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Libero Gerosa Il Diritto Della Chiesa

Questo documento presenta un indice dei capitoli di un libro sul diritto della Chiesa. I capitoli coprono temi come la fondazione teologica del diritto canonico, le fonti e i metodi del diritto canonico, gli elementi giuridici dell'annuncio della parola, il diritto sacramentale, le forme di associazione dei fedeli e gli organi istituzionali della Chiesa. L'indice fornisce una panoramica dei diversi temi trattati nel libro.
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Libero Gerosa Il Diritto Della Chiesa

Questo documento presenta un indice dei capitoli di un libro sul diritto della Chiesa. I capitoli coprono temi come la fondazione teologica del diritto canonico, le fonti e i metodi del diritto canonico, gli elementi giuridici dell'annuncio della parola, il diritto sacramentale, le forme di associazione dei fedeli e gli organi istituzionali della Chiesa. L'indice fornisce una panoramica dei diversi temi trattati nel libro.
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LIBERO GEROSA

IL DIRITTO DELLA CHIESA

INDICE

Prefazionedel cardinale arcivescovo Antonio MunaRouco Varela

Introduzione

CAPITOLO I
LA FONDAMENTAZIONE TEOLOGICA
DEL DIRITTO CANONICO
L'esperienza del diritto nella comunione ecclesiale
1.1 L'ambivalenza dell'esperienza del diritto
1.2 L'influenza dello spiritualismo ecclesiologico e del
positivismo giuridico
sulla concezione del diritto ecclesiale
1.3 La necessità di un dialogo critico con la filosofia del
diritto

2 I principali tentativi di fondazione teologica del


Diritto canonico
2.1 La prospettiva aperta dalla scienza giuridica protestante
2.2 Diritto canonico e giustificazione nella teologia cattolica
a) La grazia come fondamento del diritto canonico (G.
Söhngen)
b) L'escatologia come elemento costitutivo del carattere
giuridico della Chiesa (K. Rahner)
c) Il Diritto canonico come funzione del concetto di Chiesa
(H. Barion)
2.3 Le nuove vie metodologiche del Diritto canonico
a) La categoria biblica del «Regnum Christi» (G. Phillips)
b) Il concetto di «ordinamento giuridico primario»
(Canonistica laica italiana)
c) La categoria ecclesiologica di «Popolo di Dio»
(Scuola di Navarra)
d) Il Diritto canonico come conseguenza metafisica del
principio dell'incarnazione
(W. Bertrams)
e) Il diritto canonico come necessità sociologica (P.
Huizing)
f) Parola e Sacramento come elementi fondamentali di
struttura giuridica della Chiesa
(K. Mörsdorf)

3. Sviluppi sistematici della fondazione teologica del


Diritto canonico
alla luce del concilio Vaticano II
3.1 Principi di legittimazione di un diritto ecclesiale
Comunità ecclesiale
Libertà religiosa
c) Vincolo nella fede
3.2 Fonti della struttura giuridica della Chiesa come
communione
a) I principali elementi della nozione conciliare di Chiesa e
il suo significato
per il Diritto canonico
b) Parola e Sacramento nell'edificazione della comunione
ecclesiale
c) Il ruolo eclesiologico-costituzionale del «Charisma»
d) Carisma, persona e comunità
3.3 Conclusione: «communio Ecclesiae» e Diritto canonico
Bibliografia

CAPITOLO SECONDO
FONTI, METODO E STRUMENTI
DEL DIRITTO CANONICO
4. Fonti e formazione del Diritto canonico
4.1 Le fonti del Diritto canonico
a) Fonti materiali e unità del Diritto canonico
b) Le principali collezioni di leggi ecclesiastiche
4.2 Le moderne codificazioni canoniche
a) La codificazione del 1917
b) La codificazione del 1983 (CIC)
c) Il Codice per le Chiese Cattoliche Orientali (CCEO).

5. La canonistica come scienza


5.1 Le principali fasi della formazione della canonistica
a) La canonistica classica
b) Il «Ius Publicum Ecclesiasticum» (IPE)
5.2 Il metodo canonistico
a) Il dibattito sul metodo scientifico nella canonistica
postconciliare
b) La via verso una nuova definizione di legge canonica
c) Gli elementi essenziali, interni ed esterni, della «lex
canonica

6 Peculiarità e strumenti tipici del diritto della Chiesa.


6.1 Pluralità nell'unità e legge canonica
a) «Sensus fidei», «consuetudo» e «aequitas canonica» nel
diritto ecclesiale
b) Conseguenze per l'applicazione e l'interpretazione delle
leggi canoniche
6.2 Gli atti amministrativi nel Diritto canonico
a) Decreto e precetto particolare
b) Rescritto, privilegio e dispensa
6.3 Altri strumenti tecnico-giuridici
Bibliografia

CAPITOLO TERZO
GLI ELEMENTI GIURIDICI
DELL'ANNUNCIO DELLA PAROLA
7.Annuncio e magistero
7.1. L'annuncio e il suo soggetto unitario
7.2 Le forme dell'annuncio
a) La predicazione liturgica
b) La catechesi
c) Il problema della predicazione dei laici
d) La forza aggregativa della Parola autorizzata
7.3 Magistero ecclesiastico e gradi nel assenso di fede
a) Natura e finalità del magistero ecclesiastico
b) I diversi gradi di responsabilità e di assenso
di fe

8. Missione, educazione ed ecumenismo


8.1.Le norme del Codice riguardo l'attività missionaria
8.2 Le norme del Codice riguardo l'attività educativa
8.3.Diritto canonico ed ecumenismo
9. La tutela giuridica della comunione ecclesiale
9.1 Alcuni strumenti giuridici per la difesa di
integrità della fede
a) Professione di fede e giuramento di fedeltà
b) «Nihil obstat», «mandatum» e «missio canonica»
c) Censura ecclesiastica e procedure di esame della
insegnamento nella teologia
9.2 I procedimenti canonici
a) La finalità simile dei processi-tipo nella Chiesa
b) La natura dichiarativa della sentenza canonica
c) La inadeguata distinzione tra procedimenti canonici
giudiziali e amministrativi
d) La struttura di base delle procedure canoniche
Bibliografia

CAPITOLO QUARTO
IL DIRITTO SACRAMENTALE
10. Il concetto di sacramento nel Diritto canonico
10.1. La dottrina sui sacramenti del Concilio Vaticano
II e la sua ricezione nel CIC
10.2. La giuridicità intrinseca dei sacramenti e i
cannoni introduttivi
alla normativa del Codice sui sacramenti
10.3. Il diritto ai sacramenti e alla comunione ecclesiale

11. La eucaristia
11.1 L'eucaristia nel concilio Vaticano II
"Comunion eucaristica" e "comunione della Chiesa"
b) Sacerdotio cristiano e comunità eucaristiche
11.2. Le norme del Codice sulla eucaristia
a) Il ruolo giuridico-costituzionale dell'eucaristia
b) La celebrazione eucaristica
11.3. Questioni particolari
a) La partecipazione dei cristiani non cattolici nella
eucaristia
b) Divorziati nuovamente sposati eucaristia
11.4. Eucaristia, comunione dei beni e diritto patrimoniale
canonico
a) Gli stipendi per la santa messa
b) Principi generali del diritto patrimoniale canonico
12. Il battesimo
12.1. Il battesimo nel concilio Vaticano II e nel CIC
a) L'insegnamento conciliare
b) Le norme canoniche fondamentali
c) Le altre norme del Codice
d) La possibilità di rinviare il battesimo dei
bambini.
e) La validità del battesimo in altre Chiese cristiane e
comunità ecclesiali
12.2. Questioni di tipo costituzionale
a) Settori religiosi e comunità ecclesiali
b) Diritti e doveri del «Christifidelis»

La conferma
13.1. La conferma nel concilio Vaticano II e nel CIC
a) L'insegnamento conciliare
b) Le principali norme del Codice
c) La conferma come requisito preliminare per
determinate atti giuridici
13.2. Questioni di tipo costituzionale
a) L'accoglienza dei battezzati non cattolici nella pienezza
comunione della Chiesa
b) I diritti e i doveri dei laici

14. La penitencia
14.1. La struttura teologico-giuridica del sacramento
a) La dottrina del concilio Vaticano II
b) Le principali norme del Codice
14.2. Questioni particolari
a) L'assoluzione generale
b) La facoltà di ricevere le confessioni dei fedeli
c) Sigillo sacramentale e altri doveri del confessore
14.3. Penitenza e sanzioni canoniche
a) Sacramento della penitenza e remissione di una
sanzione canonica
b) Natura e applicabilità delle sanzioni canoniche
14.4. Le procedure per la dichiarazione o l’irrogazione di
una sanzione canonica
a) La ricerca preliminare e la scelta della via giudiziaria o la
amministrativa
b) La base comune di entrambi i procedimenti

15.L'unzionedi Iosmalati
15.1. La struttura teologico-giuridica del sacramento
a) L'insegnamento del concilio Vaticano II
b) Le norme del Codice
15.2. Questioni particolari
a) Il significato costituzionale dell'unzione dei
malati
b) I sacramentali
c) Le esequie ecclesiastiche

16. L'ordinesacro
16.1. La struttura teologico-giuridica del sacramento
a) La dottrina del concilio Vaticano II
b) Le norme del Codice
16.2. L'ordine sacro nella «communio fidelium»
a) Ordine sacro e stato di vita clericale
b) Ordine sacro e ufficio ecclesiastico
16.3. La «sacrapotestas»: una natura e i suoi
forme di esercizio
a) L'insegnamento del concilio Vaticano II sulla unità e
l'originalità di
la «sacra potestas»
b) La ricezione contraddittoria della nozione conciliare di
«sacra potestas» nel nuovo
Codice di Diritto Canonico
c) «Communio» e esercizio della «potestas regiminis»

17.Il matrimonio
17.1. La dottrina cattolica sul matrimonio alla luce del
Concilio Vaticano II
a) Il matrimonio come alleanza e la sua dimensione religiosa
b) Il sacramento del matrimonio e la sua dimensione ecclesiale
c) Principali conseguenze per il diritto matrimoniale
canonico
17.2. La configurazione giuridica del matrimonio-sacramento
a) Il diritto al matrimonio
b) Gli impedimenti matrimoniali
c) Il consenso matrimoniale
d) La forma canonica del matrimonio
e) Effetti del matrimonio e vie per la sua convalida
17.3. I matrimoni misti
a) Il matrimonio tra cattolici e battezzati di un'altra
confessione cristiana
b) Il matrimonio tra cattolici e non battezzati
17.4. Le procedure matrimoniali
a) I procedimenti canonici per dichiarare la nullità
del matrimonio
b) I procedimenti canonici per la dissoluzione del
vincolo matrimoniale
Bibliografia

CAPITOLO QUINTO
CARISMA E MODI DI AGGREGAZIONE
FIDELIUM
18. Fondamenti teologici e criteri di distinzione
18.1. Il carattere costituzionale delle diverse forme
de«aggregazioni dei fedeli»
18.2. Eucaristia e carisma come criteri ultimi di
distinzione tra forme di
associazione «istituzionali» e «carismatiche» nella
Chiesa

19. Le diverse forme di associazioni ecclesiali


di natura prevalentemente carismatica
19.1. Le associazioni di fedeli
a) Il diritto costituzionale di ogni fedele di associarsi
liberamente
b) Tipologia del Codice e norme generali
c) La doppia dipendenza del «De christifidelium
consociazione» riguardo
al diritto statale delle associazioni
19.2. Gli istituti di vita consacrata
a) Tipologia del Codice e norme generali
b) Istituti religiosi, istituti secolari e società di
vita apostolica
Bibliografia

CAPITOLO SESTO
GLI ORGANI ISTITUZIONALI DELLA
CHIESA
20. Alcune nozioni teologico-giuridiche fondamentali
20.1. Sinodalità e corresponsabilità come espressioni
istituzionali
tipiche della comunione ecclesiale
a) Precisazioni terminologiche preliminari
b) Rappresentanza, voto deliberativo e voto consultivo nella
Chiesa
c) Persone giuridiche collegiali e non collegiali
20.2. I ministeri ecclesiastici
a) La nuova nozione di ufficio ecclesiastico del Codice
b) Colazione e perdita di un ufficio ecclesiastico

21. Gli organi istituzionali, e in particolare di governo, in


la «comunione della Chiesa e delle Chiese»
21.1. Gli organi istituzionali della Chiesa universale
a) Il Collegio episcopale e il Papa
b) Concilio ecumenico
c) Sinodo dei vescovi
d) Collegio cardinalizio, curia romana e legati del
Romano Pontefice
21.2. Gli organi istituzionali della Chiesa particolare
a) Chiesa particolare e diocesi
b) Vescovo e presbitero
c) Sínodo diocesano, consiglio pastorale e consiglio
presbiterale
d) Collegio dei consulenti e capitolo cattedrale
e) Curia diocesana e organi rappresentativi del vescovo
f) Parrocchia e parroco
21.3. Gli organi istituzionali delle riunificazioni di
Chiese particolari
a) Provincia ecclesiastica, metropolitano e concilio
provinciale
b) Regione ecclesiastica, concilio plenaria e conferenza
episcopale

22. Brevi considerazioni conclusive

Bibliografia

NOTA FINALE
PREFACIO

Nonostante la sua posizione centrale come una delle materie teologiche


principali (Art. 51 n. 16 delle Ordinazioni della Sapientia
Il diritto canonico rimane una disciplina di cui
temi e problemi non preoccupano solo i teologi. Inoltre di
questo, esiste dal concilio Vaticano II una comprensione
riduzionista, molto diffusa tra i credenti e, addirittura, tra i
coltivatori delle scienze teologiche e pastorali come se fosse una
dimensione positivista e sociologica e meramente esterna per la vita
della Chiesa. Dietro a questo si trova l'impressione non provata di
un hiato insalvabile tra l'esperienza del diritto da una parte e la
esperienza della fede nella Chiesa di oggi per un'altra. Il concetto chiave
la comunione delle Chiese implica al contrario una realtà
strutturale e umana in cui si incarni con la sua forza unificatrice,
una dimensione teologica, vale a dire, la grazia concessa attraverso la
parola e il sacramento avallati dalla successione apostolica, perciò
il diritto canonico non è solo fondato antropologicamente e
sociologicamente ma anche teologicamente.

Il pensiero di base che ispira il presente manuale è proprio


la convinzione che tutto il diritto canonico, sia come struttura
interna della comunità ecclesiastica così come nel senso di
una scienza con la propria epistemologia e metodologia, si conforma e
si chiarisce a partire dagli elementi originali della Chiesa così come
lo comprende l'autore: parola, sacramento, successione apostolica e
carisma. Con questa concezione è d'accordo anche Von Balthasar
secondo cui il diritto canonico ha come comunità nella Chiesa
la funzione di garantirle che lei è e continua a essere la comunità in
l'amore: Comunità di quell'amore il cui origine è Gesù Cristo e che si
dà agli uomini per mezzo dello Spirito Santo. Su questa base l'autore
riesce a offrirci un'interpretazione globale e conseguentemente
teologica del diritto canonico, svolgendo in questo una funzione che
è stata coperta da nessun altro dei manuali in uso. Il
punto di partenza sistematico scelto per questo libro, lo distingue già
netamente degli altri compendi e commenti apparsi nei
ultimi anni, facendo intendere nella sua stessa struttura esterna questa
lettura teologica integrale del diritto canonico come dimensione viva e
realtà attuale della Chiesa.
In questo lavoro, che vuole essere un aiuto per gli studenti, si
riflette anche il crescente legame dell'autore con il lavoro
interdisciplinare nel contesto del modo di pensare di Amateca. Il
tratto costante con esperti di altre discipline teologiche e di origine
culturale molto diverso ci fa conoscere che anche il diritto
canónico bisogna insegnarlo in modo che «appaia chiaramente la
unità di tutta la lezione teologica dalle radici interne di ogni
tema, in modo che tutte le materie siano orientate verso un
conoscenza intensiva della conoscenza di Cristo» (Sapienza
CHRISTIANA 67, 2). Dietro tutto questo non è difficile indovinare che sta
agendo la convinzione di J. Ratzinger che nel contesto di
teologia richiede un dialogo costante, ovvero un prescindere da ciò
anticuato e in surplus per far sì che la «nobiles forma», cioè, lo
realmente essenziale, appaia. Solo così si può fare di nuovo
fruttuoso e mantenere viva la relazione tra esperienza di fede e
esperienza del diritto ecclesiale. A questo scopo può essere molto utile e
utile questo manuale.

Antonio MunRouco Varela


Cardinale-Arciprete di Madrid
INTRODUZIONE
I Padri del concilio Vaticano II non hanno dubbi sul posto che
corrisponde alla scienza canonica nel contesto degli studi
teologici e affermano, in modo chiaro, che «nella esposizione del
Il 'diritto canonico' deve avere 'presente il mistero della Chiesa,'
secondo la costituzione dogmatica De Ecclesia, promulgata da questo
Concilio» (OT 16, 4). Da questa presa di posizione, chiara e decisiva, ha
surgida una profonda rinnovazione epistemologica e metodologica della
disciplina, che ha implicato un po' tutte le diverse scuole di
la scienza canonica postconciliare, sebbene in questo campo ci sia bisogno di
riconoscergli la primazia, senza discussione, alla cosiddetta «Scuola di
Monaco». Meno rilevante risulta, tuttavia, lo sforzo
sviluppato dalla canonistica per rinnovare altresì, su questi
nuove basi teologiche, i loro strumenti pedagogico-didattici.

La consapevolezza dell'importanza e del carattere ineludibile di questo


il lavoro mi ha sostenuto, costantemente, nella fatica che mi
produrre la redazione di questo manuale. L'intuizione originaria e originale
quello che lo ispira è la convinzione che tutto il Diritto canonico, sia
come realtà strutturale intrinseca della comunione ecclesiale, come in
quanto scienza con la propria epistemologia e metodologia, è
informato in ultima istanza, e per questo si può spiegare, a partire da
tre elementi primordiali della Costituzione della Chiesa: Parola,
sacramento e carisma. Per quanto riguarda queste intuizioni io
riconosco debitore di Eugenio Corecco, mio maestro nel campo
scientifico. Per questa ragione, e con pieno diritto, figura come autore di
questo libro insieme a chi scrive, che si è occupato totalmente della
redazione, lasciandosi guidare—passo dopo passo—dal desiderio di verificare
in modo critico, attraverso la propria ricerca personale e del suo
attività didattica, la validità e fecondità scientifica dell'intuizione del
maestro1.

Questo strumento di studio, utilizzabile in diverse culture


linguistiche ed ecclesiastiche, riflette inoltre la progressiva familiarità del
direzione scientifica di AMATECA con il lavoro interdisciplinare. La
costante relazione con tanti specialisti di altre discipline
teologiche, di diversa estrazione culturale ed ecclesiale, mi ha facilitato,
in effetti, la comprensione di come tutte le scienze teologiche
particolari e, di conseguenza, anche il diritto canonico, «devono
essere insegnate in modo tale che, in virtù delle ragioni interne del
proprio oggetto di ognuna di esse e in connessione con le altre
discipline della Facoltà, sia filosofiche che antropologiche,
risulta ben chiara l'unità di tutta l'insegnamento teologico, e tutta la
le discipline convergono verso la conoscenza intima del mistero di
Cristo, affinché in questo modo sia annunciato con maggiore efficacia al
Popolo di Dio e a tutte le genti2Questa convergenza non offusca
ma mette in evidenza la complementarietà del presente
manual riguardo ai numerosi compendi e commenti del
Codice di Diritto Canonico pubblicato negli ultimi dieci anni
in diverse lingue. La sua più rigorosa consonanza con lo strumento
di studio, recentemente preparato da P. Krämer per uso interno
nell'area culturale e linguistica germanica3, non diminuisce in modo
alcuni sulla sua utilità e la sua specificità. In effetti, nel presente Manuale
si è dato soprattutto molto più spazio alla fundamentazione
teologica del Diritto canonico e allo studio della sua metodologia
scientifica, poiché questi sono stati i campi in cui si è mostrato di più
incisiva la contribuzione di E. Corecco, e perché ancora sono
eccessivamente poco conosciuti al di fuori delle facoltà teologiche
tedesche. D'altra parte, studiamo anche qui settori del
diritto della Chiesa (come il diritto processuale e il diritto
patrimoniale, per esempio) che non sono trattati, esplicitamente, nel
manuale di Krämer. Alcune questioni particolari (come le
relative alle sanzioni canoniche o alla sinodalità, per esempio)
sono trattate in modo più ampio e dettagliato, sebbene da una
prospettiva in parte diversa.

Infine, in conformità con il principio sistematico e con le


fonti ispiratrici, che, al di sopra delle differenze di
sensibilità e specializzazione, uniscono gli autori di ciascuno
volume di questa collezione, non posso fare a meno di dire che in questo
manual mi sono riferito idealmente anche alla monumentale opera di
Hans Urs von Balthasar, secondo il quale la funzione del Diritto
canonica nella Chiesa come communio è garantire alla stessa il suo
proprio essere e rimanere «comunità dell'amore»4, di quel amore
mostrato agli uomini da Gesù Cristo e dato a loro dallo Spirito
Santo.

Libero Cerosa

1. Questa ultima, che è andata maturando in modo progressivo nel corso di


tutta la produzione canonistica di E. Corecco si espresse in un primo
bozza di lavoro per questo manuale nella primavera del 1989, durante
una settimana di lavoro comune a San Bartolomeo al Mare, Liguria
(Italia).
2. Giovanni Paolo II, CA Sapientia christiana (15 aprile 1979), Art. 67 § 2, in:
AAS 71 (1979), 469-499.
3. Cfr. P. Krämer, Diritto ecclesiastico 1. Parola-Sacramento-Carisma, Stoccarda-
Berlino-Colonia 1992 e Idem, Diritto ecclesiastico 11. Chiesa locale-
Gesamtkirche, Stoccarda-Berlino-Colonia 1993.
4. Nel dare questa definizione, nel suo breve ma incisivo paragrafo sul
diritto canonico, H.U. von Balthasar (cfr. Teologica, III, Milano)
1992, 281-285) cita nella nota 93 una formula poco conosciuta, ma che
racchiude una grande forza programmatica, perché è stata scritta
immediatamente dopo il Concilio Vaticano II e molto prima della
promulgazione del nuovo Codice della Chiesa cattolica latina. Dice così:
«Il diritto della Chiesa è il custode della comunione!»
(B.P.Dupuy, Spirito Santo e antropologia cristiana, in: Chiesa e
Esprit. Atti del Simposio organizzato dall'Accademia internazionale di
scienze religiose, Parigi 1969, 326).

1. L'esperienza del diritto nella comunione ecclesiale

Per quanto liberatorio possa essere appartenere a una comunità


ecclesiale, la reazione normale del fedele di fronte al Diritto canonico è, in
alcuni aspetti, simile a quello del cittadino di fronte al diritto
statale.

L'esperienza fenomenologica comune del diritto si caratterizza, in


su sostanza, per due percezioni diverse e contrastanti. La
la percezione del diritto non è univoca nella Chiesa e presenta,
almeno dalla prospettiva fenomenologica, non poche analogie
con l'esperienza comune e ambivalente del diritto di qualsiasi
società umana.

1.1 L'ambivalenza dell'esperienza del diritto

In effetti, da una parte, il cittadino e l'uomo in generale


percepire il diritto come una realtà esterna, come espressione
umana di una volontà eteronoma, che limita la libertà e la
autonomia della persona. Il diritto è considerato come la
manifestazione concreta della forza coercitiva di un sistema di potere
organizzato o addirittura come espressione dell'arbitrio del più forte.
Di conseguenza, il diritto appare come una realtà che può
essere manipolata, determinata dall’ideologia di chi la ha nei suoi
manos il potere, quando non come un insieme non unitario di norme
eterogenee e frequentemente antinomiche.

D'altra parte, lo stesso diritto si rivela all'uomo come un


strumento indispensabile per garantire, precisamente attraverso la
imposizione di determinati limiti alla libertà individuale, l'ordine e
la pace nella convivenza civile. Da questa seconda prospettiva il
il diritto si manifesta all'uomo come un fattore sociale fondamentale
importanza, che consente all'individuo e alla collettività di pianificare, di
modo fiducioso, il suo futuro civile. Questo è ciò che rende la legge essere
coltivata come elemento di equilibrio e come espressione umana di
una giustizia superiore, che trascende gli interessi individuali.

La sovrapposizione delle due visioni, negativa la prima e positiva la seconda


secondo, spiega il motivo per cui l'esperienza fenomenologica del
il diritto può essere definito come paradossale.

La situazione del christifidelis di fronte al Diritto canonico è in alcuni


aspetti simili e, per questo, anch'essi paradossali.

Anche nella Chiesa l'esperienza del diritto ecclesiale si presenta,


prima di tutto, come negativa: la confessione della fede in Cristo,
Redentore dell'uomo, che costituisce una forte provocazione alla
la libertà personale è limitata nelle sue manifestazioni concrete da
la norma canonica; così, anche il diritto divino, che trova in
profecia e nel carisma, due espressioni particolari, si può affermare
storicamente tutta la sua forza vincolante solo attraverso la
interpretazione e dell'espressione positiva che conferisce il diritto
umano. Al contrario, l'esperienza positiva è meno immediata
del diritto canonico come insieme di norme che garantiscono la
permanenza dell'identità della Chiesa e l'unità del simbolo di
fede, inseparabili dall'azione dello Spirito Santo, attraverso la tutela
della verità sostanziale del Sacramento e della Parola di Dio.

Il diritto canonico garantisce l'oggettività e la verità di


esperienza ecclesiale, perché, attraverso la tutela del valore
indispensabile della fedeltà alla comunione per la realizzazione della
La Chiesa educa ogni fedele, affinché superi la tentazione del
individualismo, e alle Chiese particolari, affinché superino la
tentazione parallela del particolarismo. Questo dato effettivo, che
costituisce l'essenza del carattere positivo del Diritto canonico, non è
captato, tuttavia, in modo immediato, né riconosciuto come tale da
il fedele.
In questo modo, la preminenza, almeno a livello fenomenologico-
esistenziale, degli aspetti negativi dell'esperienza paradossale del
Il diritto canonico ha frequentemente provocato, sin dagli inizi
della Chiesa, l'apparizione di molti movimenti spiritualisti.
Questi, esasperando la tensione tra caritas e ius, così come le
tensioni tra il contingente e il trascendente, tra il particolare e
lo universale, tra lo storico e lo escatologico e, infine, tra lo
istituzionale e carismatico, hanno anticipato, per quanto riguarda il loro
sostanza, i conflitti che esplosero poi con la Riforma
protestante e cristallizzarono nella contrapposizione stabilita da Lutero,
a livello soteriologico, tra legge ed evangelio, contrapposizione che, nel
postconcilio, è tornato a apparire nel campo cattolico sotto forma di
di una manifesta dicotomia tra Diritto canonico e sacramento,
così come tra strutture giuridiche e pastorali.

1.2 L'influenza dello spiritualismo ecclesiologico e del


positivismo giuridico sulla concezione del diritto ecclesiale

La contrapposizione tra legge ed evangelio, che ha la sua origine in


implacabile dualismo eclesiologico entrecclesia abscondita o
spiritualis e ecclesia universalis o visibilis, impedisce alla teologia
protestante riconoscere al Diritto canonico—considerato da
generale come un elemento umano di cui la realtà ecclesiale non
può prescindere del tutto—qualsiasi valore salvifico.

Ancora di più, avendo espulso Lutero il Diritto canonico dal


contenuto della fede per aver negato ogni legame tra l'elemento
giuridico della Chiesa e il dogma, la problematica aperta intorno a
questa dimensione dell'esperienza cristiana è finita per sfociare, in
attraverso la riscoperta delle proprie origini e della consapevolezza
ecclesiale suscitata dal romanticismo nel protestantesimo tedesco, in
La negazione radicale di R. Sohm: «La fragilità della fede umana ha
creduto di poter garantire la permanenza della Chiesa di Cristo per
mezzi umani con le colonne e le travi di legno di un
ordinamento giuridico umano... Il Diritto canonico si è dimostrato
così ovunque come un attacco all'essenza spirituale della Chiesa...
La natura della Chiesa è spirituale, quella del diritto è mondana.
La natura del Diritto canonico è in contraddizione con la
natura della Chiesa1Seguendo la stessa scia, anche se molto
Più tardi, anche il diritto sarà caratterizzato in modo analogo.
della Chiesa nel campo cattolico. In effetti, già prima della sua opzione
per la Chiesa evangelica, Joseph Klein definì il Diritto canonico
come una «realtà esterna» alla Chiesa, contrariamente alla liturgia2.
In quanto tale, costituisce una minaccia per la libertà di fede.
1.R. Sohm, Diritto ecclesiastico, 1. Le basi storiche, Lipsia
1892 (19232, Neudruck: Darmstadt 1970), 700.
2.Cfr. J.Klein,Skandalon. Uni das Wessen des
Cattolicesimo, Tubinga 1958, 194 e 119.

Nel campo protestante, la reazione a una sfida così radicale fu


immediata. In un primo momento, K. Barth, invertendo la formula
luterana «legge e vangelo», cerca di riportare al diritto, tanto il
secolare come il canonico, al contenuto della fede come elemento
proposto e giudicato dalla Rivelazione. Tuttavia, il tentativo risulta
insoddisfacente a causa della sua avversione al diritto naturale e a
filosofia, che impediscono a Barth di coniugare, come avveniva nella cultura
medievale, il diritto divino con il naturale e umano. In effetti, questo
l'ultimo rimane una realtà puramente umana, riguardo a
che il diritto divino è totalmente trascendente. Né anche i
tentativi più recenti, come quelli di E. Wolf e H. Dombois (che saranno
ripresi ancora dopo), risolvono il problema. Effettivamente, in
questo il diritto divino costituisce solo un'idea (nel senso
platónico del termine) rispetto all'umano, che si struttura con la
aiuto esterno dell'insegnamento biblico (biblische Weisung) di origine
calvinista e, di conseguenza, si limitano, di fatto, a spostare
semplicemente il dualismo di Lutero dal piano ecclesiologico a quello giuridico,
lasciandolo, tuttavia, inalterato nella sua sostanza. La ragione ultima
da ciò risiede nel fatto che questi tentativi, sebbene presentino il
grande merito di affrontare il problema da un punto di vista
declaratamente teologico, sono debitori tutti loro—anche se in
tempi e modi diversi—di un doppio errore di metodo. Oggi, come
ieri è successo con Sohm, questa doppia inconsapevolezza metodologica è
risultato di un spiritualismo ecclesiologico e di un positivismo
giuridico3.

L' spiritualismo ecclesiologico, che concepisce la Chiesa essenzialmente


come opera esclusiva dello Spirito Santo, impedisce che questi tentativi di
teologia del Diritto canonico raggiungono risultati convincenti,
perché li tiene rinchiusi, inesorabilmente, nella visione
protestante del diritto divino. Quest'ultimo, da Lutero fino a
i nostri giorni, è inteso «... in un senso così spiritualizzato, che
non si vede come possa essere vincolante per la chiesa storica. La
la teologia protestante non riesce a stabilire una relazione vincolante
tra la chiesa e il cristiano, ma solo una relazione diretta tra Dio e
la coscienza dell'uomo4In effetti, il diritto canonico, già nel
visione di Lutero, che riconosce alius divinumde laecclesia
spiritualità una forza soteriologica, nella sua funzione di principio d'ordine
di
3. È il giudizio concorde di A. Rouco Varela-E. Corecco, Sacramento e
diritto: antinomia nella Chiesa?, Milano 1971, 16.
4.E. Corecco, Teologia del Diritto canonico, in: Nuovo Dizionario di
Teologia, II, Madrid 1982, 1828-1870, qui 1852.

la chiesa visibile, continua a essere, inesorabilmente, diritto umano e,


come tale, incapace di vincolare alla coscienza del cristiano: il Diritto
il canone è richiesto unicamente in virtù di ragioni dettate dalla
necessità sociologica di regolare la vita comunitaria dei cristiani,
come se fossero semplici cittadini e non membri vivi del corpo
mistico che è la Chiesa.

Il positivismo giuridico, per il quale non esiste altro diritto se non il


concebuto, univocamente, dall'esperienza giuridica dello Stato,
impedisce, da parte sua, che questi tentativi si liberino, a livello scientifico, da
la concezione monista del diritto e, perciò, che rivendichino, non
solo in astratto, l'autonomia della Chiesa rispetto allo Stato, ma che
la concretezza in un'autonomia del Diritto canonico rispetto al
estatal. Senza la convinzione del fatto che il Diritto canonico non è
assimilabile al diritto secolare, ma, nonostante ciò, è un
diritti sui generis, qualsiasi tentativo teorico di ridare una
la legittimazione teologica del Diritto canonico è destinata a lasciare senza
una risposta convincente alla domanda fondamentale: ha bisogno di
Chiesa, in virtù delle esigenze interne del suo essere teologico e del suo
missione salvifica, reale e necessariamente il Diritto canonico?

1.3 La necessità di un dialogo critico con la filosofia del diritto

Il doppio errore di metodo indicato nel paragrafo precedente non è


esclusivo, certamente, della teologia protestante. Anche nel
tradizione cattolica – caratterizzata da una profonda unità tra
5
l'analogia della fede e l'analogia dell'essere– si sono fatti, e possibilmente
ancora oggi si continuano a fare ampie concessioni sia al
spiritualismo teologico come al positivismo giuridico. Di fatto,
anche se la canonistica cattolica non ha mai cessato di affermarsi
come scienza autonoma nelle confrontazioni con il diritto statale,
mai è riuscito a dare una definizione teologica del suo
proprio oggetto formale che. Sebbene la canonistica moderna, come la
medievale, definisce ancora il Diritto canonico ricorrendo alla categoria
di loistumo delobjectum virtutis iustitiae, nelle teorie generali
dei secoli XIX e XX, elaborate dalle scuole canonistiche più
autorizzate (da quella del Diritto Pubblico Ecclesiastico alle
scuola laica italiana e scuola di Nava
5. Su come già per santo Tommaso la prima analogia contiene la
seconda come suo elemento fondamentale, cfr.H.U. von Balthasar,La
teologia di Karl Barth, Milano 1985, 278; sulla importanza di questa
caratteristica per chiarire la relazione tra filosofia e teologia, cfr. G.
Söhngen, La saggezza della teologia per il cammino della scienza, in:
Mio Sal, 1/2, Madrid 1969, 995-1070,

rra), torna sempre a comparire, anche se con vestiti molto diversi,


il principio iusnaturalistaubi societas ibi ius. Questo ultimo, data la sua
procedenza teologica, è incapace di facilitare da solo una
comprensione teologica specifica del diritto ecclesiale. D'altra parte,
precisamente perché la fede non rappresenta una minaccia né per la ragione né
per la filosofia, ma anzi, le difende dalla pretesa
absolutista della gnosi6, la teologia del Diritto canonico non può
dimenticare la filosofia del diritto. L'una ha bisogno dell'altra e viceversa.
Questo significa che la canonistica come scienza deve ricorrere al
variadousus filosofiae della teologia, senza considerarla, tuttavia,
come sovrintendono al tentativo di legittimare l'esistenza di un diritto
nella Chiesa. Tale debolezza si aggraverebbe ulteriormente lì
dove, sotto l'influenza del clima antigiuridico del immediato
postconcilio, si considera che si possa risolvere la questione
sostituendo semplicemente la filosofia con la sociologia. In quest'ultimo
caso si termina per ridurre il Diritto canonico a un solo elemento
estrinseco, perché è richiesto esclusivamente da un'esigenza di
funzionamento o di convivenza sociale o ecclesiale.

Se si vuole evitare, da una parte, qualsiasi soluzione di tipo


iusnaturalista e, dall'altra, ridurre il diritto della Chiesa a un semplice
regolamento o Codice della circolazione della sua azione pastorale7, es
è necessario che la teologia del Diritto canonico eviti di scindere il mistero
della Chiesa in un elemento interno, di natura teologica, e un altro
esterno, di natura giuridica, per recuperare, con l'aiuto di
filosofia, il complesso carattere unitario, strutturale ed etico della realtà
ecclesiale. La teologia del Diritto canonico, in dialogo critico con la
filosofia del diritto, deve dimostrare che la dimensione giuridica—nella
quanto tal—è già presente negli elementi strutturali su i
che Cristo ha voluto fondare la Chiesa; oppure che il precetto giuridico
è già contenuto negli elementi strutturali dell'economia di
Salvezza, senza per questo perdere nulla del suo carattere giuridico.

Detto in un altro modo, la natura teologica e il carattere giuridico del


Il diritto canonico sono inseparabili l'uno dall'altro. Se il primo fonda
la specificità inalienabile del diritto della Chiesa (espressa, per
esempio, nel ruolo della consuetudine nella formulazione della norma
giuridica, o dell'equità canonica nella realizzazione della giustizia), il
secondo permette cap-

6.Cfr.J. Ratzinger,Natura e compito della teologia,Milano 1993, 30-31.


7.Sul carattere teologico-pastorale del diritto canonico, cfr.L.
Gerosa, Diritto ecclesiale e pastorale, Torino 1991, soprattutto 3-8.

tar come, in qualsiasi espressione sussistono elementi che ricordano


la peculiarità di tale diritto (l'ordine tra le relazioni umane
in una comunità o l'interazione tra libertà e legami, per
esempio), i quali sono comuni a qualsiasi nozione di diritto.

Il dialogo tra la teologia del diritto canonico e la filosofia del


il diritto consente, di conseguenza, alla canonistica di evitare con maggiore
facilità, da un lato, il così detto pericolo della «giuridificazione» della
fede e della Chiesa e, dall'altro, quello della «teologizzazione» evanescente di
le norme canoniche8La vera superazione dell'antinomia tra
sacramento e diritto non escludono ma creano nuove possibilità
di relazioni reciproche tra Diritto canonico e altri tipi di
diritto. Francisco Suárez (1548-1617) lo aveva intuito quando, in
un altro contesto culturale, ha sintetizzato in modo geniale l'origine unitaria del
diritto nella formula«ius divinum, sive naturale sive
positivum», raccolto successivamente dal CIC/1917 nel primo paragrafo
del can. 27. Secondo questa formula, «il diritto civile umano ha come
ascendente al diritto divino naturale, mentre il Diritto
canónico trova la sua fonte immediata di provenienza nel diritto
divino positivo. In virtù della dipendenza ontologica del diritto
Il diritto civile umano rispetto al diritto naturale, santo Tommaso aveva affermato
che il legislatore umano può vincolare i suoi sudditi non solo
esternamente, ma anche nella coscienza. Dalla dipendenza
ontologica specifica del diritto canonico rispetto alius divinum
positivum, che può essere conosciuto solo per fede, il dottore
eximius arriva a concludere che il legislatore ecclesiastico ha anche il
potere di esigere inoltre dai propri sudditi la realizzazione di atti
umani solo interni. Con questa affermazione, Suárez ha estratto tutto
le conclusioni possibili del contributo dell'interiorizzazione del
diritto, fornito dalla tradizione biblica, e già apparso di
modo evidente nel nono e nel decimo comandamento del
Decalogo9.

8.Cfr. P. Krämer, Fondamenti teologici del diritto ecclesiastico dopo


dem CIC 1983,en: A1kKR 153 (1984), 384-398;G.
Luf, Fondamenti filosofici del diritto ecclesiastico
HdbkathKR, 24-32.
9.E. Corecco, 11 valore della norma disciplinare in rapporto alla salvezza
nella tradizione occidentale, incontro fra canon d'Oriente e
d'Occidente. Atti del Congresso Internazionale, edizione a cura di R.
Coppola, Bari 1994, vol. 2, 275-292, qui 285-286.

2.I principali tentativi di fondazione teologica


del Diritto canonico

2.1 La prospettiva aperta dalla scienza giuridica protestante

Nel campo protestante, il problema della teologia del diritto


l'ecclesiale si acuì immediatamente dopo la seconda guerra
mondiale, quando in Germania si cercava di trovare un
emplazamiento giuridico alle Chiese all'interno delle nuove
relazioni politico-costituzionali. I principali tentativi devono essere
attribuirli, tuttavia, non a teologi, ma a giuristi, tra i quali
dobbiamo menzionare J. Heckel, E. Wolf e H. Dombois. La loro risposta
alla domanda sull'esistenza e la funzione di un diritto di
La chiesa può essere riassunta schematicamente così.

Nel tentativo di superare il vicolo cieco in cui era arrivato il


programma «Giustificazione e legge» di Karl Barth, in cui la sostituzione
dall'analogia dell'essere per l'analogia della fede aveva condotto alla
despiadada eliminazione del diritto naturale, questi autori captano—
anche attribuendo valori diversi—l'importanza metodologica
di porre il problema dell'esistenza del Diritto canonico al
stesso tempo di esistenza e funzione della Chiesa. Il
il diritto della Chiesa come problema teologico non sorge dopo il
nascita di essa, ma esiste già prima di essa e con essa, perché
questo diritto è, in ultima analisi, un postulado e una necessità di
tutto il processo della storia della salvezza. In quanto tale, il diritto
de la Iglesia è una realtà autonoma e diversa da ogni tipo di
diritto umano e costituisce il limite formale del Diritto canonico,
che, nei suoi contenuti materiali, continua a essere anche puramente
umano.

Ciò che non è chiaro è in virtù di quale principio teologico postuli


questo diritto della Chiesa, come diritto divino, l'esistenza di un
veritiero e proprio diritto ecclesiale, ossia il Diritto canonico di
una Chiesa particolare. In effetti, da un lato, il diritto di
La Chiesa, come diritto divino, è così radicalmente spiritualizzata,
che rende praticamente impossibile riconoscerne l'efficacia
giuridica concreta e reale; d'altra parte, il diritto della Chiesa come
Il diritto canonico di una Chiesa particolare è concepito da un
modo così umano, che mette radicalmente in questione, nonostante il suo
calificazione ecclesiale, l'esistenza del suo nesso—anche se solo fosse
puramente estrinseco—con la Chiesa assente e con il diritto
divino. Di conseguenza, rimane più che legittimo chiedersi se
il contenuto normativo della «legge spirituale della carità» di Heckel,
della «indicazione biblica» di Wolf o del «diritto della grazia» di
Dombois, corrispondono ancora alla nozione tradizionale di diritto10. Per
un'altra parte, essendo il diritto divino totalmente trascendente rispetto
al diritto ecclesiale, risulta ancora una volta impossibile stabilire
qualsiasi relazione giuridicamente vincolante tra la Chiesa e il
cristiano, che abbia anche un significato positivo per la relazione
tra Dio e la coscienza dell'uomo. Senza un recupero dei
elementi fondamentali della dottrina cattolica sulle relazioni
tra l'ordine naturale e il soprannaturale11, continueranno a essere nella
ombra esa relazione Chiesa-cristiano e la sua dimensione giuridica e, in
conseguenza, la funzione del Diritto canonico sarà sempre,
inevitabilmente, solo negativa, per essere espressione di un'esistenza
giustificata, esclusivamente, nella natura peccaminosa dell'uomo.

La teologia cattolica, consapevole di questa difficoltà, ha concepito il suo


prima risposta al problema dei fondamenti teologici del
Diritto canonico, proposto dai giuristi protestanti di
seconda guerra mondiale, anche all'interno della tematica più ampia
della giustificazione, cristallizzata da Lutero nel binomio legge ed evangelio,
e per la tradizione cattolica nel binomio legge e grazia. Solo in una
La seconda battuta ha permesso di aprire nuove vie metodologiche a
canonistica nel suo insieme.

2.2 Diritto canonico e giustificazione nella teologia cattolica

a) La grazia come fondamento del diritto canonico (G. Söhngen)

L'opera Gesetz und Evangelium (Freiburg-München 1957) di G.


Söhngen rappresenta uno dei rari e più riusciti tentativi di
analisi del tema legge ed evangelio dal punto di vista cattolico.
Secondo il teologo tedesco, la congiunzione «e» non significa qui
«anche», poiché né per la teologia protestante né per la
La teologia cattolica è identica alla natura dei due termini del
binomio. «L'essenza della legge risiede nel suo carattere imperativo,
mentre quella del Vangelo e quella della grazia risiedono in una
participazione di Dio nel cuore dell'uomo. Per questo non esiste
unanalogía nominumen virtù della quale si possa dire che la legge
è anche
10. Per un'ampia analisi del contributo della teologia protestante a
la fondazione teologica del diritto della Chiesa, cfr. E.
Corecco, Teologia del Diritto canonico. Riflessioni
metodologici, in: Teologia e Diritto canonico, Friburgo 1990, 3-94,
qui 48-67; A. Ronco Varela, Teologia del Diritto Ecclesiastico Evangelico
oggi. Possibilità e limiti di un dialogo, en: AfkKR 140
(1970), 106-136.
11.La inestinguibile ricchezza di questa tradizione è stata magistralmente
illustrata da H. De Lubac, Il mistero del soprannaturale, Incontro,
Madrid 1991.

vangelo e che il vangelo è anche legge, ma solo un'analogia


relazioni (K. Barth), stabilita sul fatto che l'imperativo
della nuova legge—che non è legge solo a causa del suo essere legge—ha
come fondamento la grazia e la carità12La novità della nuova
legge—sottolineata già dalla formula di san Tommaso d'Aquino: «Lex
«nova est ipsa gratia» (S.Th.I-II, q. 106, a. 1) — è tale, che non è
è possibile stabilire un'altra analogia che quella tra lei e la legge
antica di Mosè. Mentre quest'ultima era solo estrinseca
13
posita, la nuova legge del Vangelo è stata data intrinsecamente ,come pienezza
della carità. Per questo l'esistenza del Diritto canonico non può
ser giustificata—come fece Lutero—nello stesso modo in cui la legge
mosaico, cioè, solo come diga o limite contro la concupiscenza
umana. Il Diritto canonico non si giustifica solo per il peccato, ma
che appartiene in modo positivo all'esperienza cristiana, come
segno della grazia. È quest'ultima che include la legge e non viceversa,
perché allo stesso modo in cui la forza pedagogica del dogma non
produce la salvezza, né della forza formale imperativa delle
le norme giuridiche della Chiesa provengono dalla salvezza14. Tuttavia,
queste ultime, come avevo già sottolineato la canonistica medievale
quando osò identificare la «aequitas canonica» con Dio stesso,
rimandano sempre—anche se in diversi gradi di intensità—a
principi contenuti nella Rivelazione e, quindi, nel Vangelo in
ultima istanza. In questo senso, il Diritto canonico non produce la
salvezza, né comunica la grazia, ma, per sua stessa natura,
è al servizio di questa realtà meta-giuridica, in cui trova il suo
proprio fondamento ultimo.

b) L'escatologia come elemento costitutivo del carattere giuridico di


la Chiesa (K. Rahner)

Che il diritto divino non è presente nel diritto canonico


unicamente come orizzonte formale, da cui provengono indicazioni
parenetiche, ma anche come substrato ontologico, è un tema
sviluppato ulteriormente nella teologia di K. Rahner, anche se
quest'ultimo non si è mai confrontato direttamente e con una certa
ampiezza del problema del diritto nella Chiesa. Il nesso ontologico
tra il diritto divino e il diritto canonico è stato posto di
alleviare di K. Rahner, in particolare, nei suoi

12.E. Corecco, Teologia del Diritto canonico, o.c., 1853.


13.G. Söhngen, Legge e Vangelo, it: Lthk, vol. 4, col. 831-835
qui col. 833.
14.Cfr. G.Söhngen,Questioni fondamentali di una teologia del diritto,Munchen
1962,28.

riflessioni teologiche sul ministero ecclesiastico15. E non le


manca ragione, perché sebbene quest'ultimo non sia il punto di partenza più
adatto per sviluppare una teologia del Diritto canonico, occupa
certamente un luogo di primo piano nella canonistica cattolica.

Senza ministero sarebbe impossibile che esistesse la Chiesa, e senza di essa la


presenza definitiva ed escatologica di Cristo nel mondo e nella
storia. Il ministero nella Chiesa, a differenza del
veterotestamentario, è definitivo, perché è stato dato affinché, sia
il cristiano come il non cristiano, possano constatare dove si
l'autorealizzazione della Chiesa. Il ministero ecclesiale trova le sue radici teologiche
nella funzione di mostrare la presenza escatologica della Chiesa, e con
ella postula il Diritto canonico come la sua espressione necessaria. In
effetto, la dimensione escatologica della Chiesa deve mostrare al mondo
–in conformità con il principio dell'Incarnazione–il suo carattere
escatologico o definitivo per la salvezza. Gli unici tipi di
istituzioni umane che possono mostrare questo carattere definitivo
comunitario e questa irrevocabilità storico-umana sono il ministero,
nella sua funzione di responsabilità, e il diritto, come espressione
vincolante del ministero. Da qui che il Diritto canonico possa essere
considerato – sempre secondo K. Rahner – come l'espressione imperativa
di ciò che è indicativo e costituisce l'essenza della Chiesa16. Da
questa prospettiva possiede, allo stesso tempo, un carattere di servizio e una
relatività specifica o particolare.

La ragione teologica per cui il ministero neotestamentario ha


assolutamente necessità di una forma giuridica non la spiega Rahner
sino attraverso il ricorso alla struttura societaria della Chiesa, che, al
essere una comunità di salvezza (Heilsgesellschaft), possiede
necessariamente una struttura giuridica 17. Ma questo significa
presupporre come premessa maggiore del sillogismo, con cui si giustifica
l'esistenza del diritto ecclesiale, l'axioma ubi societas ibi est ius, che
è di origine iusnaturalista e, come tale, incapace in ultima analisi di
fundamentare teologicamente il Diritto canonico.
15.Cfr. soprattutto i due capitoli "Die ekklesiologisches Grundlegung
la teologia pastorale"(117-215) e"La disciplina della Chiesa"(333-
343) delManuale di Teologia Pastorale. Teologia Pratica del
Chiesa nel suo presente, ed. da F.X. Arnold-K. Rahner-V. Schurr-
L.M. Weber, vol. I, Freiburg-Basilea-Vienna 1964; vedi anche:
K.Rahner, Il punto di partenza teologico, per la determinazione del
Wessens del sacerdozio, Idem, Scritti di teologia, vol.
IX, Einsiedeln-Zürich-Colonia 19722, 366-372; Idem, La Chiesa e i
sacramenti, Herder, Barcellona 1964, 103-115.
16.Cfr. Manuale di Teologia Pastorale, o.c.,136-137 e 336.
17.Cfr.ibid.,334.

c) Il Diritto canonico come funzione del concetto di


Iglesia(H.Barion)

Sì, per il giurista protestante R. Sohm, fede e diritto divergono da


maniera radicale, per il canonista cattolico H. Barion quelle stesse
le realtà convergono fino a coincidere, almeno, su due livelli: prima
che niente, nella possibilità che ha la fede di assumere una forma giuridica
senza sacrificare la sua essenza, e, in secondo luogo, nel fatto che la
La chiesa non è divisa in due realtà indipendenti tra loro,
perché la così detta Chiesa del diritto non è altro che la legittima
realizzazione della Chiesa di Cristo.

Il primo punto di convergenza è illustrato da H. Barion attraverso il


analisi della struttura di un dogma; quest'ultimo è un'affermazione
di fede annunciata in forma giuridica e perciò, dalla prospettiva
formale, è una norma giuridica (Rechtssatz) che prescrive, in modo
giuridicamente vincolante, un contenuto di fede. Quest'ultimo, in quanto
tal, rappresenta un elemento del diritto divino, che essendo stato
formalizzato come dogma contribuisce a definire giuridicamente la
Chiesa. In questo senso: «La fede determina il concetto di Chiesa e questo
ultimo determina il Diritto canonico18.

Il secondo punto di convergenza tra fede e diritto è una


conseguenza logica del principio più volte affermato da Han Barion:
«il diritto canonico è una funzione del concetto di
Chiesadiciannove. Infatti, quel principio non significa che il diritto
ecclesiale sia una funzione di un concetto di Chiesa scelto in modo
arbitraria, ma rappresenta un elemento necessario della struttura
invariabile della Chiesa, radicato nell'ordinamento divino di
Chiesa di Cristo e che ha la funzione di garantire alla stessa Chiesa
rimanere fedele alla sua origine divina. Questa funzione del Diritto canonico
è strettamente legata alla costituzione gerarchica della Chiesa,
perché—come ama ripetere il canonista tedesco—la gerarchia si
fonda sul diritto divino e, a sua volta, produce il Diritto
canonica. Quest'ultima, in quanto diritto divino, si fonda su
Rivelazione e, in quanto diritto ecclesiale, si fonda sulla gerarchia;
entrambi gli elementi, presi nel loro insieme, costituiscono la Chiesa, che,
come tale, è Chiesa del diritto. Il diritto canonico in vigore non è,
beh, un'altra cosa che uno sviluppo—anche se con la mediazione di
la gerarchia—della fondazione della Chiesa da parte di Cristo20.

18.H. Barion, Rudolph Sohm e la fondazione del


Diritto ecclesiastico, Tubinga 1931, 26.
19.Ibid. 13.
20.H. Barion, Sacra Hierarchia. L'ordine di leadership della Chiesa Cattolica
Chiesa, en: Tymbos per W. Ahlmann, Berlino 1951, 18-45, qui 18.

Due sono i punti deboli metodologici di fondo di questo tentativo di


fondamentare teologicamente l'esistenza del Diritto canonico: per
una parte, la considerazione esclusivamente formale di due realtà
complesse e vitali come la fede e la Chiesa; dall'altra, il ricorso alla
volontà fondazionale di Cristo, che avrebbe voluto che la sua Chiesa
fosse dotata di una struttura giuridica21Entrambi i punti deboli
i metodologici sono strettamente legati a una concezione di
Chiesa come società ineguale, sostanzialmente inconciliabile con la
ecclesiologia del concilio Vaticano II.

2.3 Le nuove vie metodologiche del Diritto canonico

Se facciamo un'analisi della produzione canonistica della seconda metà


del secolo scorso fino alla promulgazione del Codice pio-benedettino nel
1917, si può constatare facilmente che anche i grandi
canonisti, invece di occuparsi del problema della giustificazione
teologica del Diritto canonico, si orientarono in modo preferenziale
verso lo studio sistematico delle fonti e, in misura minore, verso
l'elaborazione di una teoria generale del Diritto canonico. Le
grandi opere storico-sistematiche di Hinschius, Wernz, Scherer e
Sägmüller rappresenta il risultato più importante di questo lavoro.
la canonistica successiva alla prima codificazione canonica si esaurì, senza
embargo, generalmente, nella realizzazione di un'analisi esegetica-
manualista delle norme del Codice, con maggiore frequenza
indifferente tanto alla richiesta della sua fondazione teologica, come
alla necessità di definire il proprio metodo di lavoro scientifico.

Durante tutto questo tempo, e in alcuni settori della canonistica


fino alla vigilia del concilio Vaticano II, l'unico punto di riferimento
dal punto di vista metodologico - come si vedrà meglio in ciò che
seguì - fu la scuola romana del Diritto Pubblico Ecclesiastico (IPE).
Fu, effettivamente, quest'ultima a applicare per la prima volta in modo
sistematico alla Chiesa la categoria, di provenienza iusnaturalista,
desocietas perfetta, in virtù della quale può dirsi un'istituzione
umana che possiede tutti i mezzi giuridici per raggiungere in modo
autonomo su proprio fine. Sebbene risulti innegabile la forza apologetica
di un'operazione culturale simile, destinata a difendere la

21. Per una critica più ampia, cfr. P. Krämer, Teologica


Fondamento del diritto ecclesiastico. La teologia del diritto
Confronto tra H. Barion e J. Klein alla luce dell'11.
Concilio Vaticano, Treviri 1977, 47-62; H.J. Pottmeyer, Concilio o
CIC/1917? La critica del concilio del canonista Hans Barion, in:
Ministero della Giustizia. Festschrift per H. Heinemann, ed. da A.
Gabriels-H.J.F. Reinhardt, Essen 1985, 51-65.

libertà della Chiesa di fronte all'autoaffermazione dello Stato liberale, come


unica società sovrana, risulta anche facilmente intuibile il suo
debolezza in ordine alla fondazione teologica di una struttura
giuridica nella Chiesa. In ultima analisi, l'unica ragione teologica che
giustifica l'equazione Ecclesiam esse societatem perfectam in un atto
della volontà di Cristo intesa in maniera nominalista: la Chiesa è
una società giuridicamente perfetta perché Cristo l'ha voluta così.

Nel periodo preconciliare e conciliare, sia per la diminuzione della


esigenza apologetica come per l'influsso del dibattito tra protestanti
e cattolici sulla fondazione teologica del diritto, diversi
autori e scuole canonistiche abbandonarono la prospettiva filosofica
e l'orientamento volonatario del metodo dell'IPE, per iniziare a
percorrere nuove vie metodologiche. Tuttavia, nella seconda metà
del secolo scorso si registrò una sola eccezione: quella del sistema
canónico del historiador del diritto e canonista G. Phillips (1804-
1872).

a) La categoria biblica del «Regnum Christi» (G. Phillips)

George Phillips pone alla base di tutto il suo sistema canonico la


equazione «Ecclesia esse Regnum Christi»22. Anche nel piano
metodologico non si può negare l'esistenza di un certo parallelismo
tra questa tesi e la tesi centrale della dottrina dominante dell'IPE, la
linea argomentativa del canonista tedesco (Chiesa = Regno di Cristo =
La struttura giuridico-costituzionale presenta, certamente, una grande
vantaggio in ordine alla fondazione teologica del Diritto canonico:
l'asse attorno al quale ruota tutto il sistema - la nozione di Regno di
Dio è un concetto di provenienza biblica e non filosofica.
Con la convinzione che il diritto canonico è una realtà
totalmente determinata dalla nozione di Chiesa e che quest'ultima
è stata fondata da Cristo come Regno di Dio sulla terra, il
il canonista tedesco fonda, in primo luogo, la giuridicità della
Costituzione della Chiesa: non esiste, infatti, un regno che non abbia una
costituzione monarchica e giuridica, per questo anche la Chiesa, che è
il regno fondato da Cristo, ha la sua costituzione monarchica e il suo
diritto. In secondo luogo, la stessa categoria di Regnum
Cristipermite illustrare e comprendere meglio l'unità e

22. Lo deduce immediatamente dall'introduzione (3-14) al primo


volume del suo famoso Kirchenrecht: G.Phillips, Kirchenrechts, vol. 1-
4, Ratisbona 1845-1851. Gli aspetti costituzionali del
l'equazione è sviluppata nella prima parte (1-287) del II
volume, in cui al centro si trova la questione dell'unità del potere
ecclesiastico (126-148).

il carattere indivisibile del potere ecclesiastico. Tutto il potere è stato


conferito da Dio attraverso il primate, per questo non è solo impossibile
dividere o separare radicalmente l'Ordine della giurisdizione, ma che il
Il diritto canonico, in quanto diritto della Chiesa, si fonda su
questa unità.

Anche se da tempo si parla nella teologia cattolica di un


episcopato monarchico, risulta abbastanza evidente che esiste un salto
logico tanto nella pretesa di poter dedurre una struttura
monarchica della Chiesa a partire dalla realtà teologica del Regno di
Dio, come nell'affermazione che essa abbia una natura
giuridica23D'altra parte, identificare la Chiesa con il Regno di Dio è
teologicamente scorretto e non corrisponde alla dottrina ecclesiologica
del concilio Vaticano II. Nonostante questi gravi limiti, l'opera di
Phillips costituisce senza dubbio, dal punto di vista metodologico, un
importante progresso, non tanto per aver collocato nel centro del suo
pensiero canonico una categoria biblica, piuttosto che per
aver identificato—anche se a partire da un aspetto parziale del
persona di Cristo—nella stessa cristologia ellocus theologicus più
appropriato per fondare teologicamente il Diritto canonico.

b) Il concetto di «ordinamento giuridico primario» (Canonistica laica


italiana)

Tra i primi e più importanti tentativi, successivi alla


promulgazione del CIC/1917, volti a sviluppare una
metodologia diversa rispetto a quella dominante dell'IPE, dobbiamo
includere, di certo, quello della canonistica laica italiana, anche se
questa non ha mai abbandonato del tutto né la categoria delle società
perfetta, né la istanza giuridico-apologetica volta a rivendicare
l'autonomia del Diritto canonico rispetto a quello statale. La produzione
la scientifica si distanzia, di fatto, nettamente rispetto alla manualistica
della prima metà di questo secolo, in cui la concentrazione su
lo studio analitico del Codice pio-benedettino aveva impedito di dedicare
tempo e spazio alle questioni relative alla fondazione
teologica e filosofica del diritto della Chiesa.

Due furono i fattori storico-culturali che hanno spinto a


scuola dei canonisti laici italiani a impegnarsi nella
rinnovazione metodologica della propria disciplina: in primo luogo,
salvare l'insegnamento della propria materia nelle cattedre di diritto
eclesiastico delle facoltà

23. Cfr. A.Rouco Varela-E. Corecco, Sacramento e diritto: antinomia


nella Chiesa?, o.c., 38.

estatali di giurisprudenza, in cui ogni volta diventava più acuta


l'esigenza di dimostrare il carattere scientifico della canonistica come
scienza giuridica; in secondo luogo, il clima positivista dominante in
queste facoltà richiedevano necessariamente di fare uno sforzo
inviato alla fondazione del Diritto canonico a partire dal
sistema canonico stesso, senza dover assumere, evidentemente, di
modo teorico la dottrina pura del diritto, elaborata da H. Kelsen. A
a partire da questi fattori storico-culturali la fondazione scientifica
del Diritto canonico della scuola canonista laica italiana si è
sviluppato attorno a due temi centrali: quello del carattere giuridico o
la giuridicità del Diritto canonico e la qualità giuridica del
scienza canonica24.

La prova della giuridicità del Diritto canonico è stata elaborata


scientificamente a partire dal concetto di ordinamento giuridico
primario, che, apparentemente, non deriva da alcun budget
filosofico previo, anche se, in effetti, è frutto del positivismo giuridico
diciottesco. La qualità giuridica della canonistica, d'altra parte, si
dedurre dell'esame logico-giuridico delle norme canoniche, che
dimostra l'unità giuridica intrinseca di tale ordinamento. La
abilità teorica e il rigore scientifico con cui i canonisti laici
gli italiani hanno elaborato questi due temi diminuisce quando si tratta di dare
considerazione della natura specifica del Diritto canonico rispetto al
dello stato. A questo punto non sono solo obbligati a constatare la
incapacità epistemologica del suo metodo di lavoro scientifico, ma a
rimandare il problema della fondazione teologica del Diritto
canonica alla teologia, dichiarandolo semplicemente di natura para-
giuridica, per essere completamente informato dalla categoria dellealus
animarum come fine ultimo del ordinamento canonico stesso25. Questa
grave limitazione epistemologica della scuola canonista laica italiana
non è stata superata neanche con la sostituzione successiva della
categoria delle animali per la delbonum comune
ecclesiae, perché questo concetto non proviene dalla teologia ma
socio-filosofica. Sapendo questo, alla fine degli anni sessanta, un'altra
scuola di canonisti laici – quella di Navarra – cerca di superare questa
limitazione epistemologica della scuola laica italiana, salvando al
stesso tempo suo

24. Per una recensione critica delle diverse contribuzioni della


canonistica laica italiana, cfr. per esempio: P. Fedele, Il problema dello
studio e dell'insegnamento del diritto canonico e del diritto
ecclesiastico in Italia,en: Archivio di Diritto ecclesiastico 1 (1939), 50-
74;A. Rouco-Varela, Dottrina generale del diritto o Teologia del
diritto canonico? Riflessioni sulla situazione attuale di una
fondamento teologico del diritto canonico, en: AtkKR 138
(1969), 95-113.
25.Cfr.E. Corecco, Teologia del Diritto canonico, o.c., 1858 e, su
tutto
canónico, Madrid 1967, 23-76 e 223-248.

enorme bagaglio tecnico giuridico, attraverso una rielaborazione nata da


una nuova ispirazione ecclesiologica e pastorale.

c) La categoria ecclesiologica di «Popolo di Dio» (Scuola di


Navarra)

La Scuola di Navarra, oggettivamente più omogenea della


denominata canonistica laica italiana26, si caratterizza per una doppia
confronto teorico: quello relativo alla proposta del concilio
Vaticano II di studiare il Diritto canonico alla luce del mistero della
Iglesia (OT 16, 5) e quella relativa all'applicazione sistematica del
concetto di ordinamento giuridico primario, elaborato dai
canonisti laici italiani, al Diritto canonico.

In virtù della prima confrontazione, la Scuola di Navarra


riscopri nella Chiesa le dimensioni del carattere sociale e di
giustizia e, di conseguenza, la possibilità di rivendicare per la
la canonistica la tarea de la riflessione sub specie fidei sulla struttura
giuridica del mistero della Chiesa; in virtù del secondo confronto
è possibile per la stessa scuola effettuare uno sviluppo ulteriore di
riflessione sulla giuridicità del Diritto canonico.
La categoria centrale, nella prima confrontazione, è quella di Popolo di
Dio, applicata dalla Lumen gentium alla Chiesa strutturata organicamente
e comunitariamente. La dimensione giuridica della Chiesa non è perciò
una superstruttura o una semplice convenienza, ma una necessità
senza la quale non sarebbe comprensibile la stessa Chiesa, come fu
founded by Jesus Christ himself. In other words, the Law
canónico è il principio di ordine sociale che il Fondatore volle per il suo
Chiesa; il primo non è possibile senza il secondo, e viceversa, perché
esiste simultaneità tra ordinamento giuridico e società ecclesiale. Di questo
modo si accede all'ipotesi che la «volontà fondazionale di
Cristo è la norma fondamentale della produzione giuridica nella Chiesa e
della giuridicità di ciascuna delle sue norme, senza essere una norma
strano al Diritto canonico, poiché il Diritto divino è
Diritto nella Chiesa in quanto la informa, costituisce e determina
come società giuridica o, se si vuole, come ordinamento
giuridico27. E qui c'è-

26. Non è infrequente, anche tra i quattro principali rappresentanti


della Scuola (P. Lombardia, J. Hervada, P.J. Viladrich, A. De La
Hera), il rinvio esplicito di un autore a un altro. Per una recensione
comparata delle sue principali tesi, cfr. C.R.M. Redaelli,11 concetto
di diritto della Chiesa nella riflessione canonistica tra Concilio e
Codice, Milano 1991, 163-224.
27.Cfr. A.De La Hera, Introduzione alla scienza del diritto canonico,
ac., 217.

lla la seconda confrontazione teorica operata dalla Scuola di


Navarra. Prima di esaminare questo ultimo confronto, di natura
più tecnica, non possiamo evitare, tuttavia, di osservare come la
infrastruttura teologica assicurata dalla Scuola di Navarra alla
la scienza canonica, da un lato, pecca in ultima analisi - e non senza un
certo parallelismo con la moderna dottrina protestante–di
volontarismo e, dall'altra, rimane semplicemente in un limite formale, in
il cui interno deve muovere la canonistica per non derivare in
soluzioni tecnico-giuridiche inconciliabili con l'ecclesiologia del
Concilio Vaticano II.

