ELOGIO DEL POLITEISMO
MAURIZIO BETTINI
INTRODUZIONE. GLI DEI IN ESILIO
La cultura antica non fornisce solo materia di studio per i classicisti di professione, ma costituisce ancora
una fonte di ispirazione per la produzione culturale contemporanea. La religione antica ha la stessa
capacità? Nel mondo antico infatti la religione erano una produzione culturale in cui si intrecciavano
molteplici forme (letteratura, poesia, musica). Tuttavia la religione antica non sembra interagire
particolarmente con la cultura contemporanea: questo è dovuto al fatto che il cristianesimo si è costruito
progressivamente contro le religioni classiche, relegandole alla falsità. Inoltre le religioni antiche sono
percepite come superate, sconfitte sia dal cristianesimo che dal progresso della società (visione
evoluzionistica del fenomeno religioso). Da molto in realtà si è realizzato che i prodotti della cultura non si
misurano sul tempo o sull’evoluzione, e questo vale anche per la religione: la religione antica è
semplicemente un’altra religione, tanto quanto lo sono shintoismo o islam.
Come afferma Heinrich Heine, gli dei antichi sono stati “esiliati” dentro le Università. Ciò non significa che
siano mancati poeti o filosofi che hanno propugnato i valori del politeismo:
Goethe afferma di essere “politeista” in quanto artista;
Nietzsche, nella sua polemica anti-cristiana, si appella al politeismo come esercizio preliminare alla
nascita dell’individuo;
Jung offre una visione del politeismo con notevole vitalità in qualità di rappresentazione a carattere
psicologico;
Ezra Pound dichiara esplicitamente il carattere metaforico del ricorso agli dei antichi del politeismo
psicologico;
Fernando Pessoa sviluppa una polemica serrata contro il cristismo, in particolare quello iberico;
Odo Marquad dedica il suo saggio Elogio del politeismo non tanto alla religione antica, quanto alla
pluralità che caratterizza i racconti della mitologia classica (pensiero polimitico) in contrapposizione
al monoteismo (pensiero monomitico);
William James nel suo pragmatismo valuta l’ipotesi politeista per ciò che può valere per l’individuo,
ovvero il cash-value (misura in cui un determinato concetto aiuta l’individuo a far fronte all’effettiva
esperienza);
Le riflessioni che seguono esplorano ciò che il politeismo antico, in particolare quello romano, potrebbe
offrire oggi alle nostre società nell’ambito dell’esperienza concreta (politica e sociale): si cerca di mettere in
luce le potenzialità represse del politeismo, in particolare quelle che potrebbero contribuire alla riduzione
del conflitto religioso. Privilegiando il cash-value (politico e sociale) che le religioni antiche mettono a
disposizione del nostro vivere quotidiano, non si intende tralasciare le ricchezze intellettuali che esse sono
in grado di offrire alla nostra riflessione. In primo luogo la capacità di articolare l’esperienza umana
distinguendo e combinando tra loro concetti, immagini e azioni (divinità “minute” dei Romani); tuttavia, se
da una parte la religione romana tende a suddividere l’esperienza in una serie di operatori divini, dall’altra
ne raggruppa determinati segmenti sotto l’etichetta di un’unica divinità. Un esempio è Marte, dio della
guerra che viene invocato anche per la riuscita delle messi e la salute del bestiame: questi momenti sono
accomunati dal pericolo.
Il cash-value che il politeismo può offrire oggi riguarda soprattutto il modo in cui esse concepivano il
rapporto con le divinità degli altri (quadri mentali differenti dal monoteismo): per questo motivo si procede
con un confronto tra il politeismo e il monoteismo. Il testo prende le mosse di due eventi di cronaca italiana,
che meglio di ogni altro permettono di vedere al lavoro le costruzioni culturali che intendiamo mettere a
confronto.
I. IL SACRIFICIO DEL PRESEPIO E LE BOMBE ALLA MOSCHEA
La scelta di sacrificare il presepe (simbolo della festività cristiana) nelle scuole italiane alle esigenze del
multiculturalismo religioso ha provocato diverse critiche da parte di giornalisti che hanno accusato gli autori
di questa decisione di svendere le nostre tradizioni. Ciò che interessa approfondire qui sono le motivazioni
culturali che hanno condotto al sacrificio del presepe.
Si potrebbe inizialmente pensare che questa decisione fosse determinata da un atteggiamento di tipo
francese, che in base a un principio di laicità chiede di eliminare dai luoghi pubblici qualsiasi simbolo
religioso. In realtà si basa soprattutto sul disagio che il simbolo del presepe potrebbe causare in persona che
professano religioni diverse da quella cristiana: è un atteggiamento di apertura nei confronti di culture e
religioni altrui (non imposizione religiosa). Viene inoltre fatto ricorso a un’altra vicenda contemporanea,
ovvero quella della costruzione della moschea in Toscana: Oriana Fallaci, lungi dal rinunciare all’esibizione
dei propri simboli religiosi, proponeva l’eliminazione di quelli altrui (pronta a farlo esplodere).
Per quanto apparentemente opposte, entrambe le scelte presentate derivano dallo stesso quadro mentale:
quello costituito dalla convinzione interiorizzata che non possa esserci se non un solo ed unico Dio. Si tratta
di un principio connaturato dai 3 grandi monoteismi, derivanti dalla natura esclusiva che caratterizzava
originariamente il Dio di Israele (Non avrai altri dei di fronte a me), che gelosamente non ammette
l’esistenza di altri dei. Quello che risulta difficile concepire a partire da questi quadri mentali, è la possibilità
di venerare due o più divinità nello stesso luogo e tempo, ovvero il politeismo; eppure quest’ultimo è stato
per secoli la forma di religione praticata dai popoli dell’antichità. Essere politeisti implicherebbe ad esempio
che una persona potrebbe festeggiare e venerare tanto il Dio cattolico quanto quello islamico: il problema è
dunque legato all’incapacità culturale di essere politeisti, ovvero di integrare all’interno dello stesso sistema
religioso divinità diverse tra di loro.
