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La Pandemia Ha Suggellato Tra I Giovani L'angoscia Dell'incontro Con L'altro

Massimo Recalcati discute l'aumento del disagio giovanile post-pandemia, evidenziando sintomi come ansia, depressione e comportamenti di isolamento. La pandemia ha amplificato tendenze preesistenti, trasformando il disagio in una forma di introversione, mentre l'iperconnessione tecnologica offre un'illusione di sicurezza ma porta a una sconnessione dalla realtà. I genitori, nel tentativo di proteggere i figli, contribuiscono a una crisi educativa che impedisce lo sviluppo del desiderio e della resilienza nei giovani.
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La Pandemia Ha Suggellato Tra I Giovani L'angoscia Dell'incontro Con L'altro

Massimo Recalcati discute l'aumento del disagio giovanile post-pandemia, evidenziando sintomi come ansia, depressione e comportamenti di isolamento. La pandemia ha amplificato tendenze preesistenti, trasformando il disagio in una forma di introversione, mentre l'iperconnessione tecnologica offre un'illusione di sicurezza ma porta a una sconnessione dalla realtà. I genitori, nel tentativo di proteggere i figli, contribuiscono a una crisi educativa che impedisce lo sviluppo del desiderio e della resilienza nei giovani.
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"La pandemia ha suggellato tra i giovani

l'angoscia dell'incontro con l'altro"


Massimo Recalcati
in dialogo con Vanessa Giovagnoli

Giovagnoli. Massimo Recalcati, con te oggi parliamo di disagio


giovanile. È di qualche giorno fa un appello dei direttori dei dipartimenti
di psichiatria degli ospedali pubblici, che dicono che sono sempre di più
le persone – soprattutto giovani – che, anche a causa della pandemia,
del Covid, hanno sviluppato malattie psichiatriche, ma che il servizio
pubblico ha enormi carenze di organico e chiedono per questo, al
ministro della Salute Schillaci, un piano straordinario di assunzioni.
Mancherebbero – la stima è imprecisa, ovviamente e noi la prendiamo
così – 10.000 professionisti.
Ti chiedo, anzitutto, se anche tu hai notato, dopo la pandemia,
l’aumento del disagio dei giovani e quali sono le forme di disagio più
diffuse.

Recalcati. È indubbio, questa è una constatazione, purtroppo, molto


facile da fare. Ci sono stati un allargamento e una diffusione del disagio
giovanile che ha come sintomi più tipici quelli che sono, da una parte,
sintomi ansiosi che culminano nell’attacco di panico, e dall’altra parte
comportamenti di caduta depressiva, di atteggiamenti autolesivi,
dipendenze tecnologiche oppure alimentari… insomma, siamo di fronte,
effettivamente, ad un’ondata di disagio giovanile, che però, per un altro
verso, era già presente, come tendenza, prima della pandemia. Cioè, la
pandemia ha accentuato, amplificato un disagio che noi vedevamo già
assumere forme molto particolari, prima di essa. Quali forme
particolari? Quelle che privilegiano un atteggiamento di introversione e
di chiusura e di distacco dai legami sociali. Noi eravamo abituati a
vedere come manifestazione primaria del disagio giovanile
comportamenti dissipativi, una spinta al godimento che si ritorceva
contro il soggetto. Mentre in questo caso noi vediamo quello che gli
psichiatri chiamano, appunto, comportamenti di fobia sociale, cioè di
allontanamento, di introversione, di chiusura. La figura giapponese
dell’hikikomori, che nella nostra lingua significa, appunto, “uscire dal
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mondo, mettersi da parte”, è la cifra che riassume, diciamo
plasticamente, questa nuova forma del disagio giovanile, che non è,
appunto, centrata sulla dissipazione, ma sulla introversione. La
pandemia, accentuando il tema del distanziamento, accentuando
l’esperienza del confinamento, accentuando anche l’esperienza del
riparo, del rifugio come necessarie, ha amplificato questa tendenza che
io chiamo “neomelanconica” dei nostri figli.