Nella seconda confronto, invece, la Scuola di Navarra riceve


dei canonisti laici italiani – in modo critico e capace di
proporre nuove soluzioni - i temi dell'ordinamento primario e di
la juridicità del Diritto canonico. Il concetto di ordinamento si
applica alla struttura giuridica della Chiesa con coscienza che il
l'ordinamento canonico non è la totalità della struttura della Chiesa,
sino solo il insieme dei suoi fattori giuridici considerati nel suo
connessione intrinseca con i fattori non giuridici che, insieme a
primi, costituiscono il Popolo di Dio. In questo senso, il
l'ordinamento canonico non è altro che la Chiesa considerata
ratio iuris; detto in un altro modo: l'ordinamento canonico rappresenta
il concetto giuridico della Chiesa, nel quale, tuttavia, l'elemento
fondamentale non è costituito dalle norme, ma da
relazioni giuridiche. Di conseguenza, l'unità di questo ordinamento
giuridico non si deve cercarlo nell'unicità della fonte - il diritto
divino con le sue norme a cui bisogna dare rango positivo-, ma non
nella unità del corpo sociale che esse regolano. In questo modo
cerca di superare la Scuola di Navarra sia le limitazioni di
canonistica tradizionale, che, concentrata esclusivamente nella
norme, non riesce a dare piena ragione dell'unità della struttura
giuridica ecclesiale, come quelle della canonistica laica italiana, che, attraverso
di una nozione particolare di «positivizzazione» del diritto divino, corre
il rischio di sottovalutare il suo ruolo costituzionale e fondazionale in
relazione con la stessa Chiesa. Nonostante ciò, e precisamente a questo
stessa livello, la dipendenza della Scuola di Navarra rispetto alla
la scienza giuridica laica diventa più evidente, così come
dimostra il fatto che il suo creatore–Pedro Lombardía–abbia
ho potuto evidenziare l'elaborazione dei diritti fondamentali del
Cristiano come problema centrale del diritto costituzionale di
Chiesa, perché, in ultima istanza, il Diritto canonico stesso, nel suo
conjunto, non è nient'altro che il principio dell'ordine sociale richiesto da
le tensioni esistenti anche nella vita della Chiesa28. Risultato
evidente l'uso di un concetto monista di diritto e, in effetti,
dal punto di vista epistemologico, la Scuola di Navarra concepisce il
Diritto canonico, non come scienza teologica, ma giuridica, anche
quando il suo oggetto è un diritto caratterizzabile come ius sacrum.

d) Il Diritto canonico come conseguenza metafisica del principio di


l'incarnazione (W. Bertrams)

Il gesuita tedesco W. Bertrams ha elaborato, durante i lunghi anni


di insegnamento professato alla Pontificia Università Gregoriana, già
alla vigilia del concilio Vaticano II, un sistema canonico
profondamente unitario, in cui lo sviluppo logico della canonistica
come scienza postula, necessariamente, una fondazione ontologica
del medesimo Diritto canonico. Per questa ragione, il punto di partenza per
è scelto, per giustificare l'esistenza di un diritto della Chiesa, è
distinto e più chiaramente teologico rispetto a quello della scuola laica italiana.
La tesi centrale di questo nuovo sistema è la seguente: la Chiesa, in
quanto continuazione dell'Incarnazione di Gesù Cristo, è una società
umana elevata alla sfera dell'ordine soprannaturale 29.
Sebbene l'idea centrale di questa tesi dell'elevazione fosse già nota
da tempo secondo la tradizione canonica cattolica, dal punto
di vista metodologico-sistematico è stata sviluppata in un modo
nuovo di Bertrams a partire dal così detto principio della
Incarnazione. Secondo questo principio, la struttura metafisica interna in
la Chiesa, come in qualsiasi altra società umana, non può
aggiornarsi senza la mediazione di una struttura socio-giuridica esterna.
In altre parole, così come l'anima non può manifestarsi nel
uomo senza la mediazione del corpo, né l'elemento soprannaturale
della Chiesa può essere verificata storicamente senza la mediazione di una
struttura ecclesiale esterna.

Infine, e in virtù di questo stesso principio dell'Incarnazione,


Bertrams attribuisce rigorosamente il munus sanctificandiale potere di
ordine e potere giurisdizionale della docenza e della reggenza. Facendo questo,
dimentica, da un lato, che sia l'insegnamento che il governo sono
legati, nella Chiesa, al sacramento dell'ordine, e, dall'altra, che la
stessa santificazione no

28.Cfr.P. Lombardia, Scritti di Diritto Canonico, vol.1-3, Pamplona


1973-1974, soprattutto: vol. 2, 457-477; vol. 3, 121-133 e 471-501.
29. Questa tesi è stata elaborata soprattutto su questi scritti:
W.Bertrams: La natura propria del diritto canonico, en: Gregorianum 27
(1946), 527-566; Idem, Fondazione e delimitazione del canonico
Rechts,en: Gregorianum 29 (1948), 588-593; Idem,Vom Ethos des
Kirchenrechts,en: Voci del tempo 158 (1955/56), 268-283; Da
Senso del diritto canonico, en: W.Bertrams, Quaestiones funda-
mentales iuris canonici, Roma 1969, 47-60.

è separato dall'esercizio della potestas iurisdictionis. Il rischio di


cadere nuovamente nel dualismo tra ordine sacramentale e ordine
socio-giuridico rimane, in fin dei conti, invariato, nonostante il
notevole sforzo sviluppato per fondare ontologicamente la
struttura giuridica della Chiesa30A proposito di questa fondazione
È preciso osservare ancora quanto segue.

La distinzione tra struttura interna ed esterna di una società, come


strumento concettuale per superare la contrapposizione tra società
e comunità, è un principio fondamentale della teoria socio-filosofica
di G. Grundlach, che Bertrams applica alla Chiesa per fondare la
esistenza del suo diritto. Da questa prospettiva, la struttura
giuridica della Chiesa si impone, effettivamente, per il fatto,
universalmente riconosciuto grazie all'antropologia filosofica, che
la struttura interna dell'uomo tende necessariamente a esprimersi
all'estero attraverso forme sociali, come conferma l'assioma
classico: «Nel foro esterno nulla è ciò che non appare»31.

Queste forme sociali-esterne, antropologicamente fondate,


non costituiscono semplicemente la condizione formale richiesta per il
esercizio del diritto–postulato già ontologicamente, per Bertrams,
per la struttura interna dell'economia della salvezza e, per
conseguente, della Chiesa-, ma creano lo stesso diritto, conferendogli
un contenuto reale. In effetti, secondo il canonista della Gregoriana, i
diritti fondamentali - radicati nel battesimo - non rimangono solo
sospesi nel loro esercizio, ma addirittura smettono di esistere nel
momento in cui il fedele si colloca al di fuori dell'ordinamento giuridico
esterno della Chiesa 32.

Oltre al fatto che gli argomenti proposti da Bertrams,


per stabilire un legame ontologico tra Chiesa e diritto, sono,
fin de cuentas, di natura filosofica e non teologica, il suo sistema si
presta facilmente a interpretazioni di carattere estrinseco. Per evitare
questo pericolo, altri autori che si collocano sulla stessa linea di
pensiero, in particolare A. Stickler e H. Heimer133, hanno cercato
situare la radice ultima del carattere sociale della Chiesa

30. Questo è il chiaro giudizio emesso da K. Mörsdorf, Scritti su


diritto canonico, a cura di W. Aymans-K. Th. Geringer-H. Schmitz
Paderborn 1989, 214.
31.Cfr.W. Bertrams, De natura iuridica fori interni Ecclesiae, en:
Periodica, 40 (1951), 307-340.
32.Cfr.W. Bertrams,Die Eigennatur des Kirchenrecht,en: o.c., 536-547.
33.Cfr. A.M.Stickler,Il Mistero della Chiesa nel Diritto Canonico, in:Il
Mistero della Chiesa nella visione delle discipline teologiche, ed.
di F. Holböck-Th. Sartory, Salisburgo 1962, vol. II, 571-647;H.
Heimerl, Aspetto cristologico del Diritto Canonico, in: Ius
Canonicum 6 (1966), 25-51; Il diritto ecclesiastico in nuovi
Kirchenbild, it: Ecclesia et lus, Festgabe per A. Schenermann per i 60 anni.
Compleanno, edizione a cura di K. Siepen-J. Weitzel-P. Wirth
Monaco-Padeborn-Vienna 1968, 1-24.

nel mistero stesso dell'Incarnazione del Figlio di Dio. Per Stickler,


Gesù Cristo, incarnandosi, assunse la natura umana in tutte le sue
dimensioni, inclusa la socio-comunitaria, che si realizza anche
giuridicamente nella Chiesa. Per Heimerl, il carattere giuridico della
La chiesa è postulata dal fatto che questa, in quanto momento
storico in cui si applica la salvezza, continua ad essere
soteriologicamente mediatrice dell'intervento di Cristo in virtù
anch'essa della sua imperatività normativa. Nessuno dei due sembra
rendersi conto che la sua fondazione teologica del Diritto
il canonico si ferma sulla soglia della giuridicità, perché sebbene sia
è vero che il mistero dell'incarnazione postula la visibilità della
Chiesa e la sua unità come «unica realtà complessa, che è integrata
de un elemento humano e un altro divino» (LG 8, 1), non è stato ancora detto
in modo esplicito se e perché questa visibilità postula
necessariamente la sua giuridicità 34.

e) Il Diritto canonico come necessità sociologica (P. Huizing)

Non è possibile comprendere il pensiero dell'autore olandese P.


Huizinga sui fondamenti e la natura del diritto in
Chiesa al margine del programma di destetologizzazione del Diritto
canonica e di disgiurisdizione della teologia, lanciato da certa
corrente della canonistica postconciliare dalla tribuna internazionale
della rivista Concilium35Gli obiettivi principali di questo programma
sono la immediata riforma del Codice di Diritto Canonico e la messa
al giorno pastorale di tutte le leggi della Chiesa, per cui non è possibile
aspettarsi da lui un contributo teorico profondo adeguatamente
articolata. Per il resto, i contributi dei diversi autori
sono molto eterogenee e rivolte a fini pratici molto
diversificati. Tuttavia, non è difficile trovare in essi alcuni
denominatori comuni in relazione alla loro concezione del Diritto
canonico e della sua ragione di essere.

I tratti più salienti dello sforzo volto a


destituzionalizzare il diritto canonico, comuni ai diversi autori
di questa corrente della canonistica postconciliare, possono essere
riassunti in questo modo.

Il diritto canonico, in quanto scienza, fa riferimento alla teologia,


anche se è diversa da lei e, al contrario, per quanto riguarda l'ordinamento
ecclesiale, fa riferimento ai sacramenti. Queste riferimenti del
Diritto canonico

34. Concordano in questo giudizio E. Corecco, Teologia del Diritto


canónico, o.c., 1861 e A. Rouco-Varela, Insegnanti di Diritto Generale o
Teologia del diritto canonico, o.c.,111.
35.Cfr. N.Edelby-J. Jiménez-P. Huizing,Diritto canonico e teologia
(Presentazione), in: Concilium8(1965),3-6.

lo rendono particolarmente mutevole e adattabile alle esigenze


ecclesiali del tempo. Precisamente per essere tale, il Diritto canonico
ha un marcato carattere di servizio e una funzione eminentemente
pastorale in ordine alla missione della Chiesa. Questa funzione pastorale e di
il servizio non può essere efficace se il contenuto normativo della legge
la canonica non è accettata da tutti nella Chiesa 36.

L'importanza decisiva della ricezione, per stabilire nella Chiesa


il carattere vincolante di una norma giuridica rivela il fondamento del
Diritto canonico stesso: la Chiesa, come qualsiasi altra società,
«non può prescindere da regole obbligatorie, riconosciute e osservate
per tutti gli interessati», perché «qualsiasi comunità che
pretendesse subsistere senza un ordinamento vincolante, finirebbe per
suicidarsi37Tuttavia, argomentando in questo modo appare
certo che la ragione ultima dell'esistenza del Diritto canonico è,
unicamente, una esigenza di tipo sociologico e, conseguentemente,
questo diritto è un regolamento puramente esterno, positivo e umano,
incapace di determinare intrinsecamente e strutturalmente la vita ecclesiale.
Le norme giuridiche hanno per quest'ultima solo un significato di
regole etiche o ordinatrici, perché la forza vincolante della norma
la canonica non si deriva dal fondamento metafisico-teologico, ma dal suo
capacità di appianare i possibili conflitti tra coscienza individuale
e appartenenza ecclesiale, tra carisma e istituzione.

f) Parola e Sacramento come elementi fondamentali di


struttura giuridica della Chiesa (K. Mörsdorf)

Già prima del Concilio Vaticano II38, e soprattutto in virtù del suo
decisione di misurarsi fino in fondo – anche se a una distanza maggiore
da cinquant'anni – con la critica radicale di Sohm al Diritto
canónico, K. Mörsdorf (1909-1989) si rese conto, con un'estrema
perspicacia, di che, per con-

36.Cfr.P. Huizing, La riforma del Diritto canonico, in: Concilium 8


(1965), 101-129, soprattutto p. 115; Idem, L'ordinamento
ecclesiastico, en: MySal, IV/2, Madrid 1975, 160-184, qui soprattutto
172, 173-175 e 178-183; 1dem, Teologia pastorale dell'ordinamento
canonico, it: Gregorianum 51 (1970), 113-128.
37.Cfr.P. Huizing, Teologia pastorale, o.c.,119 e Idem, El ordenamento
eclesiastico, o.c.,161.
38. In effetti, in ordine cronologico, i principali saggi di Klaus
Mörsdorfsobre questo argomento sono tutti loro precedenti o
contemporanei al Concilio: Sulla fondazione del diritto della Chiesa
che, it:Münchener Theologische Zeitschrift 3 (1952), 329-
348;Altkanonisches «Sakramentrecht»? Una riflessione su
le opinioni di Rudolf Sohm sulle basi interne del
Decretum Gratiani, in: Studia Gratiana 1 (1953), 485-
502;Diritto ecclesiastico,en: Lthk, vol. VI (1961), 245-250;Parola e
Sacro come elemento costitutivo della costituzione della chiesa, en: AfkKR 134
(1965), 72-79.

seguire a fornire la prova teologica della necessità della


l'esistenza di un ordine giuridico ecclesiale, la canonistica doveva evitare
tutto lo spiritualismo o l'extrinsechismo ecclesiologico, così come tutto
soluzione di tipo iusnaturalista. Dovevo dimostrare che la dimensione
giuridica è già presente negli elementi strutturali su cui
Cristo volle fondare la Chiesa; o che il precetto giuridico è
contenuto già negli elementi strutturali dell'economia della
Salvezza. Come afferma nell'introduzione al primo volume del suo già
famoso manual: «La struttura giuridica della Chiesa si fonda su
su origine divina nell'Uomo-Dio e nel santo dominio per Lui
esercitato in lei» 39.

Precisamente a partire da questa convinzione che con il Diritto


canonica è in gioco la comprensione stessa del mistero di
Iglesia, K. Mörsdorf supera i numerosi tentativi—validi anche se non
convincente di tutto–di fondare cristologicamente l'esistenza
del Diritto canonico, e riesce a collegarlo stabilmente con la
teologia. Il ponte ecclesiologico stabilito da Mörsdorf tra il
mistero dell'incarnazione–come principio determinante di
struttura della Chiesa - e l'ordinamento giuridico ecclesiale si basa
in due pilastri: la Parola e il Sacramento.

Questi ultimi sono elementi costitutivi primari e non derivati di


la Chiesa. In effetti, come afferma esplicitamente il canonista di
Monaco: «Parola e Sacramento sono due elementi diversi, sebbene
reciprocamente legati, alla costruzione della Chiesa visibile40.

Ambos - sia come parola che come segno - sono, allo stesso tempo, forme
primordiali di comunicazione umana e per questo hanno una struttura
ontologica capace di esprimere un precetto giuridicamente vincolante.

Effettivamente, in qualsiasi tradizione umana, e non solo biblica, a


Attraverso la parola e il simbolo sono apparsi fatti giuridicamente
rilevanti. Assumendoli per comunicare all'uomo la salvezza,
Cristo ha conferito loro un valore soprannaturale e un'incidenza
soteriologiche, capaci di vincolare il fedele non solo moralmente ma anche
giuridicamente. «La parola si trasforma in kerygma, il simbolo in
signosacramentale della presenza di Dio41. Al incarnarsi,
Gesù Cristo ha dato alla parola e al sacramento un valore definitivo
per l'esistenza umana, perché ha stampato in loro «una
dimensione generativa e conservativa della comunità" 42.
39.K. Mörsdorf, Lb, vol. I, 13.
40.K. Mörsdorf, Per la fondazione del diritto della Chiesa, o.c.,330.
41.E. Corecco,Teologia del Diritto canonico, o.c., 1862.
42.K.Mörsdorf,Lb, vol. I, 14.

Questa forza, intrinseca e vincolante, fa della Parola di Cristo un


elemento essenziale della costruzione della Chiesa visibile, elemento
che ha una forza giuridica propria. Quest'ultima non si fonda, senza
embargo, nella capacità che ha la Parola di essere compresa
per chi l'ascolta, se non nel motivo formale che le deriva dal fatto
di chi la pronuncia è lo stesso Figlio di Dio: locutio Dei
attestans. In altre parole: «L'annuncio della Parola della Chiesa
ha carattere giuridico perché quest'opera è svolta per mandato del Signore. Il
Il Signore ha presentato la richiesta di Dio in un modo che l'interpellato
è obbligato all'ubbidienza, non solo in virtù del carattere intrinseco
ragionevole della Parola, ma anche per la ragione formale che il
l'annunciatore della Parola è il Figlio di Dio. Questo richiede il
riconoscimento con l'esplicita appellazione al fatto di essere l'inviato
del Padre. Quando i farisei lo contestano, affermando che il suo
Il testimone non è vero perché testimonia di se stesso, egli
Il signore obietta a partire dalla regola del diritto israelitico secondo la quale il
Il testimone di due uomini ha valore di prova e rimanda per questo al
Padre, che lo ha inviato, come secondo testimone43.Così inteso,
queda fuori di dubbio il carattere giuridico di questa dimensione di
l'esigenza (pregiudizio di validità) della Parola del Signore. Cristo la fa
derivare dalla propria missione ricevuta dal Padre, che gli permette di risvegliarsi
nei suoi ascoltatori l'impressione di essere di fronte a qualcuno capace di parlare
...sicut potestatem habens» (Mt 7, 29). Gli Apostoli, invece, la
derivano dal fatto di essere stati scelti personalmente da
Cristo come rappresentanti giuridicamente costituiti con pieni
poteri (incarico legale). Di conseguenza, anche la
La parola dei vescovi richiede obbedienza e possiede carattere giuridico
in virtù di essere stata pronunciata a nome e per conto del
Signore. La stessa forza, intrinseca e vincolante, possiede il segno
sacramentale. Così, K. Mörsdorf coglie e sviluppa la dimensione
giuridica del sacramento nella sua analogia con il simbolo
giuridico(Simboli giuridici). Sia il Sacramento che il simbolo sono
segni sensibili che producono in modo efficace una realtà
invisibile.

Il simbolo produce questa realtà invisibile, perché, sia nella tradizione


universale culturale (anche se soprattutto in quello orientale) come in la
tradizione biblica, è sempre stata considerata come un tipo di
comunicazione umana che ha un effetto invisibile, anche se
socialmente riconosciuto come fonte di diritti e doveri e, per
conseguente, come fatto giuridico-

43. Ibid., p. 14.

mente vincolante44. Appartiene a questa simbologia giuridica, per esempio,


l'atto di compravendita nel diritto germanico, secondo cui la
la disponibilità materiale del bene era necessaria per la titolarità del
diritto di proprietà corrispondente. Molti elementi di questo
la simbologia giuridica è rimasta nella Chiesa, specialmente nel suo
liturgia. Basta pensare all'imposizione delle mani nella
amministrazione dell'ordine sacro, che ha un'origine evidente nella
cultura giuridica orientale.

Il sacramento, invece, produce anche una realtà invisibile, che


è fonte di diritti e doveri, e, di conseguenza, giuridicamente
rilevante, ma lo fa, non in virtù di un riconoscimento da parte di
l'associazione umana alla cui tradizione appartiene tale simbolo giuridico,
senza grazie al fatto che il soggetto ultimo che realizza tale segno è
Cristo stesso, che, nel istituirlo, gli ha impresso un significato proprio e
una efficacia propria.

Osservando il rigoroso legame che esiste tra simbolo giuridico e


sacramento, il canonista di Monaco riesce, allo stesso tempo,
fondamentare la juridicità dell'ordine sacramentale della Chiesa e il suo
specificità, in quantoius sacrum, rispetto al diritto statale. È
più, precisamente perché la Parola e il Sacramento obbligano, non in
virtù del suo contenuto percepito soggettivamente, ma per il fatto di
che il soggetto ultimo che le pronuncia e le celebra è Cristo, entrambi
possiedono un carattere formale giuridico, che conferisce al Diritto canonico
una forza vincolante maggiore di quella del diritto statale, perché è
più profondamente radicata nella normativa delius divinum
positivo.

Ciò non significa, ovviamente, che per K. Mörsdorf, tutto il Diritto


canónico nel suo complesso deve essere considerato comeius divinum.
effetto, tutto ciò che Dio effettua attraverso la Parola e il
Sacramento è, al tempo stesso, dono (Gabe) – la cui efficacia salvifica
dipende dall'accettazione della fede da parte dell'uomo–e
compito, che si svolge nella decisione libera e personale di questo
ultimo. Pertanto, nella struttura giuridica della Chiesa è
possibile–in modo analogo a quanto avviene nel sacramento, dove
si distingue tra il segno esteriore e l'effetto interno della grazia
causato dal primo–distinguere tra un ordine costitutivo, basato
nella Chiesa come segno sacramentale di salvezza, indipendente in
ultima istanza della volontà dell'uomo, e un ordine operativo, nel
che cosa succede

44. La capacità che ha il simbolo di suscitare responsabilità e


solidarietà, valori fondamentali della cultura giuridica, ha anche
è stata messa in evidenza dalle analisi più recenti dell'esperienza
simbolica realizzata dalla scienza delle religioni, dalla filosofia e
per l'antropologia; cfr., per esempio, J. Vidal, Sacro, simbolo,
creatività, Milano 1992, 34 e 82-85.

le fondamenta nel primo possono trovare il loro sviluppo fruttuoso e


efficace grazie all'adesione libera dell'uomo45Entrambi gli ordini sono
distinti, ma non separabili, perché non sono altro che i due
facce della stessa realtà: la Chiesa, che, come insegnerà il Concilio
Vaticano II, è «una realità complessa» (LG 8, 1).

Ancora una volta risulta evidente che, per Mörsdorf, la specificità del
Il diritto canonico è completamente informato dalla natura
sacramentale della Chiesa. Per questa ragione non può concepire la scienza
canonica ma come «una disciplina teologica con metodo
giuridico46.È legittimo? A K. Mörsdorf è stata riconosciuta la
enorme merito di aver trovato un locus theologicus preciso al
Diritto canonico e aver sviluppato una fondazione teologica
sicura e convincente, d'altra parte - proprio perché il metodo
di tutta la scienza deve essere definito dal suo oggetto – non è possibile smettere di
chiedersi se sia, effettivamente, possibile applicare il metodo giuridico a
una realtà teologica. Solo alla luce dell'insegnamento del concilio
Il Vaticano II sulla Chiesa comunione potranno elaborare i
discepoli di Mörsdorf una risposta a questa domanda. Il concetto
decommunioes è colui che, effettivamente, definisce meglio il tipo di
aggregazione sociale generata soprattutto dalla Parola e il
Sacramento, anche per la forza aggregante del carisma.
Per questa ragione, solo dopo aver identificato nella realizzazione di
lacommunioeltelosespecífico del diritto della Chiesa, diverso dal
fine ultimo dell'ordinamento giuridico dello Stato, sarà possibile a
La Scuola di Monaco, fondata dallo stesso Mörsdorf, chiarire con
maggiore precisione e sicurezza alla propria metodologia ed epistemologia.

3. Sviluppi sistematici della fondazione teologica


del Diritto canonico alla luce del concilio Vaticano II

La rapida recensione dei principali tentativi di fondazione del


Il diritto canonico, elaborato nel campo cattolico, ha dimostrato
chiaramente che il diritto ecclesiale è inteso come una realtà
non estrinseca, ma appartiene all'essenza stessa della Chiesa, o
bene non ha alcun legame con il mistero di quest'ultima e la sua funzione
salvifica. Ora

45.Cfr.L. Mörsdorf,Lb, vol. I, 16-21 e soprattutto p. 17.


46.Ibid.,36.

bene, come insegna il Concilio Vaticano II, la natura di questo


il mistero è sacramentale (LG 1), per cui questo—in tutto il suo
aspetti e, di conseguenza, anche nel giuridico - è conoscibile,
in ultima analisi, solo attraverso la fede.

Questo non significa attribuire al diritto canonico un valore salvifico


simile a quello che possiede la Parola di Dio e i Sacramenti, ma non
spiegare come la Chiesa abbia bisogno di questo diritto per essere essa stessa
la stessa, per rimanere nel tempo e nello spazio come
sacrificio di salvezza per tutti gli uomini. Prima di mostrare
come, sulla base dell'ecclesiologia conciliare, il Diritto canonico non
è un'altra cosa se non la dimensione strutturale implicita della comunione
ecclesiale, è necessario, nondimeno, propedeuticamente, segnalare i
principi che legittimano l'esistenza di un diritto simile.

3.1 Principi di legittimazione di un diritto ecclesiale

È merito di P. Krämer aver segnalato e sviluppato la


importanza propedeutica di questi principi per comprendere,
correttamente, l'insegnamento della Scuola di Monaco riguardo al
estatuto ontologico, epistemologico e metodologico del Diritto
canonica47I principi di un Diritto canonico teologicamente
fundamentato sono tre: comunità ecclesiale, libertà religiosa e vincolo
nella fede.

a) Comunità ecclesiale

Sarebbe uno sforzo sprecato cercare nella Bibbia un insegnamento


esplicita sul significato del diritto per il Popolo di Dio. Con
tutto, come succede spesso anche in altri temi non
trattato espressamente per la Sacra Scrittura, questa proietta nel suo
mettere in luce il significato teologico di tale
nozione, e inoltre, nella terminologia biblica, l'Evento stesso
può essere una parola48.
Nonostante ciò, spesso le sovrapposizioni legalistiche del
i rabbini avevano offuscato il carattere essenziale della legge ebraica, non è
difficile

47.I principali scritti dedicati a questo tema dal canonista di


Eichstätt figlio: P. Krämer, Fondazione teologica del kirchlichen
Diritto, o.c.; Idem, Diritto ecclesiastico 1. Parola-Sacramento-
Carisma, Stoccarda-Berlino-Colonia 1992, 23-27.
48.Cfr. per esempio, J. Ratzinger, L'interpretazione biblica in conflitto.
Problemi del fondamento e orientamento dell'esegesi
I. de la Potterie e altri, L'esegesi cristiana oggi
C.Monferrato 1992, 93-125, specialmente p. 120.

avvertire come, negli scritti dell'Antico Testamento, la volontà


salvifica di Dio verso l'uomo è normalmente descritta con
espressioni giuridiche49Inoltre, si accetta unanimemente che «la
la più preziosa contribuzione fornita dal pensiero giuridico
veterotestamentario ha sido presentare Dio come fonte immediata e
personale del diritto50. Sebbene, da un lato, questa immediatezza del
l'origine divina del diritto ha finito per accentuare unilateralmente il
carattere volonteroso, al punto da identificare la pratica della legge
con l'ubbidienza alla volontà di Dio, dall'altra parte, non significa che il
Il Antico Testamento avesse voluto ridurre a una relazione giuridica quella che
esiste tra Dio e l'uomo. Il carattere giuridico della volontà divina,
manifestato dal discorso veterotestamentario sul diritto,
pretende semplicemente indicare che in essa non c'è alcun elemento
arbitrario o abusivo, ma si fonda piuttosto precisamente
in essa la dignità della persona umana. L'uomo è stato posto
per Dio nel centro della creazione e del suo disegno di salvezza, per
ciò di cui l'uomo non è privo di diritto di fronte a Dio, in quanto,
realtà, ha «una legge scritta da Dio nel suo cuore, in cui
l'obbedienza consiste nella dignità umana» (GS 16).

Nei testi neotestamentari la legge ebraica è, in parte,


confermata (Mt 7, 12) e, in parte, relativizzata nella sua funzione (Ga 3, 24-
25), ma sempre e in ogni caso completata e approfondita nel suo
significato (Mt 5, 17), soprattutto grazie all'enfasi dell'amore o
comunione come criterio ultimo che deve informare le relazioni del
uomo con Dio e con i suoi simili51. In modo particolare, nel
Nuova Alleanza, libertà e ordinamento (comunità) sono due
realtà escatologiche e come tali relative tra loro:
«Eleschatonse diventa storico e si socializza, allo stesso tempo, come libertà
ordinata e come ordinamento libero52. In altre parole, il
ordinamento della comunità, in quanto radicato in eli
divino, è al servizio della libertà, e questa stessa costituisce il
dinamismo dell'ordinamento giuridico.

49.Cfr., per esempio, Es 20, 2-17; Dt 17, 14-20; Jr 1, 17; 30, 18; Lv 20, 2-
5; Pr 1, 3. Per una visione d'insieme del concetto biblico di
diritto, cfr. A. Stiegler, Il concetto giuridico ecclesiastico. Elementi e
Fasi di una storia della conoscenza, Monaco 1958, 31-70.
50.E. Corecco, Diritto, in: Dizionario Teologico Interdisciplinare, I,
Salamanca 1982, 109-151, qui 117.
51.Cfr. Mt 12, 28-34 e 1 Gv 4, 7; per un'analisi del significato
neotestamentario dell'amore, cfr. C.Spicq,Art. in:Lessico teologico
del Nuovo Testamento, Friburgo 1991, 18-23.
52.H. Schürmann, La nuova fondazione dell'ordine e
Diritto nella Chiesa, stesso, studi sul Nuovo Testamento
Etica, Stoccarda 1990, 247-268, qui 264.

Di questi dati biblici sul significato teologico del diritto si


può dedurre un primo principio di legittimazione di un diritto
ecclesiale teologicamente fondato: un diritto ecclesiale è legittimo
solo se si riferisce alla comunità ecclesiale e se mette in luce i
elementi che la costituiscono come comunità salvifica fondata da
Gesù Cristo; questo stesso diritto non è legittimo se pretende di determinare
in modo giuridicamente vincolante il rapporto immediato dell'uomo
con Dio, come se fosse possibile inserire tale relazione in norme
giuridiche 53.

b) Libertà religiosa

L'assioma agostiniano «non si può credere se non volendo»54ha


trovato una solenne conferma nella dichiarazione conciliari
sulla libertà religiosa: «Uno dei capitoli principali della
dottrina cattolica, contenuta nella parola di Dio e predicata
costantemente dai Padri, è che l'uomo, credendo, deve
rispondere volontariamente a Dio, e che, pertanto, nessuno deve essere
forzato ad abbracciare la fede contro la sua volontà. Perché l'atto di fede è
volontario per sua natura, poiché l'uomo, redento da
Cristo Salvatore e chiamato da Gesù Cristo alla filiazione adottiva, non
può aderire a Dio, che si rivela a se stesso, a meno che,
attratto dal Padre, renda a Dio l'omaggio razionale e libero della fede.
È, pertanto, in totale accordo con la natura della fede escludere
qualsiasi genere di coercizione da parte degli uomini in materia
religiosa. E per questo, il regime di libertà religiosa contribuisce non poco
a fomentare quello stato di cose in cui gli uomini possano
facilmente essere invitati alla fede cristiana, abbracciarla per propria
determinazione e professarla attivamente in tutta la ordinazione di
vita» (DH 10).

Con questo i padri conciliari volevano affermare, soprattutto, il diritto


alla libertà religiosa in tutta la società civile, un diritto radicato in
la dignità della persona umana e conforme con la rivelazione
cristiana. Tale diritto, tuttavia, non deve essere limitato alla libera
accettazione della fede, come si potrebbe dedurre dal contesto dedicato a
le missioni in cui era stato inserito il Codice pio-benedettino. Il
il diritto alla libertà religiosa deve essere riferito all'esercizio della fede in
su globalità: non è solo libero il

53.Cfr. P. Krämer, Diritto canonico, o.c., vol. I, 24.


54.Cfr. PL. 43, 315(Contra litteras Petiliani).Da allora, sotto
forme diverse, è sempre stata presente nella tradizione
canonica, cfr. CIC/1917 can. 1351: Ad amplexandam fidem catholicam
nessuno può essere costretto contro la propria volontà.

atto di fede, ma anche il suo modo di configurare la vita dell'uomo55.


In effetti, i padri del Concilio affermano nuovamente: «La dignità
l'umano richiede, quindi, che l'uomo agisca secondo la sua coscienza
e libero arbitrio, cioè, mosso e indotto da una convinzione interna
personale e non sotto la pressione di un cieco impulso interiore o della mera
coazione esterna" (GS 17).

Da questo chiaro insegnamento del concilio Vaticano II si deduce un


secondo principio di legittimazione di un diritto ecclesiale
teologicamente fondato: un diritto ecclesiale è legittimo solo in
la misura in cui rispetta il diritto alla libertà religiosa; quella stessa
il diritto ecclesiastico non è legittimo nel caso danneggi o abolisca il diritto
alla libertà religiosa 56.

c) Víncolo nella fede

Le ricerche esegetiche e semantiche sui termini


griegos–leuqer–a (libertà) e parrhs–a (franchezza), adatti per
esprimere il concetto di libertà, hanno ampiamente dimostrato che
precisamente nella sua accezione giuridica, la libertà è un concetto che
porta all'essere più che al fare57. Libertà, piena appartenenza, filiazione
(Ga 4, 5) e possesso di diritti sono termini sinonimi nel
linguaggio teologico. Per questa ragione non è possibile parlare nella Chiesa di
libertà prescindendo dal vincolo della fede. L'ordinamento ecclesiale di
la libertà è completamente destinata a rendere possibile che la
La Parola e il Sacramento comunichino nella fede la partecipazione all'essere
divino in modo autentico e integro58In questo ordinamento, al
principio della libertà e responsabilità personale nell'atto di fede
corrisponde all'obbligo di «cercare la verità», di «aderire a
verità conosciuta» e di «ordinare tutta la vita seguendo le esigenze
della verità» (DH 2, 2).

Tanto l'enunciazione formale che la proclamazione definitiva delle


verità della fede, contenute nel depositum fidei della Chiesa
cattolica, come l'obbligo di prestare il proprio assenso personale
a questi credenda, hanno un valore normativo e sono di natura
giuridica. Questo non significa, tuttavia, che la fede, atto libero per
l'eccellenza deve essere considerata nella Chiesa, che è comunità
di fede, come una realtà giuridica rigida. Non si

55.Cfr.H. Schmitz,Tendenze della legislazione postconciliare,Trier


1979, 31.
56.Cfr.P. Krämer, Diritto ecclesiastico, o.c., vol. I, 25.
57.Cfr. soprattutto: D.Nestle, Eleutheria. Studi sulessere della
Libertà tra i Greci e nel Nuovo Testamento. Parte 1 La
Griechen, Tübingen 1967; H. Schlier, parrhs-a, in: Grande Lessico del
N.T., IX, Brescia 1974, 877-932.
58.Cfr.J. Ratzinger, Legge della Chiesa e libertà del cristiano, in: Studia
Moralia 22 (1984) 171-188.

deve essere una coincidenza che i Padri del Concilio parlino di progresso in
l'«intelligenza della fede» (GS 62, 2) e nella comprensione di
«tradizione sacra» (DV 8, 2), e anche di una ««gerarchia» nella
verità» (UR 11, 3). Questo processo è profondamente dinamico,
perché lo guida lo Spirito Santo attraverso due doni, di natura
carismatica, che ha fatto la Chiesa: quello dell'infallibilità (LG 25, 3) e
el delsensus fidei(LG 12, 1).

Da tutto ciò deriva un terzo principio di legittimazione di un


diritto ecclesiale teologicamente fondato: un diritto ecclesiale sarà
legittimo se serve allo stesso tempo alla realizzazione di una trasmissione
integra delle verità di fede e a un'adesione a esse libera e viva;
questo diritto sarà, invece, illegittimo se intende portare a termine la
protezione della fede con una normativa rigida e così astratta che
disconosci il ruolo della tempestiva e libera decisione nella fede59.

Comunità, libertà e legame legittimano l'esistenza di un diritto


ecclesiale, perché a loro si riferisce qualsiasi nozione di diritto. Con
tutto, aver mostrato l'applicabilità di questi principi alla Chiesa non
si suppone ancora di aver dimostrato la necessità di un Diritto canonico.
Per fare questo è necessario analizzare più da vicino il concetto di
Chiesa tenendo presente, come suggerisce A. Rouco Varela - discepolo di
K. Mörsdorf–, che, trattandosi di un mistero, non si può concentrare
attenzione propria unicamente su un aspetto particolare – come, per
esempio, quello di Popolo di Dio o quello di Corpo mistico di Cristo–, ma non
è necessario procedere in modo progressivo tenendo presenti
tutti i legami essenziali di cui è costituito60. Dopo
sarà necessario, anche se brevemente, valutare il significato
teologico specifico di ciascuno di questi legami nel processo di
formazione dell'ordine giuridico-eclesiale, che trova nella communio
supropio fin ultimo.

3.2 Fonti della struttura giuridica della Chiesa come


comunione

Il concilio Vaticano II si era posto come compito principale tornare a


dire al mondo come la Chiesa vede se stessa e come concepisce il suo
missione tra gli uomini. Per portare a termine questo compito partirono i
Padri conciliari di una visione «sacramentale»61del mistero ecclesiale:
«La Chiesa è in

59.Cfr.P. Krämer, Kirchenrecht, o.c., 27.


60.A. Rouco Varela, Il Statuto ontologico ed epistemologico del diritto
canonico. Note per una teologia del diritto canonico, in: RSPhTh
57 (1973), 203-227.
61.Cfr. LG 9, 3; 48, 2; AG 1, 1 e lo studio di O. Semmelroth, La Chiesa
come sacramento di salvezza, in: MySal, IV/1, Madrid 1977, 171-
188.

Cristo come un sacramento, ossia segno e strumento dell'unione


intima con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (LG 1). In
questa visione è già presente, in modo implicito, la visione della Chiesa
come «communio cum Deo et hominibus», che sarà l'idea centrale e
fondamentali dei documenti del Concilio e convertirà la
ecclesiologia di comunione nel «fondamento per l'ordine della
Chiesa e, soprattutto, per una corretta relazione tra unità e
pluralità nella Chiesa» 62.

Proprio perché centrale e fondamentale, il concetto di koinwn–a


è idoneo a riassumere e manifestare tutti i significati teologici e
giuridici delle diverse immagini con cui il concilio Vaticano II
descrivi il mistero della Chiesa. Anzi, dato che quest'ultimo
diritto divino, studiare le fonti da cui si struttura
giuridicamente la Chiesa comocommuniosignifica chiarire le
relazioni tra comunione ecclesiale e Diritto canonico e, pertanto,
profondire ulteriormente il discorso sui fondamenti
teologici di quest'ultimo.
a) I principali elementi della nozione conciliare di Chiesa e il suo
significato per il Diritto canonico

Alla fine del secondo capitolo della costituzione dogmatica Lumen


i Padri conciliari sintetizzano in un'unica frase le
immagini bibliche che sono state usate per descrivere il mistero del
Chiesa: «Così, dunque, la Chiesa prega e lavora affinché la totalità del
il mondo si integri nel Popolo di Dio, Corpo del Signore e Tempio
dello Spirito Santo, e in Cristo, Capo di tutti, si renda al Creatore
universale e Padre di ogni onore e gloria» (LG 17). La prospettiva trinitaria
di questa descrizione del mistero della Chiesa non fa altro che accentuare il
carattere complementare e di reciproca integrazione delle tre
immagini bibliche usate: Popolo di Dio, Corpo di Cristo e Tempio
dello Spirito Santo63.

Con la riscoperta dell'immagine biblica del Popolo di Dio, i


I padri conciliari - soprattutto in LG 9 - intendono mettere di
manifesta tre caratteristiche fondamentali della Chiesa: il suo essere
costituita non da una deliberazione umana, ma da una selezione o
elezione di Dio (LG 6, 3 e 4); il suo carattere di comunità, dato che
Dio guida gli uomini alla salvezza, non in modo individuale,
sino riunendoli nel suo villaggio (LG 4, 2);

62.Cfr. Sinodo dei Vescovi, Relatio finalis. Exeunte coetu secondo (7 dic
1985), II, C, 1, en: EV, 9, n. 1800.
63.Cfr.Aymans-Mörsdorf,Kan R I, 21.

su orientamento dinamico nei confronti del Popolo che cammina tra ciò che
Dio ha già fatto per la salvezza dell'uomo e ciò che ancora non è stato
manifestato (LG 5, 2; 8, 4). Di conseguenza, non è difficile comprendere,
nelle relazioni reciproche esistenti tra tutti coloro che
appartengono alla Chiesa come Popolo di Dio, aspetti di natura
giuridica: la corresponsabilità di tutti nella missione della Chiesa (LG
31, 1); su uguaglianza nella dignità e nell'azione (LG 32, 3); sus
diritti e doveri nella costruzione della Chiesa (LG 37, 1).

L'applicazione simultanea dell'immagine paolina di Corpo mistico di


Cristo permette ai Padri conciliari di mettere immediatamente in
guardia contro possibili interpretazioni unilaterali: il Popolo di
Dio esiste solo come Corpo mistico di Cristo (LG 7, 3 e 4), perché
solo in Gesù Cristo si trova la storia della salvezza sua
adempimento e la sua forma radicalmente nuova. La Chiesa, in quanto tale,
è una realtà sacramentale, ed è per questo visibile e invisibile allo stesso tempo
tempo, dell'intima unione con Dio e con gli altri uomini (LG 1).
Questo, dal punto di vista canonistico, significa almeno due cose:
In primo luogo, il carattere sociale e visibile della Chiesa è di
natura sacramentale e, di conseguenza, non qualificabile a partire da
parametri secolari, come aveva fatto, tuttavia, Roberto
Belarmino confrontando - in reazione alla riforma protestante - la
visibilità della Chiesa con quella della Repubblica di Venezia; e, in
in secondo luogo, la comunità ecclesiale è strutturata
gerarchicamente, perché la diversità dei mestieri dipende da
varietà dei doni conferiti dallo Spirito Santo e «tra questi
le donne mettono in evidenza la grazia degli Apostoli, alla cui autorità lo stesso
«Lo Spirito subordina anche i carismatici» (LG 7, 3).

Infine, in numerosi passaggi - come ad esempio, LG 4, 1; SC 2;


AG 7, 2 e PO 1–i Padri conciliari definiscono la Chiesa come
«Tempio dello Spirito Santo», perché se «la Testa di questo corpo è
Cristo» (LG 7, 4), la funzione che nello stesso corpo svolge il
Lo Spirito Santo è paragonabile a «la funzione che esercita il principio di
«vita o anima nel corpo umano» (LG 7, 7). Questo significa che il
Lo Spirito Santo istruisce e dirige la Chiesa «con diversi doni
gerarchici e carismatici» (LG 4, 1), per cui anche i fedeli, a
coloro che sono stati concessi i secondi, hanno il diritto e il dovere
di esercitarli per il bene di tutta la comunità ecclesiale (AA 3, 3),
per l'edificazione della Chiesa come realtà di comunione.

Con questa ultima nozione riassumono e sintetizzano i Padri conciliari


tutti i diversi aspetti del mistero della Chiesa, illustrati con
il recupero delle immagini bibliche appena analizzate. In
effetto, nonostante l'uso polivalente del termine neotestamentario
koinwn–a, il cui significato principale era quello di «possessione comune di un
bene» o «partecipazione a un interesse comune64è possibile segnalare
facilmente due accezioni fondamentali della nozione conciliare
decommunio: la prima designa in modo generico le relazioni
comunità umane (comunione tra persone o comunione
fraterna); la seconda indica la realtà sacramentale, e per questo
qualitativamente distinta, delle relazioni ecclesiali; sia a livello
ecclesiologico come quello dell'antropologia teologica.

Vi sono diversi significati canonistici di questo secondo significato


della nozione conciliare di comunione. Prima di esaminarli risulta,
tuttavia, è indispensabile illustrare come Parola, Sacramento e
Il carisma concorre nella strutturazione giuridica di questa «una realitas
complessa» (LG 8, 1), che è la Chiesa come comunione, perché i tre
costituiscono le loro fonti primarie.

b) Parola e Sacramento nella edificazione della comunione ecclesiale


La priorità sistematica e sostanziale restituita da K. Mörsdorf,
incluso prima del concilio Vaticano II, alla Parola e al Sacramento in
ordine alla edificazione della Chiesa, anche nei suoi aspetti giuridici,
è stata rafforzata sia dal riscoprimento della reciprocità
strutturale tra questi due strumenti originari della
comunicazione ecclesiale della salvezza, come per la registrazione di
complementarietà tra la radice escatologica e quella pneumatologica di
l'unità operativa tra Parola e Sacramento nella edificazione di
Chiesa comunione.

In effetti, dopo il concilio Vaticano II, da un lato, la relazione


La parola-Sacramento deve essere definita all'interno di un ventaglio di
posizioni che vanno da quella di O. Semmelroth, secondo cui la
La parola deve essere compresa come quasi-sacramento, quella di K.
Rahner, secondo il quale il Sacramento deve essere considerato come «il
tipo di efficacia più alta della Parola espressa65. Comunque,
c'è un dato su cui tutti sono d'accordo: Parola e Sacramento
sono due entità distinte, ma reciprocamente ordinate, e per
essa devono essere considerate come due principi, strettamente uniti
e dipendenti l'uno dall'altro, dell'unico processo–cristologico

64.J. Hamer, La Chiesa è una comunione, Parigi 1962, 176. Per un


analisi canonistica di questa nozione conciliare, cfr. O. Saier, Communio
nella dottrina del Concilio Vaticano II. Un concetto giuridico
Indagine, Monaco 1973, soprattutto 1-24.
65. A questo proposito, cfr. il breve ma preciso articolo di G.
Koch, Parola e Sacramento, en: LKD, 559-560, dove raccoglie ciò
essenziale del suo saggio precedente: Parola e Sacramento come
Funzioni della Chiesa, G. Koch e altri, Attualmente in parola e
Sakrament, Friburgo 1976, 48-83.

y pneumatológico–della formazione della Chiesa come luogo di


salvezza per l'uomo66.D'altro canto, proprio all'interno di
questa prospettiva diventa sempre più chiara che se l'origine
cristologico della Parola e del Sacramento - come ha dimostrato
ampiamente K. Mörsdorf–imprime una forza giuridicamente
vinculante al comune carattere simbolico comunicativo, l'esplicitazione
del valore giuridico di quest'ultimo non elimina, tuttavia, l'intrinseca
dinamicità, propria di ogni segno comunicativo. Potrebbe trovarsi
una conferma di questo nella, ancora non sufficientemente esplorata,
dimensione spirituale o pneumatologica dell'unità tra Parola e
Sacramento. Questa dimensione era stata, almeno, intuito come
complemento inevitabile dell'origine cristologica dell'unità tra
Parola e Sacramento per Söhngen lì dove, in un modo molto
suggestivo, afferma: «Il Sacramento è completato dalla Parola con la
pienezza di una spiritualità più efficace e la Parola è completata
per il Sacramento con la pienezza di un'efficacia maggiore
spirituale67. Con tutto, lo stesso autore non dice, sfortunatamente, se
questa spiritualità efficace della Parola e questa efficacia spirituale del
I sacramenti hanno una rilevanza ecclesiologica precisa e distinta dalla
che possiede la dimensione cristologica della stessa unità tra Parola
y Sacramento. Di conseguenza, per comprendere a fondo il
significato giuridico di entrambi è necessario analizzare, almeno di
modo breve, la dimensione pneumatologica della Parola e del
Sacramento così come la sua rispettiva apertura al carisma.

Come abbiamo già visto, K. Mörsdorf, lontano dal considerare il Diritto


canónico come basato unicamente sul Sacramento, recupera e
illustra prima di tutto la dimensione giuridica della Parola, dimenticata
completamente, invece, dall'autore luterano Rudolph Sohm. Per
il canonista di Monaco, il carattere giuridico della Parola di Gesù Cristo
deriva dalla propria missione ricevuta dal Padre, che gli permette di risvegliarsi
nei suoi ascoltatori l'impressione di essere di fronte a qualcuno capace di parlare
... come avendo autorità» (Mt 7, 29). Gli Apostoli, invece, la
derivano dal fatto di essere stati scelti personalmente da Cristo
come rappresentanti giuridicamente costituiti con pieni
poteri (deleghe legali). Di conseguenza, anche la
La parola dei vescovi richiede obbedienza e possiede carattere giuridico

66.Cfr.W. Kasper, Parola e Sacramento, in: Fede e


Storia, Magonza 1970, 285-310 (esiste edizione spagnola di parte di
questa opera: Fede e Storia, Seguimi, Salamanca, 1974).
67. "Dalla parola il sacramento con la pienezza di potente spiritualità e
dal sacramento la parola con la pienezza dell'azione spirituale
adempia»(G. Söhngen, Simbolo e realtà nel mistero cultuale, Bonn
1937, 18).

per il seguente motivo: viene pronunciata a nome e per conto del


Signore68Tuttavia, nell'ecclesiologia del concilio Vaticano II si
torna chiaro che quella Parola è legata da un doppio vincolo:
lamissioo missione formale ricevuta da Cristo attraverso
degli apostoli e dei loro successori, così come il nexus
comunioni (c.749 § 2), per professare, custodire e annunciare
la verità rivelata. Questo servizio apostolico alla Parola di Dio,
che si svolge «Spiritu Sancto assistente» (c. 747, § 1), concerne per
tanto a tutta la Chiesa. La responsabile dei testimoni
lacommunioeclesial in quanto tale e per questo si struttura come
interazione reciproca tra il magistero apostolico e il senso fidele
tutti i fedelió9. Questo significa che, proprio lì dove il munus
docendiexpresa più chiaramente la sua dimensione giuridica, manifesta
anche la sua propria dimensione pneumatologica. Il motivo ultimo di questa
la concomitanza deve essere cercata, probabilmente, nell'analogia, già
sottolineata altre volte dall'esegesi cattolica, tra Parola
carismatica e Parola apostolica70Alla luce di quell'analogia, il
diritto all'ubbidienza (il diritto all'obbedienza)
Parola, di Dio e della Chiesa, si presenta come la derivazione di un
evento, la rivelazione della verità, che è un evento
dialógico-personale (un evento dialogico-personale) e, come tale,
non separabile dall'esperienza della comunità di origine
sacrale71. Conseguentemente, la oggettivazione della fede in questa
verità, realizzata attraverso l'enunciazione formale e la proclamazione
definitiva da parte dell'autorità ecclesiastica del così
llamadodepositum fidei, è, per certo, una limitazione di natura
giuridica, ma è totalmente orientata a realizzare efficacemente la
«adesione personale e attiva alla fede» (GS 7, 3). Questa ultima
è una grazia e, come tale, è in una relazione di stretto parentado
con il carisma.

In modo analogo, anche la dimensione giuridica del Sacramento, a la


luce dell'ecclesiologia di comunione del Concilio Vaticano II, si presenta
come strettamente collegata con la pneumatologica, se si adottano
dal punto di vista delle due recuperazioni più importanti della
teologia sacramentale conciliare: la riscoperta ecclesiologica del
dimensione comune

68.Cfr. K.Mörsdorf, Diritto canonico, in: Concetti fondamentali


di Teologia, I, Madrid 1979, 312-322, qui 317-318.
69.Cfr. W.Aymans, Concetto, compito e portatore del magistero,en:
HdbkathKR, 533-540.
70.Cfr.H. Schlier, Parola, in: Concetti Fondamentali di
Teologia, III, Madrid 1979, 241-262, qui 259-261.
71.Cfr.P. Krämer, Fondamenti teologici del diritto ecclesiastico,
o.c.,125.

nitaria dei sacramenti e la convinzione antropologica del suo essere


segni capaci di generare una nuova solidarietà. Entrambi concorrono a
rendere più comprensibile e convincente l'intuizione di K. Mörsdorf che,
come abbiamo già visto, cattura e sviluppa la dimensione giuridica del
Sacramento nella sua analogia con il simbolo
giuridico(Simboli giuridici). In effetti, concentrandosi sul rigido parentado
che esiste tra simbolo giuridico e sacramento, il canonista di Monaco
riuscire, allo stesso tempo, a fondare la giuridicità dell'ordine
sacramentale della Chiesa e la sua specificità, in quanto
sacro, rispetto al diritto statale. Questa specificità, tuttavia,
non è riducibile esclusivamente al fatto che, in qualsiasi paese,
un simbolo è giuridicamente vincolante solo nella misura in cui è
riconosciuto come tale dalla tradizione culturale dello stesso popolo,
mentre il segno sacramentale è giuridicamente vincolante per il
Popolo di Dio solo per essere stato istituito da Cristo, che è la
definitiva possibilità di salvezza offerta da Dio all'uomo. E è
che anche la realtà sociale o comunitaria generata dal simbolo
giuridico e quella generata dal sacramento sono distinte, cioè sono
regolate e ordinate da principi distinti, perché la solidarietà
nato dalla celebrazione dei sacramenti non è puramente umano
o naturale. Si tratta della comunione dei fedeli, in cui viene realizzata la
salvezza portata da Cristo e comunicata agli uomini da
sacramento come «la realizzazione concreta di ciò che la Chiesa è
come tale e nel suo insieme72. Ma la Chiesa—come insegna il
concilio Vaticano II—non è una società umana come le altre, ma
che forma «una realtà complessa, che è umana e divina
«coalescit elemento» (LG 8, 1). Pertanto, precisamente in
virtù di questa reciprocità di immanenza tra Chiesa e sacramenti, questi
ultimi riflettono anche la specificità della comunità ecclesiale
come atti giuridici, e viceversa. Questo significa che non esiste cesura
tra la dimensione giuridica della Chiesa e quella dei sacramenti, né
sicuramente lì dove dovrebbe essere meno evidente di quanto possa
essere nel caso del battesimo, fondamento di ogni diritto e dovere del
fedele, o nel caso dell'Eucaristia, e culmina tutta la vita
ecclesiale, fino al punto che la Chiesa stessa può essere definita
sostanzialmente come una comunione eucaristica.

La constatazione che la dimensione pneumatologica della Parola e


del Sacramento non limita, ma dilata e rafforza la sua capacità di
produrre relazioni giuridiche all'interno della Chiesa
comocommunio, apri il ca-

72. J. Ratzinger, Teoria dei principi teologici, Barcellona 1986,


54.

mino tanto al recupero del ruolo ecclesiologico costituzionale del


carisma, come alla scoperta della sua dimensione giuridica. Per lo
prima di tutto, a livello del diritto canonico, è decisivo il fatto che
che l'insegnamento conciliare sui carismi mette in evidenza come il
il ministero non è la fonte da cui sgorgano tutte le questioni di
ordine costituzionale; per quanto riguarda il secondo, invece, ha una grande
importanza la comparazione con la consuetudine canonica, considerata
sin da sempre come fonte del diritto nella Chiesa.

c) Il ruolo eclesiologico-costituzionale del «Carisma»


Considerandolo nel suo insieme, il concilio Vaticano II fa un uso
sobrio dei termini carisma e carismaticus73.Paradossalmente,
tuttavia, tale sobrietà non proietta ombra alcuna sui
carismi, bensì finisce piuttosto per mettere in evidenza sia il suo
natura specifica in relazione agli altri doni dello Spirito
Santo, come il suo decisivo ruolo ecclesiologico.

Da una lettura attenta di LG 12, 2, dove è ampiamente diffuso


il senso neotestamentario di carisma si evince chiaramente che
I Padri del Concilio Vaticano II volevano focalizzarne la natura
specifica attraverso cinque asserzioni: a) i carismi sono «grazie
speciali» (grazie speciali), b) dispensate liberamente dal
Spirito Santo «tra i fedeli di ogni ordine», c) con i quali «i
«abili e pronti» (aptos et promptos) per assumere diversi
funzioni al servizio di una «maggiore espansione della Chiesa»; d) questi
gli stessi carismi si distinguono tra "straordinari" e "più
semplici o ampiamente diffusi» e) ma tutti indistintamente
sono soggetti al «giudizio dell'autorità nella Chiesa» in tutto ciò che
rispetta il suo carattere genuino e, nel caso in cui si rivelassero tali,
non possono essere estinti.

In LG 4, 1 si afferma: «Egli (lo Spirito Santo) introduce la Chiesa in


pienezza della verità (cfr. Gv 16, 13), la unifica nella comunione e nel
ministero, la fornisce e la dirige con diversi doni gerarchici e
carismatici...». In questo testo si sottolinea come l'unità misteriosa
della comunione ecclesiale è realizzata dallo Spirito Santo attraverso
due tipi diversi di

73. Il terminecharisma appare undici volte (LG 12, 2; 25, 3; 30; 50,
1; DV 8, 2; AA 3, 3-4; 30, 11; AG 23, 1; 28, 1; PO 4, 2; 9, 3), mentre
che l'aggettivo derivato charismáticos appare solo tre volte (LG 4, 1; 7, 3;
AG 4); per un'analisi dettagliata di questi testi cfr.G.
Rambaldi, Uso e significato di «Charisma» in Vaticano //. Analisi e
confronto di due passi conciliari sui carismi, en: Gregorianum 66
(1975), 141-162.

donazioni concesse, simultaneamente e costantemente, alla Chiesa: i


gerarchici e carismatici. Una simile verità dogmatica, sì, per
una parte, impedisce di opporre il carisma al ministero e,
conseguentemente, ridurre la Chiesa, unilateralmente, a una
comunità carismatica, dall'altra, impedisce anche di ridurre, così come
unilateralmente, il mistero ecclesiale a una struttura piramidale
centrata sulla gerarchia. Sia i doni gerarchici che i
carismatici provengono dallo stesso Spirito di Cristo e possono essere
considerati entrambi, sebbene seguendo modalità diverse, come
strutture o funzioni «ex institutione divina» (LG 22, 1 e LG 32, 1).

Finalmente, leggendo AA 3, 3-4, il canonista rimane impressionato da


immediato per l'importanza che attribuiscono i Padri conciliari al
«diritto e dovere di ogni credente» di esercitare il carisma ricevuto
dello Spirito Santo. Senza intaccare minimamente l'importanza
canonistica di un'affermazione simile, non è possibile evitare di osservare, a
nonostante tutto, che ne dici di «diritto e dovere» è un'implicazione necessaria
del principio generale di ordine costituzionale affermato da LG 12, 2 e
secondo cui i carismi possono essere conferiti a ogni tipo di
fedeli. Nel passaggio del Decreto sull'apostolato dei laici, ancora
più che in quello corrispondente alla costituzione dogmatica su la
Iglesia, l'autenticità di tale interpretazione è confermata da
riferimento esplicito al diritto di seguire il proprio carisma, che deve
essere esercitati «in comunione con i fratelli in Cristo e, soprattutto,
con i propri pastori.

Da questi tre testi conciliari si possono dedurre anche linee di


demarcazione tra le quali è possibile precisare il ruolo
eclesiologicoconstituzionale del Carisma: 1) il Carisma è una grazia
speciale, diverso dalla Parola e dal Sacramento, ma anche è
orientato strutturalmente all'edificazione della comunione ecclesiale; 2)
in quanto tale, il Carisma non è riducibile né a un talento personale, né a
un dono dello Spirito Santo concesso indistintamente attraverso il
battesimo; 3) la sua relazione di complementarità con il mistero
dimostra, da una parte, che il Carisma appartiene alla Costituzione
della Chiesa e, dall'altra, smaschera la falsità dell'opposizione, di
origine romantico-protestante, tra Carisma e Istituzione. A partire da
questi principi, e in particolare dell'ultimo, risulta più facile
comprendere la ragione del fatto che nella teologia dogmatica contemporanea
è un dato acquisito con certezza che nella Chiesa la Costituzione
è una categoria o entità superiore all'Istituzione. Ad esempio, il
teologo H. U. von Balthasar, in piena sintonia con una dilatata
tradizione dogmatica, arriva a definire l'Istituzione ecclesiale come una
specie di «kenotische Verfassung»

questo è, come una riduzione kenotica del mistero della Chiesa, idoneo
per impedire – attraverso la logica dell'obbidienza ecclesiale che
garantisce la permanenza della «Memoria Christi»–una privatizzazione
dalla esperienza ecclesiale74.

Per calibrare tutta l'importanza canonica di questa definizione


la balthasariana della Istituzione ecclesiale è, tuttavia, importante
accorgersi che l'equazione tra Istituzione e sacramento
del ordine è falsa, perché ogni sacramento e, quindi, anche il
battesimo, che conferisce il sacerdozio comune e il senso fidei, è nel
Chiesa un elemento istituzionale. Di conseguenza, l'Istituzione
l'ecclesiale non è riducibile al sacerdozio ministeriale. A lei appartiene
anche il sacerdozio comune che, insieme al sensus fidei, costituisce
il fondamento della partecipazione di tutti i fedeli nella missione della
Chiesa nel mondo. Una prova inconfutabile di ciò è il fatto che
il sacramento del battesimo, considerato da sempre come
laianua sacramentorum, costituisce il criterio di differenziazione tra
la qualità istituzionale della religione cristiana - propria di molte sette
fondato esclusivamente sulla fede in Cristo attraverso la Parola–
e la qualità costituzionale-istituzionale di ecclesialità che, per essere
tal, esige per lo meno lo spessore sacramentale del battesimo75.Y
precisamente nel battesimo affiora, paradigmaticamente, il valore
giuridico di tutti i sacramenti e, di conseguenza, anche di
Parola, la quale, anche se non è sempre annunciata in concomitanza
con la celebrazione dei sacramenti, ha sempre, nonostante tutto,
almeno nelle parole della forma sintetica e definitoria di tutto
sacramento, la funzione di produrre l'effetto soteriologico e socio
giuridico del segno simbolico sacramentale.

La concezione del battesimo come elemento portatore, non solo di


Costituzione, ma anche dell'Istituzione ecclesiale, consente di misurare
facilmente come la relazione fede-Chiesa non è identica, né omologa a la
di cittadino-Stato. Effettivamente, nella Chiesa come realtà di
comunione, contrariamente a quanto accade nello Stato moderno,
nessuna relazione interecclesiale si realizza seguendo la dialettica
persona-istituzione, ma come relazione tra Istituzione e Istituzione,
cioè, tra persona e persona. E la ragione è la seguente: mentre
che le funzioni nello Stato sono caratterizzate da una specie
di ipostatizzazione, i ministeri non esistono nella Chiesa in modo di
realtà dotate di senso in sé stesse, cioè come

74.Cfr.Pneunta e Istituzione. Schizzi sulla Teologia, vol. 1V, Einsiedeln


1974, 129-130 e 229-233.
75. Cfr.E. Corecco, Battesirno, in: Digesto delle Discipline
Pubblicistiche, editato da R. Sacco e altri, vol. II (1987), 213-216.

astrazioni istituzionali in relazione ai sacramenti. Esistono


come componente ontologico delle persone battezzate e,
eventualmente, delle persone ordinate con il sacramento del
ordine76.

Per questa ragione, se per istituzione si intendono le strutture stabili e


costitutive di una realtà sociale, è necessario concordare che questa
l'implementazione è conferita alla Chiesa dal Sacramento e dalla Parola,
che si compenetrano reciprocamente, dando origine, tra le altre cose,
la figura centrale del soggetto canonico che è
elchristifidelis, sottostante e immanente nei tre stati di vita
ecclesiale e, quindi, nelle persone dei laici, dei sacerdoti e
dei religiosi. La Chiesa come Istituzione non coincide per questo
semplicemente con l'organizzazione dei poteri pubblici, cioè di
l'autorità. L'istituzione ecclesiale si realizza sempre attorno ai
due poli del battesimo e dell'ordine sacro, convergenti, insieme a
gli altri sacramenti, nell'Eucaristia, in cui si manifesta
anche il principio strutturale della Costituzione della Chiesa.
Effettivamente, nell'Eucaristia è rappresentata tutta la Chiesa,
perché questo sacramento è, allo stesso tempo, la fonte e l'origine
delculmende tutta la vita della Chiesa, come afferma il Vaticano II (SC
10). In essa arriva quindi alla sua consumazione il processo di integrazione
tra Istituzione e Costituzione iniziato nel battesimo, comoinitium et
esordio di tutti i gradi della comunione ecclesiale.

Da quanto finora esposto, si può estrarre la seguente


conclusione, valida sia per la teologia dogmatica che per il
Diritto canonico: nella Chiesa, l'Istituzione consiste
sostanzialmente nei sviluppi giuridico-strutturali assunti
storicamente sia per il sacerdozio comune, sia per il sacerdozio
ministeriale; la Costituzione, al contrario, non ha una forma fissa
Dimensione), perché, oltre alla Parola e al Sacramento, deve
contare altresì con un terzo elemento primario: il
Carisma77. Include perciò tutti gli elementi strutturalmente
necessari per l'esistenza stessa della Chiesa, per l'individuazione
de la sua identità come soggetto giuridico. Questa conclusione può essere
compresa

76. Per uno studio comparato delle due nozioni di Istituzione e


Costituzione nel diritto statale e in quello canonico, cfr. L.
Gerosa, Carisma e diritto nella Chiesa. Riflessioni canonistiche sul
"carisma originario" dei nuovi movimenti ecclesiali, Milano 1989, 108-
179.
77. Il fatto che la Costituzione della Chiesa non sia una magnitudine
rígida si dimostra per il fatto che non è garantita da un
tribunale supremo, senza semplicemente per l'assistenza dello Spirito
Santo, promesso da Cristo: cfr. K. Mörsdorf, Costituzione della Chiesa. 1.
Cattolica K.,en: Lthk, vol. VI (Friburgo in Br. 1961), 274-277, qui
274-275.

più facilmente attraverso le sue conseguenze giuridiche, se il


il canonista non dimentica che entrambi gli aspetti della realtà ecclesiale, ossia
la Costituzione e l'Istituzione sono soggette all'intervento
costante dello Spirito Santo il cui opus proprium è la costruzione di
lacommunio, in cui l'uomo può ritrovare
plenamente su libertà 78. Precisamente per questa doppia ascendenza
pneumatologica della communio, al canonista provocano una uguale
preoccupazione delle convinzioni diverse e opposte: «... la posizione
che nega e disprezza la funzione ecclesiale del Diritto canonico per
sottolineare l'importanza dei carismi, e quella che esalta l'elemento
giuridico, perché sia l'una che l'altra... sembrano unilaterali. Entrambe
coincidono, in definitiva, nel concepire il diritto della Chiesa come qualcosa di
che ha senso solo alla luce dei dati istituzionali e nel vedere il
dinamismo carismatico come qualcosa che, in virtù della sua vitalità, rimane
al margine del diritto» 79.

Da questa giusta prospettiva, giuridico non è, quindi, sinonimo di


istituzionale, le due categorie di Istituzione e Costituzione hanno in
la Chiesa ha un significato diverso da quello che assumono nell'ordinamento
giuridico dello Stato moderno.

Se si pensa, a questo punto, al fatto che nemmeno le


Le costituzioni statali moderne si presentano così esaustive come
parecerebbe voler pretendere la tradizione giuridica liberale—da quando esistono
diritti fondamentali (come il diritto alla vita, per esempio) che,
per avere carattere costituzionale non sono formalizzati in modo
positiva nei documenti istituzionali—, si mette in evidenza
come, per definire meglio l'Istituzione e la Costituzione nella Chiesa, le
risulta necessario al canonista separarsi dal riferimento costante a
i modelli statali. In effetti, la Chiesa, a differenza dello Stato
moderno, non solo è privo di una Costituzione formale, ma il suo
La costituzione materiale contiene un elemento strutturante che non
permette di identificare la Costituzione con l'Istituzione. Questo elemento
strutturante è il Carisma che, essendo dato dallo Spirito Santo a la
Chiesa per edificare la comunione attraverso la realizzazione del
equilibrio fecondo della bipolarità istituzionale (chierici e laici) che
la caratterizza, svolge un ruolo ecclesiologico di cerniera tra
Istituzione

78.Cfr. J.Ratzinger, Lo Spirito Santo come «communio». Per una


relazione tra pneumatologia e spiritualità in Agostino, in: C.
Heitmann - H. Mühlen (a cura di), Esperienza e teologia dello Spirito
Santo, Salamanca 1978, 301-319.
79.P. Lombardia, Carismi e Chiesa istituzionale, in: Studi in onore di
PietroAgostino d'Avack, vol. 11, Milano 1976, 957-988, qui 965.
e Costituzione; un ruolo che rivela tutta la sua forza costituente in
relazione con la costruzione della communio. Il Carisma, rivendicando
per l'Istituzione la priorità assoluta dello Spirito e relativizzando il
potere di qualsiasi elemento o organo della Costituzione gerarchica di
la Chiesa, affinché nessuno di loro diventi assolutamente
autarchico, vivifica la stessa Istituzione e la aiuta a superare il
escollo della competitività propria di ogni tipo di potere, che nella
La chiesa è sempre stata tradotta nella preminenza della gerarchia
sui laici e dei laici sulla gerarchia.