II. STATUETTE DI FINE D’ANNO. ANIMALI, PASTORI, RE MAGI
Il presepe occupa un ruolo di primo piano all’interno della cultura cristiana, in quanto ne riattualizza
annualmente uno degli eventi capitali (la nascita del Salvatore); non è solo una riproduzione della memoria
culturale, ma interazione con essa. Quello che interessa è mettere in mostra alcuni dei significati che il
presepe è in grado di comunicare sincronicamente:
Il bue e l’asinello
Si tratta di un elemento narrativo assente nel racconto dei Vangeli, ma portatore di un di un
messaggio culturale importante: attraverso la loro presenza, Gesù entra nella schiera dei bambini
mitici allevati e accuditi dagli animali (es. Ciro il Grande, Romolo e Remo, Zeus). La natura stessa,
attraverso gli animali, certifica lo statuto eccezionale e il carattere divino del bambino.
I pastori (e i vari mestieri)
La pluralità di ruoli sociali sta a significare l’universalità dell’annunzio cristiano: tutti sono testimoni
e destinatari della nascita di Gesù; un ruolo privilegiato viene riservato ai pastori (ricordati nel
Vangelo di Luca), in quanto si prestano meglio a certificare la bontà e la verità dell’annunzio.
I Re Magi
Sono re sacerdoti, legati a religioni altre ed orientali, che esprimono l’omaggio che le religioni
d’Oriente porgono al piccolo Gesù: aggiungono una certificazione della natura divina del bambino,
affermando la sua verità esclusiva e smentendo le religioni diverse dal cristianesimo.
III. STATUETTE DI FINE D’ANNO. SIGILLA, SIGILLARIA E COMPITALIA
Individuare qualche pratica che in ambito politeistico rassomigli al presepio ci permette di mettere questo
simbolo cristiano in comparazione; per far ciò è necessario considerare i tratti principali di questo simbolo: il
periodo dell’anno; la presenza di statuette a carattere religioso; la natura familiare (ruota intorno alla
presenza di un dio bambino). A Roma la fine di dicembre era occupata dai Saturnalia, in onore di Saturno,
che coinvolgeva tutti gli abitanti della città, sia liberi che schiavi; in concomitanza con questa festa avevano
luogo i Sigillaria, 7 giorni in cui a Saturno venivano dedicate delle sigilla (piccole statue di gesso), che
potevano poi essere regalate a persone amiche. Lo scambio dei doni e l’attenzione dedicata ai bambini
costituiscono altrettanti punti di contatto fra i Sigillaria e le pratiche associate al Natale. Intorno al 31
dicembre inoltre i Romani celebravano i Compitalia, festività destinata ai Lares, le divinità domestiche
romane: a festeggiare insieme erano coloro che appartenevano allo stesso compitum (vicinato). Per
onorarli, gli abitanti adornavano le immagini di queste divinità con palle di lana (pilae) e piccole bambole
(maniae). Dunque, nel periodo tra fine anno vecchio e l’inizio del nuovo anno, anche la Roma antica era
caratterizzata da una presenza di statuette, attorno alle quali si stabiliva un sistema di relazioni a carattere
religioso, familiare e affettivo simile a quello natalizio. Tuttavia, nel mondo romano le divinità si integravano
tra loro, non escludendosi a vicenda.
IV. UNA VITA DI STATUETTE. IL LARARIO
Il larario (luogo nelle case romane che conteneva le statuette dei Lares) era costituito da un’edicola che
poteva essere situata in vari luoghi della domus; la cosa interessante è che l’insieme delle statuette aveva la
capacità di esprimere un particolare messaggio religioso e culturale (talvolta anche una vera e propria
“storia”). Generalmente i Lares rappresentano un giovane che reca in una mano un rhyton (calice) e
nell’altra una patera (piattino per le offerte); la posizione in cui sono ritratti accenna spesso un movimento
di danza, e nel complesso le loro immagini comunicano un sentimento di gioia e di allegria. Il larario non
presentava solo i Lares, ma si componeva di immagini che facevano convivere divinità tra loro diverse (come
riporta Cicerone: Cupido, Hercules), rispecchiando non solo gli orientamenti religiosi, ma addirittura scelte
filosofiche e il proprio percorso di formazione (ad esempio Marco Aurelio: Sesto di Cheronea, Claudio
Severo, Claudio Massimo e Cinna Catulo): il larario offriva uno spazio vocato alla pluralità.
Nessuna di queste immagini veniva inserita per testimoniare esplicito omaggio a un’altra (niente strutture
gerarchiche), quella che rappresenta la “vera” e “unica” divinità, come nel caso del presepe cristiano.