G. Cos’è che ha determinato questo cambiamento, qual è la causa? E ti


chiedo anche se internet abbia un ruolo in questo crescente isolamento
dei giovani, in questa tendenza neomelanconica, perché anche questa
è una notizia, tutto sommato recente: c’è stata una class action delle
scuole pubbliche di Seattle, che hanno denunciato, negli Stati Uniti, i
principali social media perché li considerano la causa dell’aumento
dell’ansia, delle depressioni e anche, appunto, di questo isolamento dei
giovani È internet una delle cause o ce ne sono altre?

R. Beh, intanto colpisce il fatto che, per esempio, quella che noi
chiamiamo depressione, che è fondamentalmente una sorta di ritiro
della vita dalla vita, di spegnimento del sentimento della vita, che
solitamente accompagnava classicamente la curva finale dell’esistenza
riguardi oggi i giovani. Cioè, è normale pensare che tanto più l’esistenza
perde vigore, perde forza, perde slancio… conosca una sorta di declino
depressivo. Mentre i dati ci dicono che mai come oggi, mai come in
questo tempo, la depressione è diffusa in un’età – quella della
giovinezza – che dovrebbe essere esattamente il contrario: la
giovinezza è il momento in cui la vita si apre alla vita, è il momento –
dovrebbe essere il momento – di massima espansione, di massimo
vigore della vita. E invece constatiamo il paradosso che la depressione
si diffonde ampiamente proprio nei nostri figli.
Allora qual è la causa? Da una parte, abbiamo detto, la pandemia, a cui
si associa anche il colpo della guerra che io non sottovaluterei.
Ma perché la pandemia? Perché in fondo ha messo in evidenza
l’oggetto dell’angoscia che esisteva già prima, come dicevo, e cioè il
fatto che l’incontro con l’altro, il legame sociale, il contatto può essere
pericoloso, può essere luogo di un’infezione, può essere luogo di
qualcosa di ingovernabile. Ora, questa percezione che l’incontro con
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l’altro porti con sé sempre qualcosa di ingovernabile, di minaccioso, di
perturbante, di destabilizzante, era già presente prima della pandemia:
è come se la pandemia avesse sugellato in modo drammatico, tragico,
quest’angoscia diffusa. Allora, se l’altro, il legame, il contatto è il luogo
di una infezione mortale, di un pericolo, di una destabilizzazione, è
chiaro che bisogna trovare un partner che non porti con sé questa
minaccia, e qual è il partner più affidabile? È per esempio il partner
tecnologico, è il partner che consente uno pseudo contatto, quindi delle
pseudo amicizie, degli pseudo legami, che non espongono il soggetto
al rischio per esempio, della perdita, dell’abbandono, della separazione
oppure anche della rivalità, della prestazione. Con la fine della
pandemia c’è stato il ritorno all’aperto che è un’esigenza della
giovinezza: gli adolescenti sono stati i più colpiti, a mio giudizio, da
questa pandemia, insieme agli anziani ma per altre ragioni, ovviamente.
Perché i più colpiti? Perché la pandemia li costringeva a vivere contro
natura: se la giovinezza esige, appunto, l’aperto, il contatto, l’incontro, la
libertà, allora noi abbiamo fatto un’esperienza necessaria, ma
comunque un’esperienza di privazione, di compressione del diritto alla
libertà. Ecco, in questo senso, però, quello che è stato vissuto come
privazione è diventato anche luogo di un rifugio, di un riparo, da che
cosa? Dal rischio dell’incontro con l’altro e anche dall’angoscia della
prestazione. Perché molti ragazzi, per esempio, adesso faticano, hanno
faticato, stanno faticando a ritornare a scuola? Perché ritornare a
scuola significa di nuovo ingaggiarsi nella rivalità, nella prestazione;
Significa, ancora, mettere alla prova se stessi, che non è un fatto così
semplice. E invece il rapporto tecnologico garantisce un legame che
non impone la prova, che non impone la prestazione, ma che è un
legame che dà l’illusione che sia il soggetto a governare ogni cosa. Per
questo noi abbiamo una patologia che oggi tende a svilupparsi
veramente in modi sempre più anche grotteschi oltre che drammatici di
“iperconnessione” con l’oggetto tecnologico. Questa iperconnessione è,
in realtà, un modo per evitare la connessione reale con l’altro e anche è
un modo per sconnettersi dal legame con l’altro. Quindi è come se –
ecco il paradosso – la dipendenza, nella misura in cui produce un
fenomeno di iperconnessione con l’oggetto, producesse al tempo
stesso l’effetto di una sconnessione dal mondo e dall’altro.