Dal punto di vista giuridico questo particolare ruolo ecclesiologico del


Il carisma ha certamente un peso specifico, misurabile attraverso
la sua capacità di essere - almeno nella sua forma più realizzata, ovvero, nel
cosiddetto «carisma originario» o «carisma fondazionale» –, insieme a
la Parola e il Sacramento, fonte di relazioni di comunione
giuridicamente vincolanti.

d) Carisma, persona e comunità

L'analisi del fenomeno associativo generato da un carisma originario


o fondazionale80consente di indicare quattro caratteristiche sue
fondamentali in ordine alla comunione ecclesiale: 1) la capacità del
carisma per coinvolgere in un modo particolare nel
seguimento di Cristo, in cui si dà al fedele la possibilità di vivere il
mistero ecclesiale nella sua totalità e universalità; 2) la capacità del
carisma per tradurre pastoralmente la communio fidelium in una
esperienza di fraternità, che ha come asse l'auctoritas;3) la
capacità del carisma di far sì che il fedele si apra - attraverso questa
fraternità–una lacommunio ecclesiarum e la missione; 4) la capacità
di rendere operativa l'unità tra sacerdozio comune e sacerdozio
ministeriale, evidenziando la reciproca organizzazione del
dimensione giuridica e dimensione pneumatologica della Parola e
del Sacramento.

Le quattro caratteristiche, anche se non si trovano allo stesso livello delle


gli effetti ontologici del battesimo devono essere considerati,
evidentemente, come elementi strutturanti o espressivi della
forza strutturante del carisma originario. Questi elementi, nel
interior del fenomeno associativo generato da questo ultimo, non sono
regole di consuetudine semplici, ma che possiedono un carattere vincolante,
e svolgono un ruolo essenziale nella determinazione della natura
e la finalità del gruppo o movimento ecclesiale. Questo carattere vincolante
È di natura giuridica? Per rispondere alla domanda è necessario
stabilire un confronto tra carisma e
80. Per un'analisi di questo tipo, cfr. L.Gerosa, Carisma e dirittoplei
Chiesa, o.c., 79-90.

suetudo, che, a sua volta, è una specie di carisma comunitario81y, per


Ciao, una forma di partecipazione diretta del Popolo di Dio in
la edificazione della Chiesa. Questo significa, a livello giuridico, che la consuetudine
è una specie del genere fonti del diritto.

Come tale, la consuetudine rappresenta o bene uno strumento di


conoscenza giuridica, oppure un modo tipico di elaborazione del
diritto, diverso dalla legge. La dottrina su quest'ultima considerazione
è discordia. Ciò che è in discussione non è tanto il fatto che
la consuetudine è un procedimento idoneo per elaborare regole di
condotta, come sapere se tali regole sono realmente di natura
giuridica.

Evidentemente, la soluzione data alla questione è strettamente


collegata alla nozione di diritto con cui si lavora e, di conseguenza, a
la penosa questione della definizione del Diritto canonico. Tra le
molte risposte apparse, la più convincente, almeno in
in base alla teoria generale, sembra essere per questo quella che, per risolvere
il problema della differenza specifica tra le cosiddette regole di
costume e le norme consuetudinarie di natura giuridica,
propone un criterio di ordine generale, distinguendo tra regole
estrinseche (non necessarie per l'esistenza del gruppo particolare) e
regole che incidono sulla struttura, la natura e le finalità
stesse di quel gruppo o associazione. Mentre le prime non sono
se le regole di consuetudine, le seconde sono norme giuridiche,
denominate tecnicamente consuetudo 82.

Applicando questo criterio alla realtà ecclesiale appare chiaro che solo le
regole di comportamento che esprimono in modo concreto la forza
struttura del carisma originario, base del movimento o di
l'associazione in questione è di natura giuridica. Come tali,
documentano in modo inequivocabile la capacità che ha il carisma di
essere fonte del diritto, bene nel senso stretto della procedura di
formazione di norme giuridiche, o in un senso, più ampio, di
strumento di conoscenza giuridica. Se tali regole sono
strutturanti all'interno del fenomeno associativo generato da
carisma originario, lo sono perché, in virtù della propria natura,
hanno un'incidenza profonda a livello della realizzazione concreta di
lacommunioeclesial in quanto tale. In altre parole, il suo valore
giuridico si mani-
81.Cfr.R. Bertolino,Sensus fidel et coutume nel diritto dell'Église.en:
Zeitschrift für Philosophie und Theologie di Friburgo 33 (1986), 227-
243; L. Gerosa, Carisma e diritto Hella Chiesa, o.c., 180-203.
82. Questa è la soluzione elaborata da N.Bobbio in un saggio giovanile
sulla «consuetudine come fatto normativo», molto distante dai suoi
recenti posizioni kelsiane, e ripresa in:
N. Bobbio, Consuetudine, in: EDD, vol. IX (Milano 1961), 426-443.

fiesta anche nella sua capacità di agire congiuntamente con tutto il


sistema giuridico a cui appartengono, manifestando la loro natura
specifica.

Quando si tratta qui del sistema canonico, gli elementi strutturanti del
Il carisma deve agire con gli altri elementi della comunicazione come
principio formale di tutto l'ordinamento giuridico della Chiesa. E di
fatto, attraverso questi elementi strutturati, mostra il carisma
tutta la sua propria forza creatrice di diritto, dato che, grazie a
essi, coniugano lo istituzionale o comunitario con lo personale, lo ecclesiale
un obiettivo con lo soggettivo, seguendo la logica dell'immanenza
reciproca che caratterizza la comunione in ognuno dei suoi livelli,
estrutturale e antropologico.

Questa forza strutturante del carisma manifesta il suo valore giuridico,


specialmente, nell'interazione tra persona e communio, tipica di
l'esperienza ecclesiale. Detto in un altro modo, le regole di condotta
generate dal carisma originario sono di natura giuridica perché
permette al fedele, che partecipa alla realtà della comunione ecclesiale
generata da tale carisma, superare la dialettica tra persona e
comunità, riscoprendo il carattere relazionale strutturale della sua
persona come una determinazione ontologica dell'esistenza umana,
dilatata e resa manifesta attraverso il sacramento del battesimo, secondo il
principio escolastico: «La grazia non distrugge, ma suppone e perfeziona»
naturam». Ora, precisamente in virtù della sua struttura
carattere relazionale, la persona è diventata una nozione centrale
della cosiddetta esperienza giuridica. E, di conseguenza, se è
verità, come dimostra la vasta letteratura canonica correlata
con il tema83che il diritto canonico non può trascurare la
nozione di persona così intesa, è altresì vero che il
il canonista può essere aiutato a chiarire i problemi relativi
con lei prestando attenzione al ruolo del carisma nel superamento della
dialettica tra persona e comunità, grazie specialmente al suo
capacità di suscitare una trama di relazioni in cui il bonum
privatum yelbonum publicumson recíprocamente inmanentes e per
sono totalmente ordinati al bene comune delle chiese.
Tutto ciò significa che, in modo ampio e in modi diversi
documenta la storia della Chiesa, il Carisma, come elemento
primario della Costituzione ecclesiale, ha la sua dimensione giuridica, con il suo
propria forza vincolante, e–in quanto tale–è fonte di produzione
giuridica in senso

83. Si consultino, per esempio, i seguenti due saggi: S.


Cotta, Persona. 1. Filosofia del diritto, e C. Mirabelli, Persona fisica.
Diritto canonico, en: EDD, vol. XXXIII (Milano 1983), 159-169 e 230-
234.

lato. Precisamente per essere tale, questo può rispondere e provocare a


Istituzione ecclesiale, tanto quando viene conferito ai fedeli che esercitano il
sacerdotio ministeriale, come quando è concesso ai fedeli che esercitano
solo il sacerdozio comune, che siano uomini o donne. E in entrambi
casi su provocazione dimostra la propria autenticità e la propria
capacità di costruire la Chiesa attraverso la realizzazione di una
interazione efficace tra gli aspetti personali e quelli comunitari
dell'esperienza cristiana, dove la libertà dello spirito si congiunge
sempre con l'obbedienza ecclesiale alla verità di fede. Senza quella
interazione e senza una adeguata distinzione dei suoi elementi giuridici
rispetto a quelli meramente morali, la communio Ecclesia è
scivola inevitabilmente verso l'autoritarismo clericale o verso il
soggettivismo democratico.

3.3 Conclusione: «communio Ecclesiae» e Diritto canonico

Nell'ecclesiologia di comunione del Concilio Vaticano II, struttura


ecclesiale visibile e comunità spirituale non sono due dimensioni o
unità diverse, ma formano la Chiesa come «una realtà
complessa, che è integrata da un elemento umano e uno divino
(LG 8, 1). I Padri conciliari, in piena sintonia con la loro idea di
Iglesia, invece dell'espressione una realtà complessa, avrebbero
poduto usare anche qui il termine biblico-patristico
decommunio, facendo ancora più chiaro che, nella Chiesa, diritto e
comunione non sono due elementi opposti, ma contemporanei e
inseparabili dalla loro struttura costituzionale84. Le fonti di questa
ultimativa–come abbiamo illustrato ampiamente nel paragrafo
precedente–sono tre: Parola, Sacramento e Carisma, anche se questo
l'ultimo è sempre e soltanto al servizio dei primi due. Questo
significa che, nella Chiesa, istituzionale e giuridico non sono termini
sinonimi, anche se tutto ciò che è giuridico è al servizio di
comunione ecclesiale. Infatti, come giustamente osserva E. Corecco,
lacommunioes «... la modalità specifica con cui, all'interno
della comunità ecclesiale, diventano giuridicamente vincolanti o bene
le relazioni intersoggettive, o quelle esistenti a un livello più
strutturale tra le Chiese particolari e quella universale. La realtà di
la comunità tiene per questo una forza vincolante che supera i
limiti tendenzialmente solo mistici della sobornost orientale» 85

84.Cfr.P. Krämer, Diritto canonico 1, o. c., 30.


85. Teologia del Diritto canonico, o.c., 1866.

La verità di questa affermazione è chiaramente sottolineata nel n. 2 di


la Nota esplicativa preventiva di Lumen gentium, dove si precisa
come deve essere inteso il concetto chiave di tutta l'eclesiologia
conciliar: il senso del termine comunione è quello di
«un affetto indefinito, ma quello di una realtà organica, che richiede una
forma giuridica e che, allo stesso tempo, è animata dalla carità86. Si tratta di
bene, di una realtà dotata di un chiaro valore giuridico-costituzionale,
sintetizzabile nel principio della cosiddetta communio Ecclesiae et
ecclesiarum, anche se l'espressione appare una sola volta (AG 19, 3) in
i testi conciliari. Questo principio—come si vedrà in modo
dettagliato nell'ultimo capitolo di questo manuale - trova sulocus
teologici LG 23, 1, dove i Padri del Concilio definiscono il
relazione tra la Chiesa universale e le Chiese particolari: «... in
quibus et ex quibus una et unica Ecclesia cattolica esiste87. En su
nella accezione cattolica comunione significa quindi due cose di grande
importanza, non solo per il diritto costituzionale della Chiesa, ma
anche per tutto il Diritto canonico: a livello strutturale (cioè, il
la comunione delle chiese) è vigente nella Chiesa una reciproca
inmanenza tra l'universale e il particolare; a livello antropologico (o
mare, il de lacommunio fidelium) si registra anche un analogo
inmanenza reciproca tra il corpo mistico della Chiesa e il fedele
cristiano. L'identità metafisica e giuridica di quest'ultimo procede dal
fatto "che l'uomo, in virtù del battesimo, è stato inserito
strutturalmente, e non solo dal punto di vista etico, in Cristo. Il
Cristiano rappresenta Cristo poiché in lui è presente tutto
Cristo con il suo Corpo mistico. Per questo non può essere concepito il
cristiano come un'entità individuale contrapposta a quella collettiva, ma
come soggetto al quale tutta la comunità dei cristiani—di una
maniera misteriosa, ma reale—le è inmanente» 88.

Concludendo, alla luce dell'ecclesiologia di comunione elaborata da


Il Concilio Vaticano II risulta chiaro che il fine ultimo del Diritto canonico
non è semplicemente quello di garantire il bonum commune
Ecclesiae, se non di realizzare la communio Ecclesiae. Dopo il
il Concilio Vaticano II non è più
86. Per un ampio commento su questa fondamentale precisione conciliare
cfr. J. Ratzinger, Nota esplicativa, in: Lthk-Vat II, vol. 1,
350-359, specialmente p. 353.
87. Per uno studio del significato costituzionale di questa formula, cfr.
W.Aymans, La Communio Ecclesiarum come legge di forma dell'uno
Chiesa, en: AfkKR 139 (1970), 69-90, qui 85 (esiste traduzione)
italiana).
88.E. Corecco, I diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella
Società. Aspetti metodologici della questione, en: Atti IV CIDC,
1207-1234, qui 1224.

possibile applicare in modo meccanico e acritico al Diritto canonico la


definizione scolastica del diritto come oggetto della virtù
giustizia89In effetti, ora è chiaro che il diritto nella Chiesa non
si definisce semplicemente per il carattere formalmente vincolante del
umanaiustitia legale (sia commutativa che distributiva), fino a
partire da un tipo superiore di giustizia, la comunione ecclesiale, icona del
amore e giustizia iscritti nel mistero trinitario: «Il mio giudizio è
giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha
inviato» (Gv 5, 30). Poiché il carattere sociale ecclesiale non nasce da un
dinamismo naturale, ma della grazia (Parola, Sacramento e Carisma)
la comunione rappresenta la realtà strutturale in cui si incarna la
grazie con la sua forza ultimamente vincolante. Di conseguenza, con la
la nozione di diritto non è definita nella Chiesa l'oggetto della virtù
della giustizia, ma l'oggetto della «communio Ecclesiae et
ecclesiarum90. In altre parole, la comunione ecclesiale «in omnibus
con le istituzioni canoniche si applica e in questo modo si ordina tutto
canonicum informet91. Questo rappresenta quindi lo statuto ontologico
del diritto della Chiesa e, come tale, il principio formale del Diritto
canónico92. Questo significa che, da un lato, ogni elemento del
il sistema giuridico della Chiesa è informato da questo principio e, per
un altro, che lo stesso statuto epistemologico e metodologico della
scienza canonica—come si vedrà nel quinto paragrafo del capitolo
successivo—non può prescindere da questo dato di fatto.

Una concezione del Diritto canonico del genere supera in un solo colpo
ogni discussione formalista che miri a contrapporre o separare la forma
del contenuto della Chiesa nelle diverse discipline teologiche,
poiché nella teologia il contenuto è la forma interiore che informa,
cioè, dà forma e unisce ogni suo elemento esterno o forma
esterno93, di sorte che in essa può esserci solo piena concordanza
tra forma e contenuto.

89.Cfr.Tommaso d'Aquino,S.Th.II-1I, q. 57, a. 1.


90. Questa è la conclusione di E. Corecco, Teologia del diritto ecclesiastico, in:
HdbkathKR, 12-24, qui 23.
91.H. Müller, Utrum «communio» sia il principio formale-canonicum della nuova
codificazione del diritto canonico della Chiesa latina?,it: Periodica 74
(1985), 85-108, qui 107.
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Un'indagine sui concetti giuridici, Monaco 1973.
II
FONTI, METODI E STRUMENTI
DEL DIRITTO CANONICO

Il diritto canonico, in quanto diritto della Chiesa, partecipa da


sempre delle destinazioni del primo e del secondo. Lo studio dei loro
fonti, del suo metodo e dei suoi strumenti costituisce il campo in
che si sono confrontati principalmente con i contenuti reali che
questi concetti di diritto e Chiesa poco a poco stanno assumendo
in mano, nella storia e nella vita del Popolo di Dio. Di questo si
si deduce che tale studio non può essere separato da quanto si è
detto nel primo capitolo sulla fondazione teologica del
Diritto canonico, bensì rappresenta più che altro un corollario
necessario dello stesso.

4. Fonti e formazione del Diritto canonico

4.1 Le fonti del Diritto canonico


Nel diritto della Chiesa si distinguono due tipi di fonti: le
interni o materiali, che producono diritto anche senza la
intervento del legislatore ecclesiastico, e le esterne o formali, che
sono le leggi particolari o norme canoniche. Le prime sono
strettamente legate al problema dell'unità del Diritto canonico,
le seconde al dilatato processo di codificazione delle leggi
ecclesiastiche.

a) Fonti materiali e unità del Diritto canonico

Abbiamo visto, nel capitolo precedente, che il fine ultimo della struttura giuridica
della Chiesa è la realizzazione della communio e che il Diritto
il canone partecipa in questo modo alla natura sacramentale di tutto
il mistero ecclesiale. Il nucleo originario della struttura giuridica del
il nuovo Pueblo di Dio si fonda, perciò, sullo stesso diritto
divino positivo (ius divinum positivum). Questa affermazione non
ensombrece, ma piuttosto colloca nella giusta luce, il fatto che
nella struttura comunitaria della Chiesa anche il diritto divino
il naturale (ius divinum naturale) ha il suo ruolo, anche se è solo
secondario o sussidiario, perché sebbene insegnasse la Scolastica che
«La grazia non toglie ma perfeziona la natura», afferma il concilio Vaticano II
con chiarezza che la «Chiesa... è al tempo stesso segno e salvaguardia del
«carattere trascendente della persona umana» (GS 76, 2). Le due
le forme di diritto divino menzionate convergono, insieme a
elementi puramente umani (ius humanum o ius mere
ecclesiasticum), alla formazione del diritto ecclesiale. Sebben il
significato normativo dei tre elementi particolari di questa
distinzione classica, che risale a Francisco Suárez, è diversa in
funzione della sua maggiore o minore prossimità al centro del mistero della
Chiesa, il fatto che tutto il Diritto canonico nel suo insieme
partecipare a tale mistero mette in evidenza la sua peculiarità originiaria
rispetto al diritto statale.

Il così detto ius canonicum, in tutto il suo sviluppo articolato, ha


sempre la sua fonte materiale ultima nel diritto divino, da cui deriva
non solo la sua esistenza, ma anche la sua giuridicità. Di conseguenza, è
un errore considerare o bene il insieme delle norme canoniche del
eredità divina positiva come assolutamente invariabile, oppure il
insieme di norme canoniche del diritto ecclesiastico
risolubile da posizionare. Mentre il primo insieme può essere
definito come un diritto rivelato conoscibile attraverso la
Tradizione o fatto visibile per quest'ultima, il secondo, nonostante non
essere una concretizzazione immediata dell'indicazione biblica, è
strettamente legato in genere al processo di concretizzazione
storico-normativo del diritto divino, sia positivo che naturale 1.
La distinzione classica tra ius divinum e ius mere ecclesiasticum ha di
essere intesa, dunque, semplicemente come il tentativo di stabilire una
prima distinzione fondamentale tra i contenuti materiali del
Diritto canonico, al fine di determinare con maggiore precisione la forza
giuridicamente vincolante di ogni norma particolare. Possiamo trovare
altri criteri di distinzione, generalmente secondari rispetto a
questo, nelle collezioni di leggi ecclesiastiche e, soprattutto, nei
codificazioni canoniche di questo secolo.

1. Cfr.Aymans-Mörsdorf,Kan R 1, 32-37.

b) Le principali collezioni di leggi ecclesiastiche

Sin dall'inizio, per favorire la formazione e la permanenza di una


certezza giuridica nella Chiesa, oltre a una corretta applicazione delle
norme particolari, si è sperimentata l'esigenza di raccogliere
collezioni che contenessero le diverse leggi e decreti
promulgati dall'autorità ecclesiastica. Nei primi sei secoli
queste collezioni (ad esempio, la Collectio Romana o la Versio)
Isidoriana) furono raccolte applicando semplicemente un criterio
cronologico; a partire dal VI secolo si introdusse anche un criterio
sistematico, per esempio nella famosa Collectio Dionysio-
Hadriana inviata come regalo da papa Adriano I a Carlo Magno il
anno 774. Poco dopo, soprattutto con Hincmaro di Reims (806-882)
e Ivo di Chartres (1040-1116), si cercò di unificare la materia di queste
collezioni, e introdurre regole per adattare l'applicazione delle leggi
ecclesiastiche alle esigenze dei tempi2Questo primo tentativo di
armonizzazione sistematica delle leggi ecclesiastiche, al fine di evitare
contraddizioni nella sua applicazione, raggiunse il suo apice nella Concordia
discordantium canonum pubblicata a Bologna dal monaco Graziano
intorno all'anno 1140. Quest'opera, ben presto chiamata
decretare, non segna solo l'inizio dell'istituzione
definitivo del Diritto Ononico come disciplina autonoma, ma che
servirà da modello per le successive collezioni di leggi
ecclesiastiche, soprattutto delle Decretali (Summae
Decretalium). Queste ultime, insieme al Decreto, saranno riunite
poi, nel corso della riforma tridentina, nel Corpus luris
Canonici, la cui edizione romana del 1582 fu già indicata dal papa
Gregorio XIII nella Bolla Cum pro munere del 1 luglio 1580 come
collezione approvata per l'insegnamento e la pratica giuridica. Non si
tratta ancora di un Codice autentico, esclusivo e vincolante, anche se con
l'approvazione del Corpus luris Canonici si converte, insieme a
collezioni delle bolle pontificie (come la monumentale conosciuta con
il nome di Magnum Bullarium Romanum), nella collezione di leggi
ecclesiastiche più importanti e, per questo, nella fonte principale del
Diritto canonico vigente prima del 1917. Include: il Decreto di
Graciano, le Decretali di Gregorio IX (Liber Extra), il Liber
Sesto di Bonifacio VIII, le Clementine di Clemente V e, infine,
le due collezioni private chiamate Extravaganti Joannis XXII e
Comuni stravaganti3.

2. Per un rapido esame storico dello sviluppo di queste regole di


interpretazione, cfr. G. May-A. Egler, Introduzione al diritto canonico
Metodo, Regensburg 1986, 43-45.
3. La migliore edizione del Corpus iuris canonici è quella di E. Friedberg,
Leipzig 1879/81 (Ristampa Graz 1955). Sulle lente e complesse
processo di formazione del Corpus, cfr. L. Musselli, Storia del diritto
canonico. Introduzione alla storia del diritto e delle istituzioni
ecclesiali, Torino 1992, 49-51 e 57-58.

4.2 Le moderne codifiche canoniche

a) La codificazione del 1917

Nonostante il progresso indubbio che costituisce la pubblicazione


delCorpus luris Canonicocome collezione approvata, era già sottolineato
nel concilio Vaticano I (1869-1870) da diverse parti che la
la consultazione risulta assolutamente scomoda, soprattutto per
causa della sua ampiezza e del diverso valore giuridico di ciascuna delle sue
parti. La difficoltà di discernere il Diritto canonico effettivamente in
vigor si moltiplica dopo essere stato fatto da un doppio dato: da una parte,
elCorpus raccoglie, insieme alle leggi, le disposizioni emanate per
casi singolari, di cui solo gli autori approvati sono in
condizioni per determinare la norma giuridica generale; dall'altra parte, il
mismoCorpusni raccoglie tutte le fonti, né abroga quelle già obsolete.
Pertanto, si comprende che, verso la fine del diciannovesimo secolo,
inizierà a sentirsi, in modo acuto, la necessità di una
sistematizzazione completa e unitaria delle fonti del Diritto
canonico, al fine di facilitare la conoscenza delle leggi vigenti e il loro
corretta applicazione. L'esigenza emerge soprattutto per il fatto
che nel campo statale si era già arrivati da tempo a
una necessità analoga, un po' ovunque, nella raccolta
dei Codici moderni, soprattutto sotto l'impulso razionalizzatore di
l'illustrazione, anche per supportare interessi politici e
centralizzatori degli Stati assoluti4.

Di fronte a questo incompleto e contraddittorio groviglio di fonti, causa di


una grave incertezza nel diritto della Chiesa, nelle sessioni
preparatorie del concilio Vaticano I, non pochi vescovi considerarono la
situazione come intollerabile e considerarono perciò indispensabile
una riforma del diritto. "Se alcuni si limitano a chiedere una revisione
delCorpuso una nuova collezione, altri trovano il rimedio nella
redazione di un Codice di tipo moderno, che presenti le
caratteristiche dell'autenticità, brevità, chiarezza, carattere
sistematico e completo; cioè, un testo, promulgato dalla suprema
autorità, che esponga in formule brevi e accessibili a chiunque
tutta la legislazione vigente, suddividendola razionalmente in titoli,
capitoli e articoli seguendo l'ordine delle diverse materie5. Peccato
embargo, il voto di includere, tra i temi da trattare nella sessione
ecumenica, il progetto di codificazione di tutto il Diritto canonico
ha urtato contro l'atteggiamento dilatorio e negativo degli ufficiali della Curia
romana e, soprattutto, della congregazione

4.Cfr. G. Fasst, Storia della filosofia del diritto, vol. III: Ottocento e
Novecento, Bologna 1970, 11-30.
5.G.Feliciani,Le basi del diritto canonico,Bologna 1979, 14.

speciale istituita da Pio IX per l'esame dei postulati a


sottomettere i genitori conciliari. Queste incertezze e
contraddizioni, unito alla prospettiva di una enorme massa di lavoro
a sviluppare in poco tempo e in concomitanza con problemi
politici più urgenti, hanno suggerito di trasformare il voto in umiltà
petizione diretta al Pontefice. Pio IX decise poi di mettere da parte la
idea di una ristrutturazione globale della legislazione ecclesiastica e
agire più tardi per conto proprio e per settori, iniziando da
penale, dove la confusione era così grave da rendere quasi impossibile
tutelare i diritti degli imputati e, in ultima istanza, inapplicabile
la stessa disciplina canonica6.

In realtà, neanche questa prima iniziativa – limitata al campo penale –


fu un vero Codex, ma piuttosto una nuova collezione che
riorganizzò, semplificò e consolidò la normativa ecclesiastica preesistente.
Questo dimostra che il cammino da percorrere per arrivare alla redazione di
un vero e proprio Codice di Diritto Canonico, capace di ordinare
sistematica e unitarie tutto il diritto della Chiesa, era ancora
ampio. Sarà Pio X, il papa proveniente dalla pratica della cura
animarum, con il motu proprio (MP) Arduum sane munus del 19 di
marzo del 1904, chi presenterà il progetto di codificazione del
Diritto canonico e le sue linee fondamentali.

Nonostante la autentica difficoltà che comportava redigere un tutto


le leggi ecclesiastiche effettivamente vigenti, e nonostante anche
le divergenze riguardo agli inconvenienti che potrebbero sorgere
una codifica in senso moderno7, sotto la direzione del cardinale
P. Gasparri, il immenso lavoro è finalmente giunto al termine in
Pentecoste dell'anno 1917, giorno in cui Benedetto XV promulgò
el Codice di diritto canonico, che entrò, tuttavia, in vigore un anno
dopo, il 19 maggio 1918.

Questo primo Codice della Chiesa è composto da 2414 canoni,


regruppati in cinque libri: il libro I ha come titolo Normae
generali (cc. 1-86), oltre ad alcune precisazioni introduttive e
disposizioni sul conteggio del tempo, contiene norme relative
alla legge e alla consuetudine come fonti del Diritto canonico, e
anche norme relative ai rescritti, privilegi e dispensa; il
il libro II si intitola De personis (cc.

6.Sul significato e i limiti della Costituzione Apostolicae


Sedis(1869) di Pio IX, cfr. L. Gerosa, La scomunica una pena?
Saggio per una fondazione teologica del diritto penale
canonico, Friburgo (Svizzera) 1984, 149-156.
7.Sebbene alcuni autori favorevoli a una codificazione canonica
pubblicano inclusi saggi di codificazioni private (ad esempio, De
Luise, Colomiatti, Pillet, Pezzani), altri sostengono, al contrario, che
la codificazione corre il rischio di rendere rigido il Diritto canonico, per
la sua natura estremamente elastica e priva di tutto
formalismo: cfr. F. Ruffini, La codificazione del diritto
Scritti giuridici minori, scelti e ordinati da M.
Falco-A.C. Jemolo-F. Ruffini, Milano 1936, I, 59-97.

87-725) e raggruppa in tre parti diverse (De clericis, De religiosis,


De laicis)lo substancial del così detto diritto costituzionale del
Chiesa; nel libro III, De rebus (cc.726-1551), si raccolgono norme di
genere diverso, in particolare quelle relative ai sacramenti (cc. 731-
1143), al magistero (cc. 1322-1408) e al diritto patrimoniale
eclesiastico (cc. 1409-1551); il libro IV, De processibus (cc. 1552-
2194), contiene le norme relative al procedimento giudiziario
canonica, sia ordinaria che straordinaria; nel V e ultimo libro
(cc. 2195-2414) si tratta del diritto penale della Chiesa. Ai cinque
libri seguono, in appendice, alcune costituzioni pontificie, la più
Importante tra esse è quella che regola l'elezione del pontefice.

Il Codice del 1917, dal punto di vista giuridico, rappresenta una


collezione autentica, ossia, approvata e promulgata dal pontefice
come supremo legislatore, e unica, nel senso che tutte le sue
disposizioni, siano vecchie o nuove, devono essere considerate come
emanate nello stesso momento e, per questo, con lo stesso carattere di
obbligatorietà. L'obiettivo della codifica – sostituire la molteplicità
delle fonti con una unica fonte del Diritto canonico–non si
riuscì, tuttavia, pienamente. In effetti, da una parte, il
Il codice non abroga gli accordi della Santa Sede con i diversi
nazioni (c. 3), lascia inalterati i diritti acquisiti (c. 4), tollera
costumi e leggi particolari contrari alle loro disposizioni (cc. 5 e
6); y, per l'altro, lo stesso Codice, tranne nei luoghi dove
riproduce norme di diritto divino o dispone altrimenti in modo
esplicita, non si applica alle chiese cattoliche orientali (c. 1). Inoltre,
dopo la sua promulgazione, emanarono numerose leggi
eclesiastiche che lo modificarono o completarono8.

Seppure la forma linguistica di questo primo Codice della Chiesa è, per


in generale, chiara, semplice e concisa, la sua terminologia giuridica lascia spazio a
insidiose incertezze. «I principi che promettevano una
purificazione del linguaggio giuridico, realizzata in alcune parti del
Il codice è stato annullato, nella maggior parte dei casi, per quanto riguarda il suo
efficacia per il fatto che in altre parti, e non raramente anche
nella parte in questione, sono stati usati termini più antiquati. Quasi
tutti i termini tecnici vengono usati a volte con un senso e altre
con un altro; inoltre, compaiono spesso diverse espressioni per parlare
della stessa cosa9. D'altra parte, sebbene il CIC di

8.Cfr.X. Ochoa, Leges Ecclesiae post CIC editae (1917-1985), vol. 1-VI,
Roma 1966-1987.
9.K.Mörsdorf,Codex luris Canonici,en:Sacranzentum Mundi,I,
Barcellona 1976, cols. 798-802, qui col. 797. Anche dello stesso
autore è l'analisi più completa della terminologia del Codice pio-
benedettino: L.Mörsdorf, La lingua giuridica del Codex luris
Canonici. Un'indagine critica, Paderborn 1937
(Ristampa invariata 1967).

Il 1917 tenta di imprimere maggiore chiarezza nel diritto canonico con le


definizioni legali, lo stesso legislatore ecclesiastico non si attiene
sempre alle proprie definizioni. Di conseguenza, si deve
rinunciare a ogni formalismo nell'interpretazione del testo del Codice e
considerare sempre lo spirito e il senso della legge. Nei casi di
è necessario ricorrere all'interpretazione autentica
delCodex, garantita da una esplicita commissione cardinalizia,
istituita da Benedetto XV tramite il MPCum iuris canonici 15
di settembre del 1917. Le sue interpretazioni hanno forza di legge e
sono pubblicate di tanto in tanto negli Acta Apostolicae Sedis10.

Nonostante queste limitazioni, la codificazione pio-benedettina


rappresenta un progresso così notevole nella tecnica legislativa
ecclesiastica, che provocò una prima accoglienza generalmente molto
positiva al Codice della Chiesa. Questa prima valutazione positiva quasi
unanime fu gradualmente sostituita, più avanti, da diversi
critiche. Tra queste le più importanti riguardano il
planteamento metodologico del Codice, con la sua sistematizzazione e con
su tendenza verso una rigida centralizzazione.

Rispetto all'impostazione metodologica del Codice pio-benedettino


non si può negare che il legislatore applichi una notevole separazione
tra storia e diritto vigente. In effetti, il CIC del 1917 non solo
deroga formalmente tutte le collezioni precedenti, ma, anche
inserendo nella sua sostanza gran parte del Diritto canonico
precedente, introduce 854 canoni senza riferimento alcuno a fonti
precedenti 11.

La sistematizzazione del CIC/1917 è ancora strettamente legata a


distribuzione tripartita classica Personae-res-actiones del diritto
romano12. Questo appare oggi poco adatto per esprimere il nesso
tra la normativa canonica e il mistero ecclesiale. Ad esempio, già
da tempo si considerava insostenibile il fatto di collocare in
le norme giuridiche relative ai sacramenti. Inoltre,
è errato considerare il CIC del 1917 semplicemente come la
proiezione giuridica di un disegno politico di centralizzazione dei
poteri diretti a soffocare ogni legittimo pluralismo ecclesiale, neppure
è possibile negare la validità del doppio giudizio critico di

10. Il testo del citato MP si trova in: AAS 9 (1917), 483-484.


11.Cfr.P. Gasparri-I. Seredi, Codicis Iuris Canonici Fontes, vol. IX
(Roma 1939), Tabella AI, 7-164; cfr. anche G. Feliciani, Le basi del
diritto canonico, o.c.,20.
12. Questa distribuzione della materia è stata introdotta nel diritto canonico
por Giovanni Paolo Lancellotti (1522-1590), giurista di Perugia, che
concibì la sistematizzazione del suo compendio di Diritto canonico (De
Persone, di fatti, di giudizi, di crimini e pene) sulla base
dell'opera di codificazione dell'imperatore Giustiniano (527-564); cfr.
G.May-A. Egler, Introduzione al metodo del diritto canonico.
o.c.,67-68.

U. Stutz13. Per il canonista protestante, il CIC del 1917 è, per una


parte, così fortemente influenzata dal concilio Vaticano I che
può essere designato come Diritto canonico vaticano
Diritto canonico),y, dall'altra, nell'applicare alla Chiesa il concetto socio-
filosofico desocietas perfectatermina per ridurre il diritto
costituzionale all'organizzazione dei poteri ecclesiastici pubblici
e, di conseguenza, il Diritto canonico stesso a un diritto quasi
esclusivamente per i chierici (quasi senza eccezioni
Diritto spirituale). Tuttavia, i valori della codificazione canonica
pío-benedictina sono tali, che solo dopo più di quarant'anni
si inizia a pensare seriamente al suo aggiornamento, ossia al
annunciare Papa Giovanni XXIII, il 15 gennaio 1959, il prossimo
celebrazione di un sinodo diocesano romano e di un concilio
ecumenico14.

b) La codificazione del 1983 (CIC)

Esattamente 24 anni dopo questo annuncio, papa Giovanni Paolo II


promulgò, il 25 gennaio 1983, il nuovo Codice di Diritto
Canonico per la Chiesa cattolica latina. Nel frattempo, la Chiesa aveva
celebrato il Ventesimo Concilio Ecumenico, la cui insegnamento si
inspira necessariamente la nuova riforma del Diritto canonico. Il
membro segretario generale del concilio Vaticano II, il cardinale Pericle
Felici, fu chiamato a presiedere più tardi la «Commissione Pontificia per il Codice
Iuris Canonici Recognoscendo», istituita il 26 marzo 1963 da
il papa Giovanni XXIII e composta inizialmente solo da cardinali. Il
papa Paolo VI la ampliò e la completò con esperti e consulenti
procedenti da tutto il mondo, al fine di garantire una consultazione il più
amplia possibile 15.

Il lavoro della Commissione pontificia si è svolto in quattro


grandi fasi: la prima (1965-1977) fu dedicata a
preparazione dei

13.Cfr.U. Stutz,Lo spirito del Codice Iuris Canonici,Stoccarda 1918, 127-


156 e 83-89. In relazione a quel giudizio, cfr. anche: W.Aymans,Die
Fonti del diritto canonico nella codificazione del 1917, en: Ius
Canonicum 15 (1975), 79-95, in particolare p. 87, e P. Ciprotti, Codex
luris Canonici, en: EDD, vol. VII (Milano 1960), col. 236-241, qui col.
239. Sull'importante stimolo dato all'attività scientifica dei
primi commentatori, come il protestante Stutz, l'ebraico Fallo e
i cattolici Vidal, Eichmann, Del Giudice, cfr. L. Musselli, Storia del
diritto canonico, o.c.,85-91.
14.Cfr. AAS 51 (1959), 65-69.
15.La lista dei membri si trova in: Comunicazioni 1 (1969),
7-13, e quella dei consulenti in: Communicationes 1 (1969), 15-28; in
i successivi quaderni della stessa rivista la Commissione comunicò di
di tanto in tanto i diversi cambiamenti. I principi che devono
informare il lavoro della commissione è pubblicato in:
Communicationes 1 (1969), 86-100. Per un'analisi critica di questi
principi direttivi, cfr. H. Schmitz, Riforma della chiesa
Codice di Diritto Canonico CIC 1963-1978. 15 anni di CIC Papale
Commissione di riforma, Treviri 1979.
progetti particolari (Schemata) basati sui «Principia
che dirigono il riconoscimento del Codice di Diritto Canonico
Sinodo dei Vescovi del 1967; in una seconda fase (1972-1980)
i diversi organi consultivi (cioè: Conferenze episcopali,
Congregazioni della Curia romana, Università e Ordini
religiose) poterono esaminare gli schemi e redigere i loro
osservazioni critiche; la terza (1980-1982) si articolò in diversi
valutazione delle critiche e delle proposte di
emendamento, revisione dello Schema CIC 1980, raccolta dei risultati
y pubblicazione del Schema Novissimum (1982); la quarta e ultima fase
del lavoro (1982-1983) è stata costituita dalla rilettura finale del
testo del Codice da parte del Papa insieme a un ristretto gruppo di
esperti e per la preparazione immediata della sua promulgazione.

In ognuna di queste fasi la Commissione pontificia si è trovata


frente a tre diversi insiemi di norme e insegnamenti con
rilevanza giuridica: il Codice del 1917, il Concilio Vaticano II e la
legislazione postconciliare. Il confronto con le norme dell'antico
Il codice è dettato dall'ovvia necessità di garantire la
continuità nella tradizione giuridica della Chiesa. Il confronto con
l'insegnamento conciliare, e in particolare con la sua ecclesiologia, è ciò che
permette a questa stessa tradizione canonica di rimanere viva e
svilupparsi alla luce della nuova autocoscienza della Chiesa, i cui
Gli elementi più significativi sono stati segnalati da Giovanni Paolo II in
la Carta Apostolica (CA) Sacrae Discipliriae Leges, a sapere: la
categoria di Popolo di Dio, per definire la struttura costituzionale
dalla Chiesa; il disservizio, per raccogliere la funzione della gerarchia;
decomunione, per stabilire la partecipazione di tutti i fedeli nella
missione della Chiesa e nell'esercizio dei tre ministeri di Cristo, così
come della situazione giuridica dei christifideles e in particolare dei
laici16La confrontazione con il terzo e ultimo insieme di norme
indica, finalmente, alla Commissione pontificia il cammino da seguire per
tradurre nel linguaggio giuridico gli insegnamenti dogmatici e le
indicazioni pastorali del Concilio. Questo compito non fu, tuttavia,
facile, perché la normativa canonica postconciliare, spesso
introducida ad interim o ad experimentum17, si presenta non raramente
volte privata del carattere formale di legge e persino contraddittoria, bene
nella sua terminologia, o nella sua

16.Cfr. AAS 75 (1983), Pars II, XII.


17.Cfr., per esempio, il MPEcclesiae sanctaepublicato dal
papa Paolo VI il 6 agosto 1966, dove si trovano le
norme di applicazione dei decreti conciliari; il testo si trova
AAS 58 (1966), 758-787.
applicabilità18. Per queste ragioni, immediatamente dopo il
promulgazione del CIC, Papa Giovanni Paolo II istituì, il 2 gennaio di
1984, una Pontificia Commissio Codici Iuris Canonici authentice
interpretando(PCI), trasformata in Consiglio Pontificio per la
interpretazione dei testi legislativi da parte della CAPastor bonus del 28
di giugno 1988 sulla riforma della Curia Romana19.

Il risultato di questo grande e prolungato lavoro di riforma può essere


descritto brevemente così: il nuovo Codice della Chiesa latina è più
breve che il pío-benedettino e raccoglie 1752 canoni distribuiti in
sette libri. Nel primo (cc. 1-20) sono codificate le norme
generali applicabili a livello di principi in tutti i settori del
Diritto canonico; il secondo (cc. 204-746) riunisce, sotto il titolo Di
Popolo di Dio, il grosso delle norme canoniche inerenti a
struttura costituzionale della Chiesa cattolica di rito latino; il terzo
libro, De Ecclesiae munere docendi (cc. 747-833), e il quarto, De
Il compito della Chiesa di santificare (cc. 834-1253), offre la
regolamentazione giuridica delle due principali azioni della Chiesa: il
annuncio della Parola di Dio e la celebrazione dei sacramenti; il
quinto libro (cc. 1254-1310) regola l'amministrazione dei beni di
la Chiesa, e il sesto (cc. 1311-1399) l'applicazione delle sanzioni
canoniche. Il Codex Iuris Canonici si chiude con il settimo libro, Di
processibus(cc. 1400-1752), sui procedimenti canonici,
esclusi quelli relativi alle cause di beatificazione e santificazione.
Non sono inclusi nel nuovo Codice di Diritto Canonico
altri importanti settori della normativa canonica, come, per
esempio, quello che si riferisce alla Curia romana. Il CIC fa piuttosto un
ampio uso della remissio a costumi e leggi particolari, per cui
è strutturalmente aperto a ulteriori sviluppi.

Dal punto di vista della sistematizzazione giuridica, il nuovo Codice


ha ricevuto, dunque, l'insegnamento conciliare sulla Chiesa
comocommunio, specialmente nei suoi libri centrali (II-11I-IV),
dove per la prima volta appaiono Parola e Sacramento come i
elementi che sostengono la struttura ecclesiale20. Ma anche da
Il punto di vista materiale, come si vedrà meglio in seguito, il CIC
del 1983 presenta, rispetto a quello del 1917, due novità così
importanti, che giustificano, almeno in parte e post fac-

18. A questo proposito, vedi H. Schmitz, Il Codex iuris canonici di


1983, en: HdbkathKR, 33-57, soprattutto 37-38.
19.Cfr. AAS 76 (1984), 342 e 433-434; AAS 80 (1988), 841-934.
20. Per una valutazione dettagliata della sistematizzazione del nuovo Codice,
cfr. H. Schmitz, De ordinazione sistematica novi Codicis Iuris Canonici
Periodica 68 (1979), 171-200.
tum, surrealizzazione, nonostante la resistenza di coloro che, durante il
lavoro di riforma, sostennero la necessità che anche la Chiesa
opterà per una decodificazione delle sue leggi21La prima novità
esprime nel fatto che la nuova codificazione delle leggi
le ecclesiastiche non sono più guidate, in primo luogo, dalla ricerca di
una formulazione o sistematizzazione razionale delle norme canoniche,
se non per il tentativo di svilupparle seguendo i loro legami con i
contenuti della fede. Il principio della certezza teologica prevale,
bene, riguardo a quello della certezza giuridica. La seconda novità proviene dal
cambio di identità del soggetto principale di tutta la struttura giuridica
ecclesiale: non è più il chierico, ma il cristiano, cioè il fedele come
figura primordiale sottostante nel laico, religioso e chierico.

c) Il Codice per le Chiese Cattoliche Orientali (CCEO)

Nel 1917 papa Benedetto XV non solo promulgò il Codice di


Diritto Canonico per la Chiesa latina, ma ha istituito la Sacra
Congregazione per la Chiesa orientale22In questo modo, offrì una
contribuzione determinante per la realizzazione del progetto di
codificazione del Diritto canonico delle Chiese cattoliche orientali.
Questo progetto, lanciato in diverse occasioni durante il concilio Vaticano
Io23cominciò, tuttavia, a realizzarsi solo sotto il pontificato di Pio
XI, che, nel 1929, dopo aver consultato i vescovi di rito orientale,
affido i lavori preparatori a una prima Commissione cardinalizia
per gli studi preparatori della Codificazione orientale, presieduta
dal cardinale P. Gasparri, sostituita poi, nel 1939, da
una Pontificia Commissione per la redazione del Codice di Diritto
Canone Orientale, presieduto prima dal cardinal Sincero e
dopo dal cardinale Massimi24. Questa ultima commissione25, con la
aiuto di esperti, riuscì a pubblicare nel 1943 un primo abbozzo di
Codice di tutto il diritto orientale, sottoposto poi a una vasta
consulta e, infine, fu trascritto e stampato di nuovo nel 1945
comeCodex luris Canonici

21.Sui problemi sollevati dal fatto di procedere a una


nuova codificazione delle leggi della Chiesa, cfr.E.
Corecco, Presupposti culturali ed ecclesiologici del nuovo
Il nuovo Codice di Diritto Canonico. Aspetti fondamentali
della codificazione postconciliare, edito da S. Ferrari, Bologna
1983, 37-68.
22. Cfr. MPDei providentis, en: AAS 9 (1917), 529-533.
23.Cfr.J.D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, t.
49, 200 e 1012; t. 50, 515 e 516.
24. Sull'arduo incanalamento di questi lavori cfr. L.
Musselli, Storia del diritto canonico, o.c.,111-115.
25. Cfr. AAS 21 (1929), 669 e AAS 27 (1935), 306-308.

Orientalis. Questo codice, diviso in 24 titoli, è stato nuovamente


revisionato, emendato più volte e, infine, nel mese di gennaio di
1948, fu presentato al papa Pio XII, che, tuttavia, decise
promulgarlo a tappe: il 22 febbraio 1949, con la lettera
apostolica Crebrae allatae26promulga i canoni su
sacramento del matrimonio; il 6 gennaio 1950, con la lettera
apostolica Sollicitudinem nostram27promulga i canoni relativi a
i processi; il 9 febbraio 1952, con la lettera
apostolica Dopo le lettere apostoliche28, promulga i canoni su
i religiosi, sui beni temporali della Chiesa e su
significato delle parole; infine, il 2 giugno 1957, con la
carta apostolica Cleri sanctitati29promulga i canoni sui riti
orientali e sulle Persone. Così, dei 2666 canoni
contenuti nello Schema del 1945, sono state promulgate solo le
tre quinti, mentre le altre restano negli archivi di
Congregazione30.In effetti, dai segni forniti dal
Il Concilio Vaticano II appare a tutti chiaro che anche la difficilissima
codificazione del Diritto canonico orientale, attuata da Pio
XI, deve ora cercare di coniugare la fedeltà alla tradizione orientale con
i principi teologici e le orientazioni pastorali della grande
sessione ecumenica.

Alcune di queste indicazioni risulteranno decisive per la


concezione stessa del processo di codificazione del Diritto canonico
orientale. Baste pensare che, prima del concilio Vaticano II, era
è consuetudine parlare, anche nei documenti ufficiali, della Chiesa
orientale singolare31. La rinnovazione ecclesiologica attuata da
il concilio Vaticano II ha permesso, invece, di riscoprire, insieme a
il valore della diversità nell'unità della Chiesa come comunione, la
importanza e la ricchezza dei diversi riti, che distinguono la
identità teologica, spirituale e disciplinare di ciascuna delle Chiese
particolari: «Tra di esse è in vigore una ammirabile comunione, e così,
la varietà nella Chiesa, lontano dall'andare contro la sua unità, la manifesta

26.Cfr. AAS 41 (1949), 89-119.


27.Cfr. AAS 42 (1950), 5-120.
28.Cfr. AAS 44 (1952), 65-150.
29.Cfr. AAS 49 (1957), 433-600.
30.I testi dei canoni non promulgati, esattamente 1095, hanno
sono stati raccolti e pubblicati successivamente da I. Zuzek nei numeri
1976-1979 della rivista Nuntia, che contiene i lavori di
la Pontificia Commissione per la revisione del Codice di Diritto
Canonica Orientale, istituita nel 1972 da papa Paolo VI (cfr. Nuntia
1, 1973, 2) in sostituzione del precedente.
31. A questo riguardo, cfr. R. Metz, Il nuovo codice di diritto canonico dei
chiese orientali cattoliche,en: Rassegna di Diritto Canonico 42
(1992), 99-117 e soprattutto 99-100.

È desiderio della Chiesa cattolica che le tradizioni di ogni Chiesa


particolare o rito si conservino e mantengano integri...
il principio vale in un modo assolutamente speciale per le Chiese
rito orientale iuris, distribuiti nel seguente modo:
Così, dopo il concilio Vaticano II, non ha più senso parlare di
Chiesa orientale al singolare. Insieme alle Chiese ortodosse, con i loro
quasi 150 milioni di fedeli, le 21 Chiese cattoliche orientali in pieno
comunione con Roma sono raggruppate in cinque diverse
tradiciones litúrgico-disciplinares: Alejandrina, Antioquena, Armenia,
Caldea e Costantinopolitana. Queste tradizioni o riti primari, così
chiamati perché (eccetto l'armeno) sono matrici di altri diversi
riti, includono – secondo l'Annuario pontificio del 1992 – circa 15
milioni di fedeli32.
La nuova presa di coscienza della molteplicità delle chiese cattoliche
orientali, provocata dal concilio Vaticano II, non poteva non
influenzare né orientare il modo di procedere della codificazione canonica
del diritto orientale. Quest'ultimo era classificato normalmente nei
manuali di Diritto canonico preconciliare come un diritto
particolare (speciale o personale), cioè relativo o derivato e, perciò
generale, collocato a un livello inferiore rispetto alle norme del CIC,
considerate come diritto comune. Alla luce dell'insegnamento
conciliarsi, tuttavia, al diritto orientale spetta lo stesso
dignità che al diritto latino. Per questo la Pontificia Commissione per la
revisione del Codice di Diritto Canonico Orientale, istituita da
papa Paolo VI il 10 giugno 1972, considera immediatamente il
diritto orientale come complementare al latino, poiché entrambi
sono parti di un tutto, come reclamarà l'immagine dei polmoni
usata più tardi da papa Giovanni Paolo II nell'atto di promulgazione
del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali 33.

Il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, allo stesso modo


che il Codice di Diritto Canonico non è omnicomprensivo. Anche se
per una ragione diversa: il CCEO contiene unicamente le norme che
sono comuni alle 21 Chiese apostoliche orientali. "A differenza del
CIC, che è il Codice di una sola chiesa, quella latina, il CCEO non è un
Codice della chiesa orientale (al singolare), ma il Codice comune ai
ventuno chiese cattoliche orientali34. Al essere questa la sua situazione,
risulta ovvio che il CCEO

32. Lo schema e i dati sono tratti da: G.


Nedungatt, Presentazione del CCEO, en: EVvol. XII (Bologna 1992)
889-903 (in italiano si può vedere la sezione Chiese orientali del)
art. «Iglesias Orientales» in: Gran Enciclopedia Larousse, vol. 12,
5652-5654). Nedungatt segnala qui giustamente che la
L'espressione Chiese orientali, pur essendo più corretta, ha come
generale una accezione storica e non geografica, perché queste chiese,
nate nella parte orientale dell'Impero romano, sono ora presenti
un po' in tutto il mondo. Sulla travagliata storia di queste chiese,
cfr. G. Bedouelle, La storia della Chiesa, Valencia, 1993, 197-223.
33. Cfr. la CASacri canoni del 18 ottobre 1990, in: AAS 82
(1990), 1033-1044, qui 1037.
34.G. Nedungatt, Presentazione del CCEO, o.c., 890.

rimanda con molta frequenza al diritto particolare di ciascuno di


queste chiese e fare un uso molto più ampio rispetto al CIC della
espressione particolare (circa 180 volte). In questo modo,
come indica anche indirettamente la denominazione definitiva del
Codice, il CCEO si colloca nella tradizione delle collezioni canoniche
orientali e riflette l'alta considerazione e venerazione che si professa a
i Sacri canoni, approvati dai primi sette concili
ecumenici e comuni a tutte le Chiese orientali 35.

Per recuperare meglio questa tradizione delle antiche collezioni


canoniche del diritto orientale, il CCEO divide la materia in titoli e
non nei libri. Così, dopo i 6 canoni preliminari, nel CCEO si
trovano i seguenti trenta titoli: 1. I fedeli cristiani e tutti
i suoi diritti e doveri (cc. 7-26); 2. Le Chiese sui iuris e i riti
(cc. 27-41); 3. L'autorità suprema della Chiesa (cc. 42-54); 4. Le
Iglesie patriarcali (cc. 55-150); 5. Le chiese arcivescovili maggiori
(cc. 151-154); 6. Le Chiese metropolitane e tutte le altre
Iglesiassui iuris(cc. 155-176); 7. Le eparchie e i Vescovi (cc.
177-310); 8. Gli exarcati e gli exarche (cc. 311-321); 9. Le
assemblee dei gerarchi di diverse Chiese sui iuris (c.322); 10.
I chierici (cc. 323-398); 11. I laici (cc. 399-409); 12. I
monaci e tutti gli altri religiosi e i membri di altri istituti
di vita consacrata (cc. 410-571); 13. Le associazioni di fedeli
cristiani (cc. 573-583); 14. L'evangelizzazione dei popoli (cc. 584-
594); 15. Il magistero ecclesiastico (cc. 595-666); 16. Il culto divino e
specialmente i sacramenti (cc. 667-895); 17. I battezzati non
cattolici che accedono alla piena comunione con la Chiesa cattolica (cc.
896-901); 18. L'ecumenismo, ossia, la promozione dell'unità
cristiana (cc. 902-908); 19. Le persone e gli atti giuridici (cc. 909-
935); 20. Gli uffici (cc. 936-978); 21. Il potere di governo (cc.
979-995); 22. Risorse contro i decreti amministrativi (cc. 996-
1006); 23. I beni temporali della Chiesa (cc. 1007-1054); 24.
I giudizi in generale (cc. 1055-1184); 25. Il giudizio contenzioso (cc.
1185-1356); 26. Alcuni processi speciali (cc. 1357-1400); 27. Le
sanzioni penali nella Chiesa (cc. 1401-1467); 28. La procedura
nella imposizione delle pene (cc. 1468-1487); 29. Le leggi,

35. Cfr. E. Eid, Discorso di presentazione del «Codice dei Canoni delle
Chiese Orientali» al Sinodo dei Vescovi (25.X.1990), en: Nuntia 31
(1990), 24-34, qui 29. Per una visione d'insieme sul'enorme
lavoro di raccolta delle fonti del diritto orientale, alla vigilia di
su codificazione, cfr. L. Glinka, Resoconto Bulla pubblicazione delle
fonti della codificazione orientale, en: Nuntia 10 (1980), 119-128.

le consuetudini e gli atti amministrativi (cc. 1488-1539); 30. La


prescrizione e il computo del tempo (cc. 1540-1546).

Come facilmente si può notare, questi titoli sono presentati


seguendo un ordine di priorità sostanziale, che, in qualche modo,
pone in evidenza altresì il legame stretto e profondo esistente
tra la struttura sacramentale e quella giuridica nella Chiesa. Anche la
la missione (Titolo 14) e l'ecumenismo (Titolo 18) trovano un notevole
spazio: nel CIC l'attività missionaria figura tra i compiti di
alla Chiesa e all'ecumenismo si dedica un solo canone
(c. 755). In generale, si ha l'impressione che il carattere meno
L'astrazione della sistematizzazione ha favorito una maggiore semplificazione
o, per lo meno, una più chiara trasparenza della disciplina canonica
orientale riguardo ai contenuti teologici del proprio
tradizione. Anche dal punto di vista materiale si può notare
alcuni accenti particolari: ad esempio, una visione più teologica e
bíblica del matrimonio come alleanza (c. 776), un maggiore equilibrio tra
potere personale e potere collegiale, una valorizzazione speciale dei
religiosi, e anche dei teologi (c. 606). A partire da questi accenti
è legittimo chiedersi se il CCEO non costituisca una
alternativa cattolica al CIC 36.

Alla luce dell'insegnamento conciliare sulla pluralità nell'unità, la


diversità di accenti offerta dalla codificazione canonica del
il diritto orientale conferma l'attualità delle parole di Leone XIII,
citato da Giovanni Paolo II: «forse non c'è nulla di più meraviglioso per
illustrare la nota di cattolicità nella Chiesa di Dio37.

5. La canonistica come scienza

Tra le diverse discipline teologiche, la canonistica è stata la


prima ad essersi emancipata come scienza autonoma. La sua
la separazione della teologia dogmatica si colloca generalmente nel
seconda metà del dodicesimo secolo, ossia, ai tempi del Decretum
Gratiani. Questo non è un ostacolo affinché nel processo di formazione di
canonistica come scienza è possibile distinguere, almeno, quattro
grandi fasi di sviluppo: l'epoca del diritto canonico precedente
alDecretum (o ius vetum), il tempo della canonistica classica (o delius
novum), il lungo periodo del diritto canonico posttridentino definito,
fino alla promulgazione del Codex del 1917, come ius novissimum, e il
na-

36. Questo è. giudizio conclusivo di C.G. Fürst, Cattolico non è uguale


latino: Il codice di diritto canonico comune per i cattolici
Ostkirchen, it: Herder Korrespondenz 45 (1991), 136-140.
37.CASacri canones, o.c.,1036 (EV, 12, 413).

crescita—particolarmente grazie al concilio Vaticano II—del la


canonistica contemporanea 38
La prima di queste quattro fasi di sviluppo è caratterizzata da una
produzione legislativa frammentaria, spesso esente da un
riconoscimento universale. Le norme canoniche dei primi
secoli «tendono a risolvere i problemi concreti della Chiesa, senza
avere la pretesa di essere un sistema organico, elaborato
concettualmente. Soffrono, senza grandi complessi, inflessioni
imposte dal diritto romano o dal diritto germanico, secondo
i diversi momenti e le diverse situazioni geografiche. In la
alta Età Media si trasformano spesso in capitolari, anche se in
nella sua funzione originale, le norme canoniche hanno solo la pretesa di
tradurre in modo operativo, nella vita concreta della disciplina
ecclesiale, l'immagine teologica che la Chiesa ha del mistero del
incarnazione e dell'esperienza ascetica del cristiano39. Date queste
limiti obiettivi nella sua prima fase di sviluppo, il Diritto canonico
si trova ancora incapace di generare una riflessione teorica e
sistematica. L'ultima fase del suo sviluppo rappresenta, in cambio,
un cambiamento così radicale a livello del statuto epistemologico e metodologico
del Diritto canonico, che meriterebbe un trattamento a parte40. Per
comprendere il modo in cui la canonistica ha raggiunto la dignità di
La scienza basta, dunque, con fermarsi brevemente sulle due fasi
centrali della sua formazione: la cosiddetta canonistica classica e la
scuola di Diritto Pubblico Ecclesiastico.

5.1 Le principali fasi della formazione della canonistica a) La


canonistica classica

Il tempo della canonistica classica abbraccia quasi duecento anni, da


1142—data probabile di pubblicazione del Decretum Gratiani—
fino al 1348, anno della morte del maggiore decretalista: Giovanni Andrea. In
in questo periodo sono state gettate le basi e le principali orientamenti del
lavoro scientifico

38. L'analisi dello sviluppo metodologico della teologia nei suoi diversi
modelli (cfr. C. Vaggagini, Teologia, in: Nuovo Dizionario di
Teologia, II, Madrid 1982, 1688-1806) costituisce la base su cui
E. Corecco (cfr. Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del
cristiano nella Chiesa e nella Società. Aspetti metodologici delta
questione, en: Atti IV CIDC, 1207-1234, specialmente 1208-1213)
propone questa organizzazione dei periodi nella formazione di
canonistica come scienza, accettata nel suo aspetto sostanziale
Analogamente nel campo della storia del diritto canonico, sebbene
anche con una certa riserva, cfr. L. Musselli, Storia del diritto canonico,
o.c.,8-9.
39.E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del
cristiano, o.c.,1210.
40.Cfr. § 2.3 e in particolare § 5.2 di questo manuale.

co dei canonisti, ora autonomo anche se parallelo a quello dei


teologi dogmatici. In effetti, il Decreto appartiene con piena
diritto alla nuova teologia sviluppata nel XII secolo nell'ambito
delle scuole urbane, cattedrali e conventuali, e per questo
ragione chiamata poi scolastica. Il Decreto, finito immediatamente
dopo il II concilio di Laterano (1139), fu composto da Graziano
con l'intenzione di offrire un compendio sistematico, che contenesse
tutto l'essenziale delle numerose collezioni di leggi ecclesiastiche
comparso fino a quel momento. In modo analogo a quanto fatto per la
teologia dogmatica Pedro Lombardo, il Magister Sententiarum, che
cerca di ottenere una visione generale e sistematica della verità di fede
mediante una intensa riflessione razionale, Graciano–applicando al
insieme delle leggi canoniche il metodo dialettico della ratio–
cerca di superare le presunte contraddizioni delle
diverse autorità, discutendo in modo critico ed equilibrato il
valore dei testi, per estrarre poi conclusioni logiche e
vincolanti. Facendo questo crea le basi per una nuova scienza,
distinta dalla teologia dogmatica, sebbene in contatto reciproco con
ella41.

Questa autonomia consente ai discepoli di Graciano una


confronto più stretto con la metodologia dei legisti e
studiosi del diritto romano, che tornava a fiorire a Bologna
precisamente in quel periodo. Come conseguenza di questo, la
l'elaborazione concettuale del Diritto canonico si stacca sempre di più
più della elaborazione antropologico-metafisica fondata su
laratioteorica della scolastica, per basarsi esclusivamente sul
ragionamento e il sillogismo della ragione pratica tipica del diritto
romano. Elius canonicum si converte così nella scienza generale del
diritto, e il Diritto canonico in un diritto comune, che ordina
indistintamente sia le relazioni giuridiche ecclesiali che le
secolari. Dato il contesto di cristianesimo in cui ciò avviene,
è chiaro che «non è il contenuto a distinguere le due scienze,
sino su fonte legislativa. Il Diritto canonico appare,
conseguentemente, come ramo di un ordinamento giuridico universale,
che partendo da un'unica e medesima nozione formale di diritto–la
elaborata dalla filosofia scolastica–è in grado di dare risposta a
qualsiasi problema di giustizia materiale, ecclesiale e secolare.

41. Sul'origine e sul metodo della canonistica classica, cfr. G. May-A.


Egler, Introduzione al metodo del diritto ecclesiastico, o.c., 46-60;
A.M.Landgraf, Diritto canonico e teologia nel secolo XII, in: Studia
Gratiana 1 (1953), 371-413.
42.E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del
cristiano, o.c.,1211. Cfr. anche A.Rouco Varela, Il Statuto
ontologica ed epistemologica del diritto canonico. Note per una
teologia del Diritto canonico, RSPhTh 57 (1973), 206-208.

Questa stretta simbiosi scientifica tra diritto secolare e diritto


il canonico impedisce alla canonistica per molto tempo di arrivare a un
conoscenza profonda del mistero della Chiesa e, di conseguenza,
catturare la specificità ecclesiale del Diritto canonico. Questa
l'incapacità si aggrava ancora di più nell'era moderna, nel momento in
che le divisioni confessionali e la chiara separazione tra fede e ragione
favoriscono l'affermazione della supremazia culturale e scientifica di
pubblico civile, che diventa nel XVIII e XIX secolo lo strumento
principale con cui lo Stato illuminato e liberale impone l'esclusività
di propria sovranità territoriale giuridica in tutti i settori della
vita. La reazione dei canonisti cattolici a questa sfida ha dato origine
a una nuova scuola canonistica (elIus Publicum
Ecclesiasticum), oggetto di studio del prossimo paragrafo.

Qui dobbiamo ricordare ancora che all'interno della canonistica


è preciso distinguere tra decretisti e decretalisti.
i primi spiegano e interpretano nelle loro lezioni universitarie l'opera
di Graciano. Sviluppano in particolare i loro commenti (dicta), che di
glosse interlineari semplici o glosse marginali si convertono ciascuna
vedi più spesso nei commenti ben articolati, pubblicati di
maniera autonoma come apparato delle glosse
osimplementeGlossae.Queste ultime, mediante l'applicazione del
metodo sistematico-analitico, si trasformano più tardi in veri
e proprie Summae. Se tra i più noti decretisti bisogna
segnalare Rolando Bandinello (1100-1181), Etienne de Tournai (1128-
1203), Sicardo di Cremona (1160-1205), Laurentius Hispanus (autore
de laGlossa palatinade 1214) e, infine, Juan Zemecke (1170-
1246), chiamato Giovanni Teutonico e autore della famosa Glossa
ordinaria, che occupa un posto di primo piano nell'insegnamento di
canonistica classica e, soprattutto, nella pratica giuridica del tempo;
Dal punto di vista del metodo non possiamo dimenticare l'opera del
canonista paviano Bernardo Balbi, che morì essendo vescovo del suo
città nel 1213. In effetti, nel suo Summa Decretalium divide la
materia in cinque libri: ludex (giurisdizione)
ecclesiastica
matrimonio) e Crimine(delitti e pene). Questa distinzione diventa
dopo classica e, tralasciando alcune eccezioni, dalla sua
ricezione nelle Decretali di Gregorio IX, guida metodologicamente
il trattamento del Diritto canonico fino quasi alla soglia della prima
codifica 43.
Questo vale in un modo assolutamente particolare per i decretalisti,
dedicati all'interpretazione delle Quinque compilazioni
antiche

43. A questo riguardo, cfr. L. Musselli, Storia del diritto canonico,


o.c.,44-45.

tre quelli che dobbiamo ricordare soprattutto Bernardo di Pavia (+


1213) e Ricardo de Lacy, chiamato Anglicus (+1237). Tra i
decretalisti più giovani, che studiano specialmente le Decretali
pubblicate dopo il Liber extra, dobbiamo segnalare Sinibaldo dei
Fieschi, che divenne Papa con il nome di Innocenzo IV (1243-1254);
Enrico da Susa (1200-1271), chiamato Hostiensis e autore della Summa
aurea, così chiamata per il modo sovrano con cui tratta tanto il
diritto romano come quello canonico; e, per ultimo, il già citato Juan de
Andrés (1270-1348), ultimo grande rappresentante della canonistica
classica, che per la sua enorme produzione scientifica meritò più tardi il
titolo di Fons et tuba iuris.