V. NON AVRAI ALTRO DIO
L’interpretazione di Jan Assman ha dato delle forme al monoteismo ebraico che ne costituiscono il
fondamento: questo infatti si presenta come una “contro-religione”, che in quanto tale nega ogni legittimità
a tutte le altre religioni e con esse alle divinità che vi sono onorate. Il divieto di onorare altri dei presuppone
che, inizialmente, la loro esistenza fosse ritenuta reale (gelosia del Dio di Israele): ci si trova in ciò che
Othmar Keel definisce “monoteismo immaturo”. Nel seguito della storia culturale, il rapporto con le divinità
degli altri evolverà nel senso di considerarle piuttosto falsi dei o demoni, rispetto all’unico dio che può
essere ritenuto realmente tale. Assman chiama in gioco un primo esempio di monoteismo, del Faraone
Amenofi IV, e il saggio di Freud su Mosè e il monoteismo; l’acquisizione più duratura riguarda l’aver
evidenziato come il monoteismo ebraico implica una scelta di carattere esclusivo: in base a questa gelosia di
Dio, la relazione tra le diverse religioni viene posta in termini di “vero” e “falso”. Questa distinzione
“mosaica” sta alla base delle distinzioni esclusive tra cristiani e “pagani”, mussulmani e “infedeli”.
L’aver concepito il rapporto con la divinità come esclusivo e radicalmente oppositivo nel tempo ha
notoriamente prodotto anche conseguenze funeste, introducendo nei rapporti tra popoli la violenza a
carattere religioso. Come scrive Marc Augé, anche se le società politeistiche sono “dure”, che si pongono il
problema della violenza, la loro religione non può mai esserne considerata la causa. Se infatti si parte dal
principio che gli dei sono molti, viene meno il motivo di affermare che quelli degli altri sono falsi; anche per
Hume (XVIII sec.), la pluralità del divino e l’assenza del dio unico aveva reso compatibili le varie divinità,
cerimonie e riti dei diversi popoli dell’antichità.
L’odierno cristianesimo si è allontanato dalle posizioni estreme precedenti (obbligo di abbattere altari e
religioni altrui, Dio geloso), ma l’esclusività e unicità di Dio continuano ad essere ribadite, come mostrato
dal Catechismo della Chiesa Cattolica; tuttavia, nella sezione intitolata Il dovere sociale della religione e il
diritto alla libertà religiosa, nonostante il contenuto appaia improntato alla moderazione e all’apertura, la
“verità” (alla cui ricerca gli uomini sono tenuti per natura) è sempre quella del Dio della Chiesa cattolica. Il
disprezzo è sostituito dal rispetto, ma ciò non toglie che chi professa religioni differenti si trovi comunque
nell’errore e nell’ignoranza. Negli articoli successivi il Catechismo torna a insistere sulla “verità” e “unicità”
della religione cristiana, da cui deriva l’obbligo contestuale dei cristiani all’evangelizzazione (conversione
degli altri): non si può forzare nessuno a compiere determinate scelte, anche se non aderendo al
cattolicesimo non solo si è nell’errore, ma si rifiuta anche di uscirne.
VI. TRADURRE GLI DEI, TRADURRE DIO
Nelle sue ricerche, Assman afferma che in quanto unico ed esclusivo, il dio dei monoteismi non è
“traducibile” in nessun’altra divinità: in questi sistemi religiosi non è possibile dire che Dio corrisponda o si
identifichi con un’altra divinità onorata all’interno di altre culture. Al contrario i politeismi antichi
permettevano di stabilire corrispondenze tra le divinità appartenenti a popoli diversi, fino ad identificarle tra
loro (es. Romani e Greci). Negli autori greci e romani, la disposizione alla decodifica viene richiesta dall’uso
di rendere con nomi della propria lingua anche istituzioni dell’altra cultura. Questa possibilità politeistica di
tradurre, l’una nell’altra, divinità appartenenti a culture diverse corrisponde a un atteggiamento flessibile, in
grado di integrare sistemi religiosi differenti: lo stesso fenomeno si trova anche ad esempio in Giappone,
dove le divinità locali (antiche) sono identificate con divinità shintoiste o buddiste.
Le affermazioni del Catechismo sull’esistenza del culto “autentico” cattolico rendono impossibile tradurre
Dio con il dio di un’altra religione: nozioni come “verità” e “autenticità” sono assolute, motivo per cui non
ne possono esistere due o più contemporaneamente. Anche nella sua versione più morbida, la costruzione
della figura divina nel cattolicesimo mantiene come tratto determinante quello della “esclusione mosaica”, e
quindi della propria intraducibilità.
VII. PARADOSSI GRAMMATICALI: IL NOME DI DIO
Giuseppe Flavio (I d.C.) nel Contra Apionem dà prova non solo di provare rispetto nei confronti degli dei
venerati dagli altri popoli, ma attribuisce questo atteggiamento direttamente a Mosè (Legislatore); in
particolare, il rispetto di cui si parla non va agli dei, ma al “nome di dio” (theos, termine utilizzato da
Giuseppe per indicare il suo Dio). Questo rispetto si riduce a un fenomeno puramente linguistico:
bestemmiare gli theoi significa sfiorare con l’irrisione il proprio Dio. Filone di Alessandria (I d.C.) era stato
ancora più esplicito a limitarne il raggio d’azione alla sola sfera verbale: questo precetto era stato
promulgato per impedire che i discepoli di Mosè si abituassero a pronunciare con leggerezza il nome di dio
in generale. Ad essere messo al riparo dall’offesa non sono i theoi in quanto tali, ma l’appellativo che li
designa: si può professare rispetto senza riconoscere la natura divina di questi altri dei.