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G. D’altra parte la bolla ipertecnologica sembra in parte scoppiata.
Anche qui, è di qualche giorno fa l’appello lanciato da un tick toker che
ha detto: “Non trovo nessuno con cui uscire”. Quindi sembra in qualche
modo scoppiata questa bolla, o per lo meno, i giovani se ne rendono
quasi conto…

R. È difficile sconnettersi. Cioè, è difficile introdurre una pausa rispetto


all’assorbimento dell’iperconnessione. Che cosa ci vuole per
sconnettersi? Che cosa ci vuole per separarsi dall’oggetto tecnologico
che, faccio notare, a volte assomiglia veramente a una separazione
tecnicamente noi diremmo “orale”? Cioè, l’oggetto tecnologico
assomiglia davvero a un seno e la separazione da questo oggetto
produce davvero dei fenomeni di angoscia primaria.
Ti racconto questa scena che ho sentito da un collega che è veramente
divertente e drammatica al tempo stesso: riceve una coppia di genitori
che hanno una figlia che soffre di questa dipendenza estrema dal
cellulare che tiene accesso giorno e notte e con cui intrattiene un
legame fusionale, incestuoso, e mentre la madre, angosciata racconta
di questa dipendenza patologica, la figlia si alza dicendo: “Ma no, sta
dicendo un sacco di bugie, dottore non le creda! Lo giuro sul cellulare!”.
Che è come se il cellulare assumesse quasi la forma del testo sacro,
della Bibbia, quando nei tribunali si giura di dire la verità, tutta la verità.
Insomma, questa è una scena che ci può far sorridere, ma che mostra
come veramente il rischio è che la realtà virtuale sostituisca quella reale
perché quella reale implica quello che la pandemia ha scoperto
drammaticamente, cioè il fatto che le relazioni introducono sempre una
quota di instabilità nella nostra vita, per quanto la nostra vita senza le
relazioni è effettivamente una vita morta.

G. Qual è ruolo dei genitori? Perché la pandemia ovviamente ha


imposto lo stare a casa e ci ha spaventato rispetto al contatto con gli
altri. Però è anche vero che c’è una tendenza preesistente alla
pandemia, nei genitori, che è quella, ne abbiamo parlato anche qua con
te, di evitare ogni forma di sofferenza ai figli, mentre l’incontro con l’altro
produce ovviamente anche delle forme di frustrazione. I genitori di oggi
sembra che vogliano proteggere i figli ad ogni costo…

