FILOSOFIA TEORETICA (5)
RIASSUNTO ETICA NICOMACHEA:
La vita umana implica la ricerca del bene, che è la forma compiuta dell’essere.
Aristotele ha alle spalle il maestro Platone che credeva che il bene regolava tutte le altre idee.
Aristotele pone una variazione all’idea platonica del bene: il fatto che mentre per Platone il bene era
unico/universale e tutte le cose si rapportano ad esso, per Aristotele invece il bene si dice in molti modi come
l’essere quindi non esiste un bene universale, unico per tutti, ma per l’uomo esiste il bene propriamente umano.
Ogni ente ha come principio il proprio bene, perché tendendo ad esso può perfezionare la propria natura.
Qual è questo bene propriamente umano?
Questo bene propriamente umano è la felicità. Tendendo
alla felicità come bene supremo significa che la vita umana rispetto alla vita divina, animale e vegetale, non
coincide con sè stessa, poiché la vita umana è divisa tra vita velata e sopravvivenza, ma lo stare in vita non coincide
con la vita propria dell’uomo, quest'ultimo alla vita chiede qualcosa in più, che non il semplice stare in vita, ma egli
desidera la vita poichè attende la felicità, ciò che rende amabile la vita. Il desiderio di vivere attende il benessere,
attende la felicità. La felicità
si installa nelle cose più intime dell’umano ed è talmente connaturata, che gli uomini hanno tutti un’idea di essa,
nonostante le varie condizioni sociali ed economiche. La vita dedita alla ricchezza, all’onore e al piacere possono
portare alla felicità, ma Aristotele mostra 2 cose:
La prima è che c’è una pervasività del tema della felicità.
La seconda è che questi stili di vita (che non sono quelli che portano al raggiungimento della felicità)
consentono di capire la struttura del fine che alberga nella felicità.
La vita dedita alle cose banali, ci mostra che noi non vogliamo quelle cose in quanto tali, ma le vogliamo in vista
d’altro, dunque queste cose non sono dei fini in se stessi, ma lo sono perché rinviano ad altri fini.
La condizione perfetta e vera della felicità è quella di essere un fine che vogliamo per sé stesso, nel caso della vera
felicità, il fine è AUTOTELICO (fine in sè stesso), quindi la felicità è fine per sé stessa, quando l’abbiamo, non
vogliamo altro.
La felicità è un bene oggetto di AZIONE (=PRAXIS), Aristotele dal momento che riconosce che la felicità è un
principio (ciò che guida le nostre azione, principio=archè), significa che essa ci guida, andiamo verso essa, anche
nell’errore ma anche nell’errore affermiamo di essere stati guidati dalla felicità.
Sia che scegliamo una vita autentica che inautentica, la felicità ci guidava.
Dato che la felicità è oggetto di azione, ciò vuol dire che noi abbiamo un rapporto con le nostre azioni che ci
permettono di raggiungere quel bene, ma solo le azioni buone.
Cosa è un’azione buona?
Il concetto di virtù (bontà) è quell’abitudine a fare bene. L’uomo virtuoso fa cose buone e riesce a raggiungere
l’eccellenza, ma le virtù etiche vengono dall’abitudine, non vengono né dalla natura nè sono senza natura, ma si
installano dentro la flessibilità della natura umana ad abituarsi a qualcosa, se questa natura umana si abitua,
significa che si educa.
Quindi la felicità è definita ATTIVITA’ DELL’ANIMA SECONDO VIRTU’, la felicità implica la virtù, l’educazione al
meglio.
Aristotele si pone se l’attività dell'anima, l’ambito morale, implica il desiderio e la sede del desiderio è l’anima.
L’anima è tripartita:
ANIMA VEGETATIVA;
ANIMA DESIDERATIVA/APPETITIVA che si divide in due parti perché Aristotele comprende la complessità
del desiderio umano e lo valorizza. Quindi il desiderio ha due forme: Una forma istintiva, che l’uomo divide
assieme agli animali e un desiderio suscettibile di un ordine, che può volere quello che vuole non per
semplice istinto ma perché obbedisce in qualche modo alla ragione pur essendo desiderio, quindi
collabora con la ragione. La scelta mette in campo desiderio e ragione, l’uno si inserisce nell’altro.