Nelle religioni monoteistiche la divinità non è contrassegnata da un nome proprio, ma da uno comune: dal
punto di vista linguistico dunque Dio è un nome che lo designa sia come figura individuale sia come
appartenente a una classe (“esseri divini”). Dato che l’entità chiamata “dio” occupa da sola un’intera classe,
non c’è bisogno di ricorrere a un nome proprio per designarlo. Dato che nel cristianesimo e nell’islam la
divinità porta il nome di “Dio”, sembrerebbe ovvio che entrambe le religioni adorano di fatto lo stesso dio;
tuttavia da entrambe le parti si fa fatica ad ammettere ciò. Inversamente, per coloro che appartengono allo
stesso orizzonte religioso, ma che parlano lingue diverse, il nome di Dio risulta perfettamente “traducibile”
(God, Dio, Bog). Viene fatto l’esempio dei missionari cristiani in Cina (guidati da Matteo Ricci), che si erano
sforzati di proporre un aversione del cristianesimo che utilizzasse termini e nozioni attinte dalla cultura
locale, per renderlo più facilmente accessibile. Tuttavia queste pratiche di “accomodazione” suscitarono
numerose critiche da parte di avversari tradizionalisti: l’accusa era quella di lasciare adito all’idolatria, in
quanto in termini cinesi erano troppo legati alle implicazioni religiose locali (termine dio era traducibile in
quanto nome comune, e intraducibile in quanto nome proprio). Il paradosso della non traducibilità del
nome di “Dio” appare ancora più evidente se si contrasta questa impasse linguistica con quanto invece
avveniva nei politeismi antichi.
VIII. L’INTERPRETATIO DEGLI DEI
Nella Germania, Tacito, descrivendo alcune divinità dei Naharvali, sosteneva che gli dei da loro chiamati Alci
fossero presentati come Castore e Polluce: per descrivere il rapporto stabilito tra divinità germaniche e
romane, usava un termine che evoca l’atto di tradurre, ovvero interpretatio. In latino il termine interpretatio
designa piuttosto la mediazione interpretativa stabilita tra un fruitore e un determinato enunciato (anche
traduzione, ma non solo); propriamente l’atto della interpretatio corrisponde all’opera svolta da un
interpres, ovvero un mediatore di carattere economico (negoziato e compromesso). Dunque anche fornire
l’interpretatio di un enunciato significa proporre un compromesso tra enunciato e fruitore: questo è il caso
del grammaticus che produce l’interpretatio di un testo poetico, offrendone parafrasi e commento, o
dell’hariolus (indovino), che fornisce l’interpretatio di un prodigio. Per Tacito, Castore e Polluce non sono la
“traduzione” degli Alci, ma queste divinità romane sono l’interpretazione di quelle dei Naharvali, fatta per
rendere comprensibile l’”enunciato difficile” di quelle divinità sconosciute. Per stabilire un’identificazione
tra divinità appartenenti a culture diverse si procede insomma attraverso congetture, proponendo
un’interpretazione sempre aperta. Si potrebbe parlare di una “interpretatio intralinguistica”, sul modello
della “traduzione intralinguistica” evocata da Roman Jakobson a proposito della parafrasi: funziona infatti
non solo nei confronti di dei di popoli diversi, ma anche verso l’interno e dunque di divinità appartenenti
allo stesso pantheon. Gli strumenti utilizzati sono sempre gli stessi: la messa in valore di alcune
caratteristiche proprie di ciascuna divinità tramite cui costruire inferenze che producono di volta in volta
l’identificazione con un’altra divinità.
IX. IL POLITEISMO, CURIOSITÀ E CONOSCENZA
A sorprendere maggiormente del politeismo è, in primo luogo, la possibilità di identificare divinità
appartenenti a religioni e culture diverse, un processo che la distinzione mosaica rende praticamente
inconcepibile. Questo atteggiamento del monoteismo sta alla radice del fatto che la violenza nelle società
politeiste era estranea al contesto religioso: se da un lato a prevenire il conflitto religioso è la caratteristica
plurale degli dei, dall’altro a renderlo inoffensivo è la possibilità di “interpretare” come propri una divinità
appartenente a un’altra cultura. Nelle culture politeiste gli dei degli altri erano percepiti non come una
minaccia all’unica verità del proprio dio, ma come una possibilità o una risorsa.
Un altro scarto tra politeismi e monoteismi è legato alla curiosità che gli antichi provavano per le divinità
altrui, sia dal punto di vista intellettuale che nella pratica comune: c’è un momento in cui “si viene a sapere”
di una certa divinità e se ne imparano le caratteristiche, dopo di che se ne sancisce ufficialmente il culto. Nel
territorio monoteista non solo non c’è curiosità, ma nei confronti delle altre divinità scatta un sentimento di
superiorità o addirittura ostilità; Tertulliano (II e III d.C.) scriveva infatti che dopo la venuta di Cristo non
c’era più bisogno di curiosità, che cedeva alla fede. Inoltre, la volontà di rendere possibile un dialogo
interreligioso nel mondo antico (politeistico) era mosso dalla curiosità nei confronti delle divinità altrui,
mentre nel mondo monoteistico è legato a dei tentativi, spesso insoddisfatti, di trovare dei punti in comune.
L’attenzione degli antichi verso le divinità degli altri costituiva un fenomeno di largo spettro, mentre
attualmente a percepire l’importanza del dialogo interreligioso sono solo alcune componenti delle gerarchie
religiose.
X. I MONOTEISMI SAREBBERO FORSE DEI POLITEISMI MASCHERATI?
A proposito delle tre grandi religioni monoteiste, possiamo notare la presenza di altri esseri divini accanto al
dio unico (Madonna, diavoli, demoni, Dijinn), che farebbero di questi monoteismi altrettanti politeismi
mascherati (critica nei confronti del cristianesimo già dal III secolo). Ad esempio nel cristianesimo basta
ricordare che il potere assegnato ai singoli santi viene ripartito in base alle varie sfere di intervento, nello
stesso modo in cui i Romani affidavano officia (compiti) diversi alle loro divinità; anche i santi patroni delle
città funzionano in maniera simile alle antiche divinità poliadi. Inoltre, attraverso le sue innumerevoli
specificazioni la figura divina della Madonna riattiva anche l’antico meccanismo delle epiclesi, in base alla
quale una singola potenza divina, pur rimanendo la stessa, poteva essere articolata in diverse figure.