L'elevato livello scientifico raggiunto dalla canonistica classica non


potrebbe, tuttavia, essere mantenuto per molto tempo, e da
seconda metà del XIV secolo fino oltre la seconda metà del
secolo XVI, partecipa anche la scienza canonica dell'eclissi generale
conosciuto per tutte le discipline teologiche in questo periodo. Nascono
nuovi tipi di letteratura canonica: quello delle Responsa o
Consilia, che contengono una serie di risposte giuridiche a domande
pratiche, e quello delle somme penitenziali (summa de casibus o
summa confessorum). Il carattere di compendio pratico per l'uso di
confessori, che hanno queste somme, finisce per favorire un miscuglio,
ogni volta più profonda, tra teologia morale e Diritto canonico.
Anche dopo il Concilio di Trento sarà necessario aspettare molto
tempo prima di vedere la canonistica raggiungere una nuova epoca
aurea: la de la canonistica neoclassica, la cui eredità è stata assunta di più
tardi per la già citata scuola del Diritto Pubblico Ecclesiastico.

b) Il «Ius Publicum Ecclesiasticum» (IPE)

ElIus Publicum Ecclesiasticum come diritto confessionale e suo


La prima attività, in modo analogo a quella della teologia positiva, fu di
natura apologetica. La visibilità istituzionale della Chiesa cattolica
e il suo diritto di cittadinanza come società perfette si trasformano in
i punti di riferimento di una vera e propria battaglia culturale
contro il protestantesimo, da un lato, e contro lo Stato assolutista e
secolarizzato, dall'altra. Dalla prospettiva cronologica, è stato con la
scuola di Würzburg come il tema della Chiesa come società
definitivamente la delantera su qualsiasi altra problematica di tipo
costituzionale. Il metodo estenovummetodologico è stato introdotto,
effettivamente, sotto l'impulso della reazione cattolica alla tesi del
protestante Samuel von Pufendorf (1632-1694), che considerava il
Chiesa come una società eguale, cioè come un'associazione
privata qualsiasi soggetta alla giurisdizione dello Stato, unica
verdaderasocietas inaequalisque ha la summa potestas e un
imperium costituto proprio44.

I dottori dell'università di Würzburg hanno risposto definendo


la Chiesa come una Repubblica sacra, indipendente, distinta dal
Stato e non riducibile a una semplice società arbitraria, cioè,
fondata sul libero contratto stipulato dai suoi membri. Inoltre,
in virtù di essere stata costituita da Cristo, la comunità dei
i credenti sono una società necessaria e come tale, anche se non ha
territorio, possiede un vero summum imperium, ossia, tutti i
poteri necessari per il conseguimento del proprio fine: la salvezza
eterna dei suoi membri.

Cinquanta anni dopo, la scuola romana recupera questa nuova


dottrina, precisandola a livello sistematico e scritturistico. Nel 1826 sarà
finalmente possibile pubblicare a Roma le famose centothesi ex iure
Pubblico Ecclesiastico, grazie alle quali la nuova disciplina, ora
anch'essa autonoma a livello universitario, potrà essere presentata con il
abito della direzione ufficiale della Santa Sede45.

Tra i raccoglitori di questo Thesarium romano figura il cardinale


Giovanni Soglia (1779-1856), autore delle famose Institutiones Iuris
Pubblici Ecclesiastici, che videro la luce per la prima volta a Loreto nel
1842 con il proposito esplicito di servire come parte dogmatica del diritto
Canonici.

Recuperando le stesse categorie introdotte da Pufendorf, il


Il cardinale Soglia dimostra ex sacris litterisque che la Chiesa è
uno stato di disuguaglianza, dove il potere non è
concedi alla Chiesa, dal Pietro, e poi agli apostoli e ai loro
successori. Tale potere è un vero e proprio summum atque
l'imperium dell'indipendenza include quindi tutti i momenti del
potere, incluso quello coercitivo, perché «sine iure coercendi, nihil efficax
è potere46.

Tuttavia, fu sotto il pontificato di Leone XIII (1878-1903) che


l'asserzione Ecclesiae è una società perfetta che ha acquisito lo statuto di
vera e propria dottrina, specialmente grazie agli sforzi di
un altro cardinale della curia: Felice Cavagnis (1841-1906). Quest'ultimo,
chiamata alla cattedra di Diritto Pubblico Ecclesiastico nel seminario
Romano, riuscì con i suoi

44.Sul ruolo di detonatore sviluppato dalla tesi di Pufendorf, cfr.


J. Listl, Chiesa e Stato nella recente cattolica
Scienza del diritto canonico, Berlino, 1978, 67-82.
45. Per uno studio dell'origine e dello sviluppo storico dell'IPE come
disciplina autonoma del Diritto canonico rimandiamo a:E.
Fogliasso, Il bis Pubblico Ecclesiastico e il Concilio Ecumenico
vaticano II,Torino 1968, 3-61.
46.G.Soglia,Institutiones Iuris Publici Ecclesiastici,Loreto 1842, Pars
Secunda, Lib. II, paragrafo 34, 259.

Istituzioni di diritto pubblico ecclesiastico allontanarsi dal tono polemico di


Soglia e imprimere a tutto il trattato un approccio metodologico più
rigoroso, più didattico e più ricco dal punto di vista dottrinale.

Il punto di partenza di questa teoria generale del Diritto canonico deve essere
essere cercato nella definizione, esposta normalmente in un primo
capitolo, di società giuridicamente perfetta. Il diritto di tale
la società è perfetta e indipendente nella misura in cui
ordineposeeomnia media necessaria et proporzionata per la
ottenimento dello scopo sociale47.

Il secondo passo consiste nel dimostrare che la Chiesa possiede questa


stessa perfezione giuridica per essere stata fondata da Gesù Cristo come
sociedadinaequalis, visibile ed esterna, giuridica e suprema. In virtù di
queste caratteristiche societarie della Chiesa, possiede il suo diritto
volontà del Fondatore) tutti gli strumenti proporzionati al suo fine, è
dire, necessari per il raggiungimento dell'obiettivo per cui lei
la stessa esiste. Quell'impostazione dell'argomentazione rimane
sostanzialmente lo stesso in tutte le successive Institutiones o
Somma delle elaborazioni della nuova disciplina dell'IPE48.

La particolare attenzione prestata dai rappresentanti più


qualificati dell'IPE alla fondazione biblica della dimensione
socio-giuridica della Chiesa conferma l'impressione dell'esistenza di un
vizio metodologico di fondo. In realtà, risulta evidente che si tratta
unicamente del intento di pretendere di trovare confermati nel
Scrittura Sacra i principi fondamentali della filosofia dello Stato per
poter applicarli alla Chiesa, servendosi per questo dell'argomentazione
da una concezione precedente filosofico-secolare del diritto, estranea ai
cosiddetti passaggi gerarchologici del Nuovo Testamento e a
natura specifica della realtà ecclesiale49.
La verifica dell'insufficienza di un simile approccio
metodologico del problema non è né difficile, né è ostacolato da
grande influenza esercitata per molto tempo dalla dottrina dell'IPE.
Effettivamente, all'interno stesso dei dibattiti tra i diversi
scuole dell'IPE, sono emersi in alcune occasioni i limiti
congéniti della teoria di

47.Cfr.F.Cavagnis, Institutiones luris Publici Ecclesiastici, Roma 1906


(Editio quarta), vol. I, 57.
48. Per verificarlo basta consultare: A.Ottaviani, Institutiones luris Publici
Ecclesiastici, Città del Vaticano 1959, vol. 1, nn. 164-170; o bien J.
Ferrante, Somma di diritto costituzionale della Chiesa, Roma 1964, n. 59.
49. Concordano in questo processo: E. Corecco, Teologia del Diritto
canonica, o.c., 1857; A. De La Hera, Introduzione alla scienza del
diritto canonico, Madrid 1967, 38-52; cfr. anche A. De La Hera-
Ch. Munier, Il Diritto pubblico ecclesiastico attraverso i suoi
definizioni, it: Rassegna di Diritto Canonico 14 (1964), 32-63.

la società perfetta, in particolare, il pericolo che comporta considerare a


la Chiesa nel suo aspetto sociale, come se fosse una semplice società
di diritto naturale50.

Una ulteriore conferma di questa inadeguatezza consiste nel fatto


che la categoria delle società perfette, che figura alla base della
dottrina dell'IPE, è di estrazione iusnaturalista e, come tale, incapace
di giustificare l'esistenza di un Diritto canonico senza ricorrere, una volta
più, all'adagio romanoubi societas, lì è il diritto.

Due fatti dimostrano, infine, sebbene solo in modo indiretto,


come è possibile applicare alla Chiesa, in modo rigoroso, la categoria
di società giuridicamente perfetta.

Di entrada, lo stesso Codice pio-benedettino, nonostante mostri


in diverse occasioni una chiara dipendenza dalla dottrina dell'IPE,
evita esplicitamente di qualificare la Chiesa come società
perfetta51, incluso in quei luoghi in cui afferma la sua piena
autonomia nei confronti dello Stato.

In secondo luogo, il concilio Vaticano II, durante i lavori


preparatori della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, si rifiutò di
includere nel testo definitivo un capitolo sistematico sulle relazioni
Chiesa-Stato, in cui la realtà ecclesiale doveva essere considerata
nel suo aspetto di società giuridicamente perfetta 52.
Ambedue le constatazioni, e in particolare la seconda, lontano dal significare
un abbandono da parte del Magistero dei principi fondamentali
che regolano i rapporti tra Chiesa e Stato, la cui chiarificazione si
deve, certamente, in gran parte alla scuola dell'IPE, mette piuttosto
di rilievo come la categoria delle società perfette possa essere
considerata, a livello dogmatico, allo stesso modo delle altre
immagini, come quelle di Corpus Christi, Populum Dei o Sacramentum
Mundiusadas per la Lumen Gentium. Non per caso si intitola il
secondo libro del nuovo Codice precisamente De populo Dei, come se
vorrei mettere in evidenza la radice peculiare del Diritto canonico,
che, a differenza del secolare, non è generato dal dinamismo

50.A questo riguardo è sufficiente sottolineare il giudizio di uno dei più


conocuti canonisti e moralisti dei primi del secolo
gesuita Arthur Vermeersch (1858-1936): «Si ragiona troppo sulla Chiesa,
come se fosse una società di diritto naturale. Lì c'è un abuso o una
méprise che è importante segnalare» («Si ragiona eccessivamente sulla
Chiesa come se fosse una società di diritto naturale. C'è in
Ciao un abuso o un errore che è importante segnalare
tolérance,Louvain 1912, 96).
51. Per diversi autori il fatto che il CIC/1917 non utilizzi
esteterminus tecnicus mostra la sua inadeguatezza; cfr. Mörsdorf, Lb,
vol. I, 42; U. Stutz, Il spirito del CIC, o.c., 109-126.
52. Il testo di questo progetto di capitolo, intitolato De relationibus
interEcclesiam e Stato, si trova in: G. Alberigo-F.
Magistretti, CD «Lumen gentium», Sinossi storica, Bologna 1975,
307-308.

spontaneo della convivenza umana, ma –come abbiamo visto


ampiamente nel primo capitolo - per il specifico alla natura
della Chiesa, il cui carattere sociale è, in ultima analisi, frutto di
grazia e, perciò, soltanto conoscibile attraverso la fede.

La dottrina dell'IPE, precisamente a causa della sua intrinseca fragilità


ecclesiologica, non ha trovato, a differenza della canonistica classica
medievale, una traduzione organica legislativa, canonica, altrimenti
semplicemente un'applicazione operativa a livello
concordatario53Certamente, il CIC del 1917 ha assunto non pochi di
i suoi elementi, «ma in sostanza ha codificato il Diritto
canónico classico, riformato nei suoi contenuti, più che nei suoi
pianificazioni di fondo, per il concilio di Trento54La canonistica
posterior ha cambiado, sin embargo, progresivamente y profundamente, sus
parametri epistemologici e metodologici, soprattutto grazie alla
elaborazione di una teologia del Diritto canonico. Quest'ultima, anche
alla luce del concilio Vaticano II e del magistero pontificio55,appare
come una disciplina particolare dell'ecclesiologia. Deriva da lì?
necessariamente che anche la parte della canonistica che non si
si occupa direttamente della fondazione teologica del Diritto
canónico, ma della elaborazione sistematica dei suoi contenuti
materiali, appartiene come scienza alla teologia? Con questa domanda
si pone il problema, permanentemente soggetto a dibattito, del
metodo della scienza canonica.

5.2 Il metodo canonistico

Nei paragrafi precedenti, dedicati alle fonti del Diritto


canonico e alle principali fasi della formazione della canonistica,
è già stato possibile vedere come questa disciplina abbia acquisito
progresivamente sulla propria autonomia scientifica. È stato merito soprattutto di
Grato che sia stato in grado di scoprirsi nel contesto della scienza
religiosa un momento specifico intrinsecamente legato, anche se
generalmente distinguibile, dagli altri

53.Non solo in alcuni concordati, come quello spagnolo del 1953 (Articolo 2),
si riconosce esplicitamente alla Chiesa Cattolica il carattere di
società giuridicamente perfetta, ma anche il con-cilio
Vaticano II, nonostante abbia scelto la nuova prospettiva derivata da
affermazione del diritto fondamentale alla libertà religiosa, considera
come definitivamente acquisiti, a livello delle relazioni tra la
Chiesa e Stato, molti principi sviluppati dall'IPE.
54.E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del
cristiano, o.c.,1212.
55.Cfr. OT 16, 4; Paolo VI, Discorso ai partecipanti al II Congresso
Internazionale di Diritto Canonico, en: Persona e Ordinamento nella
Chiesa. Atti del II Congresso Internazionale di Diritto Canonico (Milano
10-16 settembre 1973), Milano 1975, 579-588.

aspetti della teologia56La reaggregazione sistematica e lo studio


analitico delle fonti ecclesiali di carattere giuridico aveva prodotto
già allora una certa differenziazione a livello del metodo di lavoro,
ma a quella differenziazione non era collegata, tuttavia, né "una
separazione sostanziale della teologia57né una sistematizzazione
(messa a tema) delle questioni sulla natura della disciplina e
sul metodo della canonistica, apparsi molto più tardi sotto
l'influenza dell'organizzazione moderna e contemporanea della
scienza e teoria della scienza58La riflessione approfondita su
queste questioni appare più tardi come «uno dei compiti più
urgenti59nel contesto dello sforzo svolto per il rinnovamento
metodologica di tutta la teologia postconciliare.
K. Mörsdorf è stato, certamente, il primo a definire la canonistica.
come scienza teologica e nel ricordare con rigore sistematico a suoi
colleghi, il carattere teologico del Diritto canonico, che a lui piace
llamarius sacrumó0.Anche prima di lui ci fu chi chiedeva che
L'unità con la Chiesa è una condizione irrinunciabile per il
conoscenza approfondita del Diritto canonico. Basta pensare che
dal 1936 V. Del Giudice, con un sana dose di umorismo, osserva
che «credere che sia possibile studiare il diritto prescindendo dai
concetti teologici, che sono alla base e formano la linfa delle
istituzioni, è un'illusione paragonabile a quella di qualcuno che si
proponga di studiare fisiologia su cadaveri o botanica su erba
barios61Ma solo a partire dall'azione del fondatore della scuola
la canonistica di Monaco iniziò, nel subito dopo il concilio, un
vero e proprio dibattito sullo statuto epistemologico e
metodologico del Diritto canonico come scienza.

56.Cfr. R. Dreier,Problemi metodologici del diritto ecclesiastico,in: Zeitschrift für


diritto ecclesiastico evangelico 23 (1978), 343-347, qui 348.
57.W. Aymans, Il metodo scientifico della canonistica, in: Fides
et Ius. Festschrift per G. May per il 65° compleanno, a cura di W. Aymans
A. Egler-J. Listl, Regensburg 1991, 59-74 (trad. italiana: Osservazioni
critiche sul metodo della canonistica
canonico, ed. a carico di R. Bertolino, Torino 1991, 97-119, qui 101.
58.Su la problematica in generale, cfr. W. Stegmüller, Problemi e
Risultati della teoria della scienza e della filosofia analitica, 4
vols., Berlino 1969-1984; sulle sue ripercussioni nella canonistica,
cfr. W. Aymans, Osservazioni critiche sul metodo della canonistica,
o.c.,102.
59.W. Kasper, Per un rinovamento del metodo teologico, Brescia 1969
15 (edizione spagnola:Unitaypluralità nella teologia. I metodi
dogmatici. Seguimi, Salamanca, 1969, 15).
60.I suoi scritti relativi a questo tema sono raccolti nel primo
sezione di K.Mörsdorf, Scritti sul diritto canonico, ed. da W.
Aymans-K.J. Geringer-H. Schmitz, Paderborn 1989, 3-67; l'ultimo
articolo della serie (Diritto canonico come disciplina teologica) ha
è stato pubblicato anche in: Seminarium 15 (1975), 802-821 e AfkKR
145 (1976), 45-58.
61.V. Del Giudice, Istituzioni di Diritto canonico, Milano 1936, 6.

a) Il dibattito sul metodo scientifico nella canonistica postconciliare

Dopo il concilio Vaticano II, il rifiorire di un ampio


il pluralismo teologico non ha impedito di trovare una certa unanimità in
riconoscere al Diritto canonico una peculiarità che lo distingue
chiaramente del diritto secolare. Tuttavia, su se e come questa
La peculiarità influisce sul metodo scientifico di questa disciplina, il
Il disaccordo è totale. Il ventaglio formato dalle diverse posizioni
abarca tre aste o ramificazioni principali—una centrale e altre due
estreme—a cui, anche se in un modo un po' forzato,
possono essere ridotti tutti gli altri piegamenti che rappresentano le
posizioni più sfumate. Da qui risulta il seguente schema
interpretativo

La canonistica è una disciplina giuridica con metodo giuridico.


Fuerst, J. Hervada);

La canonistica è una disciplina teologica con metodo giuridico.


Mörsdorf, W. Aymans);

La canonistica è una disciplina teologica con metodo teologico (E.


Corecco).

Alla posizione centrale di K. Mörsdorf, che ha aperto il dibattito nel piano


teorico, posizione precisata e completata successivamente dal suo discepolo W.
Ayman62possono essere anche, in un certo senso, i tentativi
di coloro, seguendo il giusto desiderio di non voler accentuare le
contrapposizioni tra le diverse scuole canoniche, e evitare
così una eccessiva radicalizzazione delle diverse orientamenti
metodologiche, hanno cercato—anche se con minore forza
teorica che il canonista di Monaco—integrare tra loro i diversi
metodi creando la formula ibrida: «la canonistica è una disciplina
teologica e giuridica con metodo teologico e giuridico63.

Le due posizioni estreme, invece, sono reazioni di alcuni,


forse eccessivamente unilaterali, alla evidente dicotomia presente
nella formula di K. Mörsdorf. Entrambe risultano coerenti perché in
il metodo corrisponde alla natura della
disciplina64, anche, allo stesso

62. Non solo nell'articolo già citato sul metodo canonistico (cfr. nota
57), ma anche nel manuale: Aymans-Mörsdorf, Kan KI, 67-71.
63.Cfr., per esempio, G.May-E. Egler, Introduzione al diritto canonico
Methode, Regensburg 1986, especialmente 17-22. Verso la stessa
concepimento si inclinano anche H. Heirmerl-H. Pree, diritto canonico-
Norme generali e diritto matrimoniale, Vienna-New York 1983, 20-22; S.
Beding?), Giustizia e carità ne!!'economia della Chiesa. Contributi per
una teoria generale del diritto canonico, Torino 1991, 16-22.
64.W. Aymans, Osservazioni critiche sul metodo della canonistica
o.c.,99.
tempo, mostrano una certa unilateralità, perché delle loro rispettive
le formulazioni non risultano chiare il nesso con la teologia e,
rispettivamente, con il diritto. In particolare, chi definisce la
canonistica come «scienza giuridica con metodo giuridico», per una
parte, termina inevitabilmente per porre «le domande teologiche
fondamentali al di fuori della canonistica, dove sono pre-chiarite, per
ser assunte dopo semplicemente dalla canonistica", e, per un'altra,
sembra far capire che concepisce ancora, e per lo generale, «il nesso con
la teologia come unicamente esterna65Il rischio di ricadere in
una antinomia radical tra diritto e sacramento è evidente, su
tutto alla luce dell'insegnamento del concilio Vaticano II. Per evitare questo
rischio, e con la consapevolezza che nella Chiesa gli elementi
teologicamente costituenti includono in modo necessario anche
una normativa giuridica, E. Corecco ha coniato la formula: «La
la canonistica è una disciplina teologica con metodo teologico.

Non si può negare che anche quest'ultima formula estrema, in


quanto tal, corre diversi pericoli di essere fraintesa. Da un lato,
la sua concisione sembra non raccogliere la complessità scientifica del Diritto
canónico e non rispondere alla domanda su quale sia il ruolo del
fenomenoderecho in questa disciplina; dall'altro, corre il rischio di
provocare una reazione di rifiuto in coloro che temono che con essa si
può dissolvere il concetto stesso di giuridicità canonica. Ma, di
fatto, se intesa non come formula definitoria, ma come criterio
orientativo, quindi si manifesta nelle condizioni di indicare il
cammino per superare, non solo la dicotomia della formula di Mörsdorf,
ma anche la separazione molto più grave – propria non solo di
Kelsen, sinonimo di tutta la cultura giuridica settecentesca67–tra ciò che
potrebbe essere definita come una matematica concettuale e l'esperienza
giuridica. Questa formula, così come la concepì e propose Corecco,
significa prima di tutto che, nella canonistica, il metodo scientifico non è
una cosa eterogenea, composta di elementi diversi e legati
tra di loro solo in modo esteriore,

65. Ibid., 99.


66. Il suo contributo principale alla questione del metodo canonistico continua
essendo la collezione di scritti: Teologia del Diritto canonico. Riflessioni
metodologiche, in: Teologia e Diritto canonico, Friburgo 1990, 3-
94,(specialmente p.83);con tutto, non bisogna dimenticare due fasi
precedenti, a sapere: la pubblicazione A.Rouco Varela-E.
Corecco, Sacramento e diritto: antinomiapella Chiesa? Riflessioni per
tala teologia del diritto canonico, Milano 1971 (soprattutto 43-48 e 64-
66) le interviste nella discussione al Congresso Internazionale
di Pamplona, in: Atti III CIDC, vol. 1, 1189-1190 e 1232-1238, e in
particolare, per la formula sul metodo, 1234.
67. A questo riguardo, cfr. F.Viola, Ermeneutica e diritto. Mutamenti nei
paradigma tradizionale della scienza giuridica,en:La controversia
ermeneutica, ed. a cura di G. Nicolai, Milano 1989, 61-81, in
particolare62-64.

è un modo unitario e specifico di pensare e praticare il diritto


nella Chiesa68In secondo luogo, come in tutte le altre discipline
teologiche, anche nel Diritto canonico il cammino verso la
la verità (metodi) non può essere, in ultima istanza, altro che la
verità stessa e, di conseguenza, anche in questa disciplina è
È necessario rendersi conto che «i problemi sul metodo sono già
sempre problemi di contenuto69. Al ser—come già abbiamo visto
prima—il cosiddetto objectum quod del diritto canonico
lacommunio, categoria sintetica che raccoglie in sé stessa tutte le
altre come quella di Popolo di Dio e Corpo mistico, lo strumento
oggetto cognitivo capace di catturare la sua intrinseca essenza no
può essere più della fede70.

Caratterizzare in questo modo il metodo scientifico della canonistica non


non significa in alcun modo diminuire la sua specificità all'interno della
teologia. È di più, all'interno del pluralismo teologico postconciliare,
caratterizzato da un eccesso di suddivisione, significa mettere le
premesse indispensabili per salvare correttamente l'identità
specifica della canonistica rispetto alle altre discipline teologiche,
la cui autonomia non è mai assoluta, poiché l'originalità della
la teologia come scienza impone una relazione di reciproca integrazione
tra tutte le sue componenti particolari71Questo significa anche
che, nonostante il fatto che valga anche per la canonistica il principio
generale secondo il quale la teologia non è mai completamente riducibile a sua
metodo72, il ruolo del canonista può essere definito
esquematicamente nel modo seguente: da una parte, si distingue da
giurista, perché è un teologo che lavora alla luce dei fedeli che
si crede che Yde Lafades, che si crede, y, dall'altra parte, si distingue da
teologo dogmatico o di qualsiasi altro teologo, perché l'oggetto
il materiale di sua conoscenza non è il mistero cristiano nel suo
globalità, ma semplicemente nelle sue implicazioni giuridiche-
istituzionali, che siano esse di diritto divino o di diritto
umano73. Anche se nel

68. Questa concezione del metodo scientifico, elaborata da E.


Corecco (cfr. intervento, en: Actas III CIDC, 1196-1197) come
alternativa ai modelli della cultura illuminata, in cui si esagera
il primato della scienza rispetto a un altro tipo di conoscenza come la
esperienza, trova confronti significativi anche nel
scienza giuridica contemporanea, cfr. K. Larenz, Metodologia della
scienza del diritto, Barcelona 1994, 303-307.
69.W.Kasper, Unità e pluralità in teologia. I metodi
dogmatici, Salamanca 1969, 15-18.
70.Cfr.E. Corecco,/ntervento,en: Atti III CIDC, 1235-1236.
71. A questo riguardo, cfr. H.U. von Balthasar, Einfaltungen. Su sentieri
unione cristiana, Einsiedeln-Trier 1987, 63-68.
72.L'osservazione è di Karl Rahner, Considerazioni sulla metodologia di
Teologia,en:Scritti di teologia,Bd. IX, Einsiedeln-Zürich-Colonia
1972, 79-126, qui 94.
73.Cfr.E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti Fondamentali
del Cristiano nella Chiesa e nella Società. Aspetti metodologici della
Atti IV CIDC, 1207-1234, qui 1215.

sviluppo di questo ruolo fondamentale, che sicuramente interessa


anche agli altri teologi, ogni canonista è libero di "dedicarsi
preferentemente, secondo la propria inclinazione, a questioni e settori
che richiedono in maggior misura un pensiero giuridico o un
pensiero teologico74, le modalità del suo avvicinamento
scientifico alle questioni da lui scelte non sono soggette al suo
discrezione, ma imposte da tali contenuti. In altre parole, la
La questione del metodo ripropone sempre con urgenza la domanda su
gli elementi fondamentali di una definizione di legge canonica. E è
precisamente a questo livello dove E. Corecco elabora un'ipotesi di
lavoro nel cui solco anche la sua formula sul metodo diventa
più comprensibile: lalex canonica è prima di tutto una ordinatio
fidei 75.

b) La via verso una nuova definizione di legge canonica

Poiché il Concilio Vaticano II ha sottolineato esplicitamente che nella


l'esposizione del diritto canonico deve avere "presente il mistero
de la Iglesia» (OT 16, 4), non solo è lecito, ma dobbiamo
considerarlo come «realtà teologica», che «partecipe di
normativa propria della Parola e del Sacramento e, quindi, non
può essere considerato semplicemente come «una superstruttura sociale
o sociologica del mistero della Chiesa, come potrebbe essere il diritto
moderno in relazione all'etica, o come potrebbe essere il Diritto
canonico, nella concezione protestante tradizionale, riguardo a
Chiesa invisibile, considerata come l'unica vera Chiesa76. Questo
il nexo ecclesiologico non costituisce il contesto o l'orizzonte del Diritto
canonica, ma l'elemento teologico che riforma dall'interno il suo
metodo scientifico. Da qui, nella canonistica cattolica, qualsiasi altro
tipo di approccio «che dovrebbe prescindere o dovrebbe usare con
criteri puramente estrinseci i contenuti teologici, immanenti
di per sé ai contenuti giuridico-canonici, è dedicato al
fallimento77. Profondamente convinto che questa fosse l'unica via
per tirare il Diritto canonico dalla profonda crisi in cui si trova
si trovava nell'immediato postconcilio, E. Co-

74.W. Aymans, Osservazioni critiche sul metodo della canonistica,


o.c.,117.
75.Sulla genesi e sul significato di questa ipotesi di lavoro, cfr.L.
Gerosa, «Lex canonica» come «ordinario fidei». Considerazioni introduttive
al concetto chiave della dottrina canonica di Eugenio
Corecco, en: Ordinario fidei. Scritti sul diritto canonico, ed. per
L. Gerosa-L. Müller, Paderborn 1994, IX-XXIII.
76.E. Corecco, Valore dell'arto «contra legem», in: Actas III CICD, 839-
875, qui 846.
77.Ibid.,843.

recco, al congresso internazionale di Diritto canonico, tenutosi


a Pamplona nell'ottobre del 1976, si rese conto della necessità, già
quindi ineludibile, di sottoporre a discussione la definizione classica della
legge canonica, formulata da san Tommaso d'Aquino: la «lex
canonica», allo stesso modo di qualsiasi altro tipo di legge, è una
«ordinatio rationis ad bonum commune ab eo qui curam habet»
promulgata della comunità78.

Altri canonisti avevano già messo in evidenza alcune carenze


nella definizione elaborata da santo Tommaso, come ad esempio la mancanza
di chiarezza sulla legge, sul soggetto e sulla forma della legge
canonica79Ma era la prima volta che, nel campo cattolico80, se
metteva in discussione anche l'elemento principale di questa definizione, o
mare, l'ordine della ragione ordinatio rationis81. Eso sólo es posible a
partire dalla constatazione che il passaggio del regime culturale della
la cristianità della modernità ha prodotto una mutazione così radicale
nella scienza giuridica, che cambia tanto il ruolo del diritto civile,
progressivamente ridotta a legge statale, come quello di lalex
canonico, definitivamente privato del suo significato di diritto
comune per collegare ora unicamente i fedeli cattolici.

La cultura di cristianesimo, in cui santo Tommaso elaborò una


definizione di legge valida per tutte le sue diverse forme (divine e
umane) di realizzazione, era caratterizzata dal movimento
pendolare tra razionalismo e volontarismo, entrare in ratio e
volontà, entrambe di origine divina e, come tali, aperte all'idea del
mistero. Nella cultura moderna, tuttavia, questo movimento fu
interrotto, in un primo momento, dall'eliminazione di ogni legame
tra ragione e mistero e, poi, per la conseguente opposizione
entreratio e fides. La prima, volendo emanciparsi completamente da
la seconda si impone come unica unità di misura di tutto ciò che è reale,
comonorma universi82,contrapposta ora alla seconda. In questo
il contesto risulta evidente che la nozione di ragione, applicata alla legge
canonica come derivazione umana necessaria della legge divina, già non
può avere il significato che aveva nella definizione di santo Tommaso.

78.S.Th.,I-I1, q. 90, art. 4.


79.Cfr., per esempio, G. Michiels, Norme generali di diritto
canonici, Lublino 1929, vol. I, 123-124.
80. Nel campo protestante, tuttavia, è necessario fare riferimento alla
opera di: U. Kühn, Via caritatis. Teologia della legge presso Tommaso
von Aquin, Göttingen 1965.
81. Condividi questo giudizio, W. Aymans, Lex canonica. Considerazioni sulla
nozioni canonica di legge, Diritto canonico e comunione ecclesiale.
Saggi di diritto canonico in prospettiva teologica, Torino 1993, 91-112,
qui 100.
82.Sulla enorme influenza di questo concetto di Spinoza su
cultura occidentale fino ai nostri giorni, cfr. L. Guissani, Perché la
Iglesia,1, Madrid 1991, 63-68.

In effetti, rimanendo sempre in questo contesto culturale moderno,


se la legge eterna, considerata nel suo aspetto filosofico, trova in
legge positiva come coordinazione razionale correlata all'umano, in quanto legge
divina rivelata–e, di conseguenza, nel suo aspetto teologico–non
può già trovare il suo correlato umano nella ragione, ma deve
trovarlo necessariamente in un altro modo di conoscenza: la fede,
comeanalogatum minusdel modo come Dio stesso conosce83.En
effetto, la fede non conosce secondo la modalità discorsiva dell'uomo,
la cui motivazione è la forza dimostrativa intrinseca della ragione, sia
speculativa come pratica, ma accettando l'autorità della parola-
testimoniode Dio (locutio Dei attestans), cioè, della grazia. La
causa, cioè, la motivazione propria della conoscenza attraverso la fede
non è la logica umana, ma la stessa ragione divina in quanto ragione o
causa ultima di tutte le cose, che si esprime nel mondo
come coordinazione, ossia, come autorità di Dio, e in cui l'uomo
partecipa attraverso la grazia o forza soprannaturale infusa della fede.
Questo significa che l'uomo conosce la legge divina (quella espressa
storicamente e la incarna nel tempo), non in virtù della logica
apremiante del silogismo elaborato dalla propria ragione, bensì in virtù
della motivazione divina, vale a dire: dell'autorità formale della Parola
di Dio, che l'impulso della grazia lo fa accettare nell'atto di
fe»84.
Così riassunta e spiegata, la proposta di E. Corecco di sostituire nella
definizione classica di legge canonica laratiopor lafidespare come un
possibile ultimo sviluppo della definizione di santo Tommaso, svilupporollo in
colui che si tiene infine in considerazione in modo realistico che la distinzione
tra ragione e fede, tra filosofia e teologia, è diventato ora in
una netta separazione nella cultura moderna. Tuttavia, dall'invito
a considerare la legge canonica come disposizione della fede e non come
l'ordine della ragione non si può dedurre che l'alex canonico abbia
niente da vedere con la ragione, e tanto meno che possa essere irrazionale.
Con una proposta come questa non si vuole eliminare il concetto
deanalogia entis, come criterio epistemologico del Diritto canonico,
ma semplicemente relativizzare il ruolo della ragione umana, e con essa
del diritto naturale, come momento obbligatorio del processo di
conoscenza e produzione della norma canonica positivaottantacinque. Inoltre,

83. Questa affermazione fondamentale di E. Corecco si trova


Teologia del diritto canonico, o.c..104 y«Ordinatio rationis,, o «
ordinatio fidei,>? Appunti sulla definizione di legge canonica
Communio 36 (1977), 48-69, qui 65.
84.E. Corecco, «Ordinatio rationis» o «ordinatio fidei», o.c.,65.
85.Cfr.E. Corecco, Teologia del diritto canonico, o.c.,105.

colui che ha aperto questa via ha già una nuova definizione della lex canonica
si preoccupò immediatamente di sviluppare una critica così radicale alla
teologia del diritto di K. Barth86, in cui il rifiuto chiaro di
l'analogia entister-mina per affilare il dualismo protestante
entrenaturale e soprannaturale, che a alcuni sembrò eccessiva e
ingiusta. Effettivamente, come con acutezza ha osservato H. U. von
Balthasar, per quanto strano e paradossale possa sembrare, è necessario
riconoscere l'esistenza di un impressionante legame di parentela tra santo
Tomás e K. Barth, poiché, sebbene sia vero che quest'ultimo definisce
lanalogia entis come il maggiore inganno dottrinale della teologia
cattolica, risulta, nondimeno, ugualmente innegabile che tutta la
patristica fino all'Alto Medioevo - e in parte lo stesso santo
Tomás–pensa dentro di un ordo realis supernaturalisy, per
Ciao, dentro dell'analogia di fede, che nasconde in sé stessa come un
momento integrante suo anche l'analogia entis87.D'altra parte, la
modalità cognitiva o analogia fideicom che K. Barth–a partire da
Cristo–comprende la rivelazione di Dio nella creazione contiene
l'analogia dell'essere88.

Tutto ciò dimostra chiaramente che l'applicazione dell'analogia


il Diritto canonico non elimina l'analogia entis, per cui
proporre laordinatio fideicomo elemento principale della definizione
delex canonicano significa in alcun modo eliminare laratiodel
processo di conoscenza e produzione del diritto della Chiesa. Come
la Rivelazione trasmessa dal Magistero è la principale fonte di
conoscenza di quest'ultimo, la legge canonica non è, di conseguenza,
né un prodotto della ragione, né un prodotto della cosiddetta «ragione
illuminata dalla fede89, ma un frutto della fede. Tuttavia, quest'ultima
non agisce mai contro la ragione correttamente intesa, ma che
valuta ancora di più il suo ruolo specifico nel processo di formazione
storia della norma positiva concreta. La fede, infatti, non è una
minaccia né per la ragione né per la filosofia, ma piuttosto
difende entrambe dalla pretesa assolutista della gnosi. Con altre
parole, la fede e la teologia custodiscono la filosofia, perché all'esercizio
della teologia appartiene non solo il credere ma anche il pensare, e la
la mancanza di uno dei due finirebbe per dissolvere la stessa teologia come
scienza, la quale «postula sempre un nuovo

86. I principali elementi di questa critica si trovano in Théologie


del Diritto canonico. Riflessioni metodologiche, in: Teologia e Diritto
canon, Friburgo 1990, 3-94, qui 59-63.
87.Su questo impressionante parentela
Parentele tra Karl Barth, santo Tommaso e la Patristica, cfr. H.U.
von Balthasar, La teologia di K. Barth, Milano 1985, 277-278.
88.Ibid.,405-409.
89. È la precisione di W. Aymans, Lex canonica. Considerazioni sulla
nozione canonica di legge, o.c.,102-104.

inizio nel pensare, che non è elaborato dalla nostra propria


riflessione, ma per l'incontro con una Parola che ci
precedere90.Il diritto canonico, in quanto realtà teologica, porta
in sé stessa questa verità, perché, come dimensione strutturale della
comunione ecclesiale, è frutto della normatività propria della Parola e il
Sacramento. Pertanto, situare nella cosiddetta ordinatio fidei
la disposizione della fede è l'elemento principale della definizione di lex
canonicasignifica semplicemente estrarre le dovute conseguenze da
questa concezione del diritto della Chiesa che, lontano dall'essere una vaga e
polivalente teologizzazione del Diritto canonico, rappresenta uno dei
intenti più autentici di ripristinare in modo corretto e preciso
i legami tra norma canonica e verità cattolica91. Naturalmente,
per elaborare una vera e propria definizione unitaria di legge
canonica, quei legami avrebbero dovuto essere ulteriormente precisati, come
intenta fare con buon umore e perspicacia W. Aymans, un altro discepolo
de K. Mörsdorf 92.

c) Gli elementi essenziali, interni ed esterni, della «lex canonica»


Accanto all'elemento centrale dell'ordinatio fidei, possiamo segnalare altri
due caratteristiche interne essenziali del diritto canonico: il suo essere
orientata all'incremento della comunione ecclesiale e al suo essere configurata
per la ragione come una prescrizione generale. Insieme ai tre
aspetti essenziali esterni, rilevabili fin da sempre in
qualsiasi definizione di legge (a sapere: il legislatore competente, la
comunità capace di ricevere la legge e la promulgazione), i tre
elementi interni collaborano per definire la legge canonica del modo
La legge canonica è un'ordinatio fidei orientata a
incremento della vita della comunità e configurata dalla ragione come
una prescrizione generale, giuridicamente vincolante, che proviene da
autorità competente per una comunità in grado di riceverla ed è
promulgata in modo appropriato

Sfortunatamente, anche se il nuovo processo di codifica


canonica non sia guidata dalla ricerca di una penetrazione e
sistematizzazione razionale delle diverse istituzioni canoniche, ma non
piuttosto per il desiderio di sviluppare istituzionalmente e giuridicamente i
contenuti della fede e di

90. J. Ratzinger, Natura e compito della teologia, Milano 1993, 19-24; 30-
31; 53-55.
91.Cfr. G.May, Enttheologizzazione del diritto canonico?, in: AfkKR 134
(1965), 370-376, qui 376; sulla necessità di rifiutare il termine
teologizzazione(=Theologisierung), cfr. L. Müller, <<Teologizzazione»
del diritto ecclesiastico?, AfkKR 160 (1991), 441-463, qui 453 s.
92.Cfr. più sopra, nota 81 e Aymans-Mörsdorf, Kan R /,141-159.
93.W.Aymans, Lex canonica. Considerazioni sulla nozione canonica di
legge, o.c.,112.

esperienza ecclesiale194, né il CIC né il CCEO offrono alcuna definizione


di legge canonica. Sia il c. 7 del CIC che il c. 1488 del CCEO si
limitano ad affermare laconicamente che le leggi della Chiesa sono
costituite con la promulgazione. Solo nel c. 29 del CIC, riguardo ai
decreti generali, che sono leggi proprie, si trovano
concentrati i tre elementi essenziali esterni di una legge
canonica, ma anche qui il legislatore ecclesiastico rinuncia a
qualsiasi allusione ai detenuti, certamente primari rispetto a
comprensione della specificità delle leggi della Chiesa in relazione
con tutte le altre forme di leggi umane. Per catturare questa
la specificità sarà necessaria, quindi, fare riferimento o al contesto
ecclesiale di ogni norma positiva particolare, o alla dottrina
canonistica. Quest'ultima conosce una serie di principi generali e
peculiari che informano tutte le istituzioni tipiche del Diritto
canonico, mantenuti in parte anche nella normativa del Codice
attualmente in vigore.

6. Peculiarità e strumenti tipici


del diritto della Chiesa

Lo studio del metodo canonico e dei contenuti essenziali della


la legge canonica ha messo sufficientemente in evidenza come il canonista,
per interpretare la norma positiva, bisogna sempre fare riferimento al
contesto ecclesiale in cui si pone e, di conseguenza, cercare di
coniugare il diritto con la vita95Effettivamente, il principio della
giurisprudenza romana, secondo cui «il diritto è giusto in quanto
non si riduce ad astrattismi, che rispondono a principi più o
meno generali, ma si esprime in formule tali che si
rivelano, nella realtà della vita, come l'azione dei principi
pratici idonei a soddisfare le molteplici esigenze proprie di
le relazioni intersoggettive96trova nel diritto della Chiesa
un campo di applicazione molto fecondo, poiché nella comunità ecclesiale
el rigor del diritto è costantemente chiamato a lasciarsi correggere da
idea decharitas. Questo è qualcosa che è ampiamente dimostrato da
importante ruolo svolto nel diritto della Chiesa da
istituzioni tipiche come il sensus fidei, la consuetudine e l'equità
canonico.

94. Per una documentazione dettagliata su questo giudizio generale, cfr. E.


Corecco, 1 presupposti culturali ed ecclesiologici del nuovo
«Codea», en:11 nuovo Codice di Diritto Canonico, ed. de S.
Ferrari, Bologna 1983, 37-68.
95.Cfr. G. May-A. Egler, Introduzione al metodo del diritto canonico,
o.c.,185.
96.P. Fedele, Equitñ canonica, in: EDD, vol. XV, (Milano 1966), 147-159,
qui 148.

6.1 Pluralità nell'unità e legge canonica

Prima di esaminare alcune delle istituzioni più tipiche del


Diritto canonico, capaci di documentare in modo articolato la
peculiarità di lalex canonica, sarà utile ricordare come quella
la peculiarità affonda le sue radici anche in altri principi, che
informano tutto il sistema giuridico della Chiesa nel suo insieme. Tra
questi indicheremo in particolare: quello di natura eclesiologica,
secondo il quale nell'esposizione del Diritto canonico si deve avere
sempre presente il mistero della Chiesa (OT 16, 4), e quello della natura
liturgica, secondo il quale ogni rinnovamento del Diritto canonico deriva
sempre di un'unica e stessa intenzione, a sapere: quella di voler
ristabilire la vita cristiana97.

Il primo trova la sua espressione più compiuta nella regola di


reciproca inerenza tra Chiesa universale e Chiesa particolare (LG
23, 1), che impedisce di separare elius universaledelius
particolare yviceversa. I nuclei centrali di entrambi i campi del
Il diritto canonico forma un corpus di leggi comuni, in cui vale
il principio fondamentale «lex universalis minime derogat iuri
particolari98In questo corpo comune di leggi ecclesiali il CIC e il
CCEO hanno la funzione di leggi quadro99, che hanno bisogno, nei
rispettivi contesti ecclesiali, normative particolari
complementari.

Il secondo, al contrario, manifesta tutta la sua importanza nella riserva


a favore del diritto liturgico, codificato nel c. 2 del CIC e nel c. 3
del CCEO. Nei capitoli sulle normative del Codice relative
alla parola di Dio e ai sacramenti vedremo in modo dettagliato
l'importanza che ha la liturgia per il Diritto canonico; qui
basta con ricordare che «le azioni liturgiche non sono azioni
privati, ma celebrazioni della Chiesa» (c. 837 § 1) e, pertanto, non
appartengono a tutto il corpo della Chiesa, e lo manifestano e lo
realizzano», ma in un certo senso informano dall'interno tutto il
Diritto canonico e non solo elius liturgicum100.

97.Cfr. il sesto paragrafo di: Giovanni Paolo II, CA Sacrae discipline leges, in:
AAS 75 (1983), pars II, VII-XIV.
98. Cfr. can. 20 e il commento di E. Corecco, Ius universale-Ius
Particolare,en:Ius in vita et in missio ne Ecclesiae.Acta Symposii
Internationalis Iuris Canonici (19-24 aprile 1993), Città del Vaticano
1994, 551-574, qui 561-568.
99.Cfr. can. 1 del CIC e del CCEO. L'espressione legge quadro (=
La legge quadro è presa da: H. Schmitz, potere di legislazione
e competenze legislative del vescovo diocesano secondo il CIC
dal 1983, en: AfkKR 152 (1983) 62-75, qui 63.
100. Cfr. P. Stevens, Il significato giuridicamente costitutivo della
Liturgisches Jahrbuch 33 (1983)
5-29; G.Lajolo, Indole liturgica del diritto canonico, in: La Scuola
Cattolica 99 (1971), 251-268.

Entrambi i principi documentano, di seguito, la complessità e la


molteplicità delle interazioni tra le norme canoniche positive
e il principio teologico della pluralità nell'unità. Lo confermano la
natura e funzione di molte istituzioni tipiche del Diritto
canonica, per cui vale la pena che ci fermiamo almeno in
le più conosciute.

a) «sensus fidei», «consuetudine» e «equità canonica» nel diritto


ecclesiale

Nel sistema giuridico ecclesiale, il processo legislativo, come via per la


produzione di norme canoniche, non è un movimento unilaterale, ma
dialogico e comunitario, perché coinvolge il popolo di Dio nel suo
insieme101. E questo vale anche in senso tecnico. Infatti, per una
parte, con la promulgazione di una legge canonica non è ancora finita
processo legislativo nella Chiesa, perché a questo deve aggiungersi–anche
non in senso costitutivo, ma sì in qualche modo giuridicamente
relevante–la risposta positiva della comunità ecclesiale interessata
102
ricezione della legge .D'altra parte, questo stesso processo legislativo, che
si sfocia nella promulgazione, ha avuto inizio nella fissazione dei
contenuti del diritto canonico, che non avviene nemmeno quando si svolge
fuori delle strutture sinodali, può mai prescindere
completamente del senso di fede di tutto il Popolo di Dio.
Estesensus fidei, come si vedrà soprattutto nel capitolo sesto,
dedicato agli organi istituzionali, si esprime anche a livello
istituzionale attraverso la corresponsabilità di tutti i fedeli nella
realizzazione della missione della Chiesa. Questa è comunque la radice
ultima di quel carisma comunitario che la tradizione canonistica
conosciuta con il nome di consuetudine canonica103

Quest'ultima, come ordinatio pratica della regola di fede creduta dal


Popolo di Dio nel suo insieme e non solo per colui che è investito da
potestà di comando104ha un ruolo molto importante nel diritto
canonica. Non solo il Decretum Gratiani parla della consuetudine come
de unalex non scripta105ma le codificazioni del Diritto
canonica conosciute di

101. Cfr. H.Schmitz, competenza legislativa e


Competenze legislative, o.c., 62.
102. Cfr.ibid., 62. A questo proposito cfr. anche: H. Müller, Rezeption
nella chiesa. Una richiesta alla canonistica: ÖAKR27(1976), 3-
21. L'esempio classico di una legge non ricevuta è la CAVeterum
sapientiade Juan XXIII, cfr. AAS54 (1962),129-135.
103. È la definizione di consuetudine data da: R. Bertolino,/il nuovo
diritto ecclesiale tra coscienza dell'uomo e istituzione. Saggi di diritto
costituzionale canonico, Torino 1989, 56. (Come conferma di questo
la tesi el can.1506del CCEO afferma che solo "nella misura in cui
risponde all'attività dello Spirito Santo nel corpo ecclesiale
«può ottenere [un costume] forma di diritto»).
104. Cfr.ibid., 63.
105. A questo proposito cfr. R. Weigand, Il diritto consuetudinario in
brevi glossario sul decreto di Graziano, en:lus Populi Dei. Miscellanea in
onore a Raymundi Bigador, ed. da U. Navarrete, vol. 1,
Roma1972,91-101.

la Chiesa cattolica nel XX secolo, a differenza di quanto accaduto nelle


tradizioni giuridiche protestanti e nelle codificazioni del diritto
secolare, riconoscono la consuetudine canonica e le leggi che si applicano a
diritto consuetudinario uno spazio ampio106.Questo è qualcosa
documentato da diversi fatti.

In primo luogo, il Codice di Diritto Canonico, da una parte, rimanda


con frequenza a norme consuetudinarie, in diversi settori
suyos 107; dall'altra, solo in rare occasioni riprova espressamente
una particolare consuetudinecentootto. In secondo luogo, non solo una
costumbrepraeter legenn,sino hasta unacontra legenpuede obtener
—in determinate condizioni–forza di legge (c. 26). Infine, se
bene la legge canonica può revocare una consuetudine (cc. 5 e 28), questa
l'ultima è considerata, nonostante tutto, dal legislatore ecclesiastico
come "un'ottima interprete delle leggi" (c. 27). Dunque, nel
sistema giuridico della Chiesa, alla correlazione lex-receptio fa di
contrappunto la correlazione consuetudine-approvazione. Entrambe portano a
luce la peculiarità del diritto canonico, il cui fine ultimo è la
realizzazione della communio Ecclesiae ed ecclesiarum. In questo
"realtà unica e complessa" (LG 8, 1), se alla lex canonica compete la
funzione di proteggere dal pericolo del particolarismo, alla consuetudine
canonicacompete, invece, la funzione di proteggere dal pericolo
opposto dell'assolutismo o centralismo109. E questo è possibile solo dentro
di un sistema giuridico in cui il criterio che rende vincolante una
la norma non è tanto la volontà del legislatore o un valore esclusivamente
formale, come quella della certezza del diritto nei sistemi giuridici
attuali, ma l'unità o comunione come contenuto essenziale di
medesima esperienza ecclesiale 110.

Un'altra istituzione tipica del Diritto canonico che lega la norma al


l'esperienza e la vita ecclesiale è quella dell'equità canonica. Anche se
questo concetto appare esplicitamente solo due volte nel CIC (cc. 19
y 1752), rappresenta una delle categorie più significative e tipiche
di tutto il di-

106. Cfr. cc. 25-30 del CIC/1917; cc. 23-28 del CIC/1983 e cc. 1506-
1509 del CCEO.
107. Ad esempio nella normativa sui chierici (cc. 284 e 289 §
2), sul diritto matrimoniale (cc. 1062 § 1 e 1119) e sul
diritto patrimoniale (cc. 1263, 1276 § 2, 1279 § 1).
108. Mentre nel CIC/1917 il legislatore ecclesiastico ricorreva a
la clausola di riprovazione 21 volte, nel CIC/1983 la ricorre solo
6 volte e nel CCEO solo 10; sul significato di queste clausole
cfr. P. Krämer, Diritto ecclesiastico 11. Chiesa locale - Chiesa universale, Sttutgart-
Berlino-Colonia1993, 62-64.
109. Sulla correlazione strutturale tra legge e consuetudine nella
Chiesa come comunione, cfr. Aymans-Mörsdorf, Kan R 1,205-212.
110. Cfr. E. Corecco, Valore dell'atto "contra legem", o.c., 850.

recho della Chiesa, e fa parte dei principi «che sono nel


base del sistema canonico e costituiscono la sua struttura
specifica111. In quanto correttivo e complemento della legge,
l'equità canonica consente all'autorità ecclesiastica di superare la
separazione tra l'astratto della norma e il caso concreto,
realizzando una forma superiore di giustizia (imparentata con lacharitas
ylamisericordiade Dio) e sviluppando una funzione analoga–nel il
piano obiettivo–al sviluppato da laepikeiaal livello soggettivo di
decisioni di coscienza dei fedeli particolari. Non per caso
definì Papa Paolo VI la equità canonica come «una delle più
delicate espressioni della carità pastorale», che deve guidare al
legislatore nella promulgazione delle leggi, all'interprete nel momento di
spiegarle, ai giudici e ai fedeli particolari quando le
applicano112.Pertanto, con l'equità canonica, ancora più di
con la consuetudine canonica, tocchiamo il problema dell'applicazione e di
l'interpretazione del diritto canonico, mai separabile da quella del suo
peculiarità.

b) Conseguenze per l'applicazione e l'interpretazione delle leggi


canoniche

La peculiarità delle leggi canoniche è stata sottolineata da Giovanni Paolo


II quando, al promulgare il nuovo Codice, affermò esplicitamente che
questo rappresenta «il grande rinforzo di trasferire nel linguaggio
canonistico... l'ecclesiologia conciliare113.Da qui che nei luoghi
in questa traduzione non sia pienamente realizzata è evidente che
chi è chiamato a interpretare e applicare la legge canonica deve ricorrere
alla dottrina conciliare. Detto in un altro modo, la peculiarità del diritto
dalla Chiesa impone che il Codice di Diritto Canonico sia sempre
interpretato e applicato alla luce del concilio Vaticano II. In sintonia con
questo principio ermeneutico fondamentale devono essere lette le regole
dictate dal legislatore ecclesiastico per l'interpretazione delle
leggi canoniche (cc. 16-19).
Il c. 17 elenca cinque. Di queste, la prima potrebbe essere considerata
come principale (dato che il suo compito è concretizzarsi in modo
immediata il principio ermeneutico che abbiamo appena esposto), e le
altre quattro come regole

111. V. Del Giudice, Istituzioni di diritto canonico, Milano 1936, 79.


Sul significato canonico dell'equità,
cfr.H.Müller, Misericordia nell'ordinamento giuridico della Chiesa?, in:
AfkKR 159 (1990), 353-367; per una vasta bibliografia, cfr. J.
Urrutia, Aequitas canonica, in: Apollinaris 63 (1990) 205-239.
112. Cfr. Paolo VI, Discorso ai giudici della Rota Romana dell'8
febbraio 1973, en: AAS 65 (1973), 95-103.
113. Leggi della disciplina sacra, o.c., XIII.

sussidiarie114.La prima, conosciuta come interpretazione logico-


grammaticale, torna sugli elementi intrinseci della formula verbale
della legge, che il c. 17 definisce con i termini di testo e contesto, e
sul significato proprio delle parole. Quest'ultimo si deduce da
etimologia delle parole, del loro significato abituale nella lingua
parlata, della pratica giuridica. Tuttavia, se il senso proprio di
le parole usate nella formulazione o nel testo della legge canonica
risulterà incerto, quindi è necessario fare riferimento al contesto, ossia a
i canoni che precedono o seguono la norma in questione, inoltre
dal principio conciliato che la ispira. Qui, a questo livello, è dove
entra in gioco o bien l'interpretazione obiettivo-teleologica (ossia la
domanda sull'obiettivo e le circostanze della legge), oppure la
interpretazione soggettivo-teologica (cioè, la domanda sulla
intenzione del legislatore). Per cercare la risposta a queste tre
può risultare utile confrontare la norma in questione con altre
cànoni o leggi canoniche (i cosiddetti luoghi paralleli). Questi
quattro domande formano, insieme, il gruppo delle regole sussidiarie
destinate all'interpretazione di una legge canonica, ma il loro scopo
consiste nel indicare semplicemente che chi interpreta e applica la legge
deve essere posta prima di tutto la domanda sul testo e il
contesto, e che per rispondere a queste domande può, e in alcuni
casi deve, ricorrere a queste regole.

Questo vale per l'interpretazione autentica (c. 16) e per la


interpretazione privata, sia dottrinale che consueta. L'importanza di
questa ultima è dunque messa in evidenza o per il già citato c. 27 su
l'abitudine come interprete ottimale del diritto canonico, o per
c. 6 § 2 sul ruolo della tradizione canonica nell'interpretazione
delius vetus, recuperato nelle nuove norme del Codice.

6.2 Gli atti amministrativi nel Diritto canonico


Nella Chiesa, a differenza di quanto accade nello Stato moderno, non
esiste una separazione dei poteri, perché - come si vedrà in modo
più dettagliato in quanto segue115– la sacra potestate è una e unica.
Con tutto, tanto

114. A questo punto le opinioni dei commentatori divergono


molto; cfr., per esempio, Aymans-Mörsdorf, Kan R 1,182-185; R.
Puza, Diritto ecclesiastico cattolico, Heidelberg 1986, 110-111; G. May-
A. Egler, Introduzione al metodo giuridico ecclesiastico, o.c., 195-200.
115. Cfr. infra, soprattutto § 16.3; su tutta la questione, cfr. K.
Mörsdorf, Chiesa (potestà della) in: Sacramentum Mundi, III,
Barcellona 1976, cols. 676-693; P. Krämer, Servizio e potere nella
Chiesa. Un'indagine giuridica sulla Sacra potestas
Insegnamento del Concilio Vaticano II, Treviri 1973; E. Corecco, Natura e
struttura della «sacra potestas» nella dottrina e nel nuovo Codice di
diritto canonico, it: Communio 75 (1984), 24-52 (esiste edizione
spagnola, anche se l'articolo spagnolo è solo un riassunto dell'originale
italiano).

la tradizione canonica come il nuovo Codice di Diritto


Canónico116distinguono tre funzioni nella potestà di governo:
legislativa, amministrativa e giudiziaria. Il potere amministrativo ha
come obiettivo immediato la realizzazione e la promozione pratica del bene
nella Chiesa comocommunio. Di conseguenza, la sua attività è o bene
applicativa o creativa; il primo tipo di attività la accosterebbe a
la potestà giudiziaria, il secondo con la legislativa. È, quindi,
polivalente, fino al punto che il CIC distingue nettamente gli atti
amministrativi particolari (decreti, precetti, riscritti, privilegi
y dispensas) dei generali, classificati in un titolo a parte (cc. 29-
34). Efficacemente, tra questi ultimi figurano i decreti generali
di natura legislativa, che sono veri decreti legislativi e sono
pertanto soggetti alla normativa del Codice sulle leggi (c. 29);
i decreti generali esecutivi, che determinano precisamente le
modalità che devono essere osservate nell'applicazione delle leggi
31) e costringono tutti coloro che sono soggetti all'osservanza delle
leggi in questione (c. 32); e, infine, le istruzioni, che obbligano a
gli organi incaricati dell'esecuzione delle leggi, chiarendo i loro
disposizioni e i modi di realizzazione (c. 34).

Gli atti amministrativi particolari, emanati dall'autorità


competente per un fedele particolare o per un gruppo di fedeli e in tutto
caso per un caso concreto, devono essere conformi alla legge e sono
sottoposti ad una serie di norme comuni (cc. 35-47). A
Partire dalla natura libera o dipendente dall'intervento
autoritativa che li ha emanati, questi atti amministrativi
I particolari si dividono in due categorie: decreti e precetti per
una parte (cc. 48-58), e riscritti dall'altra (cc. 59-93).

a) Decreto e precetto particolare

Il decreto particolare è lo strumento classico dell'amministrazione


ecclesiastica per regolare un caso concreto. In effetti, anche nei
casi in cui la legge prescrive l'emissione di un decreto (c. 57), questo ha
deve emanare sempre dall'iniziativa libera dell'autorità competente,
rispettando il principio di

116. Cfr. c. 135 § 1 del CIC e c. 985 del CCEO. Anche se la


l'amministrazione ecclesiastica non ha una funzione semplicemente
esecutiva, poiché gode di molta libertà e di ampi poteri di
decisione, il CIC usa spesso il termine potestà esecutiva (per
esempio nei cc. 30, 31 § 1, 35, 135 § 4) e più raramente il
depotestas amministrativa (cfr. cc. 1400 § 2, 1445 § 2). Per un ampio
studio di tutti i problemi relativi agli atti amministrativi in
il diritto canonico, cfr. Aymans-Mörsdorf, Kan R221-282; per
una breve descrizione delle principali forme dell'atto amministrativo
canónico, cfr. R. A. Strigl, atto amministrativo e
Werwaltungsverfahren,en: HdbkathKR, 99-113 o bien las voces
rispettive nel NDDC.

legalità. Per sua natura, a differenza del riscritto, questo non


presuppone richiesta alcuna, è dato da una persona fisica o giuridica e
consiste in una decisione o disposizione dell'autorità competente (c.
48). In quanto tale, il decreto particolare prescinde completamente dal
desiderio degli interessati.

Un tipo singolare di decreto è il precetto particolare, che è un decreto


decisivo di natura imperativa con cui l'autorità competente
manda direttamente e legittimamente a una o più persone determinate
fare o omettere qualcosa (c. 49). Questo fine specifico mostra chiaramente
come il precetto particolare non solo non richiede richiesta o domanda
alcuni, ma per sua stessa natura è rivolto a soggetti
passivi contro la propria volontà (in inviti).

b) Rescritto, privilegio e dispensa

L'autorità ecclesiale ha ereditato, dal diritto romano, l'uso di


emettere risposte scritte a richieste o
requisiti in cui un fedele, o un non battezzato a cui non sia
espressamente proibito (c. 60), chiede una grazia, un privilegio o una
dispensa. Così, per sua natura, il rescritto è un atto
amministrativo che dipende dalla richiesta di qualcuno (in volente et
potenti) e, come tale, ha il carattere di risposta scritta. Può essere
concesso direttamente al richiedente (in modo grazioso) o tramite un
esecutore (forma comissoria). È attraverso il rescritto che si concede
normalmente un privilegio o qualche dispensa (c. 59 § 1). Nel primo
caso, l'autorità competente deve attenersi alle norme contenute
nei cc. 76-84; nel secondo, si applicano i cc. 85-92.

Il privilegio, che può essere concesso a favore di alcune persone


fisiche o giuridiche solo dal legislatore ecclesiastico o da colui a cui
il legislatore ecclesiastico abbia concesso tale potere (c. 76), è per il suo
una tipica eccezione alla norma generale.
differenza della dispensa, che libera semplicemente dall'obbligo
contenuta nel diritto canonico, il privilegio costituisce positivamente un
diritto speciale concesso dal legislatore a persone, cose o
luoghi e, in quanto tale, è una norma che modifica il diritto
generale (contra legem) va oltre ciò che il diritto canonico prevede
normalmente (praeter legem). Per sua natura è perpetuo (c. 78 § 1)
e in ogni caso non cessa normalmente per rinuncia (c. 80 § 1), non si
estinguere al cesare il diritto di chi lo concesse (c. 81) o per disuso
(c. 82).

La dispensa è l'atto amministrativo con cui l'autorità


competente, in casi particolari, libera dall'obbligatorietà di una
legge meramente ecclesiastica (c. 85). La dispensa, a differenza del
privilegio, ha, quindi, una funzione negativa, perché in un caso
il concreto esonera dalla legge senza sostituirla, nondimeno, con un'altra norma.
Per sua natura non è permanente e si divide in espressa, tacita,
parziale (si libera solo in parte dall'obbligo della legge), necessaria (se
è richiesta da un bisogno morale o per l'equità canonica), libero
(se concessa come grazia del superiore). Non possono essere oggetto di
dispensa né le leggi divine, né quelle del diritto naturale, e per
per dispensare dalle leggi meramente ecclesiastiche è necessaria una causa
giusta e proporzionata all'importanza della legge o alla gravità del
caso concreto in questione (c. 90). La dispensa cessa con il cessare certo
e totale della causa (c. 92).

La novità più importante in materia rispetto al Codice


pío-benedettino è rappresentato dal c. 87, che nel suo paragrafo
prima afferma: «Il Vescovo diocesano, sempre che, a suo giudizio, ciò
ridondanza in bene spirituale dei fedeli può dispensarli da
leggi disciplinari, sia universali che particolari ... ma non ...
di quelle la cui dispensa è riservata specialmente alla Sede
Apostolica o a un'altra autorità». Questo è una conseguenza diretta del
fatto che l'insegnamento conciliare sul ruolo del vescovo
diocesano, e del suo ministero pastorale117, obbliga il legislatore
ecclesiastico a livello dell'esercizio della sua sacra potestà a passare da un
sistema di concessione a quello della riserva, in cui «al Vescovo diocesano
compete nella diocesi a cui è stata affidata tutta la potestà
ordinaria, propria e immediata che si richiede per l'esercizio del suo
funzione pastorale, eccettuate quelle cause che per il diritto o
per decreto del Sommo Pontefice si riservano all'autorità suprema o a
altra autorità ecclesiastica» (c. 381, § 1).

6.3 Altri strumenti tecnico-giuridici

Sì, nella normativa del Codice riguardo l'istituzione canonica di


dispensa è stato possibile registrare un cambiamento importante
estremamente positivo dal punto di vista ecclesiologico, nei
restanti titoli del primo libro del CIC prevalgono sfortunatamente
ancora la concezione culturale e giuridica della codificazione precedente.
In nome di questa tradizione, più legata alla cultura della cristianità
che alla visione conciliare della Chiesa, il legislatore ecclesiastico torna a
proporre come norme generali tutta una serie di definizioni e
disposizioni relative ai seguenti strumenti tecnici
giuridici: gli statuti e i ordinamenti (cc. 94-95), le persone
fisiche e giuridiche (cc. 96-123), gli atti giuridici (cc. 124-128), la
potestà

117. Cfr. CD 8 e 11 e più sotto § 24.1.

di governo (cc. 129-144), gli uffici ecclesiastici (cc. 145-196), la


prescrizione (cc. 197-199), il computo del tempo (cc. 200-203). Un
poco in modo analogo a quanto accade nel CCEO, privo di
un settore intitolato Norme generali, le più importanti di queste
istituzioni canoniche o strumenti tecnico-giuridici saranno trattati
qui nei capitoli in cui ci si rivolge maggiormente a loro o dove di più
facilmente si può cogliere la sua peculiarità e, eventualmente, il suo
significato teologico. In particolare, le norme relative a
persone giuridiche collegiali, all'esercizio del potere di governo e
i uffici ecclesiastici, saranno illustrati e spiegati nel capitolo
sugli organi istituzionali della Chiesa118Per quanto riguarda,
invece, alle altre due nozioni giuridiche più importanti di questo
settore, cioè, la depersona o soggetto giuridico e la deacto
giuridico19,può bastare in questa sezione con la seguente osservazione.

È vero che «attraverso il battesimo, l'uomo si incorpora a la


Chiesa di Cristo e si costituisce persona in essa, con i doveri e
diritti che sono propri dei cristiani" (c. 96), e sebbene sia
è altrettanto vero che in ogni sistema giuridico affinché un atto
giuridico sia valido è necessario «che sia stato realizzato da un
persona capace, e che in esso concorrono gli elementi che
costituiscono essenzialmente questo atto, così come le formalità e
requisiti imposti dal diritto per la validità dell'atto» (c. 124 §
1), nonostante tutto entrambe le definizioni possono manifestare la
specificità del diritto ecclesiale unicamente nella misura in cui
possono essere interpretate e eventualmente riformulate a partire dal soggetto
giuridico principale di tutto il sistema canonico: elchristifidelis120. En
effetto, solo quest'ultima categoria è in grado di
specificare teologicamente la categoria classica di persona, ereditata
del diritto romano, come di liberare la deacto giuridico dei accenti
positivisti o eccessivamente legati al diritto naturale, e come tali
inadeguati per definire gli atti giuridici per eccellenza all'interno della
Chiesa: i sacramenti.

118. Per un rapido esame di tutte queste nozioni, cfr.F.J.


Urrutia, 11 libro 1: norme generali, in: il nuovo codice di diritto
canonico. Studi,Torino 1985, 32-59.
119. Per un'ampia analisi di queste nozioni, cfr. Aymans-
Mörsdorf, Kan R 1,283-352.
120. Sfortunatamente, nelle norme generali del CIC questo
il termine appare raramente; cfr., per esempio, i cc. 23, 87 § 1, 129 §
2, 199 § 7.

BIBLIOGRAFIA

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Codice del Diritto Canonico, Vol. I: Questioni Fondamentali Introduttive. Generali
Norme, Paderborn-München-Vienna-Zurigo 1991 (= Kan R I), 141-159 y
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definizione di legge canonica, en: StLT-Communio 36 (1977), 1-22.

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dogmatici, Salamanca, 1969.

KuhnU., tia Caritatis. Teologia della legge presso Tommaso di


Aquin, Göttingen 1965.

Larenz K., Metodologia della scienza del diritto, Barcellona 1994.


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Methode, Regensburg 1986.

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diritto e delle istituzioni ecclesiali,Torino 1992.

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Regensburg 1983, 37-57.

Urrutia J., Il libro 1: Le norme generali, in: 11 nuovo Codice di Diritto


Canonico, Torino 1985, 32-59.