ANIMA RAZIONALE, che conosce e possiede la regola, che sa come agire e conosce qual è il bene.
La ragione è un mezzo per una valutazione equilibrata di ciò che accade e costituisce anche un freno per
l’istinto.
Dire che la felicità è un attività dell’anima secondo virtù significa che sono le azioni a portare la felicità, si può agire,
Aristotele è un ottimista, ma sa che la vita umana è piena di sventure, inconvenienti.
Per esempio, Priamo che perde tutto alla fine, nonostante la sua vita era stata piena; ma non c’è scampo neanche
quando si muore perché ciò che può accadere alla propria famiglia, pesa anche su chi è morto.
Malgrado queste considerazioni, Aristotele rimane ottimista e dice che non si deve rinunciare all’idea della felicità,
perché si deve ripartire dal nostro modo di agire e se agiamo virtuosamente, le azioni buone ci daranno stabilità
poiché non ci dimenticheremo di esse nel corso del tempo e ci arrecheranno felicità.
Il mutamento perenne di tutto lo affronto con un contro rovinante, una cosa stabile a cui posso aggrapparmi,
nonostante la vita presenta sempre cambiamento, anche in negativo, l’uomo buono non è soggetto a variazioni, e
anche se la sorte non lo aiuterà, non sarà mai misero e cattivo. La felicità è un aiuto morale.
Qual è il modello felice a cui guardare in questa ricerca della felicità?
Dio e gli dèi che sono felici e beati, e gli uomini vivono un desiderio di perfezione che porta ad accogliere nella
propria natura il modello del divino. Il desiderio di felicità è il luogo in cui sperimentare una vicinanza col divino.
La felicità è un'attività dell’anima secondo virtù, quale virtù?
-Virtù etiche, cioè del carattere come coraggio e temperanza, che sono legate all’abitudine;
-Virtù dianoetiche, che implicano lo studio, l'apprendimento, la parte razionale dell’anima, per esempio, la
saggezza (in greco fronesis), la sapienza (sofia), l’arte e la scienza.
La sofia (sapienza) è la più alta delle scienze ed è anche la condizione del sophos, il dio. Il sapiente è il dio, quindi la
sapienza è quella virtù che permette di conoscere i principi primi delle cose, che implicano il divino. Quindi nel
caso della felicità, attività dell’anima secondo la virtù più perfetta, che è la sophia.
La vera felicità è data dalla sophia, quell'attività teoretica, che è la più perfetta perché quando noi esercitiamo la
sophia, lo facciamo perché non vogliamo niente oltre essa, non vogliamo niente in vista d’altro perciò il desiderio
della sophia è autosufficiente e troviamo la spiegazione per tutto il resto.
Il modello di vita perfetta è la vita dedita al sapere, la vita contemplativa, di cui è protagonista la sapienza.
L’attività dell’anima secondo virtù, secondo la sapienza,è una virtù dianoetica che si apprende.
Nella virtù secondo sapienza, noi raggiungiamo quel tipo di vita felice che, secondo Aristotele, implicano le
condizioni agevoli (ricchezza, longevità, temporalità, piaceri, onori,ecc…).
IL SIMPOSIO
Il simposio è un testo sull’AMORE, composto da Platone sul modello di un Simposio, ovvero un gruppo di amici,
che si incontrano per parlare e ognuno di loro fa un discorso, da diverse prospettive, sull’amore. La particolarità è
che tramite tutti i vari discorsi, vengono fuori le caratteristiche dell’amore ed emerge l'amore come forza mitica.
In particolare, il simposio viene ricordato perlopiù per l’encomio (ovvero elogio) più famoso che è quello del
commediografo ARISTOFANE che presenta il mito dell’Androgino in cui cerca di spiegare l’origine di Eros dicendo
che anticamente la natura degli esseri umani era differente dall’attuale cioè uomo e donna, ma un tempo gli
uomini erano di tre sessi: maschile, femminile e androgino.
Che cosa viene fuori da questo mito dell’androgino narrato da Aristofane che pretende di essere un racconto
mitico?