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R. Questo è indubbio. Se dovessi dire quali sono i tre elementi
fondamentali che inquadrano il disagio contemporaneo della
giovinezza direi che il primo è veramente una sorta di dissesto evolutivo.
Cosa intendo dire? Intendo dire che una volta il disagio dell’adolescenza
era strettamente connesso al fenomeno della pubertà. Per cui il
fenomeno della pubertà, che comporta un grande cambiamento nella
immagine del proprio corpo e nel vissuto del proprio corpo, si collegava,
psicologicamente, alla inquietudine adolescenziale. Oggi noi siamo di
fronte al fatto che pubertà e adolescenza si separano, per cui uno è
adolescente, resta adolescente ben al di là del passaggio evolutivo di
tipo puberale, e quindi c’è la tendenza alla cronicizzazione del disagio
adolescenziale. Questa tendenza alla cronicizzazione, ecco il secondo
punto, dipende in gran parte dagli adulti. Cioè dipende dal fatto che c’è
una crisi diffusa, generalizzata del discorso educativo che riguarda non
solo la scuola, non solo la difficoltà degli insegnanti e degli educatori a
fare il loro mestiere, ma in primis nei genitori che si trovano in difficoltà
a contrastare il comandamento dominante del nostro tempo, che è
quello che impone un godimento senza rinuncia. E come fa un genitore
a dire “no”, a fare esistere il trauma, il trauma benefico del limite, della
soglia, della rinuncia… quando fuori dalla famiglia tutto spinge al “sì”,
tutto spinge a una sorta di permissivismo neolibertino, che esclude
dall’orizzonte l’esperienza dell’attesa, l’esperienza della pausa,
l’esperienza del pensiero anche, mi verrebbe da dire, e l’esperienza della
rinuncia… come se ogni rinuncia perdesse di senso?
E questo comporta, anche, la caduta della differenza simbolica tra le
generazioni, per cui ci sono gli adulti che si vestono come i figli, parlano
come i figli, giocano con gli stessi giochi dei figli, magari hanno amanti
dell’età dei loro figli… e la caduta della differenza simbolica destituisce
il genitore della sua autorevolezza simbolica.
Il terzo punto, che è l’effetto che più ci colpisce come clinici nei ragazzi
che traducono più di altri questo disagio, è la caduta del desiderio, cioè
il fatto che se io dovessi dire in modo molto semplice qual è il
denominatore comune che unifica panico, depressione, anoressia,
dipendenze tecnologiche, alcolismo, passaggi agli atti violenti, direi che
esso è proprio la fatica a desiderare. Dove il desiderio non va confuso
col capriccio, ma è quella vocazione che dà senso all’esistenza, e che le
rende possibile impegnarsi in un progetto, quindi a non vivere nelle
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discontinuità aleatorie del godimento capriccioso, ma avere un
baricentro che orienta la vita nel mondo, quindi una passione, quindi,
appunto, una vocazione. Ricordiamo sempre che in Freud, per esempio,
il termine desiderio viene dalla parola tedesca “Wunsch”, che significa
esattamente voto, vocazione. Il desiderio porta con sé una vocazione,
cioè un’attitudine, un’inclinazione… ecco, io penso che l’effetto di quello
che ho appena raccontato nei giovani adolescenti – dei giovani e non
giovani adolescenti, perché abbiamo detto che l’adolescenza
contemporanea tende a protrarsi ben al di là del segmento della crisi
puberale – sia la fatica a desiderare... Come se ci fosse tanto godimento
e poco desiderio.

G. Facciamo vedere una clip, un pezzo di un film sul rapporto tra genitori
e figli. È un film del 2010, Agitare bene prima dell’uso, con Michele
Placido e Margherita Buy nei panni dei genitori e Andrea Facchinetti che
interpreta il figlio. Ascoltiamo.

Padre Io e tre dobbiamo parlare. Tu sei un ragazzo intelligente, però


succede che spesso anche le persone intelligenti sbaglino. Ecco, io
sento il dovere di dirti che stai sbagliando, perché se no non si capisce
come mai un ragazzo come te, al primo anno di università che ha
superato brillantemente tre esami, si debba mettere in fila tutta una
mattinata per fare un provino del cazzo.
Figlio Papà…
Padre Dove non ti prenderanno mai, lo sai benissimo, e se ti prendono
è ancora peggio…
Figlio È un’esperienza che voglio fare!
Padre Ma è una cosa umiliante…
Madre Eh sì, ha ragione papà… Luigi, insomma, è una cosa un po’
umiliante, umiliantina …
Figlio Per me non è umiliante! So ballare, so cantare, comunico, sono
simpatico…
Ho queste doti, ma perché non le devo sfruttare?
Padre Ma lì è il punto, non sono doti, sono cazzate, figlio mio! Ce ne
sono milioni, come te, di ragazzi, in fila, pronti alla scorciatoia…
Figlio Ma 300.000 euro ti sembrano una scorciatoia?
Padre Ma il soldo va guadagnato facendo qualcosa, e non
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scaccolandosi in diretta per tre mesi sopra un divano assieme a un
altro branco di deficienti analfabeti!
Madre Vabbè, però le stesse cose si possono dire con più calma, con
calma…
Sì, sono un gruppo di decerebrati, comunque…
Figlio Addio, addio, sei milioni, sei milioni di italiani guardano il Grande
Fratello, siamo tutti dei coglioni!

G. I genitori vogliono assimilare la vita dei figli, vogliono che seguano i


loro progetti. È anche questo uno dei problemi?