III
GLI ELEMENTI GIURIDICI
DELL'ANNUNCIO DELLA PAROLA

Il terzo libroDel munus docendi della Chiesa inizia con la


affermazione successiva: «Cristo Nostro Signore ha affidato [alla Chiesa]
il deposito della fede, affinché, con l'assistenza dello Spirito Santo,
custodiate santamente la verità rivelata, approfondite in essa e la
«annunciò e espose fedelmente» (c. 747 § 1). Con quattro verbi
(annunciare, approfondire, esporre e custodire) segnala il legislatore
ecclesiastico, più o meno direttamente, altrettante forme
fondamentali in cui si svolge il servizio alla Parola di
Dio: annuncio della Parola nella liturgia e nella catechesi (cc. 756-
780), il magistero ecclesiastico (cc. 748-754), l'attività missionaria e
educativa della Chiesa (cc. 781-821) e, infine, la tutela giuridica di
l'integrità della fede e della comunione ecclesiale (cc. 822-833 e 1400-
1752). In tutti questi settori si è tenuto conto che questo
servizio alla Parola di Dio in quanto concerne a tutta la
Chiesa, perché si struttura continuamente come un'interazione
reciproca tra magistero apostolico e sensus fide di tutti gli
fedele1.

7. Annuncio e magistero
In risposta a un dettato preciso del Concilio, contenuto nel n. 44
del Decreto Christus Dominus sul ministero pastorale dei vescovi,
la Congregazione per il clero pubblicò l'11 aprile 1971
il Direttorio catechistico generale2La seconda parte di questo
il direttorio ha come scopo la

1.A questo riguardo cfr. W.Aymans, Concetto, compito e portatore del


Lehramts,en:HdbKathKR,533-540 e soprattutto 539-540.
2.Cfr. AAS 64 (1972), 97-176.

presentazione dei principi teologico-pastorali forniti da


concilio Vaticano II per orientare e coordinare i vari aspetti di
l'azione evangelizzatrice della Chiesa. Questa è interamente
dedicata al ministero della Parola: nel primo capitolo tratta di
proclamazione e nel secondo della catechesi, cioè, dei due
strumenti dell'annuncio «che occupano, senza dubbio, il posto principale»
(CD 13, 3). Il nuovo Codice di Diritto Canonico ha ricevuto
pienamente questa visione conciliare, soprattutto, nel modo di
sistemare la materia nel primo dei cinque titoli in cui si
divide il Munere docendi della Chiesa. In effetti, dopo
alcuni canoni introduttivi sui diversi tipi di
responsabilità nell'esercizio del ministero della Parola, così come
sulle fonti e i mezzi di comunicazione del messaggio cristiano,
il titolo Del ministero del verbo divino (cc.756-780) è diviso in due
il primo dedicato alla predicazione (cc. 762-772), il
secondo l'istruzione catechetica (cc. 773-780).

Per poter analizzare la normativa del Codice riguardante questi due


forme fondamentali dell'azione evangelizzatrice della Chiesa,
cercando di riprendere la novità profonda che presenta rispetto al
Codice del 1917, conviene fare alcune considerazioni di ordine
generale sul soggetto dell'annuncio cristiano. E ciò a partire dai
contenuti normativi principali, sia dei canoni citati
introductorii al titolo primo, come delle norme generali
proposte per tutto il terzo libro sulla funzione docente della
Chiesa.

7.1 L'annuncio e il suo soggetto unitario

Tanto la predicazione quanto la catechesi, in quanto «compiti


primordiali» della missione della Chiesa o «momenti essenziali e
differenti... di un unico movimento", sono operazioni."di quelle che
tutta la Chiesa deve sentirsi e voler essere responsabile3. Corresponde
alla Chiesa come unità organizzata o communio, ossia, alla Chiesa
come soggetto unitario vivificato dallo Spirito Santo, approfondire,
annunciare e esporre fedelmente a tutti gli uomini il così
llamadodepositum fidei(c. 747). Annunciare il Vangelo e istruire a
tutte le persone nella verità rivelata che è Cristo Gesù, Redentore
degli uomini, è compito e responsabilità di tutti i membri del
Popolo di Dio in virtù del battesimo e della confermazione, e non solo

3. Le citazioni sono tratte da: Paolo VI, Evangelii nuntiandi (8 di


dicembre 1975), nn. 17-24, in: AAS 68 (1976), 17-22; e Juan
Pablo II, Catechesi tradendae (16 ottobre 1979), nn. 15-16, 18
y 24, it: AAS 71 (1079), 1277-1340.

di un «corpo di pastori che si chiama Chiesa docente o


semplicemente Chiesa4, come insegnava, per esempio, il Catechismo di
Nancy (1824), e come in un certo modo potevamo ancora trovare in
il Codice pio-benedettino, dove tale normativa era registrata sotto
il titolo di magistero ecclesiastico e era organizzata in modo
casuistica attorno alla figura giuridica della missio canonica del c.
1328.

Questa responsabilità comune riguardo al ministero della parola, esercitata


seguendo gradi diversi di rappresentatività e di autorità e in
conformità con la varietà di funzioni specifiche, soggiace, dunque,
nella logica della comunione ecclesiale a tutti i livelli delle sue diverse
espressioni, dal Papa, a cui è stato affidato il munus
Annuncio del Vangelo in modo privilegiato rispetto alla Chiesa
universale (c. 756 § 1), al laico, chiamato a essere–in virtù del
battesimo e confermazione - testimone del Vangelo e, perciò,
collaboratore del vescovo con i suoi presbiteri nell'esercizio del ministero della parola
(c.759). Ciò significa che, prima di qualsiasi legittimazione teologica
per parlare in nome della Chiesa, ogni fedele è obbligato in virtù del
sacramento del battesimo–che lo integra in una comunione di
testimoni5a «annunciarsi non a se stesso, ma a Cristo Gesù» (2 Cor 4,
5), e questo è possibile solo se conserva sempre, anche nel proprio
modo di agire, la comunione con tutta la Chiesa (c. 209 § 1).

È stato osservato anche che il munus dell'evangelizzazione, di cui


trattano specialmente i canoni introduttivi 756-761 indicando
i suoi soggetti da una prospettiva gerarchica, è una nozione teologica
generale, che include tutti gli aspetti della funzione evangelizzatrice
della Chiesa. Per questo è meno tecnica di quella del ministero
verbi, che include la predicazione e la catechesi, il cui moderatore è il
vescovo nella propria Chiesa particolare, come ricorda il § 2 del c.
756. La sua espressione più autorizzata e, di conseguenza, formalmente,
più vincolante è il cosiddetto magistero ecclesiastico, che non è
semplicemente il ministero della Parola, come si vedrà meglio in ciò che
continua. Sebbene entrambi si basino sulla Sacra Scrittura e su
Tradizione (c. 760), ciò non è un ostacolo affinché esista una differenza
tra di loro. Detto in un altro modo, sebbene ogni magistero sia ministero
della Parola, non tutto il ministero della Parola è magistero. Mentre
che il magistero annuncia, espone e interpreta la Parola di Dio di
maniera infallibile o autentica - anche se in gradi diversi di
intensità o autorità–

4.E. Germain, Linguaggio della fede attraverso la storia, Tours 1972, 167.
5.Su come l'atto di fede battesimale introduce il io isolato in
il io collettivo della Chiesa, cfr. J. Ratzinger, Trasmissione della fede e
fonti della fede, in: Scripta Theologica 15 (1983) 9-29.

Il ministero della Parola semplicemente la annuncia o la trasmette. A


differenza del magistero, che implica un'assistenza particolare del
Spirito Santo (LG 19 e 24) e, perciò, possiede un carattere formale
diverso, il ministero della Parola è, effettivamente, un'espressione
particolare dell'annuncio del Vangelo, ma nel suo nucleo essenziale è
già implicato nei sacramenti del battesimo e della conferma. In
quanto tal, richiede facoltà particolari o un mandato speciale solo
quando acquisisce un'autorità e una rilevanza maggiori a livello
liturgico o dottrinale nella Chiesa (come, ad esempio, nei cc. 767 § 1
y 812).

Una volta indicate queste considerazioni di ordine generale, sarà


possibile illustrare in modo più analitico i contenuti principali di
la nuova normativa del Codice riguardante il ministero della Parola
divina, come espressione particolare della funzione di insegnare della
Chiesa.

7.2 Le forme dell'annuncio

Tra i diversi mezzi di annuncio che può usare la Chiesa per


esercitare il ministero della Parola, la predicazione liturgica e la
l'istruzione catechistica sono quelli che godono giustamente del primato6.

a) La predicazione liturgica

La predicazione della Parola di Dio, come insegna il decreto


Il concilio dei presbiteri ordinati nel suo n. 4 ha una particolare forza
costitutiva in ordine all'edificazione della communio fidelium e, per
ciò costituisce uno dei doveri principali dei ministri
ordinati (c. 763).
Estepraecipuum officium(LG 25, 1 y CD 13, 3) compete
principalmente agli vescovi, che hanno il diritto (ius) di predicare la
Parola di Dio ovunque (c. 762). Tale diritto è
conseguenza diretta del mandato comune che Cristo diede al «corpo di
i pastori» (LG 23, 3) di «annunciare il Vangelo in tutti i
luoghi della terra» e costituisce, allo stesso tempo, un dovere
direttamente derivato dalla «richiesta per tutta la Chiesa» (LG 23, 2) a
la quale è obbligata ogni vescovo particolare. La visione riduttiva
ecclesiologica dell'ufficio episcopale, completamente centrata ancora sulla
figura giuridica della concessione dei poteri7, aveva impedito al
legislatore ecclesiastico

6.Cfr. c. 761.
7.Cfr.L. Gerosa, L'evangelista nei documenti del Vaticano II e il
nuovo codice di diritto canonico, in: Usi della Chiesa. Corso
d'ecclésiologie pubblicato da P. De Laubier, Fribourg 1989, 73-89.

dal 1917 mettere in luce questo diritto-dovere di ogni vescovo, riservato


come un privilegio riservato solo ai cardinali secondo il c. 239 § 1, n. 3.

Anche ovunque, sebbene con il consenso perlomeno


presunto del rettore della Chiesa dove esercita il ministero, possono
esercitare i presbiteri e i diaconi la facoltà di predicare,
se il giudice ordinario competente non ha soppresso o limitato l'uso di
tale facoltà (c. 764). Ciò significa che, nonostante il concetto
dimissione canonica (richiesta dal c. 1328 del CIC del 1917 per che
un presbitero o diacono potrebbe predicare) è stato sostituito qui
per il defacultas, tuttavia la predicazione continua a essere, secondo il
legislatore ecclesiastico, una forma peculiare di evangelizzazione, che
implica l'esercizio di un diritto originario, che compete in primo
luogo al vescovo. Il cambiamento di disciplina rispetto alla prima
la codificazione non è, tutto sommato, riducibile semplicemente a una
semplificazione radicale delle norme relative alla predicazione, ma che
consiste soprattutto nel riconoscimento che l'ordine sacro
stabilisce una presunzione a favore della possibilità che i
i presbiteri e i diaconi predichino il Vangelo ovunque8.

In modo analogo, anche la normativa relativa alla predicazione


dei religiosi nei loro oratori e chiese appare un po'
semplificata, dato che d'ora in avanti è richiesta solo la
licenza del superiore competente (c. 765). Nuovi sono, invece, il c.
766 sulla predicazione dei laici, di cui parleremo in modo
dettagliato nel seguito, e il c. 772 § 2, che rimanda ai
disposizioni date da ogni conferenza episcopale riguardo a
predicazione attraverso la radio e la televisione.
b) La catechesi

Alla istruzione catechetica, che è una forma di evangelizzazione più


organica e sistematica che la predicazione, è dedicato tutto il
capitolo secondo della normativa del Codice sul ministero della
Parola. La chiave di lettura del nuovo impostazione teologica-
la pastorale di questa normativa è data dal c. 774, dove il legislatore
l'ecclesiastico ricorda che tutti i membri della Chiesa sono soggetti
attivi della sua azione catechetica (§ 1) e, innanzitutto, i genitori (§
2). D'altra parte, questa azione risulta efficace, per quanto riguarda la crescita
della fede di tutto il Popolo di Dio, solo quando le sue due dimensioni–
l'insegnamento della dottrina e l'esperienza della vita

8. L'insegnamento conciliare di LG 28 è stato ricevuto in questo modo da


il Codice secondo A. Montan, Il libro III: La funzione di insegnare della
Chiesa, it: Il nuovo Codice di diritto canonico. Studi, Torino 1985,
138-163, qui 147.

cristiana (c. 773)–sono concepite e praticate in modo unitario e


interattivo, poiché l'ortodossia e l'ortoprassi costituiscono una
unità inseparabile in ogni autentico sforzo catechistico9.

Molto diverso era, invece, l'impostazione della normativa pío-


benedictina (cc. 1329-1336), dove l'azione catechistica era
totalmente centrata sulla figura del parroco (c. 1330), e i genitori
erano considerati unicamente come oggetti e non come soggetti della
catechesi, ridotta, tra le altre cose, quasi esclusivamente alla
catechesi per bambini per la preparazione alla ricezione dei
sacramenti (cc. 1330-1331). L'attuale c. 776 obbliga, invece, al
parroco, in virtù del suo ufficio, a preoccuparsi della formazione
catechetica di tutti i membri del Popolo di Dio, da
adulti ai giovani e ai bambini, avvalendosi della collaborazione di
tutti e, in particolare, dei catechisti, siano essi chierici,
religiosi o laici. Inoltre, spetta al vescovo diocesano e ai
Le conferenze episcopali provvedono affinché siano preparati i
subsidio adeguati per garantire un lavoro catechetico efficace a
tutti i livelli (c. 775).

c) Il problema della predicazione dei laici

Secondo l'insegnamento del concilio Vaticano II10, tutto il Popolo di Dio


è chiamato a partecipare all'ufficio profetico di Cristo e, per
conseguente, nella predicazione e nella catechesi. Di conseguenza,
anche i fedeli laici possono essere chiamati a collaborare con il
vescovo e con i presbiteri nell'esercizio del ministero di
Parola11sia nella catechesi o nell'insegnamento, sia nei
celebrazioni liturgiche «anche se non siano lettori né accoliti» (c. 230
§ 3). La ricezione di questi principi conciliari nel nuovo Codice
di Diritto Canonico consente al legislatore ecclesiastico, non solo di abolire
il divieto di predicare in cui incorrevano tutti i laici
religiosi per parte del vecchio c. 1342 § 2, né offrire anche un
fondamento teologico chiaro al già citato nuovo c. 766, che dice: «I
i laici possono essere ammessi a predicare in una chiesa o oratorio, se in
in determinate circostanze c'è bisogno di ciò, o se, in casi
particolari, lo consiglia l'utilità, secondo le prescrizioni della
Conferenza Episcopale e senza pregiudizio del c. 767 § 1.

9.Cfr.H. Mussinghoff,en: MK, c. 773.


10.Cfr. LG 33 e 35; AA 3 e c. 204 § 1.
11.Cfr. c. 759; sulla questione della predicazione dei laici, cfr.
L.Gerosa, Diritto ecclesiale e pastorale, Torino 1991, 58-64.

Secondo questa norma, le predicazioni dei fedeli laici durante


celebrazioni autonome della Liturgia della Parola, o durante altre
forme di preghiera liturgica non eucaristica, non pone problemi
particolari. Ad eccezione dei sacerdoti ridotti allo stato laicale12tutti
i laici possono essere ammessi, rispettando le disposizioni di
la propria Conferenza episcopale e nel caso in cui si verificano le
condizioni di necessità o utilità indicate nella linea dei principi
per il magistero. Secondo il n. 17 del decreto conciliare Apostolicam
l'azione si compie in una condizione di grande necessità, per
esempio, nei luoghi dove «la libertà della Chiesa è vista
gravemente impedita", mentre, secondo il n. 17 del decreto
conciliarAd gentes, si compie una condizione di vera utilità in
i luoghi in cui la preghiera comunitaria è presieduta normalmente
por catechisti a causa della scarsità di sacerdoti. Il Directorium di
Missis cum pueris, pubblicato dalla Congregazione per il culto divino
il 1 novembre 1973, indica al n. 24 un'altra condizione di
utilità: le celebrazioni liturgiche per bambini con la partecipazione di
i suoi catechisti13.Tuttavia, sollevano alcuni problemi di
interpretazione della norma l'espressione ammettono possono i laici e la
riserva salvo c. 767 § 1.

L'espressione admitti possunt laici sembra far capire che, per il


legislatore ecclesiastico, la predicazione di un fedele laico, anche in
le celebrazioni liturgiche hanno solo il valore di una testimonianza personale.
Se fosse stata sostituita dalla formula «facultas praedicandi laici»
concedi potest14, sarebbe stato più chiaro come la predicazione di
un fedele laico non viene mai realizzato a titolo personale, ma su incarico del
vescovo e in nome della Chiesa, senza per questo intaccare l'autorità della
predicazione di un ministro ordinato né il carattere di supplenza della
predicazione dei laici 15.

La riserva del c. 767 § 1 solleva ancora problemi di interpretazione.


maggiore. Infatti, per poter cogliere l'esatto ambito normativo di
la disposizione seconda: «l'omelia, che è parte della stessa liturgia e
è riservata al sacerdote o al diacono», è necessario determinare prima
il significato che il

12.Cfr. le Norme della Congregazione per la Dottrina della Fede 1971


n. 46, it: AAS 63 (1971), 308.
13.Cfr. AAS 67 (1974), 37.
14. È la proposta di H. Schmitz, L'incarico al servizio di predicazione.
Annotazioni sul «Schema canonum libri III de Ecclesiae munere
docendi», en:A1kKR 149 (1980), 45-63 e in particolare la p. 60.
15.Cfr.: Istruzione su alcune questioni riguardanti la collaborazione
dei fedeli laici nel sacro ministero dei sacerdoti
Bollettino Ufficial dell'Arcidiocesi di Santiago
Compostela, anno CXXXVII, num. 3517 (gennaio 1998), art. 2 § 3.

il legislatore attribuisce alle espressioni omelia, liturgia e riserva.


omelia, come risulta tanto dallo stesso c. 767 § 1 (che ritorna all’art. 52
dalla Costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium) come di
i cc. 386 § 1 e 528 § 1, è una spiegazione delle verità di fede, a
creare e applicare le prime usanze, tratte dalla Sacra Scrittura
(cfr. SC 24). Essendo una delle forme più eminenti della predicazione
deve essere orientata cristologicamente, ossia, proporre «integra e
fedelmente il mistero di Cristo» (c. 760). Laliturgia si intende qui in
il senso di celebrazione eucaristica, sia perché lo affermano
esplicitamente i paragrafi seguenti del canone in questione, come
perché si deduce dalle spiegazioni della Commissione pontificia
responsabile della riforma del Codice16. Invece, il modo in cui si
ha da capire il verbo riservare e, di conseguenza, la nozione
riserva, introdotta dal n. 48 della EACatechesi tradendae
16 ottobre 1979 e ripresa successivamente dal legislatore
eclesiastico, non è affatto chiaro e ogni autore sembra essere libero di
poter interpretare, a partire dalle proprie convinzioni teologiche, sia
il testo del Codice come la storia della sua redazione.

Non c'è neanche la risposta della Pontificia Commissione Codici Iuris


Canonici autentici interpretando, pubblicato il 3 settembre di
1987 nel giornale ufficiale della Santa Sede per la promulgazione delle
leggi17, sembra aver risolto definitivamente la questione.
Effettivamente, alla domanda posta: «Utrum Episcopus diocesanus
dispensare valeat a prescripto c. 767 § 1, quo sacerdote o diacono
omelia riservatur», risponde la citata Commissione con un
lacónicoNegativo. Sebbene non sorprenda l'assenza di motivi, per
essere questo il modo normale con cui si pubblicano le decisioni della
Commissione, tuttavia non menzionare la norma generale del c. 87 § 1,
cosa definisce esattamente l'ambito entro cui può dispensare
validamente il vescovo diocesano delle leggi canoniche, sia
universali come particolari, sembra lasciare a sapersi aperta la
questione18. Dunque, non c'è dubbio che la disposizione del c. 767 § 1
è un'ecclesiastica annullata, da qui, per principio, non possa essere
esclusa, ai sensi del c. 85, un'esenzione. In altre parole, è
perlomeno legittima il dubbio di chi considera la riserva a favore
dei presbiteri e dei diaconi della così chiamata

16.Cfr. Communicationes 7 (1975), 152; 9 (1977), 161.


17.AAS 79 (1987), 1249.
18. È il giudizio autorizzato di H. Schmitz, Riflessioni sull'autentico
Interpretazione del c. 767 § 1 CIC, en: Diritto come servizio di salvezza: Matteo
Dedica al Kaiser per il 65° compleanno, edizione a cura di W. Schulz,
Paderborn 1989, 127-143, qui 143.

da omelia come non identificabile con un divieto assoluto di che


i laici possono predicare durante una celebrazione
eucaristica19.

La legittimità di tale dubbio, sebbene, da una parte, conti con il


riconoscimento di una proposta, purtroppo non accettata da
il legislatore ecclesiastico, fatto nel febbraio del 1980 da
Congregazione per la dottrina della fede in ordine a introdurre nel testo
del Codice l'aggiunta «ordinarie reservatur»20, d'altra parte, può
fondarsi sulle seguenti considerazioni.

In primo luogo, sebbene sia vero che il Concilio non parli esplicitamente-
mente della predicazione dei laici nelle celebrazioni eucaristiche,
Con tutto, la risposta data l'11 gennaio 1971 a questa questione da
la Pontificia Commissione per l'interpretazione autentica dei testi
i conciliari ammettono che, in casi speciali, anche i fedeli laici
possono predicare durante le celebrazioni eucaristiche21Simile
l'interpretazione ha trovato, successivamente, una conferma giuridica in
il citato n. 24 del Directorium de Missis cum pueris, che afferma
esplicitamente: «Nulla impedisce che alcuni di questi adulti che
partecipano alla messa con i bambini, con il permesso del parroco o del
rettore della chiesa, vi parlino dopo il Vangelo, su
tutto se il sacerdote si adatta con difficoltà alla mentalità dei
bambini22.In terzo luogo, la concessione fatta dalla Santa Sede a
i vescovi di Germania in merito a permettere ai laici
particolarmente idonei per il ministero della Parola potrebbero essere
chiamati, a titolo di sostituzione o a titolo sussidiario, a predicare in
circostanze particolari, anche nella stessa celebrazione
eucaristica, è stata confermata in altre occasioni23. Dopo la
promulgazione del nuovo Codice, il contenuto normativo di tale
la concessione è stata solo parzialmente modificata dalle disposizioni
contenute nell'Ordinanza per il servizio di predicazione dei laici, preparate
per la Conferenza episcopale tedesca dopo lunghe
negoziazioni

19. Concordano in questa interpretazione: P. Krämer, Liturgia e diritto.


Assegnazione e delimitazione secondo il tuo Codice di diritto canonico del
1983, it: Annuario liturgico 34 (1984), 66-83, qui 77, e O.
Stoffel, La proclamazione nella predicazione e nella catechesi. en: HdbKathKR,
541-547, qui 543.
20.Cfr.H.Schmitz, La commissione per il servizio di predicazione, o.c., 62.
21.Cfr. AAS 63 (1971), 329 ss.
22. Si può trovare una conferma ulteriore e analoga nelle così
chiamate omelie partecipate delle celebrazioni eucaristiche di
gruppi ristretti (cfr. le linee guida pubblicate il 24-9-1970 da
conferenza episcopale tedesca, in: Nachkonziliare
Documentazione, XXXI, Treviri, 1972, 54-64).
23.Il Rescritto della Congregazione per il Clero del 20-11-1973 (cfr.X.
Ochoa, Leges Ecclesiae, V, Roma 1980, n. 4240) fu prolungato,
prima, fino al 1981 e, poi, il 23-1-1982, è stato prorogato di
nuovo fino alla pubblicazione del nuovo Codice.

con la Santa Sede24, che sono entrati in vigore a partire dal 1 maggio
dal 1988 in ogni diocesi della Germania Federale25. Infatti, nel
il secondo paragrafo del primo paragrafo di queste disposizioni precisa
i vescovi tedeschi che, anche nelle celebrazioni liturgiche,
possono i fedeli laici (uomini o donne) occuparsi di una
predicazione introduttoria, nel senso di un inizio della
Santa Messa, se per il celebrante è fisicamente o moralmente impossibile
occuperà della omelia e non è disponibile alcun sacerdote né
diacono. Queste disposizioni di diritto particolare corrispondono al
articolo 3 § 2 dell'Istruzione, non così, al contrario, la pratica–
difusa abusivamente in alcune chiese locali di lingua
alemana–, secondo cui alcuni fedeli laici pronunciano regolarmente
l'omelia durante la messa.

I tre casi evidenziati sottolineano tutti il carattere eccezionale


della predicazione dei fedeli laici nelle celebrazioni eucaristiche.
L'ultimo caso, in particolare, sottolinea anche, almeno in modo
indiretto, la regola generale secondo la quale l'omelia dovrebbe essere
realizzata, normalmente, da chi presiede l'Eucaristia, poiché
Parola e sacramento sono ordinati reciprocamente tra
sì26Questo carattere eccezionale, ben messo in evidenza dalla
Istruzioni, tuttavia, sufficienti per poter concludere quanto segue:
a) La questione della partecipazione dei laici nel ministero di
la Parola non deve essere ridotta alla possibilità teologico-giuridica di
predicare nelle celebrazioni eucaristiche; b) La riserva a favore di
i presbiteri e i diaconi, contenuti nel c. 767 § 1, dovrebbero essere
considerata come una norma generale, giuridicamente
vincolante, ma che – proprio per essere tale – ammette eccezioni,
stabilite dalle Conferenze episcopali in accordo con la
Santa Sede27.

24. L'ultima fase di queste negoziazioni è la lettera di


Congregazione per il clero al Presidente della Conferenza episcopale
tedesca, chiusa il 16 febbraio 1988, dove si contiene la
comunicazione che le disposizioni previste non erano necessarie
derecognitioalguna da parte della Santa Sede per entrare in vigore
(cfr. P. Krämer, L'ordine del servizio di predicazione, in: Diritto come
Heilsdienst, o.c.,p., 115-126. qui 121). Una comunicazione simile ci
già perplessi, perché secondo il c. 455 § 2 i decreti generali di
una conferenza episcopale ottiene forza di obbligo solo dopo
il riconoscimento della Santa Sede.

25 Cfr. per esempio Amtsblatt Eichstätt 135 (1988), 96 ss.

26 Cfr. n. 42 dell'introduzione generale al Messale Romano del 6-6-1969,


Doku-Inentazione Nachconciliare, XIX, Treviri 1974, 79.

27. A questo proposito è, del resto, legittimo chiedersi se una


"Instructio", che secondo il CIC non è una legge e, pertanto, le
disposizioni in essa contenute «legibus non derogant» (c. 34 § 2)
può abrogare leggi e costumi particolari senza ulteriori indugi, come più
sembra richiedere l'ultima frase dell'istruzione del 13 agosto di
1997. Non sarebbe bastata una raccomandazione ai vescovi per
che si occuperanno di eliminare ogni pratica abusiva?

d) La forza aggregativa della Parola autorizzata

Le lacune e le incertezze presenti nella regolamentazione giuridica


della predicazione dei laici, durante le celebrazioni eucaristiche,
non possono mettere in dubbio i numerosi aspetti positivi e
innovatori della nuova normativa del Codice sul ministero della
Parola, il cui potere aggregativo, con valore giuridico-costituzionale in
ordine alla formazione di quella «una realitas complexa» (LG 28, 1) che
è la Chiesa, è messa in luce in modo particolare dal c. 762. Questo
ultimo–che ritorna quasi alla lettera PO 4, 1–affirma infatti:
«Come il popolo di Dio si raduna innanzitutto per la parola di
Dio vivo, che c'è assoluto diritto di esigere dalle labbra dei
sacerdoti, i ministri sacri devono avere in grande considerazione la funzione
di predicare, tra i cui principali doveri c'è quello di annunciare a
tutto il Vangelo di Dio». Il sottolineare la forza aggregativa del
il ministero della Parola documenta, da un lato, il suo stretto legame
con il sacramento dell'ordine, che abilita a presiedere l'Eucaristia e,
d'altra parte, mette in evidenza la radice dogmatica della differenza
autoritativa tra la predicazione dei presbiteri e quella dei laici,
che deve essere cercata, in ultima istanza, nella differenza «di
essenza e non solo di grado» (LG 10, 2) tra il sacerdozio ministeriale
e il comune. Il che costituisce per i presbiteri un implicito e, al
stesso tempo, dovere concreto, poiché predicare rappresenta una
spiegazione delle Sacre Scritture capace di riunire di nuovo a
i fedeli e rinvigorire i loro cuori come le Parole del Signore ai
discepoli di Emmaus, solo se è profondamente radicata nella vita
di quellacommunione di testimoni che è la Chiesa. Per raggiungere questo
il risultato non è sufficiente con le disposizioni giuridiche, ma è
necessario che con le stesse si collegano le azioni pastorali di
tutta la comunità cristiana e in particolare dei pastori, al fine di
che il mistero della Parola si eserciti sempre di più «in modo
adeguata alle condizioni degli ascoltatori e adattata a quelle
necessità di ogni epoca» (c. 769).

7.3 Magistero ecclesiastico e gradi nel consenso di fede

Introducendo il commento alle norme del Codice sul ministero


della Parola, abbiamo già avuto modo di sottolineare che l'espressione
più autorizzata e, di conseguenza, formalmente più vincolante, di
questo servizio o ministero ecclesiale è il così detto magistero
ecclesiastico. All'interno della struttura di comunione di fede questo ha la
natura e la finalità proprie che si esprimono, in gradi diversi,
tanto nella responsabilità dei loro titolari, quanto nel consenso
di fede di tutti i battezzati.

a) Natura e finalità del magistero ecclesiastico

Ciò che distingue il magistero ecclesiastico all'interno della funzione generale


docente della Chiesa, attribuendogli un carattere formale specifico nel
interno di «la missione di insegnare a tutti i popoli e di predicare il
«Vangelo a ogni creatura» (LG 24, 1), è il suo essere basato su
mandato apostolico e, come tale, avere la sicurezza di un
assistenza particolare dello Spirito Santo28. La funzione specifica del
il magistero ecclesiastico consiste, dunque, in un modo speciale di esercitare
la funzione, affidata a tutta la Chiesa, di custodire l'unico deposito
fidei, cioè, la Sacra Scrittura e la Tradizione, e, soprattutto, nella ta-
rea esclusiva «di interpretare autenticamente la parola di Dio, orale o
scrittura» (DV 10, 2). Questa doppia funzione specifica è strettamente
legata tanto all'assegnazione della «pienezza del sacramento dell'ordine»
(LG 21, 2), come al ruolo di chi è stato investito di esso (il Papa)
per essere «principio e fondamento visibile dell'unità» (LG 23, 1)
tutta la Chiesa come comunione. Quando il Papa e il Collegio dei
I vescovi insieme al successore di Pietro esercitano questa funzione, per
proclamare «per un atto definitivo la dottrina che deve essere sostenuta in
materia di fede e di costumi» (c. 749 § 1), sono assistiti dal dono
singolare o «carisma dell'infallibilità» (LG 25, 3).

Queste definizioni del Magistero ecclesiastico non sono nuove


rivelazioni, ma hanno l'obiettivo di far progredire tutti
i fedeli nella intelligibilità della fede e dei suoi contenuti. Ora, dunque,
come «esiste un ordine o 'gerarchia' delle verità della dottrina
cattolica, poiché è diverso il legame di tali verità con il
fondamento della fede cristiana» (UR 11, 3)–ordine da cui deriva
una gradualità nel credere in esse–, così nello sviluppo di
funzione del magistero dei vescovi e del Papa partecipano, seguendo
gradi diversi di responsabilità, tutti i fedeli, battezzati e
confermati, grazie al dono del sensus fidei (LG 12, 1) e, soprattutto,
i presbiteri e i diaconi, in virtù del sacramento dell'ordine.

b) I diversi gradi di responsabilità e di consenso di fede

Senza preoccuparsi di definire la natura e lo scopo del magistero


ecclesiastico, sulla base dell'insegnamento conciliare che abbiamo appena
di

28.Cfr. LG 19; 21, 2; 22, 2; 24, 1; 25, 3 e DV 10, 2 che parlano


ampiamente di mandato divino e di assistenza dello Spirito Santo.

riassumere, il legislatore ecclesiastico del Codice del 1983 nei cc. 748-
754, collocati all'inizio del terzo libro sulla funzione di
insegnare della Chiesa, precisa immediatamente i vari gradi di
responsabilità nel suo esercizio, così come i vari gradi di
asentimento di fede o obbedienza ecclesiale dovuti da tutti i fedeli a
quanto insegna il magistero ecclesiastico. Questa strana collocazione
sistematica in una serie di canoni introduttivi e il non aver
è noto registrare tutta la normativa del Codice riguardo al magistero
ecclesiastico in un titolo proprio, corre il rischio di perpetuare l'errore
ecclesiologico che il magistero ecclesiastico sia concepito ancora–
contrariamente a quanto insegna il concilio Vaticano II29come una
autorità esercitata al di sopra della Chiesa e non all'interno di essa, come
garanzia ultima della sua unità. Quest'impressione è confermata anche
per il fatto di aver rinunciato in questi canoni a qualsiasi
riferimento ai termini conciliali desensus fidei e infallibilitas in
credendo, che sono in grado di fondare teologicamente la
struttura di comunione della comunità di fede che è la Chiesa,
anche quando esercita il munus docendi.

Per quanto riguarda la gradualità nella responsabilità dell'esercizio


del magistero ecclesiastico, il CIC ricorda che sia il Papa che il
Il Collegio dei Vescovi è considerato titolare del magistero.
autentico (c. 752) nella dottrina sulla fede e le costumanze. Quando
questi soggetti supremi di questa responsabilità si pronunciano su
modo definitivo, godono di infallibilità, siano già riuniti in concilio
ecumenico, già dispersi per il mondo nelle loro sedi, sebbene in
comunione tra di loro e con il successore di Pietro (c. 749). L'esercizio
l'abituale del magistero ecclesiastico autentico non è, tuttavia,
infallibile e, infatti, il paragrafo terzo dello stesso c. 749 precisa:
«Nessuna dottrina si considera definita infallibilmente se non è presente
in modo manifesto». Da ciò si deduce l'esistenza di una certa
gradualità da parte dei fedeli nell'adesione alla dottrina del
magistero ecclesiastico.

A questo proposito, prescrive il legislatore ecclesiastico: l'obbedienza o


assenso di fede, per le verità da credere o proposte come di fede
divina-cattolica (c. 750) e per quelle definite in modo infallibile (c. 749 §
2); un assenso religioso dell'intendimento e della volontà (c.
752), alle dottrine sulla fede proposte dal magistero
eclesiastico ordinario, universale e autentico, anche se non sia il suo
intenzione di proclamarle con un atto decisorio (c. 750); un semplice
assenso dell'intendimento e della volontà

29 Cfr. DV 10, 2 i commenti di: W.Aymans, Begriff, Aufgabe


e portatore dell'insegnamento, o.c., 540; P. Krämer, Diritto ecclesiastico, I, o.c.,
39-41;A. Montan,11 libro 111: la funzione di insegnare della Chiesa,
o.c.,142.

tad, di fronte al magistero ecclesiastico ordinario, universale e autentico, in


materia dottrinale e di costumi (c. 752); e, per ultima cosa, una semplice
adesione con assenso religioso interiore per quanto riguarda il
magistero autentico ordinario del proprio vescovo (c. 753). Tutti i
i fedeli hanno, inoltre, l'obbligo di osservare le costituzioni e
i decreti con cui l'autorità competente propone una
dottrina o rifiuta opinioni errate (c. 754).
Colui che, dopo aver ricevuto il battesimo, rinnega totalmente la
fe cristiana, nega in modo pertinace qualsiasi verità di fede divina e
cattolica, si sottrae deliberatamente alla comunione di fede con i
obispos e il Papa è apostata, eretico o scismatico (c. 751), e incorre in
la sanzione canonica della scomunica secondo il c. 1364. A chi,
dopo aver ricevuto il battesimo, rifiuta, tuttavia, la
insegnamento del magistero autentico del Papa e del Collegio dei
obispos, anche se non è infallibile, o rifiuta in modo pertinace
una delle dottrine di cui parla il legislatore nel c. 752, secondo
il c. 1371, dopo amonizione, può essere inflitta o applicata una
sanzione canonica. Non qualsiasi negazione di una verità di fede, né
neanche qualsiasi dubbio su una di queste verità costituisce un
delitto di eresia o di scisma, perché anche dentro alla plena
tra la comunità della Chiesa cattolica esiste una differenza legittima tra la
consapevolezza di fede del credente particolare e la fede creduta dalla Chiesa in
il suo insieme30. Certamente, sebbene sia vero che il principio generale,
secondo il quale ogni uomo è obbligato ad abbracciare e osservare per legge
divina la verità conosciuta (c. 748 § 1), ha per il fedele cattolico una
forza precisa giuridicamente vincolante, tuttavia quest'ultimo deve
tenere presente che la differenza tra un peccato grave contro la fede (o
l'unità della Chiesa) e un reato di eresia (o di scisma) non dipende
di un dato dogmatico oggettivo, ma di un intervento positivo della
autorità ecclesiastica31In ambito normativo, questa intervento
La positiva autorità ecclesiastica si esprime a due livelli: il livello
dogmatico della definizione, in cui il magistero ecclesiastico
l'autentico fissa i limiti formali, entro i quali è
garantita ancora la comunione piena nella fede; e il legislativo, per
proteggere questi limiti formali con sanzioni canoniche. Queste
le ultime saranno studiate ampiamente

30. A questo proposito, cfr. K. Rahner, Eresia nella Chiesa oggi? in:
Idem, Scritture sulla teologia, vol. IX, Einsiedeln 1972 (2. ed.), 453-
478, 460.
31. Per un'analisi dettagliata di tutta questa questione, cfr. L. Gerosa, La
Scomunica una penn? Saggio per una fondazione teologica del diritto
penale canonico, Friburgo 1984, 296-326: Idem, Scisma e Eresia.
Aspetti giuridici ecclesiastici di una nuova ecclesiologia
Definizione del termine, teologia e fede 83 (1993), 195-212.

mente nel paragrafo 14.3, in stretta connessione con il sacramento


della penitenza. Qui è sufficiente ricordare che tutta la normativa
del Codice relativo al consenso di fede e alla negazione, totale o parziale
della stessa, deve essere letta alla luce del principio conciliativo fondamentale
sulla libertà dell'atto di fede (DH 10), ripreso dal legislatore
eclesiastico nel c. 748 § 2, che dice: «A nessuno è lecito mai
coartare gli uomini ad abbracciare la fede cattolica contro il loro volere
coscienza». In effetti, l'atto di fede è sempre una risposta libera e
responsabile della Parola di Dio, che è un avvenimento di grazia,
e ciò ha un significato non solo verso il mondo esterno, ma
anche all'interno del sistema giuridico della Chiesa, come già abbiamo
ho avuto l'occasione di sottolineare nel paragrafo sui principi di
legittimazione di un diritto ecclesiale.

8. Missione, educazione ed ecumenismo

8.1 Le norme del Codice sull'attività missionaria

Le norme canoniche riguardanti l'azione missionaria della Chiesa sono state


reaggregati dal legislatore ecclesiastico del 1983 nel secondo titolo
del libro III, seguendo il seguente ordine sistematico: dopo un'allusione
al carattere missionario di tutta la Chiesa (c. 781), si formulano i
criteri per le diverse responsabilità nella realizzazione del
mandato misionero (cc. 782-785 e c. 792) e, infine, le diverse
norme che regolano l'azione missionaria propriamente detta e i suoi
attività più specifiche (cc. 786-791).

Fin dal primo canone di questa sezione - il 781 - è chiaro come il


Il legislatore ecclesiastico ha pienamente raccolto l'insegnamento conciliare
sulla Chiesa pellegrina: «La Chiesa pellegrina è, per il suo
natura, missionaria, poiché trae origine dalla missione del Figlio
e della missione dello Spirito Santo, secondo il progetto di Dio Padre
(AG 2, 1), e sulla missione di evangelizzazione come dovere fondamentale
di tutto il Popolo di Dio e di tutti e ciascuno di essi
membri32Dall'organizzazione sistematica della materia, e non solo
del canon 787 § 1, emerge altresì la consapevolezza che la fonte
sia dell'attività missionaria in genere, che dell'azione missionaria
propriamente detta, è la testimonianza della vita e della parola dei
uomini e donne rigenerati nella loro umanità dal battesimo,
con

32. Cfr. soprattutto AG 11; 35 e 36.

il quale sono incorporati alla Chiesa come comunione33L'insistenza


del legislatore ecclesiastico sul «dialogo sincero con chi non
credeno in Cristo» (c. 787 § 1) e sulla ammissione al battesimo solo di
quelli che lo hanno chiesto «liberamente» (c. 787 § 2), dopo aver
ricevuto l'annuncio evangelico, documenta anche ampiamente come
tutte queste norme del Codice sull'attività missionaria della Chiesa
sono informate dal principio conciliatore della libertà religiosa.
Al centro di queste norme si trovano proprio le
disposizioni relative all'aspetto più importante e delicato di
azione missionaria propriamente detta, vale a dire: l'incorporazione a la
Chiesa di coloro che hanno accolto liberamente l'annuncio cristiano.
Conformemente ai canoni 787-789, dopo il precatecumenato,
consistente nel primo annuncio kerygma, coloro che abbiano
manifestato la volontà di abbracciare la fede in Cristo sono ammessi al
catecumenato con una cerimonia liturgica. Questo periodo di
istruzione obbligatoria nella dottrina cristiana, di preparazione per
ricevere i sacramenti e un vero e proprio apprendimento della vita
cristiana, è ordinato secondo gli statuti e le regole emanate da
Conferenze episcopali 34..

Attorno a questo nucleo centrale formula altresì il legislatore


ecclesiastico alcune norme riguardanti i missionari (c. 784) e
catechisti laici (c. 785), come attori principali dell'azione
missionaria propriamente detta (c. 786). Quest'ultima ha un obiettivo
preciso: «impiantare la Chiesa tra i popoli o gruppi umani che
ancora non credono in Cristo» (AG 6, 3). La formula piantatio
Ecclesiaedel c. 786, che a partire da santo Tommaso d'Aquino appare
in molti documenti pontifici riguardanti l'attività missionaria
de la Iglesia, descrive, da un lato, la responsabilità di tale compito
ricade sulla Chiesa universale e sulle chiese
particolari» 35, y, d'altra parte, rimanda a quel lungo e complesso processo di
inserimento della Chiesa nelle culture di diversi popoli,
denominato inculturazione. Questo processo non è una «pura adattamento
esterno», ma implica una «trasformazione intima dei
autentici valori culturali attraverso la loro integrazione nel
cristianesimo e dell'insediamento del cristianesimo nelle diverse
culture36La Chiesa, nel percorrere questo lungo e lento cammino con i
i popoli devono sostenere anche la loro azione missionaria con una
attività educativa specifica.

33.Cfr. LG 14 e AG 11, 1.
34.Su questo nucleo centrale delle norme del codice sull'attività
missionaria della Chiesa, cfr. O.Stoffel, Il compito missionario, in:
HdbKathKR, 547-553, soprattutto 551-553.
35. Juan Pablo II, Redemptoris missio, in: AAS 83 (1991), 249-340, n.
49.
36.Ibid., n. 52; cfr. anche Paolo VI, Evangelii muandi, o.c., n. 20.

8.2 Le norme del Codice sull'attività educativa

Dopo aver confermato nei tre canoni introduttivi (cc. 793-795)


i principi conciliari sulla educazione cattolica, il Codice di
1983 raggruppa in tre capitoli le norme canoniche principali
sulla attività educativa della Chiesa: le scuole (cc. 796-806)
le università cattoliche (cc. 807-814), le università e
facoltà ecclesiastiche (cc. 815-821). Data la stretta connessione di
tutta questa materia con le varie normative statali, il legislatore
l'eclesiastico si limita necessariamente a offrire norme quadro e rimanda
spesso alle disposizioni particolari delle Conferenze
episcopali37Ha comunque una particolare importanza il fatto che
che il legislatore ecclesiastico abbia fatto propria la prospettiva conciliare
del diritto e dovere dei genitori di educare i propri figli
seguendo le proprie convinzioni, da cui deriva direttamente il
diritto di scegliere liberamente la scuola più idonea per i propri
figli e a ricevere, da parte della società civile, gli aiuti necessari
per adempiere degnamente a questo compito difficile38. Da parte dello Stato
costituirebbe una grave riduzione, sia del principio di sussidiarietà,
come dalla giustizia distributiva, negare questi aiuti, invocando il
diritto a un monopolio che non gli appartiene o bene il principio di
separazione tra Chiesa e Stato, completamente fuori luogo, dato
non si tratta di una prerogativa delle comunità
confessionali, ma di un diritto fondamentale dei genitori, fondato
nella sua dignità personale e in quella dei suoi figli 39.

8.3 Diritto canonico ed ecumenismo

«Promuovere il ripristino dell'unità tra tutti i cristiani è


uno dei principali scopi del concilio ecumenico Vaticano II
(UR 1, 1). Il legislatore ecclesiastico, obbligato a guardare al concilio
Il Vaticano II, come suo alter ego, non poteva certamente prescindere da
questa ispirazione ecumenica di tutta la dottrina conciliare. E così, nel
capitolo sulla formazione dei chierici

L'esempio più importante è quello dell'insegnamento religioso impartito


nelle scuole statali e menzionata nel c. 804; sul tema,
cfr. J. Listl, Il Religionsunterricht, in: HdbKathKR, 590-605; E
Tagliaferri
(1987), 145-150. Per le facoltà di Teologia e le Università
Cattoliche, cfr. Giovanni Paolo II, Costituzione Apostolica «Sapienza
«Christiana» (15 aprile 1979), in: AAS 71 (1979), 469-
Idem: Costituzione Apostolica «Ex Co de Ecclesiae» (15 di
agosto del 1990), in: AAS 82 (1990), 1475-1509.
38. A questo proposito, cfr. soprattutto GE 1, 1; 2, 1; 6, 1.
39. Per una breve illustrazione di questa importantissima questione, cfr. F.J.
Urrutia, Educazione cattolica, en: NDDC, 439-440.
gos ricorda la necessità che i seminaristi «si mostrino
solleciti per le attività missionarie ed ecumeniche». Tuttavia, la norma
generale sulla promozione dell'attività ecumenica è formulata
in un modo veramente sfortunato almeno per tre
motivi. In primo luogo, il c. 755 è posto alla fine delle norme
del Codice sul magistero ecclesiastico, come se l'attività
l'ecumenismo fosse esclusivamente legato al munus
docendi.In secondo luogo, essendo lo stesso canone diretto alla Sede
Apostolica, al Collegio dei vescovi, alle Conferenze episcopali e
ad ogni vescovo particolare, sembra che il legislatore ecclesiastico dimentichi
che la richiesta ecumenica «è cosa di tutta la Chiesa, tanto di
fieli come quelli dei pastori» (UR 5). In terzo luogo, a differenza di
quanto accade nei cc. 902-908 del CCEO, il citato canone non
non contiene alcuna disposizione sugli strumenti né sulle
modalità di realizzazione dell'attività ecumenica.

In definitiva, il c. 755 del CIC, nonostante rappresenti sicuramente


un progresso rispetto al divieto, formulato dal vecchio
Codice pio-benedettino, di dialogare pubblicamente con i non cattolici
senza un permesso speciale della Santa Sede o dell'Ordinario40, con
riguardo all'insegnamento del Concilio Vaticano II le disposizioni
le norme contenute nel citato canone 755 risultano piuttosto
incomplete per costituire una base normativa solida per l'attività
ecumenica della Chiesa cattolica41Questo giudizio negativo è mitigato
in parte per la presenza nel CIC di altre norme—ampiamente
studiate da diversi autori—42decisamente più validi
dal punto di vista ecumenico: per esempio il c. 463 § 3, dove
brota un profondo interesse e rispetto per i «membri di Chiese o di
comunità ecclesiali che non sono in piena comunione con la
Chiesa cattolica43; il c. 844, che facilita le relazioni tra i fedeli
delle diverse Chiese cristiane, soprattutto per quanto riguarda la
ricezione di alcuni sacramenti o «comunicatio in sacris»44; il c.
861 § 2, che, in caso di

40. Cfr. c. 1325 § 3 del CIC/1917 e il commento di P.


Krämer, Diritto ecclesiastico I, o.c., 41-42.
41. Questo è il giudizio di J.L. Santos, Ecumenismo, in: NDDC, 437-439.
42. Inoltre alla letteratura indicata più avanti in relazione con i
matrimoni misti, tra i più importanti saggi che trattano il
tema, in generale, dobbiamo segnalare: H. Müller, Der
mandato ecumenico, en: HdbKathKR, 553-561; H.
Heinemann, Implicazioni ecumeniche della nuova chiesa
Codice, en: Catholica 39 (1985), 1-26; W. Schulz, Questioni
ecumeniche nel nuovo Codice di diritto canonico, en: Vitarn impendere
vero.Studi. in onore di P. Ciprotti, a cargo di W. Schulz-G. Feliciani,
Roma 1986, 171-184.
43.Cfr. anche il c. 364.
44. In conformità con l'insegnamento conciliare (UR 8 § 3) costituisce una
eccezione a questa regola è il divieto rivolto ai presbiteri
cattolici di concelebrare con ministri di Chiese o comunità
ecclesiali che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica (c.
908).

necessità, autorizza chiunque sia spinto da retta intenzione a


amministrare il sacramento del battesimo; i cc. 1124-1129, che
riuniscono in un solo capitolo tutta la normativa canonica relativa ai
matrimoni misti, sensibilmente migliorata rispetto alle norme
precedenti, come vedremo con maggiore ampiezza nel § 17.3 a loro
dedicato. Se ci sono indubbi miglioramenti in alcuni settori
normative particolari sarebbero state sostenute anche da una
una certa norma generale più precisa sulla promozione dell'unità di
ai cristiani, forse sarebbe stato più facile per il legislatore ecclesiastico
proiettare una luce diversa, chiarificatrice dal punto di vista
teologico, anche sulla vasta e complessa normativa del Codice
riguardo alla tutela giuridica della comunione ecclesiale.

9. La tutela giuridica della comunione ecclesiale

Nel formulare i principi di legittimazione dell'esistenza di un


diritto ecclesiastico, abbiamo già avuto occasione di mettere in evidenza
come il diritto canonico svolge compiutamente la sua funzione nel
interno della comunità di fede che è la Chiesa, quando garantisce al
nello stesso tempo sia la trasmissione integra della verità di fede, sia la
libera adesione alla stessa. Il suo obiettivo principale è la realizzazione di questa
comunione di fede e vita. Per raggiungerlo, il legislatore ecclesiastico,
sulla base di una lunga tradizione canonica, ha disposto una serie
di strumenti giuridici, che vanno dalla semplice professio fidei,
professione pubblica della fede, ai procedimenti più complessi
canonici e, in particolare, a quelli relativi allo status
personarum, che sono i più tipici, perché tendono a definire o
dichiarare la situazione reale di un fedele all'interno della comunione
ecclesiale.

9.1 Alcuni strumenti giuridici


per la difesa dell'integrità della fede

a) Professione di fede e giuramento di fedeltà


Essendo il vincolo della professione di fede (c. 205) —insieme a
sacramentale – alla base della comunione ecclesiale, il c. 833 impone a
tutti i fedeli, che esercitano una funzione ecclesiale importante nella
comunità ecclesiale, l'obbligo di professare pubblicamente la fede della
Chiesa cattolica. Tale obbligo vincola giuridicamente ogni fedele
particolare interessato e per questo non può essere portato a termine attraverso
di un procuratore. Implica un impegno pubblico di obbedienza a
Cristo e la Chiesa e deve essere realizzata attraverso una formula
approvata dalla Sede Apostolica, che contiene il simbolo niceno-
costantinopolitano con alcuni aggiunti riguardanti le
disposizioni che figurano nei cc. 750 e 752.

Nonostante poco dopo la chiusura del concilio Vaticano II,


la Congregazione per la dottrina della fede ha soppresso il giuramento
antimodernista45, questa stessa Congregazione ha pubblicato
recentemente un documento, che è entrato in vigore il 1 marzo di
1989, con la nuova formula del giuramento di fedeltà46. Questa ultima ha
da essere considerata come complemento della professione di fede, imposta
per il c. 833 ai vicari generali, episcopali e giudiziali; ai
parroci; al rettore e ai professori dei seminari; al rettore e al
corpo docente delle università cattoliche ed ecclesiastiche; a
superiori degli istituti religiosi clericali e delle società di
vita apostolica clericale; a coloro che stanno per ricevere l'ordine del diaconato.
Nonostante l'incoerenza di obbligare, senza distinzione, anche i fedeli
che «non svolgono una funzione ecclesiastica a nome di
Chiesa47, si deve osservare comunque che tale giuramento, di
natura promettente48rafforza semplicemente l'obbligo che
contrae il fedele con l'assunzione di quella determinata funzione ecclesiale.
Per la comunità cristiana, invece, può essere una garanzia
ulteriore sapere che il titolare di tale funzione ecclesiale si è impegnato
anche con un giuramento di fedeltà, che, pur non essendo un
vero e proprio atto di culto a Dio, assume, tuttavia, la
solennità di un dono a Dio e alla Chiesa.

b) «Nihil obstat», «mandatum» e «missio canonica»

Il termine tecniconihil obstat, oggetto di non poche discussioni e


polemiche nel seno della teologia cattolica postconciliare49, è usato
per il Diritto canonico in riferimento all'incarico di insegnare
discipline teologiche, sia in università che in facoltà statali,
bene negli istituti superiori ecclesiastici. Insieme al nihil
obstat concesso dalla Sede Apostolica, non dobbiamo dimenticare il nihil
obstatdel ordinario del luogo che, con norma al diritto

45.Cfr. AAS 59 (1967), 1058.


46.Cfr. AAS 81 (1989), 104-106. Per un commento critico, cfr.P.
Krämer, Diritto ecclesiastico I, o.c., 61-62; F.J. Urrutia, /usiurandum
fidelitatis,en: Periodica 80 (1991), 559-578.
47.F.J. Urrutia, Ciuranhento di fedeltá, in: NDDC, 546-547, qui 546.
48. Sulle obbligazioni generate da un giuramento promissorio, cfr. cc.
1199-1204 e soprattutto cc. 1200-1202.
49.Cfr.H. Schmitz, campi di conflitto e modalità di soluzione nella chiesa
Settore universitario. Osservazioni su attivisti notori
Problemi, en: Una chiesa - Un diritto? Conflitti di diritto ecclesiastico
tra Roma e le chiese locali tedesche, a cura di R. Puza-A.
Kustermann, Stoccarda 1990, 101-121, soprattutto 126-128.

concordatario di molti paesi del nord Europa, è colui che ha


valore giuridico vincolante per l'autorità statale competente e è
praticamente equiparato alla missio canonica. In entrambi i casi si
si tratta comunque di una semplice dichiarazione negativa, con la quale
l'autorità ecclesiastica competente attesta che, secondo il Diritto
canónico vigente, non esiste alcuna obiezione riguardo a un
eventuale incarico di insegnamento per un docente determinato 50.

Elmandatumes il nuovo termine tecnico con cui la Commissione per


la revisione del Codice ha sostituito la precedente dimissione
canonico nel c. 812, che dice: «Coloro che spiegano discipline
teologiche in qualsiasi istituto di studi superiori devono avere
mandato dell'autorità eclesiastica competente51Questa nuova
istituzione canonica o strumento giuridico destinato alla tutela di
La comunione ecclesiale è qualcosa di più del semplice nihil obstat, ma al
stesso tempo non può nemmeno essere considerato come una
veramente missione canonica, perché quest'ultima è prescritta dalla
CASapientia cristiana solo per i professori di discipline
teologiche nelle università o facoltà ecclesiastiche52. Per favore
Inoltre, pretendere che tutti i docenti di discipline teologiche,
in qualsiasi tipo di istituto superiore, devono insegnare in nome della
autorità ecclesiastica competente, e non sotto la propria
responsabilità, sarebbe una lesione della libertà riconosciuta nell'art. 218
come un diritto. Oltre alla poca chiarezza e coerenza
terminologica della normativa canonica in questo settore, si può
affermare in ogni caso che il mandato non è altro che una
conferma preliminare all'insegnamento, con la quale non si concede alcun
diritto particolare al professore in questione, anche se si attestano
positiva e pubblicamente due cose: in primo luogo, che il professore
è in comunione con la Chiesa cattolica e insegna, di conseguenza,
come cattolico; in secondo luogo, che la dottrina proposta dal
il professore è d'accordo con il magistero ecclesiastico 53.
Il termine técnicomissio canonicano ha un significato univoco: in
i documenti conciliari si usano per indicare il modo in cui la
gerarchia

50.Cfr.H. Schmitz, Studi sul diritto ecclesiastico universitario. Würzburg


1990, 133-145; L Riedel-Spangenberger, Incarico nella chiesa. Il
Sviluppo e la sua importanza nella chiesa
Linguaggio giuridico, Paderborn-Monaco-Vienna-Zurigo 1991, 188-191.
51.Sul senso della sostituzione, cfr. Communicationes 15 (1983),
105.
52.Cfr. AAS 71 (1979), 469-499, qui 483 (= n. 27,1).
53.Concordano in questa definizione demandatum:F.J.Urrutia,Mandato di
insegnare discipline teologiche, en: NDDC, 661-664, qui 662;
G.Ghirlanda, Il diritto nella Chiesa, mistero di comunione, Madrid
1992, 507-508.

confida a laici fedeli alcune funzioni che, per loro natura, sono
più legate alle funzioni dei pastori54nel CIC del 1983 il
il legislatore ecclesiastico non fa più ricorso a essa; nella tradizione cattolica si
indica con questo termine diverse forme di partecipazione nella missione
della gerarchia ecclesiastica; infine, nelle norme di diritto
stato ecclesiastico si usa questa stessa espressione per indicare la
modalità di collaborazione tra l'autorità ecclesiastica e quella statale
nell'ammissione di docenti e professori nelle varie scuole e
istituti superiori55. In tutti i casi si tratta sempre di forme
diverse, con conseguenze giuridiche diverse, con le quali la
l'autorità ecclesiastica competente incarica un fedele di sviluppare una
determinata funzione in nome dell'autorità gerarchica e sotto la
piena responsabilità di quest'ultima.

Insieme a questi strumenti giuridici di natura sostanzialmente


promozionale, il Diritto canonico conosce altri strumenti giuridici
di natura più preventiva, o propriamente di vigilanza e difesa,
per tutelare la realizzazione obiettiva della comunione ecclesiale; si tratta,
soprattutto, della censura ecclesiastica e dei procedimenti di
esame dell'insegnamento in teologia.

c) Censura ecclesiastica e procedure di esame dell'insegnamento


in teologia

Poco dopo la chiusura del concilio Vaticano II, il 14 giugno di


1966, la Congregazione per la dottrina della fede abolì l'odioso indice
di libri proibiti56e circa dieci mesi dopo emanò
dalla stessa Congregazione il decreto Ecclesiae pastorum57,con cui
riordina tutta la materia sulla censura dei libri. Questo decreto
costituisce la fonte principale degli cc. 822-832 sulla autorizzazione
per pubblicare libri e altri scritti su fede e costumi dei fedeli
cattolici.

Le nuove istituzioni canoniche della licentia e dell'approbatio hanno


una natura molto diversa dall'antica proibizione58y, altresì,
conseguenze giuridiche molto diverse. Ad esempio, se oggi si
pubblicherà un libro

54.Cfr. AA 24 e il commento di F.J. Urrutia, Mandato, o.c., 662.


55.Su tutta questa questione, cfr.I. Riedel Spangenberger,Invio in
della Chiesa, o.c., soprattutto 98-144 e 201-281.
56.Cfr. AAS 58 (1966), 445; poco dopo la stessa Congregazione
abrogò il c. 1399 del CIC/1917 sui libri proibiti dal diritto
canonica e le censure connesse (cfr. AAS, 58, 1966, 1186).
57.Cfr. AAS 67 (1975), 281-284.
58.Cfr. cc. 1395-1405 del CIC/1917.

senza l'approvazione ecclesiastica necessaria, il fatto non comporterebbe che il


libro avrebbe il carattere di proibito, con tutte le gravi
conseguenze giuridiche stabilite dal vecchio c. 1399, vale a dire:
non può essere letto, stampato, conservato, venduto o tradotto da
fedele cattolici59Il diritto e il dovere dei vescovi di vigilare sui
scritti e l'uso degli strumenti di comunicazione sociale ha
una funzione eminentemente pastorale: quella di «preservare l'integrità di
le verità di fede e di costumi» (c. 823 § 1), lanciando un appello,
con i propri interventi, alla responsabilità di tutti i
fedeli. D'altra parte, il c. 824 stabilisce una chiara distinzione tra
licenza e approvazione: mentre con lalicentiala autorità
l'autorità ecclesiastica autorizza la pubblicazione senza formulare alcun giudizio sulla
la stessa, l'approvazione contiene tale giudizio. Quest'ultima è richiesta da
il CIC per la pubblicazione del testo originale della Sacra Scrittura, di
i libri liturgici, delle collezioni di preghiere e dei catechismi. Senza
l'approvazione, i libri di teologia non possono neanche essere usati come
manuali o testi per l'insegnamento (c. 827 § 2), né essere esposti,
venduti o distribuiti nelle chiese o negli oratori (c. 827 § 4).

In tutti gli altri casi è sufficiente la licenza e la censura


l'eccelsiastica precedente è unicamente raccomandata60.

Insieme a queste particolari istituzioni giuridiche, la cui applicazione deve


avere sempre luogo nel pieno rispetto della dignità e
ai diritti di tutti i fedeli—come, ad esempio, quello di essere
immune da qualsiasi coazione (c. 219), quello della libertà di espressione
(c. 212 § 3) e di ricerca (c. 218)—, esistono anche nel
Il diritto canonico determina procedure tendenti alla tutela
dalla realizzazione e conservazione oggettiva della comunione ecclesiale. Si
tratta dei cosiddetti procedimenti amministrativi speciali—
trattati nel paragrafo seguente insieme ad altri procedimenti
canonica—e delle procedure per l'esame delle dottrine
errate.

Durante il concilio Vaticano II fu aspramente criticato il modo di


procedere delle Congregazioni romane e in particolare il
delSanctum Di-

59. Questo non è un ostacolo affinché anche oggi - secondo il c. 1369 - si


può applicare una sanzione canonica ai fedeli che con i loro scritti
lesionano gravemente la fede e le consuetudini cattoliche o eccitano l'odio
e al disprezzo verso la Chiesa.
60.Cfr. c. 827 § 3. L'importanza di queste norme del Codice è stata
confermata da una recente istruzione della Congregazione per la
dottrina della fede (30-3-1992), che ha precisato i termini del suo
applicazione. Per un commento, cfr. P. Krämer, Chiesa e
Censura dei libri. A una nuova istruzione della Congregazione per la
Dottrina della fede, en: Teologia e fede 83 (1993), 72-80.

ficium,che, un giorno prima della chiusura ufficiale della magna sessione


ecumenica, attraverso il MPIntegrae servandae61,ricevette dal papa,
Paolo VI, il nuovo nome della Congregazione per la dottrina della fede e,
soprattutto, una nuova organizzazione. Quest'ultima, salvo qualche leggera
modifica, è stata confermata dalla CARegimini Ecclesiae
Universoó2, che obbliga la Congregazione a darsi un nuovo
regolamento interno. Ciò ebbe luogo il 15 gennaio 1971 con la
pubblicazione della Nova agendi ratio in esame delle dottrine63, dove
se contiene la nuova normativa per la procedura di esame di
le dottrine.

Sebbene la pubblicazione di questa Nova agendi ratio costituisca, da


poi, un importante passo avanti verso la piena superazione di
i metodi dell'Inquisizione, caratterizzati da un'aura oscura
di silenzio, ereditata in parte dal Santo Uffizio, con tutto, alcune
le sue norme sono state fortemente criticate, e non sempre
ingiustamente, come si vedrà meglio nel seguito. Tra tutte queste
critiche, la principale è legata alla mancanza di chiarezza riguardo al
ruolo del vescovo diocesano in questi procedimenti di esame, e con
l'impressione—suscitata dall'Istruzione—che solo la
La congregazione romana è competente in questioni riguardanti
materie di fede e costumi dei fedeli cattolici64Questo foglio no
può essere chiarito prescindendo dal nuovo statuto teologico e
giuridico acquisito dalla Conferenza episcopale dopo il concilio
Vaticano II. Non può nemmeno essere definito con chiarezza senza una
posizionamento preciso all'interno del nuovo e diversificato sistema di
i procedimenti canonici. Sfortunatamente, il CIC del 1983 non
non offre alcun aiuto per chiarire questi problemi,
si è limitato ad affermare, nel c. 830, che il diritto di ciascuno
ordinario, a confidare a persone che sembrano sicure il giudizio su
i libri, rimane intatto, e che la Conferenza episcopale può
costituire una commissione di censori. Di conseguenza, nonostante i suoi
limiti, la base giuridica della procedura per l'esame delle
dottrine continua a essere—anche dopo la promulgazione del
CIC—laNova agendi ratio del 1971.

61. Il testo di questo MP del 7-12-1965 si trova in: AAS 57 (1965),


952-955.
62.Cfr. AAS 59 (1967), 657-697.
63.Cfr. AAS 63 (1971), 234-236. Per un'analisi dettagliata di questo testo,
cfr. W.Aymans-E. Corecco, Magistero ecclesiale e teologia, en
Communio 14 (1974) 32-46; H. Heinemann, Obiezione didattica in
Chiesa cattolica. Analisi e critica del regolamento di procedura (=
Canonistica 6), Treviri 1981.
64.Cfr. W.Aymans-E. Corecco, Magistern ecclesiale e teologia, 44.

Questo nuovo regolamento per l'esame delle dottrine prevede due


tipi di procedimento: il procedimento straordinario, da applicare
unicamente nei casi in cui «l'opinione sottoposta a esame è
chiara e sicuramente errata e allo stesso tempo si prevede che di sua
la divulgazione può già derivare o derivare un danno reale per i fedeli» (n.
1), e la procedura ordinaria, che si applica in tutti gli altri
casi. Nel primo procedimento, straordinariamente sommario, si
avverte immediatamente l'ordinario del luogo, affinché si inviti l'autore
a correggere l'errore. Un modo di procedere simile contraddice il principio
fondamentale, invocato dalla stessa CARegimini Ecclesiae
Universaeen il n. 32, secondo cui, anche nei casi più gravi,
si deve sempre garantire all'autore il diritto alla difesa.

Il procedimento ordinario, invece, si divide in due fasi: una


interna (nn. 2-10) e un'altra esterna (nn. 11-18). La prima fase ha
come obiettivo permettere di formarsi alla Congregazione–attraverso i
rapporti preparati da due esperti e dal relatore autore–un
giudizio sulla dottrina sottoposta a esame e, pertanto, non prevede un
colloquio con l'autore e tanto meno avvisare l'ordinario interessato. La
la seconda fase del procedimento, quella rivolta verso l'esterno, inizia
unicamente sì, dopo la ricerca condotta nella prima fase, si
hanno trovato, nella dottrina sottoposta a esame, opinioni false o
pericolose (n. 12). Si avverte quindi l'ordinario interessato e gli
sono comunicate all'autore «le proposizioni considerate errate o
pericolose... affinché possa presentare per iscritto, entro il termine di un
mes hábil, su respuesta» (n. 13). Solo se considerasse necessario,
potrà essere invitato l'autore a mantenere un dialogo personale con
rappresentanti della Congregazione. Dopo di ciò, deciderà la
Congregazione sì e come deve essere pubblicato il risultato dell'esame
(n. 17). Infine, una volta approvate dal papa, saranno
comunicate queste decisioni all'ordinario dell'autore (n. 15).