Il vero scarto fra le varianti più apparentemente politeistiche del monoteismo e il politeismo “vero” consiste
piuttosto nella possibilità o meno dell’interpretazione: i monoteismi infatti operano sempre e comunque
all’interno del proprio orizzonte religioso (politeismi esclusivi).
XI. TOLLERANZA VS. INTERPRETATIO
La tolleranza è l’atteggiamento teorico e pratico di chi, in fatto di religione, politica, etica rispetta le
convinzioni altrui, anche se profondamente diverse da quelle a cui aderisce, e non ne impedisce la propria
estrinsecazione. Tolerantia (dal verbo tolero, “sopportare”) indica propriamente la pratica di sopportare con
pazienza, che presso gli autori romani non cristiani designa una virtù (non di carattere sociale) esercitata nei
confronti delle avversità o delle pene. Sarà solo con gli autori cristiani, in particolare Agostino, che la
tolerantia entrerà a far parte dell’etica sociale, in particolare per ciò che riguarda le differenze di religione:
sia nei confronti dei pagani che nei confronti degli eretici interni al cristianesimo. La tolleranza dunque da
un lato prevede una sopportazione, e non riconoscimento, di ciò che viene appunto tollerato (in vista del
bene della Chiesa); dall’altro, si presuppone che l’oggetto della sopportazione sia costituito da qualcosa di
negativo (chi la pensa in maniera diversa nell’ambito religioso è nell’errore). In epoca moderna (attraverso
Spinoza, Bayle, Locke e Voltaire) la tolerantia di Agostino finisce per trasformarsi nella tolleranza, nozione
fondamentale per la convivenza civile; la tolleranza religiosa costituisce un principio auspicabile quanto
fragile, che rischia di rovesciarsi nel proprio contrario in quanto presuppone una certa disapprovazione nei
confronti delle religioni altrui.
Nella cultura politeistica che non prevede l’unicità esclusiva di Dio, una nozione come quella di tolleranza
religiosa non è necessaria: quest’ultima infatti sopperisce alla mancanza di quanto l’interpretatio politeistica
sarebbe in grado di offrire spontaneamente.
XII. IL POLITEISMO COME LINGUAGGIO
Per spiegare quanto si verifica in ambito politeistico fra divinità appartenenti a religioni diverse, si stabilisce
un’analogia con quello che accade fra lingue straniere, i cui vocaboli sono traducibili gli uni negli altri; ma il
politeismo antico pratica solo la traduzione degli dei, o comprende anche altre funzioni proprie del
linguaggio? Se sì, tra queste possiamo comprendere la “interpretatio linguistica”, ossia la possibilità di
tradurre l’una nell’altra le divinità appartenenti a uno stesso pantheon. Caratteristico dei sistemi politeistici
è poi il continuo processo di produttività del divino, proprio come avviene nel caso del vocabolario di una
lingua: come ricorda anche Cicerone, può accadere che il pantheon si accresca attraverso la divinizzazione
di esseri originariamente mortali (Hercules e Aesculapius), mentre dei e dee possono cadere in desuetudine
nel corso del tempo. All’interno dei sistemi politeistici, è possibile giustapporre divinità originariamente
separate, in relazione a un determinato contesto di azione divina, facendone ciò che in linguistica si può
definire un “sintagma privilegiato”: si tratta di una combinazione di due parole che, se pure vengono di
norma usate separatamente, in determinati contesti tendono a richiamarsi o attirarsi fra loro in maniera
speciale (es. “falce e martello”).
Non solo possiamo dire che gli antichi esercitavano la traduzione degli dei altrui, come ha indicato
Assmann, ma ne praticavano il prestito: allo stesso modo in cui i vocaboli stranieri possono essere non solo
tradotti, ma proprio integrati in un sistema diverso da quello originale, mantenendo sia il significato
originale che subendo un processo di adattamento semantico. Sempre nella categoria del prestito abbiamo
il caso interessante della evocatio, ovvero una cerimonia in cui il comandante romano “chiamava fuori” la
divinità tutelare della città assediata garantendole che a Roma avrebbe ricevuto onori uguali o superiori a
quelli di cui godeva presso i nemici. In questo modo la città perdeva la protezione divina e sarebbe stata più
facile da conquistare, mentre a Roma si sarebbe insediata una nuova divinità; inoltre, permettere che anche
gli dei venissero coinvolti nella caduta della città nemica e presi prigionieri è ritenuto sacrilegio e nefasto.
Queste possibilità sono impossibili per le religioni monoteistiche, come anche procedere nell’interpretatio
intralinguistica: cercare di farlo può comportare il rischio di eresia, come nel caso della controversia
trinitaria. Tuttavia la beatificazione o santificazione di nuove personalità da parte della Chiesa, infatti,
costituisce una testimonianza della produttività di questa religione, comparabile in questo all’elezione di
nuove divinità nelle religioni antiche, anche se questa pratica è limitata a una sfera inferiore e subordinata.
Per quanto riguarda l’evocatio, legata alla necessità di evitare l’empietà derivante dal prendere prigionieri gli
altri dei, nel monoteismo è invece colpa non fare ciò.