R. Questa clip ci fa vedere due facce della stessa medaglia: la prima


faccia, se stiamo sul lato del figlio, è uno dei grandi miti del nostro
tempo, che è il mito del successo. E il mito del successo implica il fatto
che vi sia un accesso facile al successo stesso. È quello che giustamente
il padre fa notare al figlio.
Il mito del successo è il mito che rende inutile, superflua la rinuncia, la
fatica, la dedizione, la vocazione. E io penso che il mito del successo
individuale sia un grande tema antropologico del nostro tempo che ha
prodotto veramente guasti notevoli.
Dall’altra parte, però, vediamo anche l’impotenza dei genitori a
introdurre una norma educativa, perché la norma educativa – è questo
il cambiamento epocale che noi dobbiamo registrare – non può più
essere trasmessa attraverso la voce grossa del padre, che abbiamo
appena ascoltato, la voce grossa del padre che un tempo avrebbe
ammutolito il figlio e lo avrebbe messo sull’attenti, secondo un modello
militare disciplinare dell’educazione pre 68. Noi non siamo più in questo
tempo, per cui è evidente che c’è una frustrazione nei genitori a
trasmettere la norma educativa, con in più il fatto che – è questo il punto
che tu sottolineavi – spesso i genitori vorrebbero che il figlio
corrispondesse ai propri ideali, e invece il gesto più profondo della
genitorialità è quello di amare il figlio non nonostante non sia in linea
con le nostre attese, le nostre aspirazioni, e anche le nostre
preoccupazioni, ma proprio perché è differente, perché è difforme.
Questa è proprio un’esperienza che io stesso, come genitore, ho fatto,
faccio… Quando guardo i miei figli li vedo così difformi, così differenti da
me… Ma questa differenza non riduce l’amore, ma mostra esattamente
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la profondità dell’amore. Cioè, se fossero come io li immaginavo,
perfettamente coincidenti con l’ideale che io avevo di loro, sarebbe
troppo facile. E invece l’amore genitoriale c’è proprio quando tu dici di
sì alla differenza e alla difformità del figlio.

G. E prima di andare da Massimo Recalcati devono essere genitori, in


sostanza…

R. Però ti ho detto anche che c’è il lato del figlio, perché questo figlio
che dice “Vado al grande Fratello”, beh, fa cadere le braccia… se mio
figlio mi dicesse “La mia aspirazione è andare al Grande Fratello”, mi
cadrebbero le braccia, però mi farei anche qualche domanda su come
mi sono mosso fino a quel momento. È chiaro che può benissimo dire,
come accade, per esempio per fare un riferimento personale, che la
lettura non è proprio la sua priorità nella vita, e che l’investimento che i
miei figli hanno sui libri è molto diverso da quello della mia generazione:
noi mangiavamo i libri! I giovani di oggi hanno un rapporto con la lettura
molto diverso, hanno un investimento libidico sul libro, per esempio,
molto diverso. Ed è sciocco pretendere di imporre il nostro modello ad
un tempo che non è più quello in cui noi vivevamo.

G. Stiamo parlando di disagio giovanile, e tra le cause che tu hai citato


c’è quella della depressione c’è quella della pandemia, che ha causato
maggior disagio nei giovani, ma non solo. Un’ascoltatrice scrive: “Sto
provando sulla mia pelle, a 60 anni, la stessa sensazione che provano i
giovani, soprattutto la paura è costantemente al mio fianco. La nostra
generazione non aveva avuto scosse o traumi, la pandemia,
inconsciamente, ha fatto affiorare ciò che tenevamo ben nascosto.
Questi disagi erano ben nascosti anche nelle persone più mature?

R. La pandemia ci ha insegnato – e questo riguarda anche gli adulti,


appunto – che lo statuto dell’altro, lo statuto del legame sociale è
sempre ambivalente: da una parte noi abbiamo bisogno, necessità
dell’incontro con l’altro, della presenza dell’altro, e dall’altra parte, però,
l’incontro e la presenza dell’altro introducono necessariamente nel
nostro mondo una quota di precarietà, di instabilità. Cioè, la dipendenza

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dall’altro genera fatalmente, il fatto che noi non possiamo più
governare l’altro.
C’ è un episodio che io, non solo io, ma immagino molti, abbiamo vissuto
durante la pandemia, quando nel momento del primo lockdown si
usciva di casa raramente, per portare in giro il cane, per fare la spesa…
a me capitava di portare in giro il nostro cane e di incontrare magari, in
una Milano totalmente deserta, qualcuno che arrivava dall’altra parte
con un altro cane, sullo stesso marciapiede, e la prima spinta era quella
di fermarlo e di parlarci, stabilire un contatto, poi immediatamente
arrivava un pensiero successivo che mi diceva: “No, ma, il contatto è a
rischio”… e quindi cambiavo marciapiede. Ecco, quest’oscillazione tra
l’esigenza del contatto e la paura del contatto appartiene alla
dimensione umana della vita. Siamo fatti così. Da una parte noi
esigiamo il contatto, viviamo di contatti, e dall’altra parte, però, i
contatti, l’incontro, il legame, sono anche fattori di perturbazione.