(Per i greci il mito è importantissimo, era una favola vera cioè un racconto fantastico da cui però veniva fuori la
verità quindi il mito è il punto da cui parte la filosofia per la sua riflessione).
Aristofane da una versione dell’origine dell’amore e si chiede da dove nasce l’amore?
Questo lo porta a spiegare che anticamente i generi non erano solo due: maschio e femmina, ma erano tre, c’era
un terzo genere, che era l’androgino e dice Aristofane questo genere è sparito.
Che cosa, chi era l’Androgino?
L’androgino era una sorta di mostro, un essere tutto rotondo con genitali esterni e in tutto aveva otto arti, era
uomo e donna insieme, fusi in sé stessi, ed erano così autosufficienti, felici e allo stesso tempo arroganti, che Zeus
invidioso di questa loro pienezza decise di tagliarli in due e tagliandoli procurò due metà che entrarono in uno
stato tale di sofferenza, che per tutta la vita ciascuna metà avrebbe poi ricercato l’altra metà perduta.
Dal momento che questo essere prima era tutto unito, questo taglio implicava la necessità di un’opera di chirurgia
plastica, che venne affidata ad Apollo. Dopo questo primo taglio le due metà erano così desiderose di unirsi
nuovamente che morivano di fame e di sete e non facevano niente, l'una cercava l’altra. Così ci fu un nuovo
intervento finalizzato a cercare di aiutare queste due metà ad ormonizzarsi fra di loro, allora vennero spostati i
genitali sul davanti per favorire la procreazione, una volta spostati questi genitali sul davanti (dice Platone), dal
punto di vista sessuale e dal punto di vista del loro genere, da lì diventò connaturato l’amore fra i viventi.
Cosa è dunque l’amore che nasce da questa situazione, il desiderio erotico che cos’è?
La voglia, il desiderio appunto di ricongiungersi con l’altra metà, ed ora con il secondo intervento questo tentativo
di ricongiungimento diventa possibile. Quindi a questo punto si comprende che ciascuna metà cerca l’altra metà.
Dall’androgino quindi viene fuori l’eterosessualità, il fatto che un sesso cerca il sesso opposto ma viene fuori anche
che le donne cerchino le donne e che gli uomini cercano gli uomini quindi l'omosessualità.
Platone spiega l’omosessualità come derivata da quell’antica unità in cui gli esseri erano uniti dal punto di vista di
genere (dunque quest’ultima ha uno spazio e ha una sua precisa origine).
Si crede che l’amore platonico sia un amore dove la corporeità non faceva il suo ingresso, mentre non è così.
Per il filosofo l’amore anche corporeo, anche fisico, doveva condurre al bene dell’anima, al bene intero dell’altro,
della persona, quando l’amore si staccava da questo compito allora era considerato soltanto un desiderio
appropriativo, non come qualcosa che comportava la crescita dell’altra. Ma certamente non è vero che l’amore
platonico sia un amore che rifiuta il corpo.
Platone fa un elogio dell’amore omosessuale maschile dicendo appunto che questa è la forma di amore adulto che
poi forma le persone migliori, quelli che si dedicano alla politica, che quindi hanno la guida della città e anche alla
filosofia.
La filosofia costituisce una particolare tipologia di amore omosessuale, quello tra maestro e discepolo, in cui il
sapere è la finalità, e secondo questo tipo di amore non può esserci il raggiungimento del sapere in un giovane se
non passando dall’amore del maestro, un amore che non è immune anche dall’incontro fisico, ma questo incontro
fisico non esprime una forma di possesso, di godimento sfrenato dell’altro, ma è un aiuto per far entrare la verità
nell’anima.
L’amore è connaturato alla specie umana, esso conduce verso l’antico stato (dal libro).
Questa è la definizione che viene dall’amore, mira a unire in un solo essere ripristinando la salute della natura
umana. La salute, cioè il benessere, è una forma di salvezza dell’ente, lo salva dalla rovina, dalla caduta.
L’amore è dunque il bene e dunque la felicità della natura umana. L’amore è un universale, una cosa sola che però
permette le differenze, le differenti tipi di relazione, e le combinatorie infinite che possono crearsi dall’androgino,
quindi l’amore, dice Platone, è per tutti.
dal simposio (studiare bene)
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