’aneddoto riportato qui sopra viene raccontato nel 1962, al riparo da qualsiasi possibile
ritorsione di regime.
Nel 1942 venne censurata la canzone di Mario Panzeri Il tamburo della Banda d’Affori, nella
quale si trovano i seguenti versi: «È lui (è lui), è lui (è lui), sì sì è proprio lui./È il tamburo
principal della Banda d’Affori/che comanda cinquecentocinquanta pifferi./Che passion, che
emozion quando fa bum bum/Guarda qua, mentre va le oche fan qua qua/Le ragazze
diventan timide/Lui confonde il Trovator con Semiramide/Bella figlia dell’amor./Schiavo son,
schiavo son dei vezzi tuoi».[26] Il “lui” della canzone venne identificato con Mussolini e i
“cinquecentocinquanta pifferi” vennero letti come i cinquecentocinquanta membri della
camera dei fasci.
Oltre alle forme dirette di censura delle canzoni, con l’entrata in vigore delle leggi razziali vi fu
una vera e propria proibizione della musica scritta, suonata o cantata da ebrei. Il 19 aprile
1942 viene emessa una legge nella quale l’articolo I recita: «È vietato l’esercizio di qualsiasi
attività nel campo dello spettacolo a italiani ed a stranieri o ad apolidi appartenenti alla razza
ebraica, anche se discriminati, nonché a società rappresentate, amministrate o dirette in tutto
o in parte da persone di razza ebraica». Così sul piano delle attività d’intrattenimento, e non
solo, vi fu una chiusura nei confronti di ebrei italiani e stranieri: «Gli enti operanti nel teatro,
nella musica, nel cinema, nella radio, ecc., afferenti direttamente o indirettamente allo Stato,
licenziarono tutti i dipendenti stabili (dai dirigenti agli operai) ebrei ed annullarono tutti i
contratti temporanei ad artisti ebrei.».[27]
3. Conclusioni
La censura nel periodo fascista fu capillare. Dal giornale al cinema, dalle rappresentazioni
teatrali ai libri, non c’era mezzo di comunicazione che non fosse controllato dallo stato. Come
visto, lo stesso valse per la musica, sia essa una melodia proveniente da lontano, il jazz, o
delle semplici canzonette. Il rischio percepito della prima consisteva nell’allontanare la
popolazione dalle tradizioni italiche e avvicinarla, invece, allo stile di vita americano che, in
qualche modo, poteva far scoprire ai cittadini un diverso modo di pensare rispetto a quello
propagandato dall’ideologia di regime. Nel secondo caso il pericolo consisteva nella
possibilità di utilizzare i testi di semplici canzonette non-sense come modi per irridere il
sistema. Tutto ciò porta a delle riflessioni. Lo stato totalitario, in quanto tale, si occupa e, di
conseguenza, controlla ogni aspetto della vita del cittadino. I bambini vengono indottrinati già
dai primi anni di scuola, i giovani vengono addestrati per l’esercito, gli adulti devono
adeguarsi al potere costituito. Ogni notizia viene prontamente filtrata e rimaneggiata a favore
dello stato, in modo che esso appaia sempre infallibile e vittorioso. Inoltre qualsiasi elemento
che possa in qualche modo far sviluppare un pensiero critico alla popolazione viene
censurato. Questa smania di controllo spesso sfocia in vere e proprie forme di paranoia da
parte del potere che portano a censurare cose innocue ma che, proprio in virtù di aver
ricevuto tale trattamento, acquistano nuova luce agli occhi degli individui. E questo è un limite
della censura: gli elementi di cui si occupa attirano maggiore attenzione e interesse. È il caso
delle canzonette; se esse non fossero state censurate preventivamente magari nessuno
avrebbe mai pensato di attribuirgli un senso politico. Tuttavia in un sistema che si dichiara
apertamente totalitario la censura è necessaria, perché l’ideologia del potere deve imporsi su
tutti gli strati della società, pena: il venir meno della vocazione totalitaria. Quindi tutto quello
che si è visto finora non deve stupire più di tanto perché in un determinato tipo di società, in
questo caso quella fascista, il controllo, finanche nella musica, deve essere assoluto per
definizione.
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, firmata dalle Nazioni Unite il 10 giugno
1948, nasce in risposta all’orrore causato dai totalitarismi del XX secolo. Il terzo articolo
recita: «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona».
Le libertà di parola, di stampa, di espressione (e non solo) diventano diritti inalienabili
dell’uomo. Tuttavia la possibilità di dire tutto ciò che si pensa non è attuabile. In una società
democratica, in cui la libertà è principio basilare, la censura continua a sussistere. Anche sul
versante musicale. Dal ventennio fascista ad oggi non si è mai smesso di censurare le
canzoni. Anzi si può dire che la censura è ancora viva e vegeta! Spesso i motivi che spingono
alla censura di una canzone sono politici, ma con il passare del tempo si son viste nascere
nuove problematiche e, in relazione alla società, nuovi divieti. Per esempio negli anni
Cinquanta la censura di occupava principalmente di salvaguardare la morale; negli anni
Sessanta, decennio della contestazione giovanile, gli argomenti da sorvegliare erano il sesso,
la politica e la religione. Negli anni 70 si fanno strada temi come l’aborto e il divorzio mentre
negli 80 e 90 il controllo si occupa anche di tematiche come l’uso di sostanze stupefacenti e
l’Aids. Quindi, al di là della forma di governo che può presiedere uno stato, la censura
continua ad esserci sempre e si può affermare che ha una composizione dinamica nel senso
che, a seconda dei tempi, dei luoghi, delle società e degli sviluppi dell’uomo, essa modifica i
propri oggetti. Quindi ad una domanda: è possibile una società senza censura? Io
risponderei: no, perché ci saranno sempre degli argomenti che verranno considerati tabù da
una maggioranza, la quale cercherà di imporre il proprio controllo su chi cerca di esprimersi
liberamente su di essi.

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