Come facilmente si può intuire, anche questa procedura non è stata vista
esente da un gran numero di critiche, soprattutto perché il diritto a
la difesa dell'autore non può essere ridotta alla possibilità di una
risposta scritta e a dover eventualmente essere invitato a mantenere un
dialogo65.Invece, è stato accolto come positivo il fatto che
questo nuovo procedimento, di natura eminentemente amministrativa,
sfocia in un giudizio amministrativo–giuridicamente vincolante–, che
non influisce direttamente

65. Cfr. ibid., 41-42.

alla fede dell'autore, ma esclusivamente alla maggiore o minore conformità


di sua dottrina con la Rivelazione e l'insegnamento della Chiesa.

Di natura analoga è il giudizio, giuridicamente non vincolante, a cui


arrivano le procedure per l'esame delle dottrine introdotte
per alcune conferenze episcopali66.Qui si tratta semplicemente di
un consiglio qualificato, dato dalla Conferenza episcopale all'ordinario
interessato ad aiutarla nella sua decisione67. Tuttavia, i
i procedimenti applicati per arrivare a questo consiglio qualificato sono,
formalmente, più rigorosi di quelli della Congregazione per la
dottrina della fede. Infatti, oltre ad avere un carattere
decisamente sinodale, garantiscono sia una maggiore pubblicità delle
azioni, come la difesa tecnica dell'autore. Inoltre, in alcuni
aspetti, queste particolari procedure amministrative–anche
con alcuni elementi di natura eminentemente giuridica–
costituiscono un chiaro parallelo della struttura di base dei
procedure canoniche, che sarà studiata nel paragrafo
seguente. Questi sembrano esprimere con maggiore chiarezza rispetto ai
procedimenti per l'esame delle dottrine, applicati da
Congregazione per la fede, la peculiare natura del diritto della
Chiesa. Per questo motivo potrebbero fornire un punto di riferimento
valido per un futuro e nuovo trattamento normativo di tutto questo
materia delicata, anche a livello della Chiesa universale.
E infatti il 29 giugno 1997, durante i lavori della
traduzione spagnola del presente manual, la Congregazione per la
la dottrina della fede ha pubblicato nuove norme processuali che–
esaminate a prima vista – sembrano aver accolto i principali
desideri manifestati in questi anni, in particolare il diritto d'autore
a una difesa tecnica e la diretta implicazione del suo ordinario68.

9.2 I procedimenti canonici

Al trattare la riforma del diritto processuale canonico si era proposto


intitolare questo settore del diritto della Chiesa In modo procedendo pro
69
tutela dei diritti Il fatto che l'ultimo libro del Codice conservi, senza
embargo

66. Tra questi procedimenti, gli esempi forse più significativi sono
formulati dalla Conferenza episcopale tedesca e da
Conferenza episcopale svizzera. I rispettivi testi sono stati
pubblicati in: AfkKR 150 (1981), 174-182 e 155 (1986), 165-172.
67. Concordano in questo giudizio: H. Heinemann, protezione della fede e
Sittenlehre, en: Hdb-KathKR, 567-578 yP. Krämer, Diritto ecclesiastico 1,
o.c., 60.
68. Cfr. soprattutto i numeri 7 e 17 delle nuove norme processuali,
il cui testo in spagnolo si trova nel Bollettino Ufficiale dell'Arcidiocesi
di Santiago di Compostela, Tomo CXXXVII, n. 3.517.
69.Cfr. Communicationes 1 (1969), 83; 10 (1978), 209-216; 15 (1984), 52.

il titolo Dei processi potrebbe aiutare il fedele a comprendere che, nella


Iglesia, lo scopo dei diversi procedimenti non è,
esclusivamente, la protezione dei diritti e degli interessi legittimi, o
del bene comune, ma quella di «promuovere la vera riconciliazione e
assicurare la piena comunione tra tutti i fedeli70. Per questo dovrebbe
è possibile percepire, anche a livello degli elementi tecnico giuridici
di un processo, la diversa natura comunitaria e organizzativa che
caratterizza la Chiesa di fronte allo Stato. Questa diversità, basata sia
nella natura peculiare della sacra potestas, come nell'unità
operativa tra Parola e Sacramento nella costruzione di
la comunione della Chiesa emerge a tre livelli: la finalità sostanziale -
mente simile di tutti i procedimenti canonici più tipici
del sistema giuridico della Chiesa; il carattere dichiarativo del
sentenza canonica; la inadeguata distinzione tra natura giudiziale e
amministrativa dei diversi procedimenti canonici. La
convergenza di queste tre caratteristiche del diritto processuale
canónico permette di concludere che esiste una struttura di base comune a
tutte le procedure canoniche.
a) La finalità simile dei processi-tipo nella Chiesa

Nonostante le pretese, esibite in varie occasioni nei lavori


preparatori della nuova codificazione, che il Diritto canonico
conosca più tipi di processo, il CIC del 1983 presenta infatti un
solo processo-base: il contenzioso (cc. 1501-1670), al quale tutte le
altri tipi di processo - denominati dal legislatore
processi speciali ecclesiastici - fanno costantemente riferimento. Nel
il cosiddetto giudizio contenzioso ordinario prevalgono le formalità
giuridiche e, in particolare, la formalità della scrittura in
contrapposizione al giudizio contenzioso orale (cc. 1656-1670). Entrambi i tipi
hanno come oggetto la rivendicazione dei diritti delle persone fisiche o
giuridiche, o la dichiarazione di fatti giuridici71.

Ora, precisamente questo tipo di processo non è solo il meno


frequente, ma rappresenta un ruolo secondario e, come tale, è
incluso quello al quale la Chiesa potrebbe rinunciare con maggiore facilità, senza
incorrere in grandi difficoltà. Non fu una casualità che, anche in
elCoetus dei consulenti, incaricato della riforma del diritto processuale
canonica, apparisse la proposta di sostituirlo, nella sua funzione di
procedimento-base, per il matrimoniale, posto

70.R. Bertolino, La tutela dei diritti nella Chiesa. Dal vecchio al nuovo
codice di diritto canonico, Torino 1993, 16.
71.Cfr. c. 1400 § 1.

che, nella Chiesa, le cause matrimoniali sono, di gran lunga, le più


frequenti72.Il discorso non è, comunque, solo quantitativo. Non solo le
cause matrimoniali (cc. 1671-1707), ma non tutti i cosiddetti
processi speciali, dalle sottoarticolazioni dei processi
matrimoniali (come il processo per la separazione dei coniugi,
il rato e non consumato o il processo sulla morte presunta del
cónuge) al processo per la dichiarazione di nullità dell'ordinazione
(cc. 1708-1712) e, infine, al penale (cc. 1717-1731), sono
sostanzialmente, e in ultima analisi, cause sullo stato
personarum.Y in quanto tali, tendono a definire la situazione reale e/o il
grado di appartenenza di un fedele alla comunione ecclesiale e, perciò,
appartengono all'essenza inalienabile e tipica del processo canonico 73.

La capacità di queste cause di distinguere, in modo inconfutabile, i


processi canonici di quelli regolati dal diritto statale ci sarebbero
sarebbe stata posta più in rilievo, se il legislatore ecclesiastico non avesse
rinunciato a codificare i procedimenti canonici che meglio riflettono
la natura peculiare della struttura giuridica della Chiesa, vale a dire: il
procedura riguardante le cause di beatificazione o santificazione e
i destinati all'esame delle dottrine considerate errate, che
abbiamo già studiato. In effetti, non si può dimenticare che al
procedimento canonico per le cause di beatificazione o
santificazione, la. seconda parte del libro quarto del CIC/1917 dedicava
142 canoni (cc. 1999-2141) e che è stato definito - a partire dai suoi
premesse formali–da un canonista autorizzato come «la forma
procedura più rigorosa» conosciuta dal Diritto canonico74. Metterlo
nel centro della nuova normativa processuale del codice ci sarebbe
aiutato, certo, a comprendere che il processo in cui
normalmente sfocia in un procedimento canonico e, in particolare,
quelli che, per riferirsi alle cause sullo status personarum, sono i
più tipici del sistema processuale della Chiesa, è per sua propria
natura dichiarativa.

b) La natura dichiarativa della sentenza canonica

La sentenza, in qualsiasi sistema giuridico, rappresenta «il polo


magnetico di tutto il processo75e, come tale, riflette le caratteristiche
più rilevanti

72.Cfr. Communicationes 11 (1979), 80-81.


73. Questa è la giusta considerazione di: E. Corecco, Die richterliche
Applicazione delle «sacra potes-ras», en: ÖAKR 39 (1990), 277-294,
qui 284-285.
74. Cfr. K. Mörsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts, Bd. 3, Paderborn-
Monaco-Vienna 1979 (11° ed.), 260 e il commento di W.
Schulz, Il nuovo processo di beatificazione e canonizzazione, Paderborn
1988, 20-22.
75.R. Bertolino, 11 noto nell'ordinamento giuridico della Chiesa, Torino
1965, 49.

del sistema in questione. Ciò significa che anche la sentenza


la canonica è lo specchio ideale della struttura giuridica della Chiesa,
profondamente distinta–anche a livello del diritto processuale–da quella del
Stato.

Effettivamente, nel diritto processuale statale, il giudice, a differenza del


vescovo, non può agire se non a condizione di mettersi come
organo di diritto formale, che, al di fuori del quadro della legge, non ha
potere alcuno e cessa fino a esistere76.

Una identificazione simile tra potere e funzione sviluppata, in


questo caso il processo, non è possibile nella Chiesa a causa di
natura peculiare della sacra potestas, che, come abbiamo già visto, è
una e unica. Come tale, anche quando opera a livello di
la giurisdizione, il sacro potere non si identifica mai né con l'organo
che la esercita, né con summodus procedendi. D'altra parte, nella Chiesa
dove, al contrario di quanto avviene nello Stato moderno, non esiste
la divisione dei poteri – il modo di procedere di tutti gli organi di
il governo non è determinato dalla natura della funzione che esso
sviluppa, se non per la natura dell'oggetto. Ora, il giudice
ecclesiastico, sia che proceda per via giudiziaria che per via
amministrativa, con il suo giudizio (sia nella forma tecnica di sentenza
o di decreto) è sempre chiamato sostanzialmente a constatare
fatti oggettivi, come la validità dei sacramenti, l'appartenenza
o no alla communio plena, la legittimità del culto pubblico o la
ortodossia di una dottrina. Il valore giuridico di questi fatti oggettivi
trascende il semplice interesse privato dei singoli fedeli. Influisce su
tutta la realtà della Chiesa in cuantocommunio, perché la struttura
giuridica di quest'ultima non ha comotelos, principalmente, eseguire i
diritti soggettivi dei fedeli particolari, ma piuttosto
garantire, sul piano costituzionale o su quello dei dati oggettivi, la
integrità e verità del contenuto salvifico della Parola e dei
Sacramenti. Questa permanenza della substantia verbi e di
la sostanza sacramentale costituisce la finalità ultima del sacro
potestas, incluso quando agisce come potestas giuridica. In
conseguenza, la sentenza canonica, precisamente nei processi
più tipici della Chiesa, ha un carattere eminentemente
declarativo77. Con una sentenza canonica, l'autorità ecclesiastica
riconosce alcuni fatti giuridicamente vincolanti e garantisce di questo
modo la realizzazione oggettiva dell'esperienza ecclesiale, basata su
l'autenticità della Parola, la validità dei

76.Cfr., per esempio, E. Schumann, Richter, in: Evangelische


Staatslexikon 3, Bd. 2, Sp. 3010-3016. Sulla differenza tra il
diritto processuale canonico e statale, cfr. anche E.
Corecco, L'amministrazione della giustizia e rapporti umani, Rimini
1988, 133-140.
77.Cfr.E. Corecco, La applicazione giuridica della «sacra potestas»,
o.c.,282-289.

Sacramenti, e in tutti quegli elementi relativi a


vocazione comune di vivere la fede nella comunione ecclesiale, che è
sempre comunione con Dio e comunione dei fedeli.

Queste considerazioni sulla natura dichiarativa della sentenza


canonica vale anche - come si vedrà nel § 14.2 - per la
sentenza o il decreto pronunciato alla fine di un processo penale
canonico, e non solo quando le norme del Codice la definiscono come
declarativa, per essere relativa a una sanzione canonica
sentenze. Anche quando il Codice definisce la sentenza come
irrogatoria, per trattarsi di una sanzione canonica ferendae
sententiae (per esempio, nel c. 1314), ha di fatto un carattere
declarativo, perché la stessa distinzione tra sanzioni
canónicas latae sententiae e ferendae sententiae non influiscono su di loro
natura specifica, ma esclusivamente ai suoi effetti giuridici78.

c) La inadeguata distinzione tra procedure canoniche giudiziarie


e amministrativi

Il diritto canonico, insieme alle procedure per l'esame di


le dottrine errate - che abbiamo già avuto modo di studiare - e il
previsto nel c. 1720 per l'applicazione di sanzioni canoniche,
conosce anche una serie di procedure amministrative
speciali. Sono sostanzialmente tre: la procedura per la
rimozione e trasferimento di un parroco; la procedura per la
exclaustratione di un consacrato e, infine, la procedura per
l'espulsione della vita consacrata.

La normativa del Codice che regola la procedura per rimuovere o


trasferire un parroco è suddiviso in due capitoli: la rimozione
(cc. 1740-1747) e il trasferimento (cc. 1748-1752). Lo scopo di entrambi
procedimenti è esclusivamente pastorale: «assicurare ai fedeli un
ministero pastorale adeguato; in modo che, poiché non si presume
un comportamento colpevole del parroco, né uno né l'altro procedimento
possono essere considerati come sanzione canonica79. L'ordinario,
mediante una ricerca preventiva e specifica, deve accertarsi della
esistenza di una causa obiettiva che motivi la rimozione o il trasferimento.
L'itinerario processuale prescrive in modo obbligatorio sia l'audizione di
due parroci consulenti o assessori

78.Su tutta la questione, cfr. L.Gerosa, La scomunica è una pena?


Saggio per una fondazione teologica del diritto penale
canonico, Friburgo 1984, soprattutto 296-326 e 361-388.
79.A.Lauro,/ procedimenti per la rimozione e il trasferimento dei parroci,
I procedimenti speciali nel diritto canonico, Città del Vaticano 1992
303-313, qui 304.

(c. 1742 § 1), come l'invito al parroco affinché abbia


conoscenza degli atti che lo riguardano e presente il suo
difesa per iscritto (c. 1745).

Per l'exclaustrazione, il c. 686 § 3 richiede una causa grave e un


procedura che abbia costantemente presente l'equità e la
carità. Questa procedura, in conformità con la prassi di
Congregazione per i religiosi, pone nei cosiddetti casi
normali (cioè, quando la malattia o l'anomalia non sono
componenti rilevanti del caso) una doppia condizione preventiva alla
exclaustración: aver avvertito all'exclaustrando dei motivi e
averle dato la possibilità di difendersi80. Questa è tangibile
la salvaguardia della equità è ulteriormente rafforzata dal fatto
che il superiore generale non può chiedere alla Santa Sede o al vescovo
diocesano la exclaustración senza il consenso del suo consiglio (c.
686 § 3).

Infine, la procedura di espulsione dalla vita consacrata—


descritto dal c. 697—comporta tre fasi distinte: quella delle
ammonizioni, quella del decreto di espulsione e quella della sua conferma
da parte dell'autorità competente81. Tale procedura garantisce
sia il diritto di difesa (c. 695 § 2 e 698), sia il principio di
sinodalità nelle decisioni (c. 699 § 1).

Concludendo, lo sviluppo normativo codicistico dei tre


procedimenti amministrativi speciali, che abbiamo appena
esaminare, non ignorare— a livello di principi— né la dimensione sinodale
della sacra potestas, né il diritto alla difesa. Specialmente nel
modo di articolare la difesa di Elius, non risulta difficile trovare in questi
procedimenti analoghi con un altro procedimento, di natura
amministrativa, e assolutamente tipico del sistema processuale canonico:
l'ordinato alla verifica dei budget necessari per la
concessione della dispensa del matrimonio rato e non con-
sommato82. In 61 è esclusa la presenza di un avvocato, sebbene in
nei casi più difficili si ammette un'assistenza tecnica a carico di
uniusperitus (c.1701 § 2). Tuttavia, se si accetta che il nucleo
del diritto alla difesa si manifesta, nell'ambito canonico,
essenzialmente all'inizio della procedura contraddittoria,
quindi si può concludere che quel diritto

80. Per un'analisi dettagliata di questa procedura, cfr. J. Torres, La


procedura di esclaustrazione del consacrato,en:ibid.,315-336, sobre
fare 328-329.
81. Per un'analisi di queste tre fasi, cfr. J. Beyer, La dimissione
nella vira consacrata, en:ibid., 337-356, soprattutto 351-353.
82. A questo procedimento, che è certamente il più importante tra i
processi amministrativi conosciuti dal diritto matrimoniale
canónico, il CIC/1983, a differenza del Codice del 1917, ha
riservato un capitolo intero (cc. 1697-1706), il che si traduce in
vantaggio della chiarezza giuridica.
si trova anche in questo processo, così tipico del sistema giuridico di
la Chiesa, un'applicazione concreta e sufficientemente garantita. Qui,
come nei procedimenti amministrativi illustrati più sopra, questa
l'applicazione sarebbe più completa se, oltre alla difesa tecnica, si
avrebbe previsto anche una pubblicità, forse non erga omnes, ma
sì in grado di superare la rigorosa riservatezza tipica delle pratiche
curiali obsoleti83.

Il breve analisi di questi procedimenti amministrativi speciali


ha dimostrato che, in sostanza, presentano tutti i momenti
speciali di un processo giudiziario. Nel diritto canonico esiste,
quindi, una unica strutturazione, comune a tutte le procedure.

d) La struttura di base delle procedure canoniche

Gli elementi essenziali di questa struttura di base dei


I procedimenti canonici sono: il momento costitutivo del processo
stesso (introduzione della causa e delimitazione dei termini del
controversia); la fase di istruzione e quella di dibattito (presentazione di
le prove, difesa delle parti, risposte); il momento della
valutazione e decisione (valutazione e ponderazione delle prove)
da parte dei giudici) e, infine, l'emissione del decreto con la
partein iure e in facto. Nel diritto canonico la struttura di base di
i procedimenti amministrativi sono, pertanto, identici alla
dei procedimenti giudiziari. Le differenze vanno cercate
esclusivamente a livello delle diverse formalità da rispettare. La
più importante di queste consiste nel fatto che le norme del
I codici relativi alle procedure amministrative non prescrivono di
maniera espressa e vincolante la possibilità di ricorso alla difesa
tecnica. Questa carenza è, sfortunatamente, comune sia a
normativa del Codice sul procedimento amministrativo per la
irrogazione o dichiarazione di una sanzione canonica, come a la
normativa del Codice relativa ai diversi procedimenti
amministrativi speciali descritti. Con tutto, nella normativa del
Codice relativo a queste procedure, esistono frequenti rimandi
la possibilità di preparare difese scritte o ricorrere a periti. Per
questa ragione, per rendere completamente equiparabili i
procedimenti amministrativi e giudiziari canonici, basterebbe
semplicemente con «prendere nota che quando si concede la facoltà
di difesa scritta, è praticamente impossibile impedirne la redazione
da parte di un tecnico o datore di lavoro.

83. Cfr. S. Bedinge), La diversa natura delle procedure speciali, en:


/procedimenti speciali nel diritto canonico, o.c., 9-23, qui 22.
Bastrebbe, dunque, riconoscere in modo evidente la legittimità di
questa intervento e acconsentirlo anche in altre fasi del processo84.

Una volta fatto questo, non sarebbe più necessario prendere, come base
astratta dei procedimenti canonici, il contenzioso. Inoltre,
come è stato autorizzatamente dimostrato e come si vedrà meglio in
il paragrafo sui procedimenti matrimoniali85, neanche il
processo canonico per la dichiarazione di nullità di un matrimonio
che è di gran lunga il più frequente, ha poco a che fare con il processo
contenzioso. D'altra parte, già altri, a partire dal principio del
oralità, forse un po' frettolosamente relegata dal legislatore
ecclesiastico all'ambito del processo contenzioso (cc. 1656-1670), hanno
sottolineato l'opportunità di una maggiore diversificazione in vista del
futuro delle procedure speciali nel sistema giuridico di
Chiesa86Questo non potrà aver luogo senza una approfondimento teologico-
giuridica nella struttura di base comune a tutte le procedure
canonici.

Precisamente in questo senso e data l'importanza della materia, non


non deve essere sottovalutato il desiderio formulato, alla fine del paragrafo
precedente, di che, nel futuro, sia colmata la grave lacuna del CIC
in merito ai possibili procedimenti per l'esame delle
dottrine. Infatti, sebbene sia vero che oggi non si può più prescindere
del rispetto ai diritti soggettivi di ogni fedele e, pertanto, anche
di un autore, è altrettanto vero che è necessario garantire al
ordinario la possibilità di prendere decisioni libere e responsabili in
Ordine alla tutela della verità della comunione ecclesiale. Ora bene, la
tutela giuridica di questi due poli, reciprocamente immanenti: la
libertà dell'atto di fede del credente particolare, da una parte, e la
verità oggettiva della comunione ecclesiale, dall'altra, è proprio il
obiettivo principale di ogni procedimento canonico. Il conseguimento di
tale obiettivo potrebbe essere garantito più facilmente, anche a livello
normativo, sì la canonistica, liberata da ogni complesso di inferiorità
riguardo alla scienza giuridica statale, si concentra maggiormente le sue
sforzi per perfezionare, a livello giuridico-formale, la struttura di base
di tutto procedimento canonico, già rilevabile, in un certo senso, nel
Codice di Diritto Canonico in vigore.

84.Ibid., 22.
85.Cfr. K.Lüdicke, Il processo di nullità matrimoniale ecclesiastica - un processus
ÖAKR39 (1990), 295-307.
86.A questo riguardo, cfr. J. Sanchis, L'indagine preliminare al processo
penale(cann. 1717-1719), en:1 procedimenti speciali nel diritto
canonico, o.c., 233-266, qui 264.
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Salvador-V. De Paolis - G. Ghirlanda, Torino 1993, 661-664.

IV
IL DIRITTO SACRAMENTALE

10. Il concetto di sacramento nel Diritto canonico

Dopo la pubblicazione del Rituale Romanum nel 1614, con il quale


terminava l'impulso tridentino rivolto alla riforma della liturgia
romana, è necessario attendere al Motu proprio sulla musica liturgica,
pubblicato da papa Pio X, il 22 novembre 1903, per
registrare un nuovo e fecondo risveglio, di carattere eminentemente
pastorale, del cosiddetto movimento liturgico1. In effetti, l'espressione
latina partecipato attuosa usata da Pio X per indicare la partecipazione
attiva dei fedeli laici nella liturgia, diventa, a partire da quel
momento, nel vero e proprio lema di un ampio lavoro liturgico-
pastorale, che, passando attraverso l'influsso di grandi nomi come
Odo Case] o Romano Guardini, per esempio, sfocia, prima, in
l'enciclica Mediator Dei, pubblicata da Pio XII nell'anno 1947 e,
dopo, nella Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium
de1963. Se il primo documento, per evitare che i fedeli laici
considerano la liturgia come qualcosa di accessorio ed esteriore, sottolinea il suo
dimensione cristologica, il secondo, per evitare riduzioni pietiste,
sottolinea con maggiore intensità la dimensione ecclesiologica della liturgia
cristiana2.

La presa di coscienza di entrambe le dimensioni costitutive di


la liturgia della Chiesa permette ai Padri conciliari di definire
teologicamente i sacramenti, allo stesso tempo, come segni di
presenza di Cristo e come

1. Per una breve storia del movimento liturgico nel XX secolo fino al
Vaticano II, cfr. A. Adam, Corso di liturgia, Brescia 1988, 49-59.
2.Cfr. A. G.Martimort, La Chiesa in preghiera, Herder, Barcellona 1965,
33-40.

strumenti fondamentali dell'autorealizzazione della Chiesa 3. È,


soprattutto, a questa visione conciliare della liturgia e del segno sacramentale
a cui è necessario riferirsi per effettuare una prima valutazione
del insieme della normativa del Codice sui sacramenti.

10.1 La dottrina sui sacramenti del concilio Vaticano II


e la sua ricezione al CIC

Il fatto che i Padri conciliari, sin dal primo paragrafo di


la Costituzione dogmatica Lumen gentium, parla della Chiesa
comosacramento, ossia, comosigno-instrumento attraverso il quale si
manifesta e realizza sia l'unione intima con Dio che l'unità di
tutta l'umanità4, mette immediatamente in evidenza la
caratteristica fondamentale della teologia conciliare dei sacramenti:
questi ultimi, come tutte le azioni liturgiche, «non sono azioni
private, ma celebrazioni della Chiesa, che è "sacramento di
unità", cioè, popolo santo, riunito e ordinato sotto la
direzione degli Vescovi. Perciò, appartengono a tutto il corpo della
Chiesa, lo manifestano e lo implicano» (SC 26). In questo senso, per
mediante i sacramenti si aggiorna «il carattere sacro e
l'organico della comunità sacerdotale» (LG 11) che è la Chiesa.

Questo forte sottolineare la dimensione ecclesiologica del segno sacro


la salute mentale è una conseguenza logica della fede dei Padri del Concilio
nel dato dogmatico che in ogni azione liturgica, e soprattutto in
nei sacramenti, è presente e agisce Cristo stesso, che «associano
sempre riesco,alla Chiesa, sua moglie amatissima, la quale lo invoca
come il Suo Signore e per Lui rende culto al Padre Eterno» (SC 7, 2).

Con l'insegnamento conciliatorio su Christo totus (cioè, la persona


di Gesù e della Chiesa unita a lui) come soggetto principale del segno
sacramentale si mette in luce anche l'intervento dello Spirito
Santo che, attraverso tutti i sacramenti, e soprattutto di
eucaristia, «vivifica la carne» (PO 5, 2) o corpo mistico di Cristo che
è la Chiesa, guidata dal principio di quella communio che san
Agustín definiva già come opus proprium dello Spirito Santo.

3.Cfr.Th. Schneider, Segni della vicinanza di Dio, Seguimi,


Salamanca 1982, 9-10. Sulla nozione di sacramento come dono del
Spirito, che non è estraneo al concilio Vaticano II, cfr. in
cambioJ.M.R. Tillard, I sacramenti della Chiesa, in: B. Lauret-F.
Refouler (a carico), Iniziazione alla pratica della teologia, III,
Cristiandad, Madrid 1984, 352-429, qui 366-367.
4.Cfr. altresì LG 48, 2, dove è definita la Chiesa come sacramento
universale di salvezza.

Questa teologia conciliare dei sacramenti è stata ricevuta nella sua


sostanza per il legislatore ecclesiastico. In effetti, il nuovo Codice
di Diritto Canonico non solo dedica un ampio spazio alla normativa
dei sacramenti (cc. 840-1165), ma abbandona la tradizionale
división civilista–che collocava i sacramenti nel De rebus–yopta
per un'organizzazione sistematica più teologica della sua normativa,
raccolta ora nel quarto libro, dedicato alla santificazione del discepolo.
Più, la definizione di sacramento che dà il Codice raccoglie in modo
sistematica tutti gli elementi principali della teologia dei
sacramenti insegnati dal concilio Vaticano II. Infatti,
secondo il c. 840 i sacramenti sono allo stesso tempo «azioni di
Cristo e della Chiesa», «segni e mezzi con cui si esprime e
fortifica la fede», gesti che realizzano «la santificazione degli uomini»
attraverso la consolidazione e la manifestazione della «comunione
ecclesiastica".
Il particolare sottolineamento del legame esistente tra i sacramenti
ycommunioè confermato nel c. 843, dove insieme a
prescrizione che «i ministri sacri non possono negare i
sacramenti a coloro che li richiedono in modo opportuno, stiano bene
disposti e non sia loro vietato per legge riceverli», il
il legislatore si fa eco dell'affermazione conciliatoria del diritto di tutti
i fedeli a «ricevere con abbondanza dai sacri Pastori i
beni spirituali della Chiesa, in particolare la parola di Dio e i
sacramenti» (LG 37, 1). In questo modo, il CIC impedisce di ridurre i
sacramenti a «azioni private» (c. 837 § 1) o a semplici pia
I sacramenti esprimono e aggiornano l'economia della
salvezza associando e riunendo tutta l'umanità al Popolo di
Dio e, in questo senso, «sono uniti all'Eucaristia e a essa si
ordinano [...]. Per cui l'Eucaristia appare come fonte e culmine
di tutta l'evangelizzazione» (PO 5, 2).

Il giusto sottolineatura dell'intrinseca ordinazione di tutti


sacramenti all'eucaristia, e con essa il nesso strutturale esistente
tra ogni segno sacramentale e la comunione ecclesiale, avrebbero posto
meglio di manifesto il ruolo decisivo svolto dai sacramenti
nella struttura giuridico-costituzionale della Chiesa, se la nozione di
sacerdozio comune (conferito a tutti i fedeli dal battesimo e
menzionato soltanto in modo obliquo nel c. 836), sarebbe stato
utilizzata dal legislatore ecclesiastico seguendo tutto il suo valore
ecclesiologico.

L'oscuramento di tale nozione, di capitale importanza nella Magna


chartadel concilio Vaticano II, si aggravano per altre
incongruenze, che sono apparse nella normativa dei
sacramenti per la discutibile decisione sistematica di collocare tale nozione
esclusivamente nella prospettiva del munus sanctificandi. In effetti,
questa decisione, anche prescindendo dal fatto che nella Chiesa tutto -
incluso la relazione di possesso dei beni materiali è in
funzione della vocazione universale alla santità (LG 40), propone al
meno due grandi perplessità.

Innanzitutto, sebbene sia vero che l'affermazione iniziale del quarto


libro De Ecclesiae munere sanctificandi - secondo la quale «la Chiesa
svolge la funzione di santificare in modo peculiare attraverso la
«liturgia sacra» (c. 834 § 1) - ritorna quasi alla lettera il n. 7 di
Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, il legislatore
ecclesiastico da, nondimeno, l'impressione che l'azione ecclesiale
l'ordinaria del oficio sacerdotale di santificazione di Gesù Cristo si esaurisce
esclusivamente nei sacramenti (cc. 840-1165) e negli altri atti
di culto divino (cc. 1166-1204) o nei tempi e nei luoghi a loro
ordinati (c. 1205-1253). Questo è in contraddizione sia con il
principio fondamentale dell'opera di evangelizzazione -e, per
conseguente, di santificazione - della Chiesa, secondo il quale la fede nasce e
si alimenta «soprattutto attraverso il ministero della parola» (c. 836), come con il
principio eclesiologico secondo il quale -precisamente perché ogni stato
di vita ecclesiale «ritorna e specifica la grazia santificatrice del
battesimo5qualsiasi fedele (laico, religioso, chierico) aggiorna il munus
sanctificando in funzione della modalità della propria vocazione. Così,
i coniugi cristiani esercitano il loro ufficio sacerdotale di santificazione,
non nella partecipazione attiva alla liturgia, ma nella edificazione del
corpo mistico di Cristo attraverso l'offerta quotidiana del suo essere
coniugi e genitori (come ci ricorda il c. 835 § 4), attraverso il
pleno e responsabile sviluppo della natura laica della sua vocazione
ecclesiale specifica. Analogamente, i fedeli consacrati esercitano
sommo santificatore principalmente seguendo il carisma profetico
dei consigli evangelici e dei chierici al servizio dell'unità di
tutto il Popolo di Dio.

In secondo luogo, il punto di vista particolare da cui il


il legislatore ecclesiastico tratta la normativa dei sacramenti, sebbene,
da una parte, evita il rischio di oggettificarli, come faceva il
CIC/1917 applicando lo schema tripartito giustinianeo persone, cose,
azioni, d'altra parte, non consumare il processo volto a fare la norma
canonica il più adatta possibile per trasmettere il contenuto teologico che
guida la sua formulazione. Poiché, tra la definizione teologica dei
sacramenti dati dal legislatore ecclesiastico nel

5. Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, n. 56 (il testo completo si


trova in: AAS 73, 1981, 81-191); cfr. anche LG 11.

c. 840 (completato per quanto riguarda la sua validità e legalità dai cc.
841 e 838) e la tecnico-positiva degli atti giuridici, formulata nei
cc. 124-126, esiste una chiara divergenza che corre il rischio di
agravare, prima che risolvere, l'antinomia già denunciata prima del
concilio Vaticano II tra sacramento e diritto.

Come è stato giustamente osservato, questa divergenza consiste in


fatto che, per principio, le citate regole generali sulla
la validità o invalidità degli atti giuridici sono difficilmente applicabili a
i sacramenti, che, nella Chiesa, sono gli atti giuridici più
frequenti e possiedono un carattere più costitutivo rispetto agli altri, dato
che la sua efficacia giuridica vincolante non ha solo un valore sociale, ma
soprattutto soteriologico6. Per il resto, le norme generali
vigenti sugli atti giuridici, sostanzialmente identiche a quelle del
CIC/1917 (come si può vedere confrontando i cc. 124, 125 e 126 con
i cc. 1680, 103 e 104 del Codice pio-benedettino), sono stati
concepite con una mentalità positivista, che considera come
negozi giuridici, soprattutto, gli atti di carattere pubblico (atti
amministrativi) o quelli di carattere privato (contratti) e solo come
atti giuridici particolari o secondari i sacramenti, a
eccezione del matrimonio7.

Tuttavia, i sacramenti, insieme alla Parola di Dio e i


i carismi sono alla base di tutta la struttura giuridica della Chiesa,
come può dedursi anche dallo stesso santo Tommaso, che
certamente non era canonista: «Per sacramenta quae latere Christi
pendenti sulla croce sono fluiti, si dice sia la Chiesa fabbricante8. En
effetto, a questa affermazione sulla costruzione sacramentale della Chiesa
una lunga tradizione canonica l'ha sempre unita a questa altra: «il
il fondamento di qualsiasi legge consiste nei sacramenti9.

10.2 La giuridicità intrinseca dei sacramenti e dei canoni


introduzione alla normativa del Codice riguardo ai
sacramenti

Se i sacramenti edificano la Chiesa, e lo stesso Codice di Diritto


Canónico lo lascia chiaramente intendere quando afferma che «contribuiscono
en

6.Cfr.E. Corecco, La ricezione del Vaticano II nel Codice di Diritto


Canónico, in: G. Alberigo-J.P. Jossua (a cura di), La ricezione del
Vaticano II, Madrid 1987, 299-354, qui 306-307.
7.Cfr.Codice di Diritto Canonico, Pamplona 1992, commento ai
cc. 124-128.
8. Tomás de Aquino, S.Th., III, q. 64, art. 2, ad 3.
9.Cfr.In IV Sententiarum,dist. 7, q. 1, art. 1, sol. 1, ad 1, e il commento
di C.J.Errazuriz M., Sacramenti, in: EDD, vol. XLI (Milano 1989),
197-208, qui 204.

gran misura per creare, corroborare e manifestare la comunione


ecclesiastica» (c. 840), è perché sono i suoi elementi costitutivi
essenziali anche dal punto di vista del diritto10.E lo sono, no
solo perché producono effetti di natura giuridica o perché, essendo
azioni compiute da alcuni uomini - come ministri di Cristo e
della Chiesa–a favore di altri, confermano il principio di alterità,
che cos'è il presupposto dell'esistenza di una relazione intersoggettiva
di giustizia11.Come abbiamo già avuto modo di sottolineare nel
capitolo primo, i sacramenti sono nella Chiesa i principali
atti giuridico-costitutivi, perché, in quanto segni di
comunicazione, possiedono una giuridicità emergente primaria e intrinseca,
anche se in modo diverso, a tutti i livelli della comunione
ecclesiale.

La celebrazione dei sacramenti, per essere valida e fruttuosa,


presuppone la fede sia a livello obiettivo, poiché i sacramenti si
celebrano sempre nella comunione di fede della Chiesa a cui si
appartiene, a livello soggettivo, poiché è necessario il consenso
fede nel ricevente, ovvero, l'adesione libera alla communio
Ecclesiae, che non è altro che «la volontà, almeno implicita, di
accogliere l'iniziativa di Dio che conduce l'uomo lungo il
itinerario pasquale della liberazione e della santificazione12.

Nel livello soggettivo della relazione fede-sacramento, che coincide


sostanzialmente con il problema dei requisiti necessari per
avvicinarsi a un sacramento, il discorso del canonista si incrocia con il
discorso pastorale. Dunque, il legislatore ecclesiastico, dopo aver
sottolineato–in sintonia con il concilio Vaticano II (SC 9)–la
importanza della fede nella celebrazione dei sacramenti (cc. 836 e
insiste sul dovere di evangelizzazione e di catechesi, che tutti
i fedeli – e in particolare i ministri sacri – devono sviluppare
di fronte a coloro che si avvicinano ai sacramenti (cc. 836 e 843 § 2) e,
per ultimi, sull'importanza della partecipazione attiva (cc. 837 § 1 e 2;
835 § 4) nella celebrazione dei sacramenti.

Tra i nove canoni introduttivi alla normativa del Codice


sui sacramenti, il c. 842 stabilisce la previa ricezione del
battesimo come

10.Cfr. più sopra, § 3-2; su tutta questa questione, cfr. anche E.


Molano, Dimensioni giuridiche dei sacramenti. Sacranie Qualità
de la Chiesa e sacramenti, edizione a cura di P. Rodríguez,
Pamplona 1983, 312-322.
11. È la tendenza preminente nella Scuola di Navarra, che preferisce
parlare del sacramento come di unarespista. A questo riguardo, cfr. C.J.
Errazuriz M., Sacramenti, o.c., 204; J. Hervada, Le radici
sacramentali del Diritto canonico, in: Studi di Diritto
canonico e Diritto ecclesiastico in omaggio al professore
Maldonado, Madrid 1983, 245-269.
12.G. Biffi, lo credo. Breve esposizione della dottrina cattolica, Milano
1980, 90.

un principio generale per l'ammissione valida a tutti gli altri


sacramenti, e il c. 844 regola la materia sacramentale in relazione con
l'ecumenismo e la communicatio in sacris, ossia, l'ammissione ai
sacramenti della Chiesa cattolica di cristiani appartenenti ad altre
confessioni cristiane non cattoliche, che non sono in piena comunione
con lei. Entrambi i canoni saranno studiati in altri paragrafi di
questo capitolo. Qui, in un'introduzione alla normativa del Codice
sui sacramenti, è più importante, per la sua ripercussione nella
pastorale, analizzare brevemente il c. 843.

10.3 Il diritto ai sacramenti e alla comunione ecclesiale

Dice il paragrafo primo del c. 843: «I ministri sacri non possono


negare i sacramenti a coloro che li chiedono in modo opportuno, siano
ben disposti e non sia loro vietato dalla legge riceverli".
questa norma, ispirata dall'insegnamento conciliari sul diritto di
tutti i fedeli a «ricevere abbondantemente dai sacri Pastori
i beni spirituali della Chiesa, in particolare la parola di Dio e
i sacramenti» (LG 37, 1), il legislatore ecclesiastico intende
sottrarre a ogni arbitrio l'ammissione ai sacramenti. La
l'efficacia di questa, strettamente soggetta alle norme del Codice
vigenti (come ricorda l'espressione attentis normis del paragrafo
secondo dello stesso canone), sarebbe stata più incisiva, se il legislatore,
da una parte, avrei usato la forma attiva, e, dall'altra, avrei
remitito esplicitamente al c. 213, in cui si estende a tutti i
fedeli il diritto ai sacramenti ius recipiendi spiritualia
bona, previsto dal c. 682 del CIC/1917 solo per i fedeli laici. In
effetto, essendo questo diritto inconfondibilmente legato a la
partecipazione battesimale del fedele nei tre uffici di Gesù Cristo, deve
essere considerato come un enunciato proveniente dal diritto
divino13e, in quanto tale, di importanza capitale per la realizzazione di
la comunione ecclesiale. Le norme del Codice che limitano l'esercizio di
tali diritti devono essere interpretati, di conseguenza, in senso
estricto (c. 18).

L'esercizio di questo diritto, sempre secondo l'art. 843, può essere


rivendicato, comunque, solo a partire dal simultaneo
adempimento di tre condizioni fondamentali: la sollicitudo petitio,
la disposizione o dispositio e l'assenza di qualsiasi divieto o
impedimento giuridico. Con la prima condizione il legislatore
ecclesiastico intende sottolineare che i sa-

13. Questo è il giudizio di E. Corecco, II catalogo dei doveri-diritti del


fedele nel CIC,en:/ diritti fondamentali della persona umana e la
libertà religiosa, Città del Vaticano 1985, 101-125, qui 111.

I sacramenti possono essere amministrati solo a coloro che li chiedono


in modo libero e tempestivo (in relazione al tempo, il
luogo e alle modalità); la disposizione si riferisce alla dignità morale
e alla preparazione spirituale del fedele che chiede di essere ammesso a un
sacramento, entrambe le condizioni sono, tuttavia, difficili da
determinare a livello giuridico; la terza condizione, se si prescinde dai
fidelizzati colpiti da scomunica o interdetto e esclusi, quindi, da
tutti i sacramentiquattordici, è formalizzata e regolamentata dal legislatore
eclesiastico per ciascun sacramento in particolare 15.

Le tre condizioni stabilite dal c. 843 § 1 per l'esercizio del


il diritto ai sacramenti è una diversa concretizzazione di due
principi generali: 1) tutti «i fedeli sono obbligati a osservare
sempre la comunione con la Chiesa, anche nel suo modo di agire» (c.
209); 2) i fedeli, nell'esercizio dei loro diritti, «devono avere in
conta i diritti altrui e i suoi doveri nei confronti degli altri» (c. 223).
È più evidente che mai in questo caso che si tratta di
un diritto che non è altro che la dimensione corrispondente a un dovere:
il tendere alla propria santificazione e alla santificazione della Chiesa (c.
210), che nella visione cattolica implica anche la «summa veneratione
debitaque diligentia» (c. 840) nella preparazione della celebrazione di
i sacramenti. Questa dovuta diligenza non è solo un obbligo per
il fedele che richiede di essere ammesso a un sacramento, ma anche un
il dovere concreto dei pastori, come precisato nel § 2 del c. 843; il quale
sembra sottolineare che la responsabilità dell'evangelizzazione, in
quanto influisce sulla comunione ecclesiale, richiede, sia a livello soggettivo
come obiettivo, l'esclusione di ogni arbitrio nell'importante
campo dell'ammissione ai sacramenti.

14.Cfr. c. 1331 § 1 n. 2 e c. 1332.

V
CARISMA E MODI DI
AGGREGAZIONI DEI FEDELI

Con la profonda convinzione che, all'interno dell'eclesiologia


con-ciliare sviluppata attorno alla comunicazione come sua concezione
centrale, «i charismata sono necessari per la vita della Chiesa»1, in the
capitolo primo sulla fondazione teologica del Diritto
canonica abbiamo ampiamente illustrato il suo valore giuridico e in particolare
il cosiddetto carisma originario2Lo studio del ruolo giuridico-
costituzionale di quest'ultimo ha permesso alla canonistica
contemporanea, da una parte, dare i primi passi verso la
elaborazione di una vera e propria teoria generale del carisma nel
Diritto canonico e, dall'altra parte, ripensare le fondamenta teologiche del
Diritto canonico per quanto riguarda il fenomeno associativo nella
Chiesa3.

La varietà e molteplicità delle nuove forme associative ecclesiali


riconosciute dal concilio Vaticano II e da altri documenti del
Magistero4, così come la varietà e molteplicità delle forme
tradizionali di associazioni ecclesiali religiose e secolari,
imporre alcune chiarificazioni dottrinali preliminari allo studio della
normativa sulle associazioni di fedeli (cc. 298-329) e quella relativa a
istituti religiosi (cc. 573-746).

1.W.Bertrams, De aspectu ecclesiologico sacerdotii et magisterii


Ecclesiae: premessi e conclusioni, in: Periodica 51 (1970), 515-
562, qui 521.
2.Cfr. soprattutto § 3.2 c) e d).
3.A questo riguardo, cfr. L.Gerosa, Carisma e diritto nella Chiesa.
Riflessioni canonistiche sul «carisma originario»rio» di nuovi movimenti
ecclesiali, Milano 1989, soprattutto 205-242; Idem, Carisma e
movimenti ecclesiali: una sfida per la canonistica postconciliar
Periodica 82 (1993), 411-430.
4.Cfr., ad esempio, AA 19 e PO 8, così come il n. 58 dell'EAEvangelii
nuntiandidePablo VI(AAS 58, 1976, 5-76) e i nn. 21 - 29 - 30 del
EAChristifideles laicideJuan Pablo II(AAS 81, 1989, 393-521).

18. Fondamenti teologici e criteri di distinzione

18.1 Il carattere costituzionale delle diverse forme


deaggregazioni dei fedeli

Una prima chiarificazione si riferisce alla distinzione, mai del tutto


adeguata in Diritto canonico, tra diritto costituzionale e
diritto relativo alle diverse forme ecclesiali di associazione. Fa
alcuni anni fa, l'analisi dei dibattiti sulla sistematica del
il nuovo Codice di Diritto Canonico aveva permesso di formulare questa
difficile distinzione nel seguente modo: mentre il diritto
costituzionale trova il suo concetto chiave nella nozione conciliare
decommunio, il diritto delle associazioni sembra svilupparsi
interamente attorno alla nozione di consociatio5.

Ora, sebbene sia vero che questo modo di distinguere il Diritto


costituzione canonica relativa alle diverse aggregazioni
fidelium, e in particolare del diritto delle associazioni, ha
certo il merito di mettere in luce che la vita in
la comunione è una condizione necessaria per la salvezza,
contrariamente all'opzione di partecipare alla vita di
unaconsociatio, con tutto, la stessa distinzione non presta
sufficientemente attenzione a una serie di dati storico-ecclesiologici
e a determinate questioni di ordine dottrinale.

Tra i dati storico-ecclesiologici dobbiamo segnare, in primo


luogo, il fatto che molte associazioni ecclesiali, antiche
(come gli ordini e le confraternite, per esempio) o recenti (come
i movimenti ecclesiali, ad esempio, non sono nati da una
volontà puramente umana di associarsi, ma della forza associativa
acquisita dal suo fondatore o dalla sua fondatrice attraverso il dono di un
carisma originario. In secondo luogo, dobbiamo sottolineare il fatto che
che, frequentemente, tali forme di vita ecclesiale, in conformità con
la insegnamento del concilio Vaticano II, non hanno fini specifici o
particolari, ma "si propongono il fine generale della Chiesa" (AA
19, 1).

Tra le questioni teoriche dobbiamo segnalare, invece, le


seguenti. In primo luogo, il principio della comunione, per avere una
relevanza straordinaria a livello costituzionale, informa tutti i
settori del Diritto

5. Si veda soprattutto il saggio di W. Aymans, Kirchliches


Diritto costituzionale e diritto di associazione nella Chiesa, en: ÖAKR 32
(1981), 79-110. Il dibattito si è protratto dopo la
promulgazione del nuovo CIC, cfr., per esempio, H. Schmitz, Die
Personalprälaturen, en: HdbKathKR, 526-529; P. Rodríguez, Iglesias
particolari e Prelature personali. Considerazioni teologiche a
scopo di una nuova istituzione canonica, Pamplona 1985.

nónico e, di conseguenza, anche quello delle diverse forme


deaggregazione dei fedeli e, in particolare, delle associazioni. In
conseguenza, la nozione di consociazione deve essere considerata, in
questa prospettiva, come una realtà diversa o alternativa a
indicata con il termine communio, ma come una concreta realizzazione
suya. Lo conferma il magistero pontificio nei luoghi in cui parla
dei nuovi movimenti ecclesiali come forme specifiche di
«autorealizzazione della Chiesa»6Questo significa che il carisma
originario, in una certa analogia con l'eucaristia celebrata in un
un luogo determinato può svolgere un ruolo decisivo nella costituzione di
qualsiasi tipo di consociazione, come realtà di comunione ecclesiale
comunità dei fedeli.
In secondo luogo, essendo la Chiesa comunione «una unica
realtà complessa che è integrata da un elemento umano e un altro
divino» (LG 8, 1), anche ciascuna delle sezioni dell'ordine
giuridico ecclesiale partecipano in tutto il loro settore a questa «unica realtà
complessa». In altre parole, in ciascun settore del sistema giuridico di
la Chiesa è vigente—anche se con intensità diversa—una unità
di tensione tra l'elius divinum e l'elius humanum o mero
ecclesiasticum 7. Di conseguenza, così come il Diritto
il costituzionale canonico non può limitarsi a studiare gli aspetti
divini della costituzione della Chiesa e tanto meno ridurre la
stessa alla gerarchia, né la normativa sulle diverse
forme di associazione ecclesiale possono essere ridotte allo studio dei
aspetti puramente umani presenti in ogni tipo
deconsociatio, come se il diritto di associazione dei fedeli fosse
nativismo fondato esclusivamente sul diritto naturale.
Beh, in effetti, i contenuti di quest'ultimo vengono precisati per
tutti i fedeli nel sacramento del battesimo e della conferma,
potendo trovare la sua realizzazione più radicale e specifica nel dono
di un carisma, da esercitare per «edificazione della Chiesa» (AA 3, 4).

Tenendo presente sia questi dati storico-teologici sia le


precisioni dottrinali suggerite dall'insegnamento conciliari su
Chiesa comunione e sul ruolo dei carismi nel suo
edificazione, la distinzione tra diritto costituzionale e diritto delle
associazioni ecclesiali

6.L'espressione, creata da Karol Wojtyla quando era ancora arcivescovo


di Cracovia, è stata ripresa nel suo significato sostanziale da Juan
Pablo II, quando, nel suo discorso di Castelgandolfo del 27 di
settembre 1981, ha affermato che «la Chiesa stessa è un movimento»
e questo «multiplo movimento» è espresso in modo concreto dai
movimenti eclesiali; cfr./ Movimenti nella Chiesa. Atti del l
Congresso buernazionale (Roma, 23-27 settembre 1981), ed.
por M. Camisasca-M. Vitali, Milano 1982, 9 e 14.
7.Cfr. P. Krämer, Tentativi cattolici di una giustificazione teologica
del diritto canonico: La Chiesa e il suo diritto (=Teologica
Berichte 15), Zurigo-Einsiedeln-Colonia 1986, 11-37, qui 33.

le, e in particolare delle associazioni di fedeli, potrebbe essere


riformulato nei seguenti termini: il diritto di
le aggregazioni ecclesiali nella Chiesa, e in particolare di
associazioni di fedeli, è la rappresentazione in schemi predefiniti o
formule giuridiche–e da lì la regolamentazione funzionale–di un
elemento costituzionale: il carisma8. Al contrario, i settori della
normativa canonica che non concerne né le aggregazioni né le
le associazioni strutturano giuridicamente gli altri elementi
costituzionali: la Parola e il Sacramento. Questi due insiemi
normativi hanno carattere costituzionale. Ciò significa che, da
dal punto di vista legislativo, la sua distinzione non può essere formalizzata
un modo assolutamente rigoroso. Per questa ragione il nuovo Codice di
Diritto Canonico, seguendo il modello del 1917, evita
prudentemente parlare sia di diritto costituzionale che di
diritto delle associazioni, e colloca le norme relative a queste
ultime nel grande libro del popolo di Dio, accanto a quelle destinate a
laici fedeli, alla gerarchia e ai membri degli istituti di vita
consacrata e delle società di vita apostolica.

In ogni caso, sarebbe errato dedurre da questa nuova riformulazione


generale della distinzione tra diritto costituzionale e diritto
associativo che, nel Diritto canonico, è l'unico fattore costituzionale
capace di far sorgere forme di aggregazione ecclesiali è il
carisma. Con lui e prima di lui, infatti, anche gli altri due
elementi costituzionali primari, sebbene di natura
istituzionale (vale a dire: la Parola e il Sacramento), sono fattori
eminente congreganti. Inoltre, il fattore primordiale e
l'indispensabile di congregazione nella Chiesa è stato da sempre il
eucaristia, definita giustamente dal concilio Vaticano II come fonti e
culmende laaggregatio fideliumque è la Chiesa stessa9. En
conseguenza, precisamente perché è attraverso l'assemblea
eucaristica come si conosce la genuina natura della vera Ecclesia
(SC2) nei suoi elementi divini e umani, è di lei soprattutto di
dove deve prendere il canonista i criteri per distinguere i
elementi costituzionali dei meri associativi nelle
diverse forme di comunità di fedeli.

8. Questa definizione è stata formulata per la prima volta da E.


Corecco, Istituzione e carisma in riferimento alle strutture
associativo, it: Akten VI IKKR, 79-98, qui 95-96.
9.Cfr. LG 11, 1; CD 30, 6 e anche SC 10, 1, dove l'espressione è
applicata alla liturgia in generale, il cui centro è il divino Eucharistiae
Sacrificio (SC 2). Il testo più significativo a livello di forza
congregante ed educatrice del sacramento dell'Eucaristia dobbiamo
cercarlo, tuttavia, nel Decreto conciliare sul ministero e la vita
dei presbiteri: «Nulla tamen communitas cristiana aedificatur nisi
radicem cardinemque habeat in Sanctissimae Eucharistiae
celebrazione, a qua ergo omnis educazione allo spirito di comunità
incipienda est» (PO 6, 5).
18.2 Eucaristia e carisma come criteri ultimi
di distinzione tra forme di associazione «istituzionali»
e «carismatiche» nella Chiesa

Una prima verifica che l'eucaristia e il carisma sono i


elementi costituzionali primordiali da cui estrarre i
criteri di distinzione tra le diverse forme di aggregazioni
fideliumnos la brinda la storia della parrocchia. Anche se non risulta
facile distinguere con precisione il percorso dello sviluppo storico di
questa istituzione canonica, data anche la diversa evoluzione
semantica del termine greco rispetto a quello latino10, en
Attualmente si accetta, generalmente, la tesi che colloca l'origine della
parrocchia rurale a cavallo tra il IV e il V secolo, e quella della parrocchia
urbana solo verso l'XI secolo. Entrambi i modelli non sono equiparabili del
da fare.

Il primo modello, nonostante le molteplici differenze esistenti tra


una chiesa parrocchiale e una chiesa non battesimale nata da una
proprietà privata, è sempre determinabile nella sua configurazione
giuridica tramite i criteri di organizzazione di un territorio o di
un patrimonio. Il secondo modello, invece, è legato
frequentemente a un criterio personale, familiare o aziendale e non
possiede sempre la stessa autonomia giuridica del primo.

Dopo il concilio di Trento, nonostante il notevole rifiorimento di


confraternite e associazioni religiose11, la parrocchia di tipo rurale assume
un ruolo importante. Con l'avvento di fenomeni come la
industrializzazione, la secolarizzazione e la mobilità della popolazione
dentro di un stesso territorio, questo modello rigido è entrato in crisi e il
Il Concilio Vaticano II si è visto costretto a ripensare i presupposti
teologici della parrocchia prima di proporre la riforma del suo
struttura giuridica12La conseguenza è stata la presa di coscienza
di ciò che la parrocchia può assumere, e di fatto ha assunto nella
storia della Chiesa, una pluralità di configurazioni giuridiche, come
si evince chiaramente dalla flessibilità giuridica che caratterizza la
immagine della parrocchia fornita dal nuovo Codice (cc. 515-
522),

10. A questo proposito, cfr. T. Mauro, Parrocchia, in: EDD, vol. XXXI (1981),
868-887 e in particolare 868-869; A. Longhitano, La parrocchia: storia,
teologia e diritto,en:AA.VV.,La parrocchia e le sue strutture,Bologna
1987, 5-27 e in particolare p. 7, nota 2.
11.Cfr.L. Nanni,L'evoluzione storica della parrocchia,en: La Scuola
Cattolica 81 (1953), 475-544 e in particolare 539-543, dove l'autore
realizza un'analisi dettagliata delle disposizioni tridentine
concernenti alla parrocchia.
12.Cfr. G.Baldanza, L'incidenza della teologia del Vaticano 11 sulla
riforma della Parrocchia, en: Ins Populi Dei. Miscellanea in honore
Raymondi Bigador, ed. da U. Navarrete, vol. II, Roma 1972, 177-205.

il cui elemento di maggiore rilievo è, certamente, averla definita di fronte a


tutto comocommunitas christifidelium (c. 515 §1).

Questa nozione di parrocchia come comunità di fedeli, le cui norme


saranno studiate nel § 21.2 dell'ultimo capitolo, trova il tuo
espressione più acaba-da «in communi celebratione Missae»
dominicalis» (SC 42,2), che costituisce il «centrum et culmen totius
vitae communitatis christianae» (CD30, 6). Questo significa che la
parrocchia, tra i molti coetus fidelium che il vescovo può e
deve erigere per poter presiedere in modo efficace la propria Populi Dei
portio (SC 45), costituisce il paradigma di associazione ecclesiale nata
della celebrazione dell'eucaristia. Il che è confermato da
il Concilio Vaticano II, quando sottolinea la sua dimensione missionaria, afferma
che la parrocchia deve offrire un «esemplare chiaro di apostolato
communitarii» (AA 10,2).

Affermare che la parrocchia costituisce il paradigma di


le aggregazioni ecclesiali nate dall'eucaristia significano due
cose: da una parte, che non è l'unico tipo di comunità
eucaristica e, dall'altra, che non è neanche un'entità giuridica
ecclesiologicamente necessaria, dato che il principio in quibus et ex
quibusde LG23,1 non è applicabile come tale all'interno della Chiesa
particolare. Le diverse comunità eucaristiche nelle quali, in un certo
modo, se struttura una Chiesa particolare possono assumere, dunque,
differenti forme giuridiche: quella fissa o istituzionale della parrocchia e la
variabile delle aggregazioni ecclesiali di origine carismatica. In la
la prima forma prevale sulla forza congregante del sacramento: la
eucaristia celebrata in un determinato luogo; nella seconda forma
prevale, invece, la forza riunificante del carisma originario. In
ambas, ovviamente, esprime anche la forza congregante della
Parola, «poiché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì
sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20), anche se la natura
evidentemente carismatica della seconda forma costituisce una
verifica ulteriore che non solo l'eucarestia, ma anche il
il carisma rappresenta un criterio ultimo di distinzione tra le diverse
formeb di aggregazione ecclesiale.

Secondo l'incipit del § 1 del c.298, le associazioni ecclesiali di


l'origine carismatica si distingue a sua volta in due grandi categorie:
le associazioni o consociazioni formate da fedeli di ogni stato
di vita ecclesiale (come le confraternite, le associazioni e i
movimenti ecclesiali) e le associazioni chiamate instituta o
società13,formate unica-

13. Nonostante tutte le differenze che possono essere stabilite tra


le prime e le seconde, è lo stesso Codice che sottolinea la
somiglianza delle società di vita apostolica con gli istituti
religiosi, nel luogo in cui afferma che questi accedunt (=si
sembra) agli istituti di vita consacrata (cfr. c. 731 § 1). E al
rivelare questa somiglianza, il legislatore ecclesiastico non fa altro
che seguono le orme del concilio Vaticano II (cfr. LG 44, 1 e PC 1).

mente per i fedeli che vivono la consacrazione a Dio attraverso i


consigli evangelici (come gli ordini religiosi e gli altri
instituti di vita consacrata.

Nel primo tipo di associazioni possono partecipare anche i chierici e


religiosi, come si deduce facilmente dai cc. 298 § 1 e 307 § 3.
D'altra parte, il attuale secondo tipo di associazioni differisce
notabilmente, almeno per due motivi, della nozione di associazioni
religiosa usata dal Codice precedente. Il primo motivo consiste
nel fatto che, insieme agli attuali istituti religiosi,
abbiamo trovato i cosiddetti istituti secolari, il cui
il riconoscimento risale al 2 febbraio 1947, data in cui il
papa Pio XII con la Costituzione apostolica Provida Mater
La Chiesa promulgò la Legge fondamentale che sanciva l'esistenza di
gli istituti secolari, determinando le norme essenziali relative
alla sua natura e alla sua erezione in qualità di associazioni speciali
e qualificate14Insieme, gli istituti religiosi e gli istituti
i secolari formano la grande categoria degli istituti di vita
consacrata. Il secondo motivo consiste nel fatto che insieme a
questa prima categoria di forme associative di fedeli religiosi,
il legislatore ecclesiastico distingue un'altra, quella delle società di vita
apostolica, seguendo una logica più pragmatica che teologica. In
effetto, a queste si applica in gran parte il diritto degli istituti di
vita consacrata, anche se i suoi membri non praticano i
consigli evangeliciut sic, ma semplicemente come richieste della sua
proprio apostolato.

D'altra parte, nonostante le notevoli differenze esistenti tra


queste tre forme o percorsi di santificazione, tendenti a la
perfezione della vita cristiana15, manifestano chiaramente una
caratteristica comune: la consacrazione della vita mediante i consigli
evangelici. Questa consacrazione, sebbene sia un concetto complesso e
difficile da definire con esattezza, si realizza attraverso l'opzione personale
di praticare i consigli evangelici, i quali, sebbene siano assunti
in modi diversi e a diversi gradi, possono sempre essere ridotti
alla realtà teologica di un solo consiglio: «quello di

14.Testo della Costituzione in AAS 39 (1947), 114-124. Sulla qualità


di «associazioni speciali qualificate» degli istituti secolari
vedere le osservazioni di A. Gutiérrez, Lo stato della vita
cansacrata nella Chiesa. Valori permanenti e innovazioni,
AA.VV., Lo stato giuridico dei consacrati per la professione dei
consigli evangelici, Città del Vaticano 1985, 37-63, qui 40.
15.A queste tre forme comunitarie dobbiamo aggiungere anche quelle della
vita consacrata individuale, come quelle di vita eremitica o anacoreta (c.
603 § 1), il cosiddetto ordine delle vergini (c. 604 § 1) e tutte le
nuove forme, come la fraternità di vedove consacrate approvata
ufficialmente a Parigi nel 1983, e non considerate dal CIC; cfr. J.
Beyer, Originalità dei carismi di vita consacrata, en: Periodica 82
(1993), 257-292, soprattutto 266-267.

la piena dipendenza filiale dal Padre nell'amore, che è il


Spirito16. Detto in un altro modo, tutte queste forme di vita
consacrata hanno in comune l'esperienza di un carisma, di
natura eminentemente profetica e escatologica: il generale e
personale dei cosiddetti consigli evangelici, vissuti come
rinuncia a valori, a cui non è ragionevole rinunciare, a meno che non sia in
funzione dell'apertura alla grazia di un particolare stato o forma di
vita ecclesiale, praticabile in comunità o in solitudine, nel secolo o la
fuga dal mondo.

Questa particolare forma di vita ecclesiale, al di là delle modalità


concrete in cui si esprime, costituisce un vero e proprio stato
di vita cristiana, elstatus perfectionis, che si unisce al matrimoniale e al
di ufficio17. Questo seguimento di Cristo presenta una forma distinta di
raggiungere la santità a cui sono chiamati tutti i battezzati18. In
questa forma distinta di origine carismatica dobbiamo collocarla nel luogo
teologico della distinzione tra la categoria associativa fondamentale di
gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica,
da una parte, e la distinzione tra queste realtà e le associazioni
di fedeli o movimenti ecclesiali, dall'altra. In effetti, questi ultimi
nascono, normalmente, nella Chiesa a partire dal dono di un carisma
originario specifico, di natura eminentemente comunitaria o
missionaria, che come tale può implicare, anche se seguendo
modalità diverse, non solo laici, ma anche sacerdoti e
religiosi, cioè, fedeli investiti o del sacramento dell'ordine o del
carisma, personale e generale, dei consigli evangelici.
La diversità specifica dei due tipi fondamentali di
carismi 19, profetico-personale quello dei consigli evangelici e
comunitario-misionero è quello che è all'origine delle associazioni o
movimenti ecclesiali

16.J. Beyer, Dal Concilio al Codice. 11 nuovo Codice e le istanze del


Concilio Vaticano II, Bologna 1984, 85.
17.Su come questo stato abbia una propria autonomia e una propria
priorità di tipo escatologico all'interno della Costituzione della
Chiesa (e perciò diversa da quella dei chierici, tende a garantire
l'unità della comunità dei fedeli, e di quella dei laici, tendente
alla recapitolazione culturale di tutte le cose in Cristo), cfr. E.
Corecco, Profili istituzionali del Movimenti nella Chiesa, en:1
Movimenti nella Chiesa. Atti del I Congresso Internazionale. o.c.,203-
234,qui 218yH.U. von Balthasar,Stati di vita del
cristiano, Incontro, Madrid 1994, 271-290.
18.Cfr. LG 40-42 e 44, 3.
19. Il carattere personale del carisma dei consigli evangelici è
sottolineato dal Concilio Vaticano II in LG 46, 2, mentre
denominata indole comunitaria dell'apostolato dei laici,
esplicitata e rinforzata dal carisma originario delle nuove forme
associative dei fedeli, è stata messa in evidenza in AA 18, 2.
Sulla importanza del carisma come punto di vista da cui partire
per comprendere questi due settori del Diritto canonico, cfr.P.
Krämer, Diritto ecclesiastico, I, Stoccarda-Berlino-Colonia 1992, 153-154.

(anche se spesso questo sottende anche alla pluralità di


forme di vita consacrata, nel cui caso possiamo parlare di un
doppio origine carismatica), costituisce, dal punto di vista
ecclesiologico, l'elemento principale che determina la differente
formulazione giuridica dei due settori corrispondenti del
ordinamento canonico.

19. Le diverse forme di associazioni ecclesiali di


natura prevalentemente carismatica

19.1 Le associazioni di fedeli

La nuova normativa del Codice sulle associazioni di fedeli (cc.


298-329) presenta nel suo insieme un valore sicuro: il suo essere
stabilmente ancorata nel diritto costituzionale di ogni fedele a
associarsi liberamente per fini specifici di carità o di pietà, o
bene semplicemente per aiutarsi a crescere nella propria e comune
vocazione cristiana. Prima di illustrare le norme generali che regolano
la normativa del Codice sulle associazioni nella Chiesa, varrà,
Bene, è opportuno esaminare brevemente la configurazione giuridica e le
conseguenze del diritto costituzionale di associazione.

a) Il diritto costituzionale di ogni fedele di associarsi liberamente

Il fondamento di tale diritto, codificato nel c. 215 e che non include


non solo il diritto di fondare associazioni ma anche quello di iscriversi a
associazioni e il godere di una giusta autonomia statutaria, è
doppio: naturale, in quanto tale diritto corrisponde alla natura
sociale dell'uomo; e soprannaturale, in quanto che la missione della Chiesa
può essere realizzata efficacemente solo da un soggetto comunitario, per
quello che risulta necessario associarsi, o almeno risulta molto utile
per il raggiungimento di tale missione20. In questo secondo senso quel
il diritto nasce prima di tutto dal battesimo ed è rafforzato sia da
il sacramento della confermazione, come per il dono di un carisma.
Aver codificato questo diritto di ogni fedele costituisce certamente una
novità positiva. In effetti, nel CIC/1917 non era stato
formalizzato, perché il vecchio c. 684 si limitava, in una prospettiva
giuridica non costituzionale, a lodare i fedeli che si aderivano a
aso-

20. Cfr. AA 18,1y19,4;PO8, 3;CD 17,2. Aeste


rispetto, cfr. igualmente L. Navarro, Diritto di associazione e
associazioni dei fedeli, Milano 1991, 7-17.

ciaciones erette o raccomandate dalla gerarchia. Tuttavia, il


valore tipicamente ecclesiale di questo diritto costituzionale del fedele
sarebbe stato messo più in risalto se il legislatore ecclesiastico di
Codice del 1983, nel dettare le norme comuni a tutte le
associazioni, avrebbe prestato una maggiore attenzione così al diritto a
propria spiritualità, riconosciuto dal c. 214 seguendo l'insegnamento
conciliarsi sulla diversità dei percorsi possibili nella ricerca
dalla santità, o al diritto di promuovere o sostenere l'attività
apostolica della Chiesa con proprie iniziative. In particolare, se questo
ultimo, riconosciuto dal c. 216, sarebbe stato integrato nel primo
come base su cui fondare le norme comuni delle
associazioni di fedeli, avrebbe permesso al legislatore ecclesiastico una
traduzione legislativa più corretta dell'insegnamento del concilio
Vaticano II.