G. A proposito dell’educazione hai detto prima: bisogna educare i


giovani alla gratitudine. Lo hai detto anche in altre puntate. Allora
Giorgio da Firenze chiede: come si educa alla gratitudine?

R. Se ci ricordiamo la bella clip che abbiamo appena ascoltato – e mi


permetto di dire, così, anche se io stesso sono il primo che commette
errori nell’educazione dei figli – …

G. Ci hai detto in altri momenti che per Freud “Essere genitori è


impossibile”…

R. Esatto, ma detto questo, che cosa secondo me è fuori luogo, in quella


reazione comprensibilissima che io stesso avrei potuto avere, di fronte
al progetto del figlio di fare il “Grande Fratello”? Che i figli di oggi non si
educano attraverso i sermoni, cioè attraverso delle discussioni,
diciamolo pure, attraverso il dialogo. Il sermone, la discussione, anche il
dialogo che oggi sembra essere una parola egemonica, non portano
grandi frutti.
Che cosa, davvero, educa il figlio? È la testimonianza silenziosa del
genitore, che significa testimonianza dell’amore tra il padre e la madre,
testimonianza della dedizione verso un lavoro, della presenza di una
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passione… queste testimonianze silenziose che non passano attraverso
delle retoriche pedagogiche sono dei semi che noi mettiamo nel terreno
del figlio e il germoglio non è detto che sia immediato. Ma se noi
abbiamo seminato il campo, attraverso delle testimonianze
significative, io penso che il germoglio prenderà necessariamente vita,
nel tempo.
La gratitudine può anche non essere immediata. La riconoscenza può
anche non essere immediata. Un figlio può anche non riconoscere
immediatamente che quel gesto, cioè il gesto quotidiano del padre che
si sveglia la mattina, va a lavorare e torna a casa la sera, etc, etc… era
una testimonianza.
Che quel gesto era una testimonianza può essere scoperto molto in là
negli anni. Ma la cosa importante è avere seminato. Ma, ed è una
precisazione, ahimè, che devo fare, anche la semina più generosa, più
ricca non garantisce necessariamente la felicità dei nostri figli.

G. Ci sono alcuni WhatsApp audio. Ascoltiamone due.


- Buongiorno, una domanda per il prof. Recalcati che stimo moltissimo.
Va bene il discorso dell’amore nei confronti dei figli, questo mi è chiaro,
ma in pratica ci può dare proprio alcuni consigli estremamente pratici
che possano essere utili nella conflittualità quotidiana che noi abbiamo
con i figli adolescenti? Tullio da Rieti.
- Buongiorno sono Giancarlo da Lecce. Io vorrei chiedere al signor
Recalcati, quale è il compito dei genitori, se è quello di accompagnare i
figli a commettere errori o è quello di evitare che i figli possano
commettere errori. Grazie
Allora, come evitare la conflittualità e qual è il ruolo dei genitori? In parte
avevi risposto all’ultima domanda.