XIII. DARE CITTADINANZA AGLI DEI
Se nelle religioni antiche è possibile far propria una divinità altrui, questo non implica che essa potesse
essere automaticamente onorata all’interno della città, come se si trattasse di una divinità appartenente alla
tradizione: affinché ciò avvenisse, era necessario che la divinità straniera passasse attraverso un processo di
accettazione ufficiale (Senato ne sanciva pubblicamente il culto). Per quanto riguarda i culti privati ci si
affida alle tradizioni degli antenati (riportato anche da Svetonio). Sesto Pompeo Festo riporta che i culti
stranieri fossero quelli portati a Roma tramite l’evocatio, sia quelli richiesti a motivo di determinate
necessità religiose; il verbo utilizzato per indicare questo processo è adscisco (“riconosco”), termine
giuridico usato per indicare l’atto di cooptare per qualcuno. Non è un caso che per giustificare l’ingresso di
una parola greca nel loro lessico (prestito linguistico) gli scrittori romani facessero ricorso alla stessa
immagine che usavano per descrivere il prestito di una divinità (“dare cittadinanza latina a una parola”). Il
pensiero romano presupponeva che gli dei fossero a tutti gli effetti concittadini, seppur divini, della civitas.
Anche nell’immaginazione dei poeti il mondo del divino si organizza sul modello sociale e politico della
Città; al fondo di questo atteggiamento sta la persuasione che le divinità e il loro culto siano una funzione
delle comunità umane, per dir così una loro conseguenza. Varrone scrive prima delle cose umane, poi delle
cose divine, in quanto prima sono esistite le civitates, da cui poi sono state istituite le cose relative agli dei;
Agostino, che riporta le sue parole, non è d’accordo, in quanto la vera religione è stata ispirata dal vero Dio:
se Dio è creatore dell’universo, la religione non può che essere un presupposto assoluto.
Come ricorda Ovidio, una specifica divinità “nasce”, per la comunità che la onora, in coincidenza con la
cerimonia pubblica che ne consacra il tempio (dies natalis templi) e ne sancisce l’ingresso nella Città.
Un’altra conferma di questa singolare visione delle divinità viene dal dialogo Sulla natura degli dei di
Cicerone, il quale afferma che a Roma la verità sugli dei non l’afferma la filosofia, ma la tradizione stabilita
dagli antenati: per prima si ha una percezione civica, non filosofica o teologica, della divinità.
L’estensione della categoria di cittadinanza del divino propria dei romani prevede una forma di controllo
statale sulle pratiche religiose pubbliche, ma d’altra parte impedisce che una qualche divinità possa
trascendere la Città e imporsi a essa come presenza assoluta. Gli ultimi decenni della nostra storia sono stati
caratterizzati da una vague che, nella definizione delle identità individuali, sembra privilegiare in ogni
momento l’appartenenza etnica, culturale e religiosa a scapito di quella civica. Nell’esperienza italiana
abbiamo assistito da un lato a una segmentazione interna delle appartenenze sulla base di tradizioni
culturali, alimentari e dialettali (per definirsi individualmente o collettivamente vale meno l’essere cittadini
italiani rispetto al luogo di nascita); dall’altro lato siamo testimoni di un continuo rapporto di tensione nei
confronti dei migranti, ai cui figli si nega la cittadinanza anche se nati sul nostro suolo. La nostra società
rischia di frammentarsi in comunità separate, incapaci di comunicare tra loro, e d’altro canto, per reazione,
di subire un’omologazione culturale forzata. Solo l’idea di cittadinanza può permettere di sfuggire a queste
derive opposte: porre l’accento sulla cittadinanza del divino (come Roma), potrebbe offrire una preziosa
risorsa non solo intellettuale, ma umana e civile. Come diceva William James, gli dei cittadini romani
possiedono oggi un grande “cash-value”.
XIV. LA LUNGA OMBRA DELLE PAROLE
Politeismo è composto da due parole greche (polys, “molto” e theos, “dio”) e definisce la forma di religione
caratterizzata dalla credenza e adorazione di più divinità, in contrapposizione al monoteismo che riguarda
invece un Dio solo. I termini politeismo, paganesimo e idolatria posseggono connotazioni diverse, ma hanno
in comune il fatto che nessuno di questi sarebbe stato utilizzato da un greco o un romano per designare la
propria religione: tutti e tre nascono dall’esterno (contro) le religioni antiche. Politeismo è un termine greco,
utilizzato per la prima volta per indicare la religione classica da Filone (ebreo di Alessandria), per indicare il
tratto più caratterizzante (in contesti negativi) di queste religioni rispetto a chi adorava un solo Dio; anche
nel mondo cristiano le connotazioni negative del termine sono quasi sempre esplicite, basti pensare alla
creazione del composto polytheomania (“follia dell’adorare molti dei”). Nella cultura moderna, il termine
“polytheisme” verrà messo in circolazione da Jean Bodin nel 1580, per descrivere non tanto la religione dei
pagani, quanto le eresie cristiane che invece di ammettere un unico principio divino dell’universo, ne
ammisero molteplici; Samuel Purchas nel 1614 utilizza questo termine per riferirsi al culto dei santi che
Papisti e Gesuiti introducevano nel nuovo mondo. Monoteismo è un termine coniato da Henry More nel
XVII secolo (prima ebrei e cristiani definivano la loro religione come “monarchica” e “teismo”) come critica
agli apologeti del paganesimo, secondo cui anche gli antichi avrebbero creduto in un dio unico, seppur
senza nome; per More questo preteso dio unico era in realtà l’intero universo. Monoteismo viene utilizzato
da More a proposito degli ebrei, per sottolineare (negativamente) il fatto che essi negano la divinità di Gesù
a motivo della loro ostinazione nel credere che ci sia un solo dio.