In effetti, nel Decreto sull'apostolato dei laici, il


terminoincepta apostolica, anche se non si riferisce a nessuna forma
organizzazione particolare, non significa semplicemente opera21I Padri
i conciliari vogliono far capire con il termine inception qualsiasi
iniziativa, personale o comunitaria, grazie alla quale «missio Ecclesiae
melius impleri potest» (AA 24, 3). Il legame stretto esistente
l'entrata apostolica e la missione della Chiesa è anche vista da
il legislatore ecclesiastico ha bisogno, in particolare, della prima delle norme
comuni relative alle associazioni di fedeli, cioè nel c. 298 §
1, dove, tra le varie forme associative, vengono segnalate anche
le iniziative di evangelizzazione e di ordine temporale cristiano
spirito animando22Niente ora impedisce al canonista di collocare i
nuovi movimenti ecclesiali, nati da un carisma originario,
precisamente in tale categoria di associazioni ecclesiali, che, secondo
il c. 216, possono essere denominate cattoliche senza altro, anche se non
assumono necessariamente lo statuto giuridico di associazione.
Certamente, se il legislatore ecclesiastico avesse sviluppato di
In modo sistematico questa intuizione avrebbe potuto tradursi meglio a livello
normativo l'insegnamento conciliare sulle tre forme fondamentali
di associazioni ecclesiali: le associazioni che possiedono
un mandato speciale da parte dell'autorità ecclesiastica; le
associazioni che, prescindendo dal riconoscimento da parte della
l'autorità è sostanzialmente fondata sulla volontà
associativa dei medesimi fedeli; e, per ultimo, le denominate incepta
apostolicaque, anche se non siano

21.Cfr. W. Schulz, Il nuovo Codice e le chiese


Vereine, Paderborn 1986, 38 nota 45.
22. Tale vincolo risulta quasi costante nel nuovo Codice (cfr. X.
Ochoa,Index verbot-uta ac locutionum CIC,Roma 1983,
voz:Inceptum,202-203). Soprattutto, vale la pena sottolineare come
la promozione di queste particolari forme associative è anche una
compito dei parroci, cfr. c. 777, 5°.

necessariamente associazioni, posseggono in virtù del loro carisma


originario una maggiore forza di presenza missionaria23.

A quest'ultima forma di associazione ecclesiale, anche se le si riconosce la


possibilità di ottenere un riconoscimento differenziato da parte della
autorità, non le offre il nuovo Codice—peccando di incoerenza—
una base giuridica precisa. Nonostante ciò, il c. 327 invita i fedeli
laici a tener in maggior considerazione questo tipo di associazioni, per
essere più adatte all'animazione delle realtà temporali con il
spirito cristiano.

b) Tipologia del Codice e norme generali


Nelle norme comuni sulle associazioni di fedeli (cc. 298-311)
presenta il legislatore ecclesiastico del Codice del 1983 una vera e
propria tipologia, in cui insieme a distinzioni antiche, come quella di
associazioni erette e semplicemente laudate o raccomandate
tra associazioni clericali e laiche o miste, emergono e prendono
vantaggi distinzioni nuove, come quella che esiste tra associazioni
pubbliche (cc. 312-320) e associazioni private (cc. 321-326). Questa
ultima distinzione tipologica, che è allo stesso tempo la più importante
nella normativa del Codice e anche nella più recente nel Diritto
canonica, si sovrappone in parte a quella più tradizionale tra
associazioni erette (c. 298 § 2) e associazioni riconosciute (c. 299
§ 3). Ciò è confermato da due fatti.

In primo luogo, il CIC del 1983 sembra fare suo non solo il principio
della concessione secondo cui un'associazione ecclesiale non esiste
giuridicamente se non è eretta dall'autorità competente, ma
anche quello dell'iscrizione o del riconoscimento, secondo cui una
l'associazione non eretta può essere riconosciuta come giuridicamente
esistente senza acquisire, nonostante, la personalità giuridica. In effetti,
nel c. 299 § 3 si parla di un riconoscimento distinto dell'approvazione di
i cc. 314 e 322 § 2, che sono richiesti, tuttavia, per il
acquisizione della personalità giuridica pubblica o privata.

In secondo luogo, anche la configurazione giuridica di entrambi


categorie lasciano emergere, con abbastanza chiarezza, che si tratta di una
mezcla tra vecchio e nuovo, fino a legittimare la posizione di
chi definisce questa tipologia del Codice come un sistema misto24. Sì
bene entrambe le categorie di associazioni devono avere, in conformità
con la legge canonica, un

23.Su sul carattere aperto a possibili integrazioni ulteriori di questa


classificazione, cfr. W Schulz, Il nuovo codice e le questioni ecclesiastiche
vereine, o. c., 36-39.
24.Coinciden in questo giudizio:J.Beyer,Dal Concilio al Codice, o.c.,
80;E.Corecco,Profili istituz,onali dei Movimenti nella Chiesa,en:1
movimenti nella Chiesa, o.c.,203-234, qui 222.

statuto proprio, si distinguono soprattutto per i seguenti motivi:


le associazioni private si costituiscono per accordo privato dei
fedeli associati e si dividono a loro volta in quelle che, pur essendo
riconosciute, non hanno personalità giuridica, e quelle che ce l'hanno
personalità giuridica privata, perché i suoi statuti sono stati
approvati; le associazioni pubbliche sono, invece, quelle erette da
l'autorità ecclesiastica competente e, per questo motivo, sono costituite in
persona giuridica pubblica, perché si propone l'insegnamento della
dottrina cristiana in nome della Chiesa o l'incremento del culto
pubblico, o altri scopi la cui realizzazione è riservata, per il suo
propria natura, alla gerarchia ecclesiastica. Il carattere pubblico di
una associazione di fedeli è data, quindi, dalla maggiore o minore
possibilità che i membri della stessa hanno di parlare e agire
in nome della Chiesa e della sua autorità. Ciò significa, per
disgrazia, che tutto si riduce a una maggiore o minore prossimità
di un'associazione all'autorità ecclesiastica, come sinonimo
Ecclesiaehubiera deve essere interpretato necessariamente come nome
gerarchia25. In effetti, un po' in tutti i settori statutari,
dall'ammissione dei membri all'amministrazione dei beni,
dalla struttura di governo alla stessa estinzione dell'associazione
in questione, le associazioni private – anche quando sono erette
in persona giuridica–godono di una maggiore autonomia rispetto alla
autorità ecclesiastica e, di conseguenza, dipendono in misura minore
misura del Diritto canonico comune 26.

Sebbene l'oscillazione terminologica costituisca uno dei motivi per


le quali la nuova normativa del Codice sulle associazioni termina
per produrre l'impressione netta che, in sostanza, ci
ci troviamo di fronte a distinzioni astratte27che mancano di una
corrispondenza efficace con una realtà ecclesiale viva e in costante
sviluppo, la più semplice analisi della tipologia del Codice lascia intuire
facilmente che il legislatore ecclesiastico del 1983, non solo non ha
prestato una attenzione sufficiente alla dimensione ecclesiologica e, in
particolare, all'origine carismatica delle associazioni, ma a
lo stesso tempo ha mostrato una eccessiva dipendenza dal diritto
statale sulle associazioni.

25. A questo proposito, cfr. G.Feliciani, Diritti e doveri dei fedeli in genere e
dei Laici in specie. Le associazioni, en: fl nuovo Codice di Diritto
Cammico, ed. da S. Ferrari, Bologna 1983, 253-273, qui 270.
26.Su tutto questo tema, cfr.G. Ghirlanda, Associazione dei fedeli, in:
NDDC, 52-61.
27. L'espressione astrazioni astratte è stata introdotta, in relazione a
la distinzione tra associazioni pubbliche e private, per H.
Schnizer, Domande generali sul diritto dei circoli ecclesiastici
HdbKathKR, 454-469, qui 459.

c) La doppia dipendenza del «De christifidelium consociationibus»


rispetto al diritto statale delle associazioni

Due sono i campi in cui emerge con particolare evidenza la


eccessiva dipendenza dal legislatore ecclesiastico rispetto alla dottrina
giuridica statale sulle associazioni: nella distinzione tra
associazioni pubbliche e associazioni private e nell'uso della stessa
noción di associazione.

La distinzione tra pubblico e privato è stata sempre considerata


come inapplicabile al sistema giuridico della Chiesa per la migliore tradizione
della canonistica cattolica28. Per questo il legislatore ecclesiastico del 1983
la introduce unicamente come criterio pratico per stabilire una
una certa differenziazione tra i diversi fenomeni associativi
ecclesiali29. In altre parole, senza pretendere di misurarsi con questioni
teorie complesse, introducendo questa distinzione, il legislatore
l'eclesiastico si propone semplicemente di rendere giuridicamente operativa
una tipologia grazie alla quale si possano distinguere i diversi
gradi di ecclesialità di determinate associazioni e di
determinati movimenti. Ma, immediatamente, si impone una
legittima domanda di fondo: anche ammettendo, senza concedere, che sia
è possibile liberare la distinzione giuridica tra pubblico e privato da tutto
ascendenza dottrinale, qual è il contributo chiarificatore che questa
distinzione conferisce alla delicata questione riguardante la
determinazione dell'ecclesialità o meno di una determinata associazione o
di un determinato movimento? Al di sopra di ogni buona intenzione,
l'unico vero criterio utilizzato dal legislatore per risolvere la
la questione dell'ecclesialità rimane ancora, sostanzialmente, quella di
la prima codificazione canonica: il grado di vicinanza alla gerarchia
ecclesiastica.

Nel nuovo Codice, questo criterio è stato dotato di una maggiore


elasticità grazie alla correzione che porta il legislatore al passato
sistema di concessione con l'applicazione simultanea del cosiddetto
principio di iscrizione. In una ecclesiologia governata a tutti i livelli
per il principio della commu-

28.Cfr. K.Mörsdorf,Lb, Bd. 1, 23 e P. Fedele, Discorso generale su


l'ordinamento canonico, Roma 1976, 104-108.
29. A questo proposito è stato osservato: «In realtà la distinzione tra
le associazioni pubbliche e private non intendono misurarsi con complessi
questioni teoriche e dottrinali, ma si propone, in un modo
molto più semplice, rispondere in un modo, forse discutibile, a una
esigenza di carattere pratico e contingente. Il riconoscimento del
diritto di associazione a tutti i fedeli, mentre superava la rigida e
disciplina verticalista precedente, richiedeva altresì l'istituzione
di una differenziazione tra i diversi fenomeni associativi» (G.
Feliciani, diritti e doveri dei fedeli, o.c., 270). Condivide la sostanza
di questo processo H.Schnizer, Domande generali sul religioso. associazione-
destra, o.c.,459.
nuovo modo di procedere nella determinazione dell'ecclesialità di
un gruppo, movimento o associazione, è insufficiente per due motivi al
meno.

In primo luogo, il Magistero pontificio ha già fissato altri criteri per


giudicare l'autenticità del carisma originario di un'associazione
ecclesiale30, così come alcuni principi fondamentali per il
discernimento e riconoscimento dell'ecclesialità di qualsiasi tipo
di associazione3lIn secondo luogo, ogni movimento o associazione è
ecclesiale prima di tutto nella misura in cui partecipa della natura
della Chiesa32, attraverso l'ascolto della Parola e la celebrazione di
i sacramenti, attraverso l'obbedienza responsabile ai doni
dello Spirito e alla vita comunitaria di tutta la Chiesa, dove in virtù
del principio della libertà dello Spirito si coniuga
sempre con il legame all'autorità. Questo significa che, nella Chiesa,
le così chiamate associazioni private, se realizzano il principio della
comunione, sono sempre una realtà ecclesiale, cioè un
fenomeno in cui si realizza la Chiesa e, di conseguenza, come ta-
non sono mai un fatto meramente privato nei termini di
scienza giuridica statale33. E questo prima che l'autorità ecclesiastica
intervenga per controllare lo statuto dell'associazione ai sensi del c.
299 § 3, o per lodare o raccomandare le associazioni nel
sensi del c. 299 § 2. Una ulteriore conferma di quanto diciamo la
costituisce il fatto che, sebbene la finalità di un'associazione
La privata ecclesiale può essere particolare e non coprire, perciò, tutte le
finalità della Chiesa, quella finalità specifica – in virtù del
principio di immanenza reciproca del tutto nella parte implica
comunque, almeno in nuce, tutto il contenuto della
vita cristiana e, per questo, tutta l'esperienza universale della Chiesa,
altrimenti l'associazione non sarebbe neanche ecclesiale. Questa
l'ultima affermazione implica anche un chiarimento a livello della stessa
nozione di associazione.

Sopra le difficoltà incontrate dalla scienza canonica in


il tentativo di distinguere chiaramente tra un'associazione o
consociatioy la noción más general deaggregatio,tanto el CIC como
la canonistica con-

30. Cfr. le direttive, Di mutuis relationibus inter episcopos et


religiosi, pubblicati il 14 maggio 1978 dalla Congregazione
per i Vescovi e per la Congregazione per gli Istituti di vita
consacrata e le Società di vita apostolica, in: AAS 70 (1978),
473-506 e il commento di L. Gerosa, Carisma e diritto nella Chiesa,
o.c.,236-242.
31.Cfr. il n. 30 della EAChristifideles bici e il commento di
G.Ghirlanda, Associazione dei fedeli, o.c., 52-53.
32.J. Beyer, Dal Concilio al Codice, o.c., 79.
33.Cfr.E. Corecco,/stituzione e carisma in riferimento alle strutture
associativo, o.c.,96.

temporanea impiegano un concetto di associazione sostanzialmente


identico a quello elaborato dalla scienza giuridica statale. Se consideriamo come
punto di riferimento autorizzato la prima valutazione complessiva di
i dibattiti che si sono svolti su questo tema al Congresso
Internazionale di Monaco del 198734i notevoli progressi realizzati
non sembrano essere ancora sufficienti per rispondere in modo esaustivo a
la domanda sulla vera natura di un'associazione ecclesiale.

In effetti, i quattro elementi costitutivi dell'essenza stessa di


unaconsociatioes sono particolarizzati nel modo seguente. Il
il primo elemento è la collettività di persone, non intesa, senza
embargo, come unacommunitas fidelium, ma semplicemente come
una università delle persone dove ha perfettamente spazio una
persona giuridica. Il secondo è la libera scelta di un obiettivo
canonícamente determinato, che include a sua volta due elementi
principali: la libera e comune volontà di associarsi (la
denominata volonta di unione), espressa dai soci nel
atto di fondazione, e il fatto che questa stessa volontà si pone
una o più finalità specifiche, tutte incluse in qualche modo
nella missione della Chiesa, senza mai coincidere, tuttavia, con il suo
missione globale. Il terzo elemento è il cosiddetto ordine interno,
determinato nella sua forma dal fine liberamente scelto. Il quarto
e ultimo elemento costitutivo di un'associazione è la libertà
adscrizione (membresia libera), che la caratterizza giuridicamente
come un fenomeno di libertà.

Ora, tutti questi quattro elementi sono indicati, anche se con


una terminologia leggermente diversa, come essenziali nella nozione di
associazione della scienza giuridica statale. Poiché, anche quest'ultima
parla di una pluralità di soggetti, di una volontà che costituisce di
maniera autonoma l'assemblea degli associati e di un fine
comune da cui nasce un vincolo giuridico tra i soci di
natura generalmente volontaria o libera35.Ma è consapevole
da tempo delle difficoltà, forse insormontabili, che la
la dottrina privatista si trova quando vuole distinguere, sulla base di
questi elementi, un'associazione in senso stretto di qualsiasi altro
elemento associativo, e in particolare di un consorzio36. En
34.Cfr. la relazione finale di W. Aymans, L'elemento consociativo in
Chiesa. Valutazione complessiva, Atti VI IKKR, a.c., 1029-1057.
35.Cfr. A.Auricchio, Associazione, V (Diritto civile), in: EDD, vol. 3
(Milano 1958), 873-878, soprattutto 875-876.
36. Per un'analisi del dibattito dottrinale su come distinguere un
consorzio delle altre associazioni, cfr. G.Ferri, Consorzio, (A)
Teoria generale, in: EDD, vol. IX (Milano 1961), 371-389 e in
particolare 371-373.

effetto, quest'ultimo è escluso da alcuni dal numero delle


associazioni dada la natura coattiva del vincolo esistente tra
i suoi membri; altri membri; altri, tuttavia, lo considerano
come un'associazione obbligatoria nella sua costituzione in risposta a
una necessità comune, anche se non per questo meno libera nella sua azione.
La grande varietà di associazioni statali testimonia in modo
inequivocabile la complessità del fenomeno associativo in generale.

Tale complessità è ancora maggiore nella Chiesa, perché alla base di tutto
l'associazione ecclesiale, proprio perché è ecclesiale, esiste sempre un
im-pulso soprannaturale dettato dallo Spirito Santo. Alla luce di questo
dato eclesiologico devono essere reinterpretati i quattro elementi
essenziali di un'associazione, a meno che non si voglia indicare con
questo termine è semplicemente un fenomeno di autonomia privata, senza
nessuna rilevanza ecclesiologica in quanto tale, e per questo, da
punto di vista giuridico, strutturalmente identico a un'associazione di
diritto statale. Nella Chiesa può esistere di fatto un'associazione
di questo tipo, ma certamente non rappresenta il modello tipo di una
associazione canonica e non esaurisce perciò il significato del termine
latinoconsociatio.

Se i titoli significano qualcosa nel Codice di Diritto Canonico,


quindi il termine consociatio deve essere preso come una nozione
generale (Oberbegriff) sotto la quale possono trovare un collocamento
differenziate molte e diverse forme di associazione ecclesiale. In
particolare, questo dovrebbe offrire un quadro giuridico di riferimento non solo
alle associazioni ecclesiali che per loro natura hanno lo statuto
di una vera e propria associazione, ma anche a quelle nuove
forme di associazioni ecclesiali, che sono oggi, di gran lunga, le più
numerose e possibilmente le più efficaci pastoralmente, e che
presentano una configurazione strutturale, e in alcuni casi, giuridica
che non si adatta ai quattro elementi indicati sopra come
costitutivi della nozione di associazione. In effetti, queste forme non si
presentano come semplici insiemi di persone, ma come
vere e proprie comunità o confraternite di fedeli che non si
non sono stati costituiti né come conseguenza di una libera scelta
esclusivamente volontarista di associarsi, né per perseguire un obiettivo
specifico e particolare. Sono comunità di fedeli nate dal
seguimento di un carisma originario e per questo chi partecipa ad esse
non lo fa in nome di un attivismo moralista, ma perché
sperimenta quella forma di fraternità come struttura necessaria in
dove esprimere in modo totale la propria personalità cristiana.
Secondo il Concilio Vaticano II, precisamente per essere nato dal dono
di un carisma37,queste forme di vita associativa fanno di più
immediatamente operativo il fatto che ogni battezzato è
chiamato dallo Spirito a vivere in comunità e, come tale, queste le
rendono più idoneo (LG 12, 2) ad assumere, responsabilmente, la missione
generale della Chiesa.

19.2 Gli istituti di vita consacrata

Anche se non è facile evitare ogni possibile confusione, il termine vita


consacrata non è sinonimo di vita religiosa38.Il legislatore
l'ecclesiastico del 1983 ne è consapevole e pratica una prima
chiarimento elementare dividendo la normativa del Codice sui
istituti di vita consacrata in tre titoli: 1) Norme comuni a
tutti gli istituti di vita consacrata (cc. 573-606); 2) gli istituti
religiosi (cc. 607-709); 3) gli istituti secolari (cc. 710-730). A
questa prima sezione sugli istituti di vita consacrata aggiunge
immediatamente una seconda sulle società di vita apostolica,
come se volesse sottolineare allo stesso tempo la sua diversità e la sua ristrettezza
parentela con i primi. La chiarificazione sarebbe stata maggiore e,
giuridicamente più efficace, se il legislatore ecclesiastico, a partire da
insegnamento conciliare sul ruolo del carisma originario o di
fondazione e sul significato teologico della consacrazione a
Dio39, avrei anteposto a tutta questa normativa alcuni canoni
preliminari sugli elementi comuni, non solo a tutti i
istituti di vita consacrata e alle società di vita apostolica,
sino anche alle particolarissime forme di vita consacrata
antiche, come quelle degli eremiti e delle vergini, o nuove, come quelle di
le vedove e i vedovi consacrati.

a) Tipologia del Codice e norme generali

La varietà dei carismi e delle forme concrete della sequela


Christisoporta mal qualsiasi tipo di generalizzazione. Tuttavia, su
base della tradizione e dell'insegnamento conciliare, il c. 573 § 1 enuncia
la seguente definizione: «La vita consacrata per la professione dei
i consigli evangelici sono una forma stabile di vivere in cui i
fedeli, seguendo più da vicino Cristo sotto l'azione dello Spirito
Santo, si dedicano totalmente a Dio
37. Per un'analisi dettagliata dell'insegnamento conciliatore su
carismi, cfr. G. Rambaldi, Uso e significato di «carisma» ne!
Vaticano II. Analisi e confronto di due passi conciliari sui carismi
Gregorianum 66 (1975), 141-162; L. Gerosa, Carisma e diritto nella
Chiesa, o.c.,46-57.
38.A questo proposito, cfr. J. Beyer, Originalità del carismi di vira
consacrata, o.c.,263.
39.Cfr. soprattutto LG 44; PC 2; CD 33-35.

come al suo amore supremo, affinché consegnati a un nuovo e


titolo peculiare alla sua gloria, all'edificazione della Chiesa e alla salvezza
del mondo, raggiungano la perfezione della carità nel servizio del
Regno di Dio e, diventati segno preclaro nella Chiesa,
preannunciate la gloria celeste». Questa vita consacrata assume nel
diversi istituti e società forme concrete diverse
regolamentate da leggi proprie (c. 573 § 2), seguendo il principio di una
giusta autonomia di vita (c. 586 § 1). In effetti, tale autonomia risulta
strutturalmente necessaria per salvaguardare la fedeltà al carisma
originario di ogni istituto, carisma i cui elementi fondamentali
sono contenuti soprattutto nel corpo legislativo dello stesso
istituto, ossia, nel suo codice fondamentale o costituzioni (dove si
contengono la regola di vita, la natura e il fine dell'istituto, i loro
forme di governo, la disciplina propria riguardo a
incorporazione e formazione dei membri, così come l'oggetto e la
forma dei legami sacri) e in altri eventuali codici dove
se contengano specialmente norme applicative40. Il primo tipo di
norme, precisamente per esprimere gli elementi strutturali
fondamentali del carisma del fondatore o della fondatrice, necessita
una maggiore stabilità e tutela giuridica. Per questo tali norme devono
essere approvate non solo dal capitolo generale, ma anche da
autorità ecclesiastica competente. Per le norme applicative
contenute negli altri codici è, invece, sufficiente con la
approvazione del capitolo generale 41•

Anche se è chiaro che lo «stato di vita consacrata, per la sua


natura, non è né clericale né laicale» (c. 588 § 1), la prima
la differenziazione tipologica del Codice è quella che distingue tra istituti
clericali e laici. Il criterio per distinguere questi due tipi di
gli istituti non sono, tuttavia, quantitativi, come nel c. 488 del
CIC/1917, poiché nel CIC del 1983 è clericale l'istituto che,
«attenendosi al fine o scopo voluto dal suo fondatore o per tradizione
legittima, si trova sotto la direzione di chierici, assume l'esercizio del
ordine sacro ed è riconosciuto come tale dall'autorità di
Iglesia» (c. 588 § 2). Si considera, invece, come laicale un istituto
di vita consacrata quando, in virtù della propria natura e
indole, non implica l'esercizio dell'ordine sacro (c. 588 § 3). In caso
senza dubbio è il riconoscimento da parte dell'autorità ecclesiastica
competente colui che dichiara clericale o laicale l'istituto in questione 42.

40.Cfr. c. 587.
41.A questo proposito, cfr. G.Ghirlanda, Il diritto nella Chiesa, mistero
di comunione, Madrid 1992, 213-215.
42. Sui criteri che configurano un istituto come clericale o meno,
cfr. E. Gambarri, 1 religiosi nel Codice. Commento al singoli
canoni, Milano 1986, 59-64.

La seconda differenziazione tipologica del CIC è quella stabilita tra


istituti di diritto diocesano e istituti di diritto pontificio.
Anche qui, per sua natura, ogni istituto di vita consacrata
è fondato con l'intenzione di servire a tutta la Chiesa, ma si
considera come diritto diocesano se è stato eretto dal vescovo
e non ha ancora ricevuto il decreto di approvazione della Sede Apostolica;
è considerato, invece, come diritto pontificio «quando ha
sido eretto dalla Sede Apostolica o approvato da questa mediante
decreto formale» (c. 589). Alcuni e altri possono, evidentemente, essere
istituti clericali o istituti laicali, istituti religiosi o istituti
secolari.

In sintesi, dalla prospettiva canonica, gli elementi costitutivi


di tutti questi tipi di istituti di vita consacrata sono: 1) la
erezione canonica dell'istituto da parte dell'autorità ecclesiastica
competente (cc. 573 § 2, 576, 579); e 2) i voti o altri legami
sacri, secondo il diritto proprio dell'istituto in relazione a
assunzione dei consigli evangelici (c. 573 § 2). D'altra parte, non
dobbiamo dimenticare che, tra tutti i tipi di istituti di vita
consacrata, è vigente la parità canonica (c. 606) e che la
La tipologia del Codice è aperta a nuove forme di vita consacrata,
anche se la sua approvazione è riservata esclusivamente alla Sede
Apostolica (ca. 605).

b) Istituti religiosi, istituti secolari e società di vita


apostolica

Secondo il CIC, «un istituto religioso è una società in cui i


membri, secondo il diritto proprio, emettono voti pubblici perpetui o
temporali che devono essere rinnovati tuttavia alla scadenza, e
vivono una vita fraterna in comune» (c. 607 § 2). Se il carattere pubblico di
i voti distinguono gli istituti religiosi dalle società di vita
apostolica43, la separazione del mondo e della vita in comune li
distingue dagli istituti secolari 44.
Sempre secondo il CIC, «un istituto secolare è un istituto di vita con-
sacra in cui i fedeli, vivendo nel mondo, aspirano alla
perfezione della carità, e si dedicano a cercare la santificazione del
mondo sopratutto dall'interno di esso» (c. 710).

A questi due tipi fondamentali di istituti di vita consacrata si


si assomigliano le società di vita apostolica45. Di quest'ultimo dà il c.
731 una

43.Cfr. soprattutto i cc. 607 § 2 e 654 con il c. 731 § 2.


44.Cfr. soprattutto i cc. 607 § 3 e 608 con i cc. 710 e 712-714.
45. Sul significato del termine accedunt del c. 731 § 1 cfr. G.
Ghirlanda, Alcuni punti in vista del Sinodo dei vescovi sulla vita
consacrata,en: Periodica 83 (1994), 67-91, soprattutto 83-85.

doppia definizione: quelle che assumono espressamente i consigli


evangelici come regola di vita, impegnandosi con loro
mediante un legame determinato dalle costituzioni, e quelle che non
vivono i consigli evangelici46. Infatti, attualmente la
la maggior parte delle società di vita apostolica è del primo tipo e, per
essi fanno parte a pieno titolo degli istituti di vita consacrata.
Comunque, da un punto di vista ecclesiologico e giuridico «sarebbe
meglio non far entrare già nel quadro della vita consacrata quelle
società che non assumono i consigli evangelici e affermano che di
fatto non vivono e non vogliono vivere questo tipo di vita. Il loro giusto posto si
trova in questo caso tra le associazioni di fedeli, così come sono
considerate dal Codice del 198347.

In conclusione, tutte queste differenze possono essere riassunte in questo


modo: gli istituti religiosi includono i fedeli che professano i
tre consigli evangelici con voti pubblici nella vita comune; i
gli istituti secolari includono i fedeli che vivono nel secolo
(c.710) profesano i consigli evangelici con voti non pubblici,
anche se riconosciuti, o altri legami sacri equiparati a tali
voti e senza esprimerli nella pratica della vita comune canonica;
le società di vita apostolica includono i fedeli che praticano la
vita in comune e, con grande frequenza, anche i consigli
evangelici, anche se non espressi in voti, ma attraverso un
vincolo sacro, che guarda direttamente all'incorporazione nella
società per un fine apostolico.

46.Sui fondamenti teologici e le diverse configurazioni


giuridiche dei consigli evangelici, cfr.H.Böhler,1 consigli
evangelici in prospettiva trinitaria. Sintesi dottrinale, Milano 1993
soprattutto 33-115 e 154-179.
47. Questo è il giudizio autorizzato di J. Beyer, Originalitá dei carismi di vita
consacrata, o.c.,266.

BIBLIOGRAFIA

AA.VV., Lo stato giuridico dei consacrati per la professione dei consigli


evangelici, Città del Vaticano 1985.

Aymans, W., Diritto costituzionale ecclesiastico e diritto di associazione in


della Chiesa, ÖAKR 32 (1981), 79-110.

Beyer, J., Originalità dei carismi di vita consacrata, in: Periodica 82


(1993), 257-292.

Corecco, E., Profili istituzionali dei Movimenti nella Chiesa, en:1


Movimenti nella Chiesa. Atti del 1 Congresso Internazionale (Roma,
23-27 settembre 1981), ed. da M. Camisasca-M. Vitali, Milano 1982,
203-234.

Gerosa, L., Carisma e diritto nella Chiesa. Riflessioni canonistiche sul


«carisma originario» dei nuovi movimenti ecclesiali, Milano 1989.

Navarro, L., Diritto di associazione e associazione dei fedeli, Milano


1991.

Schulz, W., Il nuovo Codice e le associazioni ecclesiastiche, Paderborn


1986.
VI
GLI ORGANI ISTITUZIONALI
DE LA IGLESIA

20. Alcune nozioni teologico-giuridiche fondamentali

20.1 Sinodalità e corresponsabilità come espressioni


istituzionali tipiche della comunione ecclesiale

a) Precisazioni terminologiche preliminari

Anche collegialità e partecipazione siano i termini più diffusi


nel linguaggio postconciliare, sia negli ambienti ecclesiali che in
i mezzi di comunicazione interessati alla vita della Chiesa, la sua
significato e il suo campo di applicazione nel seno della Chiesa, tanto
universale come particolare, sono molto più ristretti e limitati di
quello che si pensa. Comunque, si tratta di nozioni
ecclesiologicamente meno adeguate di quelle di sinodalità e
corresponsabilità per esprimere le modalità strutturali a
attraverso le quali la logica della comunione ecclesiale determina il
esercizio della sacra potestas. L'ultima ragione di questa inadeguatezza
estriba nel fatto che in entrambe prevale il valore tecnico
giuridico di origine mondana, incapace, in quanto tale, di esprimere il
dato teologico sottostante nella realtà della comunione ecclesiale,
dove la relazione di immanenza reciproca tra unità e pluralità e
le sue modalità di realizzazione sono conoscibili in ultima istanza
unicamente per fede, per essere riflessi storico-istituzionali di
unità e pluralità del mistero trinitario1.

1.Cfr.M. Philipon,La Santissima Trinità e la Chiesa,in:G. Baraúna


(dir.), La Chiesa del Vaticano II, vol. I, Barcellona 1966, 325-363; E.
Zoghby, Unità e diversità della Chiesa, ibid., 537-557.
La verità di questa affermazione riguardo all’inadeguatezza ecclesiologica
le nozioni di collegialità e partecipazione sono supportate da
diverse ragioni di ordine dottrinale2Qui è sufficiente ricordare
quello che segue.

Il sostantivo astratto colegialità, mai usato come tale dal con-


Il Concilio Vaticano II non risulta adeguato per comprendere le
modalità con cui il principio della comunicazione determina il
esercizio del potere nella Chiesa, perché, in senso strettamente
giuridico, sono collegiali solo quegli atti in cui la volontà di
ciascuno, perdendo la propria rilevanza autonoma, si integra
nella volontà del collegio come unico soggetto responsabile della
decisione presa3Pertanto, nella Chiesa sono pochi e rari i
atti veramente collegiali, perché, inoltre, il potere ecclesiale
si fonda sul sacramento dell'ordine, conferito esclusivamente a
persone fisiche. D'altra parte, essendo la sinodalità una dimensione
ontologica intrinsecamente della sacra potestas e dell'essere l'esercizio di questa
costantemente informato dal principio dell'immanenza
reciproca tra l'elemento personale e il sinodale del ministero
ecclesiale, tutti gli atti di governo della Chiesa sono allo stesso tempo
gerarchici e sinodali, sebbene secondo un diverso grado di
intensità. Per questo, la sinodalità, a differenza della collegialità, non
si propone né come alternativa rispetto alla dimensione personale di
ministero ecclesiale, né come restrizione dell'ambito di esercizio di un
determinato ministero, e specialmente dell'episcopato. Al contrario, le
conferisce un'estensione e un'autorità più vasta, perché sviluppa
la relazione ontologica esistente tra tutti i ministeri ecclesiali,
relazione inseparabilmente legata alla struttura di comunione o di
unità nella pluralità della Chiesa. Come tale, proprio per essere
espressione istituzionale tipica della communio Ecclesiae et
Ecclesiarum, le sinodalità a sua volta completate, non tanto per
la partecipazione, ma per la corresponsabilità nella missione ecclesiale a
la cui chiamata sono tutti i fedeli in virtù del battesimo e del
conferma.

Il termine partecipazione, infatti, non si presta meno, da parte sua, a


diverse interpretazioni di difficile applicazione nel campo ecclesiale.
Secondo

2. Per una ampia illustrazione di queste ragioni rimandiamo anche a


quattro saggi di E. Corecco: Parlamento ecclesiale o diaconia
sinodale
Dizionario di Teologia, II, Madrid 1982, 1644-1673; Sinodalità e
partecipazione nell'esercizio della «sacra potestas»
potere e prassi della consultazione, Atti dell'VIII Colloquio
Internazionale romanistico-canonistico (10-12 maggio 1990), ed. da A.
Ciani-G. Duizini, Città del Vaticano 1991, 69-89; Ontologia della
sinodalità,en:«Pastor bonus in Populo». Figura, ruolo e funzioni del
vescovo nella Chiesa, ed. por A. Autiero-O. Carena, Roma 1990, 303-
329.
3. A questo proposito, cfr. Aymans-Mörsdorf, Kan R I, 352-369.

gli analisi più recenti della sua evoluzione semantica indicano con esso
un fenomeno, complesso e policentrico, che presenta dimensioni e
significati diversi a seconda dell'angolo da cui si considera:
giuridico, sociale, economico o politico4. Negli ultimi decenni, sotto il
impulso della necessità sempre più pressante di partecipare a
l'elaborazione delle decisioni politiche, la partecipazione è stata
convertito in un mito, al punto da mettere in discussione il suo
credibilità scientifica. Così, nel dibattito attuale, si è avvertito che
la partecipazione è un problema tipicamente moderno, nato da
separazione tra lo Stato e la società e della correlativa apparizione
del concetto di cittadino, diverso da quello di persona umana. Questa
l'ultima affermazione potrebbe già essere sufficiente per farci essere
attenti a non usare il termine partecipazione in modo
indiscriminata per spiegare, dalla prospettiva canonica, le
diverse implicazioni istituzionali (soprattutto a livello di)
distinti organi di governo) del diritto e dovere di ogni fedele
cristiano di «promuovere la crescita della Chiesa» (c. 210) e di
manifestare il proprio parere al riguardo (c. 212 § 3). Altre due
ragioni suggeriscono un'attenzione e una prudenza simili: da una parte, la
radice sacramentale diretta (per il ministro investito dell'ordine sacro)
o indiretta (per l'autorità carismatica) di qualsiasi tipo di potere
ecclesiale; e, dall'altra, il significato specifico che assumono nella Chiesa
le nozioni di rappresentanza e di devoto deliberativo
consultivo, implicate necessariamente in qualsiasi processo di
partecipazione.

In virtù della prima ragione, nella Chiesa, possono partecipare altri


fedeli nel potere di cui è titolare un determinato fedele se sono stati
confiato personalmente lo stesso grado del sacramento dell'ordine, o
possono offrire la loro cooperazione, sulla base di un grado
diverso dal sacramento dell'ordine che hanno ricevuto (come nel caso
dei presbiteri in relazione con il vescovo), o il supporto del suo
propiacorresponsabilità, sulla base del sacramento del battesimo
e della conferma. Nel secondo e nel terzo caso non si tratta, senza
embargo, di una vera e propria partecipazione, poiché questa
l'ultima implica sempre una certa partecipazione nella natura stessa di
un potere di cui non si è titolari5.
4. Per una breve esposizione dei principali significati civilistici di
questa nozione e della sua ricezione nel diritto canonico, cfr.B.
Ruethers-G. Kleinhenz, Mitbestimmung, it: Stato dizionario, ed. per
Gönesgesellschaft, 7aed., Bd. 3, Freiburg-Basel-Wien 1985, cols.
1176-1185; A. Savignano, Partecipazione politica, in: EDD, vol. 32
(Milano 1982), 1-14; W. Aymans, Mitsprache nella Chiesa, Colonia 1977
(Contributi di Colonia/Fascicolo 22); R. Puza, Co-responsabilità nella
Chiesa, en: Dizionario di Stato, o.c., vol. 3, colonne 1188-1192.
5. Cfr. E. Corecco, /laici nel nuovo Codice di diritto canonico,en: La
Scuola Cattolica 112 (1984), 194-218, qui 215.

In virtù della seconda ragione, a sapere: il significato specifico di


votare in un'assemblea ecclesiale–, la natura, le finalità e il
funzionamento dei diversi organi di governo, sia a livello di
la Chiesa universale come all'interno di una determinata Chiesa
particolare, hanno molto poco in comune con quelli degli istituti u
organi rappresentativi - come il parlamento e altre strutture
afines–creati dal associativismo democratico
moderno6.Effettivamente, i concetti di rappresentazione e devoto
deliberativo, fondamentali nel parlamentarismo moderno, hanno un
significato diverso nella Chiesa.

b) Rappresentanza, voto deliberativo e voto consultivo nella Chiesa

La struttura giuridico-istituzionale della Chiesa, retta dal principio


Della comunità, è conoscibile nella sua essenza solo per fede; ora
bene, quest'ultima non può essere rappresentata, ma solo testimoniata.
Di conseguenza, i membri dei diversi organi di governo
ecclesiali, anche quando sono scelti con criteri rappresentativi o
democratici, non sono rappresentanti di tipo parlamentare, ma fedeli
eletti per dare testimonianza della loro fede e aiutare, «secondo la loro scienza e
competenza» (c. 212 § 3), al fedele che – in virtù del sacramento del
ordine e di missione canonica – è stato investito di autorità nella
comunità cristiana in questione. Così, neppure la distinzione tra voto
deliberativo e voto consultivo ha, nella dinamica che guida il
funzionamento dei diversi consigli ecclesiali, lo stesso peso
specifico che possiede in una struttura statale di tipo parlamentare.
In effetti, proprio perché il potere nella Chiesa è, per sua natura
natura, sinodale, anche quando i membri di un determinato
il collegio ha voto deliberativo, la decisione non è mai
esclusivamente una questione di maggioranza; per esempio, nel Concilio,
organo per eccellenza con voto deliberativo, il potere di decisione
corrisponde alla maggior parte solo nella misura in cui questa include il
Papa 7. In modo analogo, il potere decisorio nel presbiterio
corrisponde, in ultima istanza, unicamente alla persona che è
investita dello stesso in virtù del sacramento, cioè il vescovo
diocesano. Allo stesso modo, l'istituzione canonica del voto consultivo
non può essere considerato

6. Sull'evoluzione sperimentata dal parlamentarismo moderno,


cfr.W. Henke, Parlamento, Parlamentarismo,en:Evangelico
Staatslexikon, a cura di H. Kunst-S. Grundmann, ed. da R. Herzog-H.
Kunst-K. Schlaich-W. Schneemelcher, Bd. 2, Stoccarda 1987, col. 2420-
2428;A. Marongiou, Parlamento (Storia), EDD, vol. 31, Milano 1981,
724-757.
7. Cfr. cc. 338 § 1 e 341 § 1; riguardo a tutta la questione cfr. anche L.
Gerosa, Fondamenti diritto-teologici della Svnadalità nella
Chiesa. Considerazioni introduttive, Diritto canonico
promovendo. Festschrift per H. Schmitz per il 65° compleanno, a cura di W.
Aymans-K. Th. Geringer, Regensburg 1994, 35-55.

da come un impegno tra una pratica autoritaria e un'altra


democratica. Questa istituzione non costituisce neanche uno strumento di
esclusione del potere, perché fa parte integrante e costitutiva del
processo di formazione comunitaria del giudizio—dottrinale e disciplinare—
da parte dell'autorità ecclesiastica, e per questo possiede una forza
specifica propria vincolante, generata all'interno della struttura
di comunione propria della Chiesa per il senso fidei, dato a tutti i
fedele, e per i carismi che suscita lo Spirito Santo nel Popolo di
Dio.

c) Persone giuridiche collegiali e non collegiali

Alla luce delle considerazioni precedenti, di ordine dottrinale, deve


può essere riconsiderata anche un'altra istituzione del Diritto canonico: quella di
persona giuridica collegiale o non collegiale, importante certamente per il
studio degli organi di governo della Chiesa.

In effetti, sebbene il nuovo Codice di Diritto Canonico cerchi una


migliore determinazione delle diverse persone giuridiche (cc. 113-123)
specially through the distinction between corporations
universitas personarum e fondazione universitas rerum8,de
fatta la distinzione classica tra persone giuridiche collegiali e non
collegiale continua a essere di grande importanza in ordine a
modalità di esercizio del potere di governo nella Chiesa,
anche se tale distinzione si riferisce solo all'universitas personarum, o
mare, alle corporazioni o società (c. 115 § 2). Per riconoscere o
erigere queste ultime come persona giuridica, ossia come «ente distinto
delle persone fisiche, costituito dall'autorità pubblica di
Iglesia come soggetto di diritti e doveri, con un fine obiettivo comune,
non identificabile con i fini delle persone fisiche coinvolte, e che
corrisponda alla missione della Chiesa9, il legislatore ecclesiastico
richiede la presenza di tre persone, ovviamente fisiche (cfr. c. 115 §
2). Una volta acquisita la personalità giuridica, la universitas
la persona in questione è considerata scolastica se la sua attività «è
determinata dai membri, che con o senza uguaglianza di diritti,
partecipano alle decisioni secondo il diritto e gli statuti» (c.
115 § 2). Pertanto, chi viene definito come collegiale non dipende dal
fatto che tutti i membri della persona giuridica abbiano il
diritto al voto deliberativo, ma della possibilità che tutti i suoi
i membri partecipano in qualche modo (e, di conseguenza, anche solo
con voto consultivo) nel processo di elaborazione della decisione. Così,
per esempio, i

8. Cfr. c. 115 § 1 e il commento di Aymans-Mörsdorf, Kan R 1, 307-


328, qui 309.
9.L. Vela-F.J. Urrutia, Persona giuridica, in: NDDC, 795-799, qui, 795.

I membri di molte associazioni hanno tutti gli stessi diritti di


voto deliberativo, mentre che nelle conferenze episcopali quello
il diritto compete esclusivamente ai vescovi diocesani e a
agli equiparati a loro, così come ai vescovi coadiutori (c. 454 §
1). Ai vescovi ausiliari e agli altri vescovi titolari compete, in
cambio, normalmente solo il voto consultivo, a meno che i
gli statuti della conferenza episcopale prescrivano basandosi su
tradizioni particolari proprie–qualcosa di diverso (c. 454 § 2).

Le corporazioni o società le cui decisioni non sono prese da


i suoi membri, ma da colui a cui è stato affidato il suo governo sono
considerate nei collegiali. I casi più classici di persone
le giuridiche non collegiali sono la diocesi, la parrocchia e il seminario
diocesano, istituzioni canoniche che sono rappresentate
rispettivamente, in tutte le questioni legali, dal vescovo
diocesano (c. 393), il parroco (c. 532) e il rettore (c. 238 § 2). Questo non
significa, naturalmente, che questi ultimi, nel prendere una decisione
relativa alla persona giuridica non collegiale da loro rappresentata, siano
completamente autonomi, come si rende evidente nel caso del
vescovo diocesano, coadiuvato nell'esercizio delle sue funzioni di
governo (a sapere: legislativa, amministrativa e giudiziaria) per una serie di
consigli diocesani10. Poiché la sinodalità, come abbiamo già visto,
una dimensione ontologica costitutiva della sacra potestas si esprime
anche in qualche modo nel governo delle persone giuridiche no
collegiali, come nella conferma del fatto che collegiali un
termine che possiede un significato canonistico molto più ristretto
che il desinodal. Infine, dobbiamo ricordare che, nel Diritto
canónico, anche le corporazioni o società non collegiali si
si distingue chiaramente dalle fondazioni, perché in esse si pone il
accento nel insieme delle persone che lo compongono e non nel
insieme di cose o di beni, sia spirituali che materiali, che
sono elevati alla dignità di persona giuridica (c. 115 § 3).

20.2 Gli uffici ecclesiastici

a) La nuova nozione di ufficio ecclesiastico del Codice

Come abbiamo già avuto modo di osservare nel § 16.2, il legislatore


l'ecclesiastico del 1983 ha introdotto una nuova nozione di ufficio
ecclesiastico

10. Cfr. il § 21.2 di questo stesso capitolo.

co nel Codice. In effetti, il c. 145 § 1, raccogliendo quasi alla lettera del


la lettera del testo conciliare di PO 20, 2, dice: «L'ufficio ecclesiastico è
qualsiasi incarico, costituito stabilmente per disposizione divina o
ecclesiastica, che deve essere esercitata per un fine spirituale." Secondo questa
La definizione sono quattro gli elementi costitutivi di un mestiere
ecclesiastico: 1) il caricamento, cioè le funzioni
obbligatorie in cui consiste, e a cui sono uniti alcuni
obbligazioni e diritti; 2) la stabilità oggettiva, cioè il
carattere di persistenza nella struttura giuridica ecclesiale, che
garantisce, rispettivamente, la preesistenza e la permanenza a la
colazione e alla perdita della stessa; 3) essere di disposizione divina (come,
per esempio, nel caso dell'ufficio di vescovo) o di disposizione
ecclesiastica (come, ad esempio, nel caso dell'ufficio di parroco); 4) il
fine spirituale, cioè, essere riconducibile–anche se implica la
gestione di attività temporanee – alla missione della Chiesa.

Così definita, la nuova configurazione giuridica del ministero ecclesiastico


presenta due importanti differenze rispetto a quella del Codice pio-
benedettino. In primo luogo e in modo definitivo, è scomparso il
distinzione tra mestiere in senso stretto e mestiere in senso ampio,
perché secondo il CIC l'ufficio ecclesiastico non implica più
necessariamente nel suo titolo una certa partecipazione nella sacra
potere, e per questo - a meno che non lo vieti espressamente il diritto
divino o il diritto canonico vigente–può essere ottenuto anche per
fedele laico, uomini e donne11.In secondo luogo, l'ufficio
l'eclesiastico, in quanto tale, non possiede già normalmente personalità
giuridica; quest'ultima non corrisponde neppure all'ufficio ecclesiastico di
Papa in quanto tale, ma alla Sede Apostolica in senso globale12. Questo
vale altresì per altri importanti uffici ecclesiastici come quelli di
vescovo diocesano e parroco. Entrambi iniziano ad esistere concretamente
come uffici ecclesiastici dal momento in cui l'autorità
competente erige una diocesi e una parrocchia, la cui definizione di
La persona giuridica appartiene necessariamente13.

Gli uffici ecclesiastici che non hanno personalità giuridica e che non
sono costituiti necessariamente attraverso l'erezione di una
persona ju-

11. Coincidono in questa interpretazione del c. 145: Aymans-Mörsdorf,


Kan R 1, 445-502, qui 445-446; P. Krämer. Chieserecht,II, Stoccarda-
Berlino-Colonia 1993, 45-47; G. Ghirlanda, Il diritto nella Chiesa,
mistero di comunione
norme genera-Ii, en:Il nuovo codice di diritto canonico. Studi,Torino
1985, 32-59, qui 52-59.
12. Cfr. cc. 361 e 113, così come il commento di Aymans-Mörsdorf,
Kan R I, 446.
13. Cfr. cc. 369 e 515 * 1.

le entità giuridiche iniziano la loro esistenza giuridica con la colazione concreta da parte
dall'autorità competente per istituirli14.

b) Colazione e perdita di un ufficio ecclesiastico

L'ufficio ecclesiastico viene conferito con l'atto di natura


amministrativa denominata provvisione canonica. Senza quest'ultima è nulla
la colazione (c. 146). La fornitura comprende tre momenti: la
designazione della persona, il conferimento del titolo e l'assunzione della carica
o introduzione nel ministero ecclesiastico. D'altra parte, secondo il c. 147,
la provvisione canonica di un ufficio ecclesiastico può essere fatta di
quattro modi: 1) per libera colazione (c. 157), quando l'autorità
competente per farlo designa la persona scegliendola liberamente;
2) per istituzione, quando l'autorità competente deve costituire la
persona idonea sulla base di una presentazione da parte di
terzi (cc. 158-163); 3) per conferma o per ammissione, quando la
l'autorità competente conferisce la provvista canonica a una persona
precedentemente elegida (cc. 164-179) o postulata (cc. 180-183); 4)
per semplice scelta e accettazione, se non c'è bisogno di conferma,
come nel caso del Romano Pontefice (c. 332 § 1) e dell'amministratore
diocesano (c. 427 § 2).

In ogni caso, chiunque sia stato promosso a un ufficio ecclesiastico


«deve essere in comunione con la Chiesa ed essere idoneo» (c. 149 § 1).
La perdita di un ufficio ecclesiastico, secondo il c. 184 § 1, può essere
automatica (scadenza del tempo per cui è stata conferita o
portata dei limiti di età definiti dal diritto), volontaria (in
il caso di rinuncia, secondo i cc. 187-189) o forzosa, se viene effettuato da
uno di questi tre modi: per trasferimento (cc. 190-191), per rimozione (cc.
192-193) o per privazione, cioè come sanzione canonica a
conseguenza di un reato commesso (c. 196).

Finalmente, perde l'incarico ecclesiastico ipso iure: 1) chi perde il


stato clericale; 2) chi abbandona pubblicamente la fede cattolica o la
comunione ecclesiale; 3) il clero che tenta di contrarre matrimonio,
anche se fosse solo civile (c. 194).

21. Gli organi istituzionali, e in particolare di governo,


nella «comunione della Chiesa e delle Chiese»

L'essenza strutturale del mistero della Chiesa è quella dell'immanenza


reciproca e totale della Chiesa universale nelle e per le Chiese
particolari,

14. Cfr. cc. 145 § 2 e 148; su tutta la questione e in particolare su


il significato giuridico dei verbi 'engere', 'costituere' e 'instittiere'
ordine a un ufficio ecclesiastico, cfr. H. Socha, in: MK, can. 148/1-7.

raccolta dalla formula in quibus et ex quibus de LG 23,1. Questa


formula conciliare—come abbiamo già anticipato brevemente nelle conclusioni
del capitolo primo—si oppone, a livello del diritto costituzionale di
la Chiesa, sia all'inizio dell'autocefalia della Chiesa che a un concetto
monista della Chiesa universale. Nel primo caso, è l'elemento interno
colui che si afferma in modo esclusivo, da parte di coloro che sostengono che la
L'iglesia universale non esiste realmente o è ridotta a una semplice
confederazione di Chiese particolari. Nel secondo caso, è il
elemento esterno il quale prevale, e le Chiese particolari finiscono
per essere assorbite nella Chiesa universale, come semplici distretti
amministrativi della stessa. Il carattere imprescindibile di entrambi
elementi consente alla formula di conciliare di raccogliere in una perfetta
sintesi teologica l'essenza costituzionale della communio
Chiese15. Questo significa che Chiesa universale e Chiesa particolare
non sono altro che due dimensioni costitutive dell'unica Chiesa
di Cristo, come ha affermato Giovanni Paolo II in uno dei suoi
omelie16. Questa struttura fondamentale del mistero della Chiesa deve essere
essere tenuta presente sia per formulare correttamente il problema di
la relazione tra ius universale e ius particolare17, come per
comprendere la natura, lo scopo e le connessioni reciproche di
diversi organi istituzionali della communio Ecclesiae et
Ecclesiarutn. In effetti, questi ultimi difficilmente si lasciano definire
con le categorie politiche di centralizzazione e decentralizzazione, o
con un ricorso esclusivo al principio di sussidiarietà, di
provenienza socio-filosofica. L'incertezza dello stesso legislatore
ecclesiastico di fronte alla collocazione sistematica delle cosiddette
agrupazioni o famiglie di Chiese particolari (cc. 431-459), oggetto
di continui spostamenti18, è una conferma di ciò che
decimos. Il risultato finale non è ancora del tutto convincente per due
motivi almeno: in primo luogo, non si comprende perché la parte
sulla struttura interna della Chiesa particolare (cc. 460-572) è stata
separata dalle norme sulle Chiese particolari e su
vescovi (cc. 368-430); in secondo luogo, la piena ricezione di
insegnamento conciliare sulla reciproca immanenza tra Chiesa
universale e chiese particolari ci sarebbero

15. Cfr. W.Aymans, La «comunità delle chiese» legge costitutiva


dell'unica Chiesa, Diritto canonico e comunione ecclesiale, Torino
1993, 1-30.
16. Cfr. Giovanni Paolo II, Omelia a Lugano del 12 giugno
1984
vol. VII/l, 1676-1683.
17. A questo proposito, cfr. E. Corecco, le universale-
tusparticulare,en:tus in vira et inmissione Ecclesiae,Acta Symposii
internationalis iuris canonici (Città del Vaticano 19-24 aprile 1993)
Città del Vaticano 1994, 551-574.
18. Cfr. Communicationes 12 (1980), 244-246; 14 (1982), 124 e 155-
156.

propongo di suddividere in tre sezioni: una sulla Chiesa


universale e i suoi organi di governo, un'altra sulla Chiesa particolare e
la sua struttura interna, e un'altra sulle aggregazioni o famiglie di
Iglesias particulares.

21.1 Gli organi istituzionali della Chiesa universale

Anche a livello della configurazione giuridica degli organi


istituzionali della Chiesa, ha ricevuto, certamente, il CIC la
sostanza della dottrina conciliare sulla communio Ecclesiae e
Ecclesiarum. Tuttavia, non si può evitare l'impressione che il
legislatore ecclesiastico del Codice del 1983 si trova in una
situazione imbarazzante al momento di ricevere pienamente il principio del
inmanenza reciproca dell'universale nel particolare. Infatti, per
una parte, relega la formula in quibus et ex quibus de LG 23, 1 al c.
368, situato all'inizio della sezione sulle Chiese particolari,
quando, dal punto di vista sistematico, avrebbe dovuto essere
collocata in un canone preliminare, all'inizio della parte intitolata De
Costituzione gerarchica della Chiesa (cc. 330-572). D'altra parte, lo stesso
legislatore ecclesiastico, nella prima sezione, dedicata agli organi
istituzionali che hanno la suprema autorità ecclesiale, non li inserisce
nel suo contesto ecclesiologico né fornisce alcuna definizione di Chiesa
universale, al contrario di quanto fa con la Chiesa particolare, definita
nel c. 369 secondo la definizione conciliare di CD 1119. La prima
sezione di questa parte del Codice di Diritto Canonico inizia,
beh, immediatamente, con le norme relative agli organi di
governo della Chiesa universale, a sapere: il Pontefice Romano e il
Collegio episcopale.

a) Il Collegio episcopale e il Papa

Dice il c. 330: «Così come, per determinazione divina, san Pietro e i


gli altri apostoli costituiscono un Collegio, allo stesso modo sono uniti
tra il Romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi,
successori degli apostoli». Questo canone introduttivo della prima
sezione, intitolata Di suprema auctorità della Chiesa, non raccoglie solo
casi al pie della lettera il testo conciliatorio di LG 22, 1, ma offre
anche una sintesi abbastanza felice di

19. Se la prima incongruenza è stata portata alla luce da E.


Corecco(cfr.La ricezione del Vaticano II nel Codice di Diritto
Canónico, in: G. Alberigo - J.-P. Jossua [a cura di], La ricezione del
Vaticano II, Madrid 1987, 299-354, qui 329-330) la seconda è stata
segnalata da diversi auto-res:G. Ghirlanda,Il diritto nella
Iglesia, mistero di comunione, Madrid 1992, 597;P.
Krämer, Diritto ecclesiastico, II, o.c., 99.

la suprema autorità nella Chiesa. Infatti, alla luce della Nota


spiegazione preliminare aggiunta alla Costituzione dogmatica su
Chiesa, si deduce chiaramente dal contenuto di questo canone che esiste
un parallelismo tra Pietro e gli altri apostoli, da una parte, e il
Papa e i vescovi da un lato. Tuttavia, quel parallelismo non implica, però,
né una trasmissione di uguali poteri all'uno e agli altri, né una
uguaglianza tra la testa e i membri del Collegio. Da lui si può
dedurre semplicemente una relazione di proporzionalità identica nel
interno del Collegio apostolico e del Collegio episcopale, così come il suo
fondamento nel diritto divino attraverso la successione apostolica.
Con altre parole, in questo canone emerge chiaramente che «la
la natura della struttura gerarchica della Chiesa è al stesso tempo
colegiale e primaziale per volontà dello stesso Signore20. Questo doppio
la natura della struttura gerarchica della Chiesa si riflette,
evidentemente, nei due soggetti dell'autorità suprema nella
Chiesa, il Collegio episcopale e il Papa, che per questo non possono essere
adeguatamente distinti. Come sostiene la maggior parte dei
canonisti21, a partire dall'insegnamento conciliare riguardo al fatto di
che il Collegio episcopale «non esiste senza la Testa» deve dedursi,
necessariamente, che «la distinzione non si stabilisce tra il Romano
Pontífice e i vescovi considerati collettivamente, ma non tra il
Romano Pontefice separatamente e il Romano Pontefice insieme ai
Obispos» (Nota esplicativa previa 3).

Tuttavia, l'equilibrio del canone introduttivo viene rotto


immediatamente per i seguenti canoni per almeno tre motivi.
In primo luogo, il legislatore ecclesiastico del 1983 affronta il tema in due
articoli diversi: il primo ha come titolo Di Romano
Pontifice(cc. 331-335) e il secondo Di Collegio Episcoporun(cc. 336-
341), come se i due soggetti fossero adeguatamente distinti e
separabili22. In secondo luogo, in entrambi gli articoli, e anche in
restanti settori del CIC, il legislatore ecclesiastico, contro la
insegnamento del concilio Vaticano II e dello stesso c. 33023, co-

20.G.Ghirlanda,Il diritto nella Chiesa, mistero di comunione,Madrid


1992, 598; cfr. anche Juan Pablo II, CAPastor Bonus, in: AAS 80
(1988), 841-912, soprattutto n. 2.
21. Tra le interventi più autorizzati dobbiamo ricordare:
W.Bertrams, Del soggetto della suprema potestà della Chiesa, en:
Periodica 54 (1965), 173-232; K. Mörsdorf, L'immediatezza della
il privilegio pontificio in luce del diritto canonico
Rechtes, Paderborn 1989, 241-255; inoltre, sulla attribuzione del
Il principio di collegialità al principio dell'unità tra capo e corpo in
della struttura gerarchicardella costituzione ecclesiastica, ibid.,273-283.
22.Ha posto in rilievo questa incongruenza A. Longhitano, 11 libro 11: 11
Popolo di Dio, en:11 nuovo Codice di diritto canonico. Studi, o.c.,60-
79, qui 71.
23. Ad esempio, in LG 17, 1; 18, 2; 19; 20; 21; 23, 3 e 24, 1, il concilio
Il Vaticano II attribuisce la priorità al Collegio episcopale sul Papa.

loca con sorprendente rigurosità al Romano Pontefice prima del


Collegio episcopale24. In terzo e ultimo luogo, nell'articolo dedicato al
Collegio episcopale, dopo il importantissimo c. 336, nei cinque canoni
seguente il legislatore ecclesiastico parla unicamente del Concilio
Ecumenico e non, tuttavia, della funzione e dei compiti del Collegio
episcopale 25.

Per essere membri del Collegio episcopale – in base al c. 336, che


raccolte ciò che si dice in LG 22, 1–sono necessarie due cose: la la
consacrazione episcopale (di natura sacramentale) e comunione
con la testa e con i membri del Collegio (di natura non
sacramentale). Mentre la prima è indelebile, la seconda non lo è.
sì, perché potrebbe non esistere (come nel caso di una
ordinazione episcopale al di fuori della Chiesa cattolica) oppure si può
perdere (come nel caso di scomunica). Lo stesso c. 336, in
stretta connessione con il c. 330, afferma anche che il Collegio
episcopale, in cui permane il corpo apostolico perennemente,
insieme alla sua testa e mai senza questa testa, costituisce il soggetto della
plena e suprema potestà nella Chiesa universale. Benché l'elezione
del modo in cui si deve esercitare quest'ultima corrisponde al Romano
Pontifice, sotto la sua iniziativa o per l'accettazione libera dell'iniziativa di
altri membri del Collegio 26, la funzione e i compiti di quest'ultimo
non sono definiti nel CIC. Per questo è necessario ricorrere al concilio
Vaticano II, che afferma esplicitamente a questo riguardo: «Questo Collegio,
in quanto composto di molti, esprime la varietà e l'universalità
del Popolo di Dio; e in quanto raggruppato sotto una sola Testa, la
unità del gregge di Cristo» (LG 22, 2). Da qui deriva per i suoi
membri un ruolo di doppia rappresentanza: presi individualmente
nel Collegio rappresentano le loro Chiese particolari, tutti insieme con
La testa del Collegio rappresenta la Chiesa universale27.

La Capo del Collegio episcopale è «il Vescovo della Chiesa Romana,


in chi permane la funzione che il Signore ha affidato
singolarmente a Pietro, primo tra gli apostoli» (c. 331). In la
tradizione cattolica e ecumenica questo riceve il nome di Papa, termine
usato altresì cinque volte dal concilio Vaticano II28. Nel CIC
questo termine appare solo nella

24. Inoltre ai cc. 330 e 336, l'unico testo del CIC in cui si cita il
Il collegio episcopale prima della Sede Apostolica è il c. 755 § 1; questa
La seconda incongruenza è stata rilevata da E. Corecco.
ricezione del Vaticano 11 nel Codice di Diritto Canonico, 332-
335.
25. Per un esame critico di questi canoni, cfr. J. Komonchak, Il
Concilio ecumenico nel nuovo Codice di Diritto Canonico, in:
Concilium 187 (1983), 140-147.
26.Cfr. c. 337 § 2 e § 3.
27. A questo riguardo, cfr. P. Krämer, Diritto ecclesiastico, II, o.c., 106-107.
28.Cfr. LG 22, 2 e 23, 1; Nota esplicativa preliminare 1 e 4.

forma dell'aggettivo (papale), in espressioni come «Segreteria di Stato»


opapal»(c. 360) o «clausurapapal» (c.667 § 3). In ogni caso,
ciò non impedisce al legislatore ecclesiastico di precisare che la Capo del
Collegio episcopale, in virtù del suo ufficio di «Pastore della Chiesa
universale» e, quindi, «principio e fondamento perpetuo e visibile di
unità, sia dei Vescovi che di tutti i fedeli» (LG 23, 1),
godere di una «potestà ordinaria» che è «suprema, piena, immediata
y universale nella Chiesa» (c. 331). Questi cinque termini, usati nel
c. 331 per definire la natura e il contenuto della suprema potestà
che il Papa, per diritto divino, è chiamato a esercitare nella Chiesa
universale, significativo: 1) ordinaria, che tale potestà è unita da
diritto al mestiere primaziale29;2) suprema, che il Romano Pontefice, in
L'esercizio di questo potere è libero, non dipende dai vescovi.
membri del Collegio e, come tale, la Prima Sede «non può essere
essere giudicata» (c. 1404); 3) piena, che tale potestà non è puramente
direttiva o di vigilanza, perché non le manca alcun elemento essenziale né
in relazione all'unità della fede, né in ordine al governo della Chiesa,
cioè, per quanto riguarda la funzione legislativa, esecutiva o
amministrativa e giudiziaria30; 4) immediata, che tale potere primaciale
può essere esercitata dal Papa direttamente, senza interposizioni,
su tutti i fedeli e su tutte le Chiese particolari, anche se
in ordine a queste ultime, l'immediatezza dell'autorità papale tende a
rafforzare e garantire il potere proprio, ordinario e immediato dei
vescovi delle stesse31;5) universale, che il campo di azione di
Il potere del Papa si estende a tutta la communio Ecclesiae et
Ecclesiarum, perché solo 61 è la Capo del Collegio episcopale e, per
conseguente, anche il cappuccio di tutta l'Ecclesia 32.

Tras questi canoni che delineano giuridicamente i due soggetti di


suprema potestà nella Chiesa, il legislatore ecclesiastico del 1983
ottiene spazio per la descrizione dei vari organi istituzionali
attraverso i quali si esercita in modo concreto questo potere: il
Concilio ecumenico (cc. 337-341), purtroppo trattato sotto il
titolo Di Collegio Episcoporum, come se fosse l'unico modo in cui il
Il collegio episcopale può esprimere collegialmente il suo supremo potere;
il Sinodo dei vescovi (cc. 342-348); il

29.Cfr. c. 131 § 1.
30. A questo proposito, cfr. G.Ghirlanda, Il diritto nella Chiesa, mistero
di comunione, Madrid 1992, 599-600.
31.Cfr. c. 333 § 1.
32.Cfr.C. Corral, Romano Pontefice, in: NDDC, 931-938, soprattutto
934-935; per uno studio più approfondito delle diverse espressioni
giuridiche della suprema potestà del Papa, cfr. J.B. D'Onorio,Le
papa e il governo di I'Église, Parigi 1994, 64-125.

Collegio cardinalizio (cc. 349-359); la Curia romana (cc. 360-361); e


i Legati del Romano Pontefice (cc. 362-367).
b) Concilio ecumenico

Il primo paragrafo del c. 337 dice: «Il potere del Collegio dei
L'episcopato su tutta la Chiesa si esercita in modo solenne nel
Concilio ecumenico». Da questo canone, estratto dai testi conciliari
da LG 22, 2 e CD 4, si deducono chiaramente due principi
fondamentali per la comprensione dello statuto canonico di un
Concilio ecumenico: 1) Collegio episcopale e Concilio ecumenico non si
identificano, perché il secondo non è altro che la modalità solenne con
che esercita il primo la sua suprema potestà nella Chiesa; 2) questa
La potestà suprema può, dunque, essere esercitata dal Collegio episcopale
assieme in modo extraconciliare o non solenne, rimanendo ancora
colegiali sensu stricto33.

Basato sul primo principio si intuisce che, mentre il Collegio


episcopale è di diritto divino, il Concilio ecumenico, anche gettando
le sue radici nel diritto divino, necessita di una configurazione giuridica
concreta che, come tale, è di diritto umano eclesiastico34. Y, di
fatto, i ventuno Concili ecumenici celebrati fino ad ora hanno
assunto di tanto in tanto diverse forme giuridiche, avendo di
tutti i modi in comune i due elementi seguenti. In primo luogo,
si tratta sempre di un incontro solenne di tutti i vescovi
delOrbis cattolico, in cui si prendono decisioni di grande
importanza per tutta la Chiesa universale35. In secondo luogo, queste
decisioni o decreti, per acquisire forza di obbligo per tutti
i fedeli devono essere approvati dal Papa, insieme ai Padri con-
ciliari, nella votazione della seduta pubblica, e confermati dopo
personalmente per il Papa e promulgati da lui36.