R. La conflittualità: l’educazione è fatta di conflitti. Non si può pensare


di scansare la conflittualità. Un adolescente ha necessità del conflitto.
Allora, nella misura in cui ha necessità del conflitto l’errore del genitore
sarebbe, da una parte, pretendere che non esistano conflitti, dall’altra
parte rispondere a quella necessità con un braccio di ferro.
Dunque il figlio ha diritto al conflitto, ma è il genitore che ha la possibilità
di sciogliere il conflitto. E in questo senso muro contro muro non porta
mai da nessuna parte e bisogna sorprendere il figlio, non scansando il
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conflitto, ma introducendo nel conflitto un elemento che il figlio non può
prevedere, che è l’elemento, potremmo chiamarlo, del perdono, che è
l’elemento della parola, che è l’elemento del gesto che sorprende il
figlio… questo può farlo un adulto. L’ostinazione del figlio rende molto
difficile dialettizzare il conflitto. Spetta all’adulto, sempre, introdurre un
elemento imprevedibile nella logica ferrea, ostinata che orienta il
conflitto adolescenziale che può aprire un pertugio, che può aprire uno
spiraglio e che può rendere, dunque, possibile il conflitto come dialettica
e non come opposizione, muro contro muro.
Dall’altra parte l’ascoltatore che ha posto quella domanda supporrebbe
di sapere che cos’è il bene, che cos’è il male per il figlio. E invece il primo
gesto del genitore è non sapere cos’è il bene e cos’è il male per un figlio,
perché la misura del bene e del male sono sempre misure singolari, anzi,
una definizione che noi potremo dare di educazione autoritaria è
quell’educazione che presuppone di sapere cosa sia il bene per il figlio.
Fare il bene del figlio spesso ha nascosto le più terribili azioni autoritarie
e repressive. Non c’è una sola misura del bene così come non c’è una
sola misura della felicità. Ciascuno deve costruire una misura singolare
della felicità. Ma è ovvio che l’ascoltatore si poneva il problema di come
noi possiamo scoraggiare delle cattive pratiche, come noi possiamo
scoraggiare il fatto che il figlio prenda una via dissipativa, che faccia del
male a se stesso innanzitutto, perché questo è un grande problema
dell’educazione.
Secondo me il compito del genitore non è tanto quello di dire cos’è bene
e cos’è male, cos’è giusto e cos’è ingiusto, cos’è vero e cos’è sbagliato.
Il compito di un genitore è innanzitutto quello di trasmettere da una
parte il senso della legge (potremmo fare la prossima puntata su
questo), che non è da confondere col rispetto delle regole, perché il
senso della legge fonda il rispetto delle regole.
E dall’altra parte, e questo secondo me è il compito più essenziale della
genitorialità, trasmettere il senso del desiderio. E il senso del desiderio
si acquista, per un figlio, innanzitutto attraverso il rapporto coi genitori,
ma io aggiungerei, e meno male, non solo attraverso il rapporto coi
genitori. La famiglia non esaurisce l’orizzonte del mondo, meno male…
Ci sono incontri che hanno questa potenza di trasmissione del desiderio
che i figli fanno fuori dalla famiglia, nella scuola innanzitutto, ma anche
fuori della scuola. E noi dobbiamo pensare che ciò che dà veramente
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potenza vitale a un figlio è l’incontro con un testimone del desiderio. È
chiaro che se i genitori sono testimoni di desiderio tanto meglio, ma i
figli hanno bisogno di incontrare dei testimoni del desiderio.

G. Un’ ultima puntualizzazione che sintetizza anche tante domande: tu


l’hai accennato, la scuola è l’ultimo baluardo della socializzazione in
questo contesto che ci hai descritto, anche dopo il lockdown, che ci ha
imprigionato nelle nostre case, e ha imprigionato soprattutto i giovani.

R. La scuola ha una funzione fondamentale, decisiva, nel processo di


formazione della vita. Noi ci dimentichiamo questo fatto. I governi si
dimenticano di questo fatto quando per esempio non investono le
risorse necessarie sulla scuola, non gratificano, come dovrebbe invece
essere, lo straordinario lavoro degli insegnanti di cui noi dimentichiamo
molto spesso il valore del dare forma alla vita dei figli. E spesso
confondiamo la scuola con un’azienda e pensiamo che il compito di
questa scuola-azienda sia quello, semplicemente, di trasmettere
informazioni, nozioni, cognizioni. Il compito principale della scuola è
trasmettere il desiderio! Cioè, dare senso alla vita, fare in modo che la
vita si apra ai mondi del sapere, che si apra ai mondi della cultura. È
quello che Pasolini descriveva come un vaccino fondamentale: il
vaccino del desiderio di sapere come desiderio di vita. Ecco, io penso
che la scuola sia una sentinella che deve tenere il suo posto per
consentire a questo desiderio di vita di trasmettersi da una generazione
all’altra.

G. Grazie, buona giornata.

R. Grazie a voi. A presto.

(Trascrizione di Maria Rattà)

Rai Radio1 / Il mondo nuovo


Puntata di martedì 17 gennaio 2023

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