Nel latino classico l’aggettivo paganus indica l’abitante del pagus (“villaggio”), in contrapposizione a chi vive
in città; negli autori cristiani, in particolare Agostino, paganus diventa l’espressione più comune per
designare coloro che restano fedeli ai culti tradizionali, gli appartenenti alle gentes ovvero alle nationes. Un
spiegazione di questo cambiamento di significato è data dal giurista Andrea Alciati: paganus, nel diritto, si
oppone al militaris, e dato che il cristiano viene spesso definito miles Christi, il pagano diviene colui che non
è soldato di Cristo. Cesare Baronio, nel Martyrologium christianum suggerisce che i cristiani definiscono
paganus chi non appartiene alla loro religione, perché il culto degli antichi dei era ormai relegato nelle
campagne. Un’altra spiegazione è avanzata da Christine Mohrmann, per la quale il termine paganus fosse
nato per designare coloro che non facevano ancora parte del gruppo, che erano solo dei privati.
Idolatria (eidolon, “immagine” e latreuò, “venero”) designa “il culto delle immagini”, proviene dalla
traduzione in greco della Bibbia ebraica dei Settanta (realizzata ad Alessandria nel III a.C.), in cui nel parlare
del divieto di onorare le immagini degli dei, per designare l’oggetto di tale condanna viene utilizzata la
parola eidolon. In realtà il termine eidolon definisce l’immagine inconsistente e ingannevole che appare nei
sogni, il riflesso dello specchio o l’ombra dei defunti; di conseguenza ricorrere alla parola eidolon per
indicare le statue di culto degli “altri” implica già un’intrinseca condanna, in quanto le immagini venerate
dai gentili vengono così automaticamente caratterizzate come vane e inconsistenti. Si può riconoscere lo
stesso procedimento anche nell’uso del termine “feticcio” per designare le immagini di culto proprie delle
cosiddette religioni primitive: il termine latino, facticius, indica il prodotto “fabbricato”, che deriva da un atto
del “fare” contrapposto a ciò che è “naturale”. Il termine feitiço (“artefatto magico”) veniva utilizzato dai
navigatori portoghesi del XVI secolo per indicare gli artefatti religiosi delle popolazioni della Guinea e
dell’Africa occidentale: pur riconoscendo a questi oggetti una qualche efficacia, questi venivano degradati al
rango di prodotto della stregoneria, negandogli qualsiasi legittimità. Il termine francese fétiche venne
utilizzato da Charles Des Bosses per indicare la fase più primitiva nella storia religiosa dell’umanità, che
prevedeva il culto di oggetti o animali. Qui si vuole mettere in evidenza come tanto nel definire eidolon la
statua di culto di pagani, quanto nel chiamare col nome di feitiço l’oggetto venerato dai popoli africani, si
usa la stessa strategia di tacita degradazione, per via linguistica, dei culti altrui.
È ingiustificato utilizzare termini come “letteratura pagana” per indicare la produzione culturale del III,IV o V
secolo d.C., come se a caratterizzare tutte queste manifestazioni fosse il solo fatto di non essere ispirate al
cristianesimo. Inoltre la pluralità degli dei non costituisce l’essenza delle religioni politeistiche, ma solo la
condizione necessaria affinché esse possano esplicare la virtù che meglio le caratterizza: ovvero la capacità
di pensare in modo plurale ciò che ci circonda e, nello stesso tempo, di fornire altrettanti modi di azione per
interpretarlo e intervenire su di esso.
XV. IL CREPUSCOLO DELLA SCRITTURA
Le riflessioni svolte finora mostrano che l’assunzione di alcuni quadri mentali propri del politeismo avrebbe
un “cash-value” per tutte le società in cui le religioni monoteistiche sono tuttora attive: risorse come la
traducibilità, il prestito e la reciproca interpretatio delle divinità ridurrebbero senz’altro il tasso di
conflittualità fra le diverse religioni monoteistiche e le loro suddivisioni interne. Le grandi religioni
monoteistiche sarebbero in grado di fare ciò che auspichiamo? Sicuramente gli ostacoli sarebbero molti e
ardui: in primo luogo occorrerebbe tener conto dei voleri delle gerarchie, che probabilmente hanno scarso
interesse nel far sì che le rispettive religioni accedessero a un regime di libero scambio; in secondo luogo,
non possiamo dimenticare che millenni di storia hanno fatto sì che le varie religioni siano entrate a far parte
di “conglomerati ereditari” (coagulate con specifiche visioni del mondo). L’aver posto il rapporto con le
religioni diverse dalla propria in termini di “vero” e “falso”, così come avviene nei monoteismi, favorisce
forme di etnocentrismo e chiusura culturale; al di là di questo, ad ostacolare ciò che auspichiamo sarebbero
soprattutto alcune incompatibilità strutturali.