Per quanto riguarda il secondo principio fondamentale del c. 337 § 1,


relativo all'esercizio collegiale extraconciliare della potestà suprema del
Colegio episcopale, dobbiamo osservare, sfortunatamente, che non si
ha concretizzato in nessun'altra norma del CIC. Alcune forme di
questo esercizio sono conosciuti storicamente, come nel caso dei
cosiddetti Concili per lettera, cioè, consultazioni intraprese da
il Papa a livello della Chiesa universale

33.Cfr. cc. 337 § 2 e 341 § 2, così come il commento di O. Stoffel, in:


MK, can. 337/1 e 3.
34.A questo proposito, cfr. K. Mörsdorf, Lb, Bd. I, 352; P.
Krämer, Diritto canonico, II, o.c., 109-113.
35.Cfr. c. 339 § 1.
36.Cfr. c. 341 § 1 e il commento di G.Ghirlanda, Il diritto nella
Iglesia, mistero di comunione, Madrid 1992, 617.
prima della proclamazione di un dogma37.Si potrebbe introdurre legittima-
mente altre forme, dato il grande numero di vescovi dislocati per
il mondo e il nuovo sviluppo dei mezzi di comunicazione
aplicando eventualmente in modo corretto il principio della
rappresentazione38.Precisamente sulla base degli elementi
apparenti nelle discussioni conciliari su questo problema, il
papa Paolo VI istituisce, il 15 settembre 1965, tramite il
MPApostolicasollecitudo39, il Sinodo dei vescovi.

c) Sinodo dei vescovi

Il Sinodo dei vescovi (cc. 342-348) costituisce, certamente, una


le novità istituzionali più importanti, a livello della Chiesa
universali, introdotte a partire dagli insegnamenti del Concilio Vaticano
II. Secondo il c. 342, il Sinodo dei vescovi è un'assemblea di
vescovi «scelti dalle diverse regioni del mondo, che si
si riuniscono in occasioni determinate per favorire l'unione stretta
tra il Romano Pontefice e i vescovi, e aiutare il Papa con i suoi
consigli per l'integrità e il miglioramento della fede e delle tradizioni e la
conservazione e il rafforzamento della disciplina ecclesiastica». Si
tratta, dunque, di un organo istituzionale della Chiesa universale di
natura consultiva40in cui si esprime–seguendo il principio
rappresentativo–il cosiddetto affetto collegiale di tutti i vescovi, il suo
richiesta per la Chiesa universale e quella di quest'ultima verso le Chiese
particolari41. In quanto tale, il Sinodo dei vescovi ha un carattere
permanente, anche se esercita solo di tanto in tanto le sue
funzioni42Dunque, è chiara la differenza tra il Sinodo dei
vescovi e il Concilio ecumenico: sono diverse la composizione, i
fini e l'autorità. In effetti, nel Sinodo non solo non si riunisce tutto
il Collegio episcopale, ma nemmeno si esercita il potere
colegialsensu

37.Per esempio, per la proclamazione del dogma dell'Immacolata


Concezione e Assunzione di Maria al cielo; cfr. O. Stoffel, in: MK
può. 337/3.
38. Dal punto di vista ecclesiologico rimane legittimo
chiedersi se rispetta veramente questo principio la disposizione
introdotta da Giovanni XXIII, secondo la quale anche i vescovi
gli ausiliari e i titolari sono membri di diritto con voto deliberativo
del Concilio Ecumenico, cfr. MPAppropinquante Concilio,en: AAS 54
(1962), 612.
39.Cfr. AAS 57 (1965), 775-780.
40.Cfr. c. 343.
41.Per uno studio più profondo della natura e delle funzioni di
questa nuova istituzione, cfr. W.Bertrams, Struttura del Sinodo dei
Vescovi, en: Civiltà Cattolica 116 (1965), 417-423; G.P. Milano,/l
sinodo dei Vescovi: natura, funzioni, rappresentatività, en: Atti VII
CIDC, vol. I, 167-182.
42.Cfr. c. 348 sul ruolo della Segreteria generale permanente.

stricto, perché «anche nei casi in cui ha potestà deliberativa


questa le è delegata dal Romano Pontefice; è un mezzo di cui
dispone il Papa per esercitare il suo ufficio primaziale in modo collegiale" 43.

d) Collegio cardinalizio, curia romana e Legati del Romano


Pontifice

A differenza del episcopato, che è la pienezza del sacramento del


ordine e, come tale, appartiene all'essenza stessa della struttura
costituzione della Chiesa, il cardinalato è un'istituzione di
diritto meramente ecclesiastico, sorto nel primo Medioevo e
che si sviluppò in una vera e propria scuola solo a partire dal
secolo XII, cioè, da quando gli è stata attribuita in modo esclusivo la
elezione del Papa44.In senso giuridico, il Collegio dei cardinali,
che «sceglie liberamente» (c. 351 § 1) il Romano Pontefice, deve essere
inteso secondo il c. 115 § 2, ossia, come collegio i cui membri
hanno tutti gli stessi diritti, anche se seguendo la tradizione si
distingue tra cardinali vescovi (quelli a cui il Papa assegna
il titolo di una diocesi suburbicaria), cardinali presbiteri
(coloro a cui il Papa assegna il titolo di una chiesa nella Città)
i cardenali diaconi (quelli che normalmente hanno un incarico in
la Curia Romana). Questo «Collegio peculiare» (c. 349) si riunisce in
Consistorio45e ha la funzione di un «Senato del Papa»46. In questo
senso, anche se il Collegio cardinalizio non è un'espressione particolare
del Collegio episcopale, attraverso il 61 si esercita, in un certo senso, la
colegialità episcopale47Secondo il c. 349, il Collegio cardinalizio
sviluppa tre funzioni: l'elezione del Papa, secondo il diritto
particolare; consigliare al Papa collegialmente nel Concistoro, riguardo a
questioni di maggiore importanza; e aiutare il Romano Pontefice, con
il proprio lavoro, nella cura della Chiesa universale. Le novità
più importante, a livello della composizione del Collegio e dell'esercizio
delle sue funzioni, furono introdotte dal papa Paolo VI, a sapere: il
fatto che anche i patriarchi delle Chiese orientali possono
essere eletti come cardinali4S, così come l'esclusione del conclave
—y, pertanto, della scelta del

43.G.Ghirlanda, Il diritto nella Chiesa, mistero di comunione, Madrid


1992, 617.
44. A questo riguardo, cfr. P. Krämer, Kirchenrecht, II, o.c., 116-118; W.
Plöchl, Storia del diritto canonico, 5 vol., Vienna-Monaco, 1960-
1970, vol. I, 319-323; vol. II, 94-99 e vol. III, 128-143.
45.Cfr. c. 353, che distingue i tre tipi di Consistorio: ordinario,
straordinario e solenne.
46.Cfr. c. 230 del CIG 1917 e l'uso che ne fa papa Paolo
VI (cfr. AAS 61, 1969, 436).
47.Cfr. AAS 71 (1979), 1449; AAS 72 (1980), 646 e il commento di O.
Stoffel, en: MK può. 351/2.
48.Cfr.Pablo VI,MPAd purpuratorum Patrum,en: AAS 57 (1965), 295
ss. y c. 350 § 1.

nuovo Papa—di tutti i cardinali che hanno compiuto gli ottanta


anni di età 49.

Alla Curia romana il CIC dedica solo due canoni, specificamente


i cc. 360 e 361. Di essi, interpretati alla luce dell'insegnamento
del papa Giovanni Paolo II50, può dedursi facilmente la seguente
definizione: «La Curia romana è il complesso di dicasteri e
organismi che assistono il Romano Pontefice nell'esercizio del
supremo ufficio pastorale per il bene e il servizio della Chiesa universale e
delle Chiese particolari, con cui si rafforza l'unità della fede e la
comunione del Popolo di Dio e si promuove la missione della Chiesa in
il mondo51. In questo senso, non semplicemente burocratico-
amministrativo, bensì eminentemente pastorale, devono essere intese
gli stessi compiti della Segreteria di Stato o papale52e le
nove Congregazioni53che la compongono.

I Legati pontifici sono ecclesiastici, investiti generalmente


con l'ordine dell'episcopato, a coloro a cui il Papa concede, in modo
stabile, l'ufficio di rappresentarlo personalmente, inviandoli «tanto a
le Chiese particolari nelle diverse nazioni o regioni come a
vez ante gli Stati e le autorità pubbliche» (c. 362). Tra di loro
si distinguono gli inviati, che hanno il grado di ambasciatori eipso
iureson decani del corpo diplomatico. Secondo i cc. 364 e 365, i
I legati pontifici non devono sostituire i vescovi diocesani, ma
tutelare e rafforzare la sua autorità, favorendo un legame di comunione
più efficace tra loro e la Santa Sede.

21.2 Gli organi istituzionali della Chiesa particolare

a) Chiesa particolare e diocesi


Il ridefinimento della Chiesa locale54, avvenuto all'interno della
riflessione teologica di questi ultimi trenta anni sulle missioni e,
su

49.Cfr.Paolo VI,Pontifice Romano eligendo,in: AAS 67 (1975), 609-


645. Il c. 354 parla, tuttavia, solo della rinuncia all'ufficio
svolto da coloro che compiono 75 anni.
50.Cfr. la CAPastor bonus,in: AAS 80 (1988), 841-912.
51.G.Ghirlanda, Curia Romana, en: NDDC, 326-329, qui 326.
52. Per una breve descrizione delle sue funzioni, cfr. O.
Corral, Segretaria di Stato o papale, en: NDDC, 979-980.
53. Per un primo studio delle rispettive funzioni, cfr. O. Corral-G.
Pasutto, Congregazioni della Curia Romana, en: NDDC, 278-285; P.
Krämer, Diritto canonico, II, o.c., 119-124.
54. A questo riguardo, cfr. soprattutto P. Colombo, La teologia della Chiesa
La Chiesa locale
38.

tutto, l'insegnamento conciliare sulla Chiesa particolare55si riflettono in


i canoni preliminari (cc. 368-374) del titolo che il CIC dedica a
le Chiese particolari e all'autorità in esse costituita. In effetti,
già nel c. 368, il primo di tutta la sezione, si percepisce lo sforzo
del legislatore ecclesiastico volto a realizzare una sintesi
tra LG 23, 1 (dove si trova la formula definitoria della relazione
Chiesa universale-Chiese particolari56y CD 11, 1, che contiene, in
cambio, la definizione di diocesi, come principale forma istituzionale di
una Ecclesia particularis57.

Tuttavia, si tratta di uno sforzo che solo in parte ha successo.


porto, perché il CIC, seguendo il Concilio Vaticano II, non dà una
definizione legale di Chiesa particolare, non solo quella di diocesi,
provocando in questo modo una certa sovrapposizione di entrambe
nociones, nonostante la distinzione stabilita dal c. 368. In effetti, il
canone seguente, il 369, riprendendo quasi alla lettera CD 11, 1,
dice: «La diocesi è una porzione del Popolo di Dio, il cui cura
la pastorale si affida al vescovo con la cooperazione del presbitero,
in modo che, unita al suo pastore e conglobata da lui nello Spirito
Santo mediante il Vangelo e l'eucaristia, costituisca una Chiesa
particolare, nella quale è realmente presente e agisce la Chiesa
di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica». Secondo questa definizione,
tre sono gli elementi costitutivi dell'istituzione «diocesi»: la
porzione del Popolo di Dio, il vescovo e il presbiterio. Questo significa che
cosa segue58. Inizialmente, la diocesi non è, come potrebbe far credere la
etimologia greca della parola, un distretto amministrativo della Chiesa
universale, cioè una parte del Popolo di Dio, ossia una comunità di
bautizzati che professano la stessa fede cattolica insieme al loro pastore. In
secondo luogo, il vescovo, come principio e fondamento dell'unità
comunione di questa porzione del Popolo di Dio, fa di essa un
soggetto ecclesiale in cui il territorio ha una funzione

55. Sebbene il concilio Vaticano II usi a volte il termine Chiesa


locale per indicare anche il Patriarcato e la Diocesi (cfr. UR 14, 1;
LG 23, 4; AG 27, 1), in effetti per indicare una porzione del Popolo di
Dio, non a partire dal territorio ma dal rito, dalla tradizione teologico-
spirituale e culturale, così come del governo, dà preferenza a
espressione Chiesa particolare; cfr. G. Ghirlanda, Il diritto nella Chiesa,
mistero di comunione, Madrid 1992, 48-50.
56.Su il significato costituzionale della formula in quibus et ex
quibus, illustrato ampiamente nel paragrafo 3.3, e su
relazione di immanenza reciproca tra Chiesa universale e Chiese
particolari, cfr. anche H. de Lubac, Le Chiese particolari nella
Iglesia universale, Seguimi, Salamanca 1974.
57. Con questa espressione si fa sempre riferimento al decreto conciliare Christus
Dominusa la diocesi o alle istituzioni ad essa equiparate, cfr. H.
Müller, Diiizesane e quasi-diöcesane Chiese particolari, en: HdbKathKR
329-335, qui 330.
58.Cfr. a questo riguardo H. Müller, Diocesi, in Staatslexikon, o.c., Bd. 1,
821-828.

unicamente determinativa, a differenza della Parola e del Sacramento


che, insieme al carisma (sebbene in misura diversa), costituiscono
gli elementi primari della stessa comunità. In terzo e ultimo
luogo, per l'annuncio del Vangelo e per la celebrazione dei
sacramenti, e della eucaristia in particolare, il vescovo ha bisogno
strutturalmente di un presbiterio. In effetti, quest'ultimo è il
elemento costituzionale della Chiesa particolare, che permette di trovare
nella stessa un'analogia con la struttura costituzionale della Chiesa
universale.

Questi tre elementi della definizione di diocesi che presenta il


Il codice può essere realizzato anche, naturalmente, in altre figure.
giuridiche, diverse dalla diocesi59I criteri mediante i quali si
può dare a una Chiesa particolare una di queste forme giuridiche,
diversi dalla diocesi, sono stati fissati solo parzialmente dal
legislatore ecclesiastico. In effetti, nel c. 372, insieme al territorio e al
rito, si parla solo in modo vago di «un'altra ragione simile», il cui
la formula è una soluzione per risolvere problemi ecclesiologici che si
possono porre, di fronte ai quali non possiamo dimenticare le possibilità
già elencate nel c. 36860.È vero che anche la prelatura
territoriale, e con maggior ragione tutte le altre forme giuridiche di
porzioni del Popolo di Dio a lei comparabili61, possono essere
definite come Chiese particolari solo se colui che le governa
è un vescovo.

b) Vescovo e presbiterio

La definizione di diocesi che abbiamo appena spiegato, come già abbiamo


segnalato, è tratto dal decreto conciliare Christus Dominus e,
quanto tal, è la prima che si trova in un documento ufficiale del
magistero ecclesiastico. Se i Padri del concilio Vaticano II sentirono
la necessità di dare una definizione di diocesi non è stata, certamente, per
ragioni di organi-

59.Cfr.E. Corecco, Chiesa particolare, in: Digesto delle Discipline


Pubblicistiche (4. ed.), Tormo 1989, 17-20; idem, iglesia particular e
chiesa universale nel solco della dottrina del Concilio Vaticano
chiesa universale e chiese particolari. IX Simposio internazionale
di Teologia, Pamplona 1989, 81-99.
60.Le prelature personali non sono menzionate in questo canone, ma
che sono state collocate dal legislatore nella normativa sui fedeli,
prima di presentare i canoni sulle associazioni dei fedeli. Di
questa collocazione definitiva è legittimo dedurre che queste non sono
equiparabili alle Chiese particolari, come osservano gli stessi
Padri della Plenaria, cfr. Comunicazioni 14 (1982), 201-203.
61. Per una breve descrizione dei profili giuridici di questi
istituzioni equiparabili alla prelatura territoriale, vale a dire: l'abbazia
territoriale, il vicariato apostolico, la prefettura apostolica, la
amministrazione apostolica, il vicariato castrense e la Chiesa particolare
personale, cfr. G. Ghirlanda, Il diritto della chiesa, mistero di
comunione, o.c.,637-639; Idem, La Chiesa particolare: natura e
Monitor Ecclesiasticus 115 (1990), 551-568.

zazione ecclesiastica, ma a causa del fatto che l'immagine teologica


e giuridica del vescovo è uscita profondamente rinnovata dai lavori di
redazione della Costituzione dogmatica sulla Chiesa62.

In effetti, sebbene sia vero che la teologia dell'episcopato elaborata


per i Padri conciliari non si mostra sempre perfettamente
equilibrata e soffre ancora di una certa reazione contro le precedenti
ecclesiologie, fortemente papiste, comunque, i numeri 18-29 del
Il secondo capitolo della Lumen gentium fornisce una base solida per
comprendere il ruolo ecclesiologico e la funzione pastorale del vescovo.
Questo ruolo e questa funzione sono iscritti con tale profondità nella
struttura comunitaria e nella natura missionaria della Chiesa, che
elDirectorium de ministero pastorale degli episcopi63,pubblicato da la
Sacra Congregazione per i Vescovi il 22 febbraio 1973,
pone nella base dei principi fondamentali sul ministero
episcopale l'axioma secondo il quale la natura e la missione della
La Chiesa determina e definisce la natura e la missione dell'episcopato
stesso. Il vescovo è, quindi, il punto focale della Chiesa particolare
fondazione dell'immagine della Chiesa universale, perché l'ufficio di cui
è investito fa possibile l'inerenza reciproca tra Chiesa
universale e Chiese particolari64. Questo significa due cose. In virtù
dalla pienezza del sacramento dell'ordine, il vescovo è un onore
apostolico, cioè un autentico testimone e maestro della tradizione
apostolica nel portafoglio Populi Deia è fidata; in questo senso
garantisce l'immanenza della Chiesa universale nella Chiesa particolare
in cui esercita la sua sacra potestas. In qualità di membro
del corpus degli vescovi, il vescovo è anche un onoro cattolico, è
dire, chiamato a partecipare alla preoccupazione per tutte le
Iglesias65In questa direzione opposta, garantisce l'immanenza della
Chiesa particolare nell'universale.

La sostanza di questa nuova immagine ecclesiologica del vescovo è stata


ricevuta nel CIC del 1983. In effetti, il c. 375 § 2 afferma che «per la
consacrazione episcopale, insieme alla funzione di santificare, i vescovi
ricevono anche le funzioni di insegnare e governare». Di conseguenza
con questo, il c. 379 prescrive chi è stato promosso all'episcopato
deve ricevere la consacrazione

62. Per uno studio più approfondito del ruolo ecclesiologico del vescovo,
cfr.L. Gerosa, L'episcopo nei documenti del Vaticano II e il
nuovo Codice di Diritto Canonico, in: Volti della Chiesa. Corso
d'ecclesiologie, ed. da P. De Laubier, Friburgo 1989, 73-89.
63. Il testo latino di questo direttorio, conosciuto anche come Directorium
Ecclesiae imago, si trova in: EV, vol. IV, 1226-1487.
64. Per una spiegazione più ampia di questo principio, cfr. L.
Gerosa, Diritto ecclesiale e pastorale, Torino 1991, 77-90.
65.Cfr. 2 Cor 11, 28.

ordinazione episcopale prima di assumere il suo ufficio, e il c. 381 afferma


in modo esplicito che, nella Chiesa particolare che gli è stata affidata,
il vescovo possiede «tutta la potenza ordinaria, propria e immediata che si
richiede per l'esercizio della sua funzione pastorale66.Tuttavia, la
nozione di «potestà episcopale» con cui lavora il legislatore
eclesiastico non è completamente identico a quello elaborato dal
concilio Vaticano II, especialmente porque su elemento sinodal sufre
una mutilazione parziale67. Effettivamente, nel CIC domina una
concezione corporativa del presbiterio, estranea sostanzialmente al
concetto di sinodalità.
La nozione conciliare di presbiterio può essere sintetizzata in questo modo: i
presbiteri, come «collaboratori e consiglieri necessari» del loro
l'vescovo (PO 7, 1), forma con lui «un unico presbitero nella diocesi»
(PO 8, 1). «Chiamati a servire il Popolo di Dio, formano, insieme a
su vescovo, un solo presbitero, dedicato a diverse occupazioni» (LG
28, 2). La particolare qualificazione degli ausiliari necessari et
consigliari, attribuita dal Concilio Vaticano II ai presbiteri,
significa, da una parte, che il ministero episcopale non è solo
personale, ma essenzialmente sinodale, e per questo il vescovo ha
necessità del presbitero per sviluppare il suo compito pastorale nella
Chiesa particolare; e, d'altra parte, che il ministero del presbitero, senza
questo nesso concreto con il suo vescovo, sarebbe zoppo. L'insistenza dei
Padri conciliari sul fatto che i presbiteri formano con il loro
un vescovo un unico presbiterio nella diocesi significa, dunque, che questa
l'istituzione non è né una scuola universale parallela al Collegio episcopale,
non una semplice corporazione messa di fronte al vescovo, come, per esempio,
il Cabildo catedralizio, perché questo stesso è parte del presbiterio
e è la sua testa. Il presbiterio è, quindi, nell'ecclesiologia conciliare,
una istituzione fondamentale e costitutiva della Chiesa particolare,
strutturatа gerarchicamente e, per essere fatta in questo modo, capace
di mettere in evidenza, allo stesso tempo, la dimensione sinodale della
potestà episcopale e l'analogia strutturale della Chiesa particolare con
la Chiesa universale68.

66. Su come a livello di questi tre punti sia stata certamente ricevuta
l'insegnamento del concilio Vaticano II nel nuovo Codice, cfr.
W.Aymans, Il servizio di guida del Vescovo in relazione a
Teilkirche, en: AfkKR 153 (1984), 25-55, soprattutto p. 37.
67.Su tutta questa questione, cfr. L. Gerosa, Der Bischof: seine
Ordine, il suo potere spirituale e il cristiano
Annuncio in Europa. Considerazioni di diritto canonico
Bollettino della Società Europea di Teologia Cattolica 3
(1992), 66-94.
68. Per uno studio più approfondito di questa struttura del presbiterio,
cfr.O. Saier, La struttura gerarchica del Presbiterio, en: AfkKR
136 (1967), 341-391; E. Corecco, Sacerdozio e presbiterio nel CIC, en:
Servizio Migranti 11 (1983), 354-372.

Nel CIC, come abbiamo già osservato, predomina, tuttavia, una


concezione corporativa del presbitero. Effettivamente, da un lato
i presbiteri non sono considerati come i collaboratori
necessari del proprio vescovo, ma semplicemente come i suoi
fieli (fidi) collaboratori (c. 245 § 2). D'altra parte, il consiglio presbiterale,
espressione istituzionalmente rappresentativa del presbiterio, è definita
come il senato del vescovo (c. 495 § 1). Per il resto è stata ricevuta
la dottrina conciliare. Anche nel CIC ci sono due le condizioni per
essere membro del presbiterio: la prima sacramentale, cioè, aver
ricevuto il sacramento dell'ordine; la seconda non sacramentale, vale a dire:
aver ricevuto l'incarico di un ufficio ecclesiastico. Si considerano,
Inoltre, ordinari i membri del presbiterio che sono
incardinati nella stessa diocesi in cui esercitano questo ufficio, e
straordinari quelli che non sono incardinati in essa 69.

Il carattere irrinunciabile del presbitero e la dinamica di reciprocità


necessaria tra vescovo e presbiteri affiorano indirettamente nel c.
495 § 1, dove si prescrive con carattere obbligatorio la costituzione in
ogni diocesi del consiglio presbiterale che, insieme al consiglio
pastorale e, soprattutto, con il sinodo diocesano, rappresenta una tipica
espressione istituzionale della struttura sinodale della Chiesa particolare.

c) Sinodo diocesano, consiglio pastorale e consiglio presbiterale

Insieme al concilio provinciale70,il sinodo diocesano è l'unico


istituzione sinodale che, avendo assunto nella vita costituzionale di
le chiese particolari svolgono funzioni diverse, in base alla
frequenza con cui si celebrava e a seconda delle caratteristiche
culturali ed ecclesiali del momento storico in cui veniva convocato,
ha resistito lungo tutta la storia della Chiesa latina71. Questo
istituzione canonica, sorta verso la metà del II secolo, ha conosciuto,
bene, una costante evoluzione giuridica fino alla codificazione pio-
benedettina72Secondo le norme del Codice del 1917 (cc. 356-362) il
sínodo diocesano è un'assemblea di chierici e religiosi di
diocesi, presieduta dallo stesso vescovo e che ha come funzione
principale

69.Su questo punto, cfr. P. Krämer, Diritto ecclesiastico, II, o.c., 79-81.
70.L'importanza di questo tipo di concilio per la Chiesa primitiva si
deduce dal c. 5 del concilio di Nicea (325), che prescriveva il suo
celebrazione due volte all'anno, cfr. W.Plöchl, Storia del
Diritto ecclesiastico, o.c., vol. 1, 150-152.
71.Cfr.E. Corecco, Sinodalità, in: Nuovo Dizionario di Teologia, II,
Madrid 1982, 1644-1673, qui 1649.
72.A questo proposito, cfr. R. Puza, Diözesanssynode und synodale
Struttura. Un contributo all'ecclesiologia del nuovo CIC,
Quaternario Teologico 166 (1986), 40-48 e soprattutto 40-43.

la di consigliare il vescovo riguardo alla promulgazione di norme o


disposizioni generali, in ordine al governo della Chiesa particolare
affidata alle sue cure pastorali. Questa assemblea non è, tuttavia, un
vero e proprio organo legislativo, e i suoi membri esprimono
un parere consultivo, che il vescovo terrà in considerazione nel suo
iniziative come unico legislatore nella Chiesa particolare che gli è stata
fiduciosa e nella sua attività di governo della stessa.

Dopo che i Padri del Concilio hanno espresso il vivo desiderio di


che la antica istituzione del sinodo diocesano fosse ripresa con
nuovo vigore, «per procurare in modo più adeguato ed efficace il
crescita della fede nelle diverse Chiese» (CD 36, 2), il Codice di
Il Diritto Canonico del 1983 ha conferito a essa un nuovo statuto
giuridico (cc. 460-468).

La novità più importante, introdotta da questa normativa del Codice


nella linea dell'importante esperienza sinodale realizzata dalle
diverse Chiese particolari nel postconcilio, è costituita
certamente per il fatto che ora anche i fedeli laici sono
escogidos o elegidos come membri a pieno titolo del sinodo
diocesano (cc. 460 e 463 § 1, 5°). Sono, dunque, membri della
asamblea sinodale di una Chiesa particolare fedeli di ogni stato di
vita ecclesiale (laici, religiosi e chierici). In questo modo, la Chiesa
particolare non è più, di fronte al sinodo diocesano, unicamente
destinataria delle disposizioni e delle direttive pastorali
decise dall'assemblea sinodale, ma essa stessa è soggetto
protagonista di queste73. È chiaro che questo dato ecclesiologico, insieme al fatto
che qualsiasi problema può essere sottoposto a libera discussione di
i membri del sinodo diocesano (c. 465), imprime all'istituzione
canonica del sinodo diocesano un significato pastorale più importante
che quello degli altri consigli diocesani, sebbene il Codice stabilisca
solo in modo generico le sue finalità: prestare «il suo aiuto a
vescovo della diocesi per il bene di tutta la comunità diocesana» (c.
460). Questa importanza pastorale si deduce anche dal fatto che
che, da un lato, nelle Chiese particolari si celebra ora il sì-
nodo diocesano solo quando «10 consigliano le circostanze a giudizio
del vescovo della diocesi, dopo aver ascoltato il consiglio presbiterale» (c.
461 § 1), y, d'altra parte, nel suo ambito, il vescovo – senza il quale non c'è sinodo
(cc. 462 § 1 e 468 § 2) – esprime pienamente la sua autorità come
legislatore per la propria diocesi (c. 466) e, di conseguenza, la
stessa attività dell'assemblea sinodale

73. Cfr. G. Spinelli, Organismi di partecipazione nella struttura della


Chiesa locale, en: Atti V CIDC, vol. 2, 627-634, qui 629; cfr.
también L. Gerosa, I consigli diocesani: strutture «sinodali» e
momenti di «co-responsabilità» nel servizio pastorale, in: Atti
VII CIDC, vol. II, 781-794.
conduce, in un certo modo, all'istituzione di norme e
disposizioni generali che completano la legislazione di essa
determinata Chiesa particolare74Il luogo preminente che occupa il
il sinodo diocesano rispetto agli altri consigli diocesani è, dunque,
indiscutibile, tanto che – secondo il direttorio pastorale dei vescovi –
«nel sinodo... potranno essere costituiti o rinnovati il consiglio
presbiterale e il consiglio pastorale, e essere eletti i membri del
commissioni e uffici della curia diocesana» 75.

Tra queste istituzioni, più vicino alla nuova visione ecclesiologica


del sinodo diocesano, perlomeno a livello di composizione e, perciò,
come espressione concreta della comunione esistente nella Chiesa
in particolare, si trova il consiglio pastorale, che rappresenta nel
fondo una concrezione istituzionale particolare del sinodo diocesano, a
un tempo più stabile («deve essere convocato almeno una volta al
anno», afferma il c. 514 § 2) e dotato di maggiore agilità dal punto
di vista missionaria o dell'efficacia pastorale immediata76. Più espressivo
del elemento gerarchico della communio Ecclesiae, è, tuttavia, il
recuperato consiglio presbiterale, già in uso nei primi tempi di
la storia della Chiesa e valorizzata ora per la collocazione del
presbiterio–la cui testa è il vescovo–nel cuore stesso del
struttura costituzionale della Chiesa particolare. Effettivamente, in
virtù dell'unità fondamentale del sacramento dell'ordine,
gestito a gradi diversi, il consiglio presbiterale è, per il suo
propria natura, «una forma di manifestazione istituzionalizzata di
la fraternità esistente tra i sacerdoti" e, come tale, è al
"servizio dell'unica e medesima missione della Chiesa" 77

Il diverso valore ecclesiologico dei due principali consigli


diocesani, a cui qui abbiamo fatto solo un breve accenno, non permette
metterli come alternativa o opporli in modo competitivo.
Troviamo una chiara conferma di ciò che diciamo, in primo
luogo, nel fatto che, in

74. Coincidono in questo giudizio: F. Coccopalmerio, Il sinodo


Raccolta di scritti in (more di P. Fedele, ed. por G.
Barberini, vol. I, Perugia 1984, 406-416 e in particolare p. 408, così
comoP. Valdrini, Le comunità gerarchiche e il loro
Diritto canonico
187. A differenza di quanto accade con il concilio particolare (cc. 439-
446), i decreti di un sinodo diocesano, quando sono approvati da
il vescovo, non hanno bisogno, per la loro definitiva obbligatorietà, di
nessunarecognitioulterior e sono comunicati alla Conferenza
episcopale solo a titolo informativo e per favorire la crescita
della comunione (c. 467); cfr. il commento ai cc. 466-468
Codice di diritto canonico. Edizione bilingue commentata, ed. per P.
Lombardia-J. Arrieta. Roma 1986, 366.
75.EV. vol. IV, 1411.
76.Cfr. AG 30 e il commento di F.Coccopalmerio, 11 sinodo
diocesano, o.c.,416.
77.Sinodo dei Vescovi, Ultimis temporibus (30.X1.1971), in: EV, vol.
4, nn. 1226-1227.

il piano delle sue finalità pastorali, il legislatore ecclesiastico non ha


riuscito a stabilire in modo preciso una clara differenziazione delle
rispettive competenze di ciascuno, come si può dedurre con
facilità del confronto tra il c. 495 § 1 e il c. 511. In secondo
luogo, entrambi i consigli godono per principio di voto consultivo e persino
nei sette casi in cui il vescovo, prima di prendere una decisione, è
obbligato per diritto (cc. 500 e 502) a consultare il consiglio
presbiterale, non si coglie facilmente il motivo ecclesiologico urgente
per cui i fedeli laici devono essere esclusi da questa consultazione78.En
conseguenza, è necessario riconoscere che entrambi i consigli sono di
natura consultiva e, nel campo pastorale, sia la decisione
definitiva come la responsabilità ultima della stessa continuano ad essere
esclusivamente del vescovo a cui è stata affidata quella determinata
Chiesa particolare. Diverso è, invece, il tipo di approccio del
oggetto in questione a partire dalla diversa vocazione ecclesiale specifica
della maggioranza dei membri dei due consigli, così come di
differente relazione pastorale con la Parola e il Sacramento che
determinano le due forme concrete del sacerdozio cristiano.

Nella logica della comunione ecclesiale, queste differenze sono in una


relazione di interazione e di integrazione reciproca. Per questa ragione,
entrambi gli organi di governo non possono lavorare in modo efficace a
livello pastorale se non sono in costante e stretta collaborazione; più
ancora, dal punto di vista istituzionale, è possibile una
incorporazione del consiglio presbiterale al consiglio pastorale79Tal
la stretta collaborazione non è solo ecclesiologicamente ineccepibile,
necessaria per superare qualsiasi tentazione di clericalizzazione della
pastorale diocesana.

d) Collegio dei consultori e capitolo cattedrale

Il legislatore ecclesiastico del 1983, facendosi propria l'invito conciliare


de CD 27 al consiglio presbiterale, pone al suo fianco un nuovo organo
consultivo: il collegio dei consulenti, i cui membri sono liberamente
elegiti e nominati dal vescovo diocesano "tra i membri
del consiglio presbiterale» (c. 502 § 1). Questo collegio ha voto consultivo
per quanto riguarda la nomina e la rimozione dell'economo di
diocesi (c. 494) e nei più importanti atti dell'amministrazione
economica della stessa (c. 1277),

78.Su tutta la questione, cfr. H. Schmitz, Gli organi di consultazione del


Diozesansbischofs, en: HdbKathKR, 352-364, soprattutto p. 362.
79.Cfr.R. Puzza, Responsabilità condivisa nella Chiesa, in: Dizionario degli Stati,
o.c.,1188-1192, soprattutto p. 1191.

ma il suo ruolo diventa decisivo sia nel periodo di sede vacante,


periodo in cui deve governare la Chiesa particolare fino alla
costituzione dell'amministratore diocesano (c. 419), come nel
procedura per la nomina del nuovo vescovo (c. 377 § 3).

Data l'importanza che ha avuto storicamente in Europa il cabildo


catedralicio, «la conferenza episcopale può stabilire che 1as
le funzioni del collegio di consulenti sono affidate al capitolo
catedralicio» (c. 502 § 3). Quest'ultimo, in confronto con gli altri
organi consultivi diocesani, gode di una maggiore autonomia,
perché non è presieduto dal vescovo diocesano, ma da uno dei suoi
membri (c. 507 § 1). Tuttavia, ciò non significa necessariamente che
questa antica istituzione canonica sia esportabile, così com'è (cc.
503-510), alle nuove Chiese particolari, soprattutto per quanto riguarda
rispetta il ruolo da lei svolto nella scelta del nuovo vescovo
diocesano. In effetti, sebbene sia affermato chiaramente nel c. 377 § 1
che "la nomina libera pontificia" e "la conferma pontificia"
rappresentano due modi diversi, anche se equivalenti, di procedere a
la scelta dei vescovi nella Chiesa cattolica di tradizione latina80, il
modello rappresentato in questo campo dal capitolo cattedrale è
insufficienti dal punto di vista ecclesiologico almeno per due
motivi. Inizialmente, le forme giuridiche, in cui fino ad ora si
ha incarnato, non garantiscono la piena libertà della Chiesa cattolica
rispetto allo Stato, specialmente nei luoghi dove i membri
del cabildo sono nominati da autorità statali81, ciò che porta
frequentemente a creare conflitti nell'interpretazione delle diverse
norme concordatarie82. In secondo luogo, nei luoghi in cui
esiste, il capitolo della cattedrale non è più, tanto dal punto di vista
giuridico come da quello pastorale, un organo espressivo di
corresponsabilità del clero diocesano e tanto meno di tutti i
fedeli laici di una Chiesa particolare83.Così, nella ricerca di
nuovi modelli istituzionali, come ad esempio quello di un sinodo
elettorale per ogni Chiesa

80.Coinciden in questa interpretazione:R. Potz,Bischofsernennungen.


Stazioni che hanno portato all'attuale stato: Alla questione della
Nomine episcopali nella Chiesa cattolica romana, ed. da G.
Greshake, Monaco-Zurigo 1991, 17-50, qui 22; H. Müller, Aspetti
del Codex Iuris Canonici 1983, it: Rivista per il protestantesimo
Kirchenrecht 29 (1984), 527-546, qui 534.
81.Cfr.H. Maritz, Il diritto di voto per i vescovi in Svizzera, St. Ottilien 1977
47-49; P. Leisching, Chiesa e Stato negli ordinamenti giuridici
Europas. Un'overview, Freiburg i. Br. 1973, 83.
82. Tipico in questo senso è il caso di Coira; cfr. H. Maritz, Considerazioni
al diritto di voto del vescovo di Coira, Fides et ius, Festschrift per G.
Maggio, a cura di W. Aymans-A. Egler-J. Listl, Regensburg 1991, 491-505.
83.Cfr. CD 27, 2 e PO 7.

particolare84, sarà preciso tenere presente quanto segue. La scelta di


i vescovi è un processo costituito da un doppio movimento: il
innanzitutto trova il suo apice nella designatio personae (la designazione
della persona a cui dovrebbe essere conferito il ministero episcopale); il
secondo trova il suo apice nella collatio officii (la colazione dell'ufficio)
ecclesiastico alla persona designata). Il primo movimento è di
natura eminentemente elettiva e risponde, perciò, al principio di
la corresponsabilità e poi quella della sinodalità85Il secondo
movimento, tuttavia, è di natura eminentemente
confermata, ordinato a realizzare la comunione plena con il
Papa e gli altri membri del Collegio episcopale. In questo senso
risponde, soprattutto, all'inizio della sinodalità nel suo
indispensabile unità con il ministero primaziale del successore di
Pedro86Sia il primo movimento che il secondo concorrono
efficacemente nel raggiungimento dello stesso obiettivo, nella misura in cui
rimangono strutturalmente aperti all'azione dello Spirito
Santo87Ciò significa che, nella scelta di un vescovo, né il Papa né la
Le chiese particolari interessate possono essere messe di fronte al fatto
consumato o ante la scelta obbligata, ma – per differire l'uno dal
altro–modalità di procedere88deve garantire a entrambi i soggetti un
margine reale di Libera scelta.

e) Curia diocesana e organi rappresentativi del vescovo

Secondo l'insegnamento del Concilio Vaticano II, la curia diocesana (cc.


469-494) «deve organizzarsi in modo da risultare uno strumento
adeguato per il vescovo, non solo in ordine all'amministrazione della
diocesi, ma anche per l'esercizio delle opere di apostolato
(CD 27, 4). Il campo di azione della Curia diocesana si è ampliato
così tanto, perché collabora «nella direzione dell'attività pastorale, in
l'amministrazione della

84.I modelli più convincenti sono quelli elaborati da questa


prospettiva per: E.Corecco, Note sulla Chiesa particolare e sulle
strutture della diocesi di Lugano, en: Civitas 24 (1968/69), 616-635 y
730-743; H. Schmitz, Plädoyer per la scelta dei vescovi e dei parroci.
Considerazioni giuridiche ecclesiastiche sulla loro possibilità e
Ausformung,en: Trierer Theologisches Zeitschrift 79 (1970), 230-249.
85.Cfr.H.Müller,Il contributo dei laici nell'elezione del vescovo,Amsterdam
1977, 242;P. Krämer, Bischofswahl oggi - nella diocesi di Treviri, en: Tthz
89 (1980), 243-247, qui 243.
86.Cfr. A.Carrasco Rouco, Il primato dell'vescovo di Roma. Studio su la
coerenza ecclesiologica e canonica del primal di
giurisdizione, Friburgo 1990, 211-220.
87. È la conclusione del commento al quadro biblico della scelta del
apostolo Mattia (Atti degli Apostoli 1, 15-26) di:J.
Ratzinger
1992, 24.
88. Per un'analisi dettagliata di tutti questi diversi procedimenti,
cfr. L.Gerosa, La nomina dei vescovi in ecumenico e
dal punto di vista del diritto canonico, Catholica 46 (1992), 70-86.

diocesi, così come nell'esercizio della potestà giudiziaria» (c. 469). Per
questa ragione introduce nel CIC la nuova figura del «moderatore di
curia», a chi «spetta coordinare, sotto l'autorità del vescovo, i
lavori che si riferiscono alla trattazione degli affari
amministrativi, e occuparsi altresì che il personale della curia
cumpla debidamente su propio oficio» (c. 473 § 2). Si no existen
ragioni particolari per nominare un altro presbitero per questo
importante ufficio, questo deve essere assunto dal vicario generale o da
cancelliere89Mentre che la nomina del moderatore della curia
è facoltativo, quello del vicario generale è obbligatorio (c. 475), dato che
quest'ultimo, non è solo il primo e il più importante collaboratore del
vescovo, ma è anche investito di un potere ordinario
vicaria (c. 131 § 2). Deve essere sacerdote (c. 478 § 1) e dipende
totalmente del vescovo, nel senso che a quest'ultimo spetta
liberamente sul suo nominamento e rimozione (c. 477 § 1) e l'ufficio di
Il vicario generale cessa quando la diocesi diventa sede vacante
(cc. 417 e 418 § 2).

Ogni vescovo diocesano deve nominare un vicario giudiziale o un ufficiale con


potestad ordinaria di giudicare, distinta dal vicario generale (c. 1420 § 1).
Il vicario giudiziario è altresì investito di potere ordinario vicariale,
ma la sua autonomia rispetto al vescovo diocesano è maggiore e la sua
il carico non cessa quando la sede è vacante (c. 1420 § 5). Per la
l'amministrazione dei beni della diocesi deve nominare il vescovo un
ecónomo diocesano, «che sia veramente esperto in materia
economica e di famosa onestà" (c. 494 § 1). Per coordinare la
attività pastorale diocesana e supraparrocchiale nomina il vescovo
diocesano, per un periodo determinato, arcipreti, chiamati
anche vicari foranei, decani e in altri modi (cc. 553-555),
il cui ufficio non è legato a quello di parroco di una determinata parrocchia,
e può essere regolato da uno statuto giuridico o da un direttorio elaborato
dal consiglio presbiterale90.

f) Parrocchia e parroco

Sebbene i concetti di parroco e parrocchia non siano stati definiti


direttamente dai Padri conciliari, i principali contenuti di
la sua definizione è facilmente deducibile dai seguenti tre testi
conciliares: il n. 42 di

89.In alcune curie il ruolo di moderatore è stato affidato da tempo a


tempo a un segretario generale, cfr. AAS 69 (1977), 5-18.
90.Su lo statuto generale degli arcipresbiteri, vicari stranei o
decanos, cfr. J. Díaz, Vicario foraneo, in: NDDC, 1121-1128; per un
studio più dettagliato degli organi della Curia diocesana, cfr.H.
Müller, La Curia Diocesana, en: HdbKathKR, 364-376.

la Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla liturgia, dove si


considera la parrocchia come un coetus fidelium con un luogo
preminente tra le diverse comunità che deve costituire un
vescovo nella sua diocesi; il n. 30 del Decreto Christus Dominus sul
l'ufficio pastorale dei vescovi nella Chiesa, dove la parrocchia è
considerata come la determinata pars dioecesis confiata a un
parroco, come uno dei principali collaboratori del vescovo; e, per
ultimo, il n. 10 del Decreto Apostolicam actuositatem su
apostolato dei laici, dove si dice di essa che è un exemplum
il principale apostolato comunitario. L'applicazione simultanea e
convergente dei tre principi ecclesiologici, sottostanti in
questi testi conciliari91, consente di sottolineare nella nozione conciliaria di
parrocchia i tre seguenti elementi costitutivi: la comunità di
i fedeli, la guida di un presbitero e la relazione di appartenenza a una
Chiesa particolare attraverso l'obbedienza di quest'ultimo alla
l'autorità del suo vescovo. Questi tre elementi costitutivi fanno di
parrocchia un soggetto unitario di missione, individuato e circoscritto come
comunità ecclesiale particolare per un quarto elemento non costitutivo,
sino esclusivamente determinativo: il territorio su cui si trova
stabilita questa congregazione dei fedeli.

Nella visione ecclesiologica descritta poco fa, il posizionamento


la costituzionale della parrocchia è stata, evidentemente, relativizzata, in
quanto che questa è solo una delle possibili forme giuridiche di
differenti comunità eucaristiche di una Chiesa particolare.
Una simile relativizzazione della parrocchia è una precisazione obbligatoria di
tipo canonistico–imposta, nonostante, dalla ecclesiologia conciliare
de lacommunio–de la necessità di tipo pastorale, sottolineata già molto tempo fa
molti anni per Karl Rahner, di limitare il rigore del così
chiamato Pfarrprinzip del vecchio Codice con una giusta considerazione
92
allo stesso modo del principi di Stato e del principio dei gruppi liberi Questa precisione
restituisce anche una risposta giuridica più adeguata alla
evoluzione socio-logica della parrocchia, che può costituire,
certamente, ancora la forma eclesiale di un'unità di vita socio-
culturale, anche se questa, normalmente, non coincide già con l'unità
territoriale93.

91.Cfr. LG 28, 2; SC 42, 2; AA 10, 2 e il suo commento in:L.


Gerosa, Diritto ecclesiale e pastorale, 114-115.
92.Cfr.K. Rahner,Riflessioni pacifiche sul principio
parroquial, en: Scritti di teologia, vol. II, Madrid 1961, 295-336.
93. Per un'analisi dell'evoluzione sociologica della parrocchia territoriale,
cfr. N.Greinacher, Sociologia della parrocchia, in: AA.VV. La Chiesa
locale, diocesi e parrocchia sotto inchiesta, Brescia 1973, 133-166 y
in particolare 133-139.

L'insegnamento conciliare sulla parrocchia e sul parroco, qui


brevemente riassunta, è stata ricevuta in gran parte dal CIC. In
effetto, il primo paragrafo del c. 515 dice: «La parrocchia è una
determinata comunità di fedeli costituita in modo stabile nella
Chiesa particolare, la cui cura pastorale, sotto l'autorità del vescovo
diocesano, se encomienda a un parroco, come il suo pastore proprio». Tre
sono gli elementi costitutivi di maggiore rilievo del concetto giuridico
de parrocchia qui espresso: la communitas christifidelium, la Ecclesia
particolari in cui si trova stabilmente costituita questa
comunità concreta e, infine, il parroco come supastor proprius.

Le caratteristiche specifiche del primo elemento–quello della


comunità dei fedeli - sono state messe in evidenza nei cc. 516 § 2 e
518. Il c. 516 § 2 manifesta come la parrocchia sia solo una delle
possibili forme di organizzazione della pastorale diocesana. Si dà qui
una chiara ricezione, da parte del legislatore ecclesiastico, del già
relativizzazione costituzionale della parrocchia, attuata
per il concilio Vaticano II e confermata dal Direttorio pastorale dei
vescovi, in cui è stato raccolto anche un elenco indicativo dei
diverse forme organizzative della pastorale diocesana94. Tuttavia,
lo stesso legislatore ecclesiastico attribuisce valore alla parrocchia sotto un altro
punto di vista: questa rappresenta, rispetto alle altre forme di
comunità eucaristiche, la forma giuridica di aggregazione
fideliumnacida precisamente della specifica forza congregante di
l'Eucaristia, celebrata in un determinato luogo e in un determinato
ambiente socio-culturale. In questo senso, la parrocchia è una
comunità eucaristica di tipo istituzionale. L'espressione stabiliter
la costituzione del c. 515 § 1 non dovrebbe essere interpretata solo come
accentuazione della stabilità della parrocchia rispetto al carattere
provvisoria della cuasiparrocchia definita nel c. 516 § 1, ma più
bene come indicazione della specificità giuridica della parrocchia: questa
è la forma istituzionale, fissa e gerarchica, delle comunità
eucaristiche di una Chiesa particolare e, per questo, diverse dalle
forme giuridiche, variabili e di origine carismatica, delle
comunità eucaristiche conosciute con il nome di associazioni o
movimenti ecclesiali. Mentre nella prima forma prevale la
forza congregante del sacramento–l'Eucaristia celebrata in un
luogo determinato o in un ambiente determinato - nella seconda
forma prevale la forza congregante del carisma originario95. Il c.
518

94.Cfr. EV, Vol 4, 1423-1425.


95. Questa interpretazione corrisponde non solo all'evoluzione semantica del
términoparoikia, ma anche allo sviluppo storico di questa istituzione
canonica; cfr. A. Longhitano, La parrocchia fra storia, teologia e
diritto,en: AA.VV.,La parrocchia e le sue strutture,Bologna 1987, 5-
27.

precisa, inoltre, che la parrocchia, pur essendo delimitata


regolarmente con il criterio territoriale, può essere fissata anche con
il criterio personale. Le ragioni affinché una comunità di fedeli
può essere costituita come parrocchia personale possono essere il rito, la
lingua, la nazionalità. Il c. 518 non le indica in modo tassativo,
dato che, come insegna il n. 174 del citato Direttorio pastorale dei
vescovi, si può costituire una parrocchia con il criterio personale (e non
territoriale) incluso considerando come base l'omosessualità sociologica
di quelli che ne fanno parte (ex unitate quadam sociali membrorum
suorum)o per essere richiesto oggettivamente per il bene delle anime.

Il secondo elemento costitutivo della nozione di parrocchia che


presenta il Codice, cioè il fatto che sia una parcella e non una
entità autonoma della Chiesa particolare, è meglio precisato nel
aspetto ecclesiologico secondo il c. 529 § 2, che fissa normativamente la
obbligo del parroco di collaborare con il proprio Vescovo e con
diocesi presbitero, affinché tutti i fedeli si sentano
membri della Chiesa e siano aiutati a vivere secondo il principio di
lacommunio, reclamato dal c. 209 § 1 come obbligo al quale
ogni fedele è sempre soggetto.
Il principio della comunione informa altresì il modo in cui la menta.
il legislatore concepisce la funzione del terzo elemento costitutivo della
noción di parrocchia del Codice: il parroco, come suo pastore peculiare.
In effetti, il nuovo Codice non prevede solo, nel c. 517, la possibilità
che la cura pastorale di una o più parrocchie sia affidata
soliduma vari sacerdoti, bensì, riprendendo il n. 30 del Decreto
conciliarChristus Dominus, attribuisce un contenuto eclesiologicamente
più ricca la figura del parroco confrontata con quella asettica e formale del
antico c. 451. Tanto il c. 519, che parla del triplo munus del parroco,
come il c. 528, che precisa i contenuti della funzione educativa e
santificatrice, presentano i diversi aspetti della funzione del
parroco come peculiarità costitutive della communitas
christifideliumque è la parrocchia. Quest'ultima appare così come la
istituzionalizzazione concreta della comunità di fede generata da
annuncio della Parola di Dio e per la celebrazione comune della
eucaristia, presieduta dal parroco in qualità di pastore che fa le
volte di vescovo.

La valorizzazione dell'elemento comunitario della parrocchia, realizzata a


cabo per il concilio Vaticano II, è stata concretizzata dal legislatore
ecclesiastico del 1983 che riconosce la comunità dei fedeli che forma
la parroquia ipso iure personalità giuridica (c. 515 § 3). Meglio ancora,
più avanti manifesta l'elemento ecclesiologico fondamentale che
è all'origine stessa di questa istituzione ecclesiale, cioè la
assemblea eucaristica, che costituisce il vero centro
congregazione dei fedeli parrocchiali (c. 528 § 2). La parrocchia, per
tanto, non è solo per questo una comunità di fedeli, organizzata
gerarchicamente attorno al suo parroco come quellaparte della porta
Populi Deique è la Chiesa particolare, poiché lo stesso parroco è suo
pastore solo in quanto presiede l'assemblea eucaristica al posto del
vescovo e, come tale, deve moderare (c. 528 § 2) la partecipazione attiva di
tutti i fedeli nella liturgia.

21.3 Gli organi istituzionali delle riunificazioni di


Chiese particolari

«Sin dai primi secoli della Chiesa, i vescovi che presiedevano le


Iglesias particolari, animate dalla comunione di carità fraterna e
per lo zelo della missione universale affidata agli Apostoli, unirono
le loro forze e volontà per promuovere il bene comune e delle
Iglesie particolari. Per questo si organizarono i sinodi, i concili.
provinciali e, infine, i concili plenari. In essi i Vescovi
decisero di adottare una norma comune che doveva essere rispettata nelle
diverse chiese sia nell'insegnamento delle verità della fede
come nell'ordinamento della disciplina ecclesiastica» (CD 36, 1).
Consapevoli della ricchezza di questa tradizione sinodale supradiocesana,
i Padri del concilio Vaticano II desiderano che «acquisisca nuovo vigore»
(CD 36,2), perché «I vescovi, come legittimi successori dei
Gli Apostoli e i membri del Collegio episcopale devono sempre sentirsi
uniti tra loro e mostrarsi solleciti per tutte le Chiese, poiché, per
istituzione divina e per imperativo dell'ufficio apostolico, ciascuno,
insieme agli altri vescovi, è responsabile della Chiesa» (CD 6,
1).

La sostanza di questo insegnamento conciliare è stata ricevuta nei cc.


431-459 del CIC. In effetti, in essi, nonostante adottare un ordine
sistematico un tanto precario 96, le riorganizzazioni o famiglie di
Le chiese particolari e i rispettivi organi di governo non sono
considerati ormai, semplicemente, come istituzioni messe al servizio
dell'autorità ecclesiastica suprema, ma come espressioni
istituzionali della communio Ecclesiarum, cioè, della relazione
collegialità tra i vescovi e della relazione di comunione tra le
diverse Chiese particolari.

96. Questo giudizio è confermato sia da quanto già segnalato


incertezze del legislatore (cfr. sopra, nota 18), come per un
attento analisi delle norme citate, cfr. P. Krämer, Diritto ecclesiastico, II,
o.c., 130-147 e O.Stoffelen: MK, can. 431/4.

a) Provincia ecclesiastica, metropolitano e concilio provinciale

Tra le diverse riunificazioni di Chiese particolari che, per


provvidenza divina (LG 23, 4), si sono costituite nel corso dei
secoli, corrisponde un'importanza particolare alle antiche Chiese
patriarcali o metropolitane e alle loro province ecclesiastiche, le
hanno una disciplina propria, riti liturgici propri e un
patrimonio teologico e spirituale» (LG 23, 4). L'importanza pastorale
della provincia ecclesiastica, formata dalle Chiese particolari più
prossime di un determinato territorio (c. 431 § 1), è stata sottolineata
dal legislatore ecclesiastico in modo doppio: prima,
dichiarando che, come norma generale, non ci saranno più diocesi
esenti (c. 431 § 2); in secondo luogo, statuendo che «la provincia
«eclesiastica ha, di diritto proprio, personalità giuridica» (c. 432 §
I suoi organi di governo sono il metropolitano e il concilio
provinciale (c. 432 § 1).

L'ufficio di metropolitano è legato a una sede episcopale determinata


(c. 435) e consiste in una certa vigilanza affinché si conservino
diligentemente la fede e la disciplina ecclesiastica nelle relazioni tra
le diocesi suffraganee (c. 436 § 1). Il concilio provinciale, invece,
«ha il potere di regime, soprattutto legislativo» (c. 445), su
tutte «le diverse Chiese particolari di una stessa provincia» (c.
440 § 1). Si celebra "quante volte sembri opportuno al maggior
parte dei vescovi diocesani della provincia» (c. 440 § 1). No
può essere convocato quando la sede metropolitana è vacante (c.
440 § 2).

In futuro, per una piena rivalutazione del mestiere di metropolitano


e del ruolo pastorale della provincia ecclesiastica—istituzione canonica
in cui l'elemento personale e il sinodale dell'esercizio della sacra
potessero integrarsi reciprocamente in modo armonico—, potrebbe
assumere una notevole importanza il c. 436 § 2, che dice: «Quando lo
requieran le circostanze, il metropolitano può ricevere dalla Santa
Sede incarichi e potere peculiari, che determinerà il diritto
particolare». A partire da questa norma si potrebbero trovare,
effettivamente, nuove soluzioni istituzionali sia ai
problemi pastorali sollevati dalla megadiocesi, che dovrebbero
essere trasformate in province ecclesiastiche al fine di evitare, per
esempio, che la figura del vescovo diocesano rimanga offuscata da una
plethora di vescovi ausiliari, come quelli proposti dal caso non
meno anomalo di riunioni di diocesi tutte esenti97.

97. In Svizzera, ad esempio, non esiste alcuna provincia ecclesiastica e


le diocesi sono tutte esenti, cfr. O. Stoffelen: MK, can. 431/5.

b) Regione ecclesiastica, concilio plenari e conferenza episcopale

Insieme con la antica istituzione della provincia ecclesiastica, il concilio


Il Vaticano II introduce una nuova figura giuridica, affermando in CD 40, 3
che «dove la utilità lo consigli, le province ecclesiastiche si
uniranno in regioni ecclesiastiche, la cui ordinazione deve essere determinata
giuridicamente98Il consiglio è stato ricevuto dal legislatore
ecclesiastico del 1983 nel c. 433 § 1, che prevede, in modo non
obbligatoria, la possibilità di raggruppare le province ecclesiastiche più
cercane nelle regioni ecclesiastiche. Queste ultime, a differenza delle
province, non hanno ipso iure personalità giuridica, anche se possono
acquisirla (c. 433 § 2). Nonostante corrisponda alla conferenza
episcopale di un determinato paese e territorio proporre alla Santa Sede
l'erezione di una regione ecclesiastica, quest'ultima - per lo meno in
la normativa del Codice in vigore—non costituisce il contesto ecclesiale
della conferenza episcopale99. Questo dato normativo, suggerito da
desiderio di evitare la possibilità che i diversi nazionalismi
influenza sulle conferenze episcopali100,debilita, da una parte, la
figura giuridica di quest'ultime e, dall'altra, apre la strada ad altre
anomalie istituzionali101. Certamente, la regione ecclesiastica, tale
come è normativamente progettato nel CIC, non è presieduto da
na-die e l'assemblea dei suoi vescovi non ha altre potestà che le
che le sono concesse in modo speciale dalla Santa Sede (c. 434).
Dal punto di vista ecclesiologico, e soprattutto pratico-pastorale, non
si vede, tuttavia, la differenza tra questa assemblea di vescovi di
una stessa regione e la conferenza episcopale 102.

L'atteggiamento contraddittorio del legislatore ecclesiastico di fronte al nuovo


La figura giuridica della regione ecclesiastica risulta più evidente quando si
pensa che per concilio plenário si debba intendere il concilio particolare
che riunisce tutte

98.Cfr. anche CD 41 e 24, così come il n. 42 della prima parte del


MPEcclesiae sanctae (en: AAS 58, 1966, 774-775).
99.Lo era ancora, tuttavia, negli schemi preparatori, cfr.Schema
Pop. Dei,cc. 185, 187 e 199; SchemaCIC/1980, c. 308; Schema
CIC/1982, c. 443 e il commento di P. Krämer, Kirchenrecht, 11, o.c.,
133-134.
100. Cfr. Communicationes 12 (1980), 246-254; 14 (1982), 187-188;
17 (1985), 97-98; 18 (1986), 103 e il commento di O. Stoffel, in: MK,
can. 433/1.
101. In Italia, ad esempio, non solo il concetto di regione ecclesiastica
utilizzato nello Statuto della Conferenza Episcopale Italiana all'art. 47
non corrisponde pienamente alla nozione del Codice, ma c'è
fino a 4 regioni ecclesiastiche (Veneto, Lombardia, Liguria e Lazio)
che coincidono con una provincia ecclesiastica; cfr.
G.Ghirlanda, Regione ecclesiastica, en: NDDC, 897-898, qui 898.
102. A proposito di questo punto, cfr. J. Listl, Plenarkonzil e
Bischofskonferenz, it: HdbKathKR, 304-324, qui 306.

le Chiese particolari della stessa conferenza episcopale. Ancora di più,


deve celebrarsi ogni volta che le sembra necessario o utile
conferenza episcopale, con l'approvazione della Santa Sede103.Sebbene
quest'ultima precisazione mostra che il concilio plenari è più legato
alla Santa Sede che il concilio provinciale, tuttavia il suo
La convocazione e la preparazione sono effettuate dalla conferenza episcopale. La
quale sostituisce di fatto il concilio plenario nell'organizzazione pratica
dalla pastorale di un'aggregazione di Chiese particolari.

La conferenza episcopale, come istituzione canonica propria e


vera, è un frutto conciliare. Già prima del concilio Vaticano II,
esistevano un po' ovunque conferenze episcopali, e in
alcuni paesi europei, anche dal XIX secolo. Comunque,
il CIC/1917 non aveva fissato norme generali per la sua costituzione né
sulle loro finalità, anche se nei cc. 254 § 4 e 292 § 1 si faceva riferimento a
assemblee episcopali. Le prime norme di diritto universale
sulle conferenze episcopali si trovano nel MPEcclesiae
santo Paolo VI104dopo che il Concilio Vaticano II avesse
affermazione esplicita: 1) «è davvero conveniente che in tutta la
i vescovi della stessa nazione o regione si riuniscano in assemblea
"unica" (CD 37); 2) "La conferenza episcopale è come un'assemblea
in cui i vescovi di una nazione o di un territorio esercitano congiuntamente
su incarico pastorale per promuovere il maggiore bene che la Chiesa procura a
«Gli uomini» (CD 38, 1); 3) «Le decisioni della conferenza dei
vescovi, se sono stati legittimamente presi e per due terzi al mese-
nos dei voti dei prelati che appartengono alla conferenza con
voto deliberativo, e riconosciute dalla Sede Apostolica, avranno forza
di obbligare giuridicamente" (CD 38, 4). Nonostante il dibattito
dottrinale sullo statuto teologico e giuridico della nuova istituzione
105
la canonica non è stata completamente chiusa la sostanza dell'insegnamento
La conciliazione sulla conferenza episcopale è stata ricevuta nei cc.
447-459. In queste norme del Codice, in alcuni aspetti ancora
migliorabile, la conferenza episcopale appare chiaramente come una
espressione istituzionale della communio Ecclesiarum, e,

103. Per il concilio provinciale, invece, non è richiesto


normalmente tale approvazione, cfr. cc. 401 § 1 e 439 § 2.

104. Cfr. AAS 58 (1966), 692-694 e 757-785.


105. A questo riguardo, cfr. soprattutto G.Feliciani, Le Conferenze
Episcopali, Bologna 1974; F.J. Urrutia, Conferentiae Episcoporum et
munus docendi, Periodica 76 (1987), 573-667; Natura e futuro
delle conferenze episcopali. Atti del Colloquio di Salamanca(3-8
gennaio 1988), ed. da H. Legrand-J. Manzanares-A. García y García,
Bologna 1988.

più concretamente, della dimensione sinodale della sacra potestas di ciascuno


vescovo105In effetti, il legislatore ecclesiastico cerca di evitare
cuidadosamente tanto il pericolo di un esercizio individualista di
la sacra potestas da parte di ogni vescovo particolare, il che eliminerebbe
su intrínseca sinodalità, come il pericolo opposto che la
la conferenza episcopale assuma tante e tali competenze che svuoterà
di contenuto l'elemento personale della medesima sacra potestas, che
ogni vescovo particolare deve esercitare prima di tutto nel suo
diocesi107Per evitare il primo pericolo si fissano nel c. 381 § 1 due
limiti alla sacra potestas del vescovo diocesano: da una parte – ex iure
divino–l'autorità del Papa; per l'altra–ex iure humano e in virtù del
principio della comunione – quella delle autorità ecclesiastiche, ossia di
la conferenza episcopale in primo luogo. Per evitare il secondo
pericolo, il c. 447 parla esplicitamente di «alcune funzioni
pastorali». Di conseguenza, «la conferenza episcopale può dare
decreti generali solo nei casi in cui ciò sia prescritto dal
diritto comune o quando così stabilito da un mandato speciale di
Sede Apostolica» (c. 455 § 1). Tali decreti, per acquisire forza di
la legge deve essere inoltre esaminata dalla Santa Sede (c. 455 § 2). Al
parlare di derecognitio, e non di deapprobatiocentootto, il legislatore ecclesiastico
sottolinea indirettamente che si tratta di decisioni e disposizioni
la cui responsabilità compete pienamente alla conferenza episcopale.
Ma nemmeno con l'approvazione della Santa Sede abbiamo la
costituzione di un vero e proprio particolare, perché né a la
regione ecclesiastica né a nessun'altra forma di raggruppamento di Chiese
particolari si può applicare il principio conciliatorio delin quibus et ex
quibus(LG 23, 1). Le conferenze episcopali non sono istanze
intermedie, poiché tra la dimensione particolare e quella universale di
unica Chiesa di Cristo non si dà mezzo109. Anche queste, come i
concilios particolari e i metropolitani sono, tuttavia, una
espressione istituzionale–anche se diversa nella forma–dell'elemento
sinodale costitutivo della sacra potestà episcopale.

106. Cfr. W.Aymans, Comprensione dell'essenza e responsabilità dei


Conferenza Episcopale nel CIC del 1983, en: AfkKR 152 (1983), 46-61
qui 46-48.
107. Questo processo è stato ampiamente documentato da P.
Krämer, Diritto Canonico, II, o.c., 130-147; su questo tema, cfr.
allo stesso modo J. Ratzinger, Natura e compito della teologia, Milano 1993
77-81.
108. Questa ultima è richiesta, invece, ad esempio, nel c. 242 §
1, per l'introduzione di una Ratio institutionis sacerdotalis, e per il
c. 1246 § 2, per l'abolizione o il trasferimento di un giorno di precetto.
109. E. Corecco, lus universale-lus particulare, o.c.,571.

22. Brevi considerazioni conclusive

Le norme del Codice che regolano l'esercizio del potere di


governo, che, nella Chiesa, non è mai completamente separabile da
potestà giudiziaria ed esecutiva, incarnano solo in parte il principio
teologico della reciproca immanenza tra l'elemento personale e
sinodale della sacra potestas. A questo livello sono diversi gli organi
istituzionali che devono essere ripensati nella loro natura e
reestrutturati nella loro configurazione giuridica. Questo lavoro non può
prescindere di due principi fondamentali.

In primo luogo, la natura e lo scopo di questi organi possono


essere catturati nella loro essenza solo all'interno di una concezione del
Diritto canonico come struttura intrinsecamente della communio
Ecclesiae et Ecclesiarumy, per conseguente, nei loro molteplici legami
con la dimensione giuridica della Parola di Dio, del Sacramento e del
Carisma, come elementi primari di costituzione della Chiesa.

In secondo luogo, la possibile riforma della sua configurazione giuridica


trova il proprio modello-guida naturale nell'idea
deablatio, applicata da Miguel Ángel all'opera dell'artista e da san
Buenaventura all'antropologia. Solo in questo modo la riforma
oablatiode gli organi istituzionali della Chiesa si trasforma nella
possibilità di una nuova aggregazione, perché—come afferma
propriamente il Cardinale Josef Ratzinger—110«la Chiesa sempre
avrà bisogno di nuove strutture umane di supporto, per
poter parlare e agire in qualsiasi epoca storica. Tali istituzioni
ecclesiastiche, con le loro configurazioni giuridiche, lontano dall'essere qualcosa
malo, figlio, al contrario, in certo grado, semplicemente necessarie e
indispensabili. Ma invecchiano, corrono il rischio di presentarsi come
lo più essenziale, e distolgono così lo sguardo da ciò che è veramente
essenziali. Per questo devono essere cambiate costantemente, come
strutture che sono diventate superflue. La riforma è sempre
nuovamente una ablatio: una soppressione, affinché diventi visibile
forma lanobilis, il volto della Sposa e insieme a lui anche il volto
del Sposo stesso, il Signore vivente.

110.Una compagnia in cammino. La Chiesa e il suo ininterrotto


rinnovamento,en: Communio 114 (1990), 91-105, qui 96.

BIBLIOGRAFIA

Aymans, W, Il servizio di conduzione del vescovo in relazione a