Innanzitutto la concezione unica ed esclusiva della divinità che è propria dei monoteismi (“esclusione
mosaica” può essere fluida); a ciò si aggiunge la scrittura, ovvero quelle asserzioni assolute sull’unicità di
Dio sono comunque registrate in ciascuno dei “libri” che stanno alla base delle tre religioni monoteistiche:
la relazione tra il principio testuale e la sua fonte (mitica o reale) resta all’origine della nozione occidentale
di autorità (carattere vincolante dei testi). Nel caso delle religioni antiche ci si preoccupa sempre di ricordare
che esse non possedevano dei libri “sacri”; nelle religioni monoteistiche il libro non solo è sacro, ma ispirato
e scritto direttamente da Dio. Nell’Apologetico (II d.C.) Tertulliano scriveva che il Dio dei cristiani, e prima
ancora quello degli ebrei, aveva parlato per iscritto, servendosi dello strumento della scrittura, attraverso cui
le parole e le opere dei profeti da lui ispirati sono state registrate e conservate. La litteratura di cui si è
servito Dio si costituisce non solo come uno strumento di comunicazione e dottrina, ma anche come
dispositivo universale che deve condurre alla conclusione che “egli è l’unico Dio, creatore dell’universo”. Nel
mondo classico, il fenomeno di un dio che parla per iscritto era praticamente sconosciuto: a Roma e in
Grecia il rapporto fra divinità e parola umana appare rovesciato, in quanto l’autore del discorso sugli dei era
l’uomo (come mostra Erodoto). Giuseppe Flavio considera questo atteggiamento un errore dei Greci.
È interessante come l’epoca in cui viviamo presenta numerosi segni del fatto che la scrittura, come mezzo di
comunicazione, stai perdendo importanza: ogni giorno diminuisce la vendita di libri e giornali, mentre
trionfa la comunicazione diretta a carattere personale nel digitale, che non ci obbliga più a delegare ai
caratteri dell’alfabeto ciò che vogliamo far sapere agli altri, permettendoci di usare le nostre risorse
comunicative naturali (occhi, orecchie, gesti, lingua). Stiamo assistendo al crepuscolo della scrittura in
generale, accompagnato da quello del ruolo dell’autore (media dominati dall’anonimato): ciò non comporta
solo un problema giuridico o economico ma anche una questione morale, in quanto al venir meno
dell’autorialità è anche la responsabilità pubblica (relazione tra opera e autore). Grazie a questa
trasformazione generale è possibile però che, anche nel campo delle religioni, ciò che è scritto si
indebolisca; d’altra parte è anche possibile che l’altra tendenza della società contemporanea (tramonto
dell’autorialità) possa riguardare anche la figura dell’Autore divino.
APPENDICI
1. TOLLERANZA E INTOLLERANZA RELIGIOSA NEL MONDO ANTICO
Questa categoria della cultura moderna può essere applicata al mondo classico? Possiamo sintetizzare la
questione nella comparazione fra i quadri mentali propri del monoteismo e quelli propri del politeismo.
La nozione di tolleranza definisce dei comportamenti che nelle società classiche sarebbero fuori luogo,
soprattutto in quanto questo termine nasce nella cultura cristiana a partire dal V secolo.
L’espressione “intolleranza religiosa” viene usata per definire fenomeni romani come la repressione dei
Bacchanalia e le persecuzioni anticristiane; queste azioni persecutorie si presentano, nei loro tragici
risultati, analoghe a quelle che saranno messe in opera in ambito monoteistico, ma le motivazioni da cui
sono animate sono diverse. A scatenare la repressione dei Bacchanalia non è infatti la divinità in sé, in
quanto ritenuta falsa o demoniaca, ma la natura dei culti che a questa divinità sono dedicati: secondo
l’autorità politica potevano distogliere i cittadini dai doveri religiosi verso gli dei della città, mettendo a
rischio la pax deorum; inoltre si temeva che questi culti potessero minacciare l’esistenza stessa della res
publica (come nel caso delle persecuzioni anticristiani). A Roma i casi di repressione religiosa hanno
motivazioni prima di tutto politiche, proprio perché la politica è la religione dei Romani. Contestualmente
alla soppressione dei Bacchanalia viene contemplata la possibilità che qualcuno reputi comunque
necessario celebrare il culto di Bacco, poiché tale omissione costituirebbe un’empietà: costui potrà farlo, ma
solo attraverso una procedura che prevede l’intervento del pretore urbano, un parere del Senato e l’obbligo
che alla celebrazione non partecipino più di 5 persone e a celebrare sia un sacerdote.
Un problema ulteriore riguarda i cristiani: se da una parte il cristianesimo è una religione che propugna
l’amore per il prossimo, dall’altra perseguita coloro che rifiutano di accettarne il messaggio. Le motivazioni
fornite dagli studiosi riguardo l’intolleranza dei cristiani sono sia di carattere teologico o ideologico, sia
storico sia sociologico. La fonte dell’intolleranza cristiana non va ricercata nell’idea di un dio unico, bensì nel
totalitarismo implicito in un’ingiunzione d’amore che non conosce altri limiti che quelli dell’umanità intera:
questa condizione è resa ancora più evidente dalle voci improntate alla mitezza degli autori cristiani del II
secolo, favorevoli a un’adesione religiosa di carattere interiore e non forzata (come riporta Tertulliano).
2. VENTURE E SVENTURE DI PAGANUS
Cesare Baronio aveva avanzato l’interpretazione di paganus, utilizzato per indicare il “non-cristiano”, come
derivante dal fatto che i devoti degli antichi dei si identificavano ormai con gli abitanti delle campagne:
tuttavia la sua era un’interpretazione di carattere storico, non morale come nel caso della rilettura di
Mohrmann (pagano come persona rozza); Athanassiadi e Frede ripropongono la tesi di Baronio (senza
citarlo) definendo il pagano come “ignorante”. L’interpretazione di Alciati del termine paganus
contrapposto a miles Christi appare errata, in quanto nel momento in cui si afferma il primo termine, il
secondo era ormai praticamente scomparso; l’interpretazione di Baronio, risulta anch’essa improbabile, in
quanto il termine paganus si afferma in un periodo in cui ancora l’attaccamento alla religione tradizionale si
manifestava con particolare vivacità nelle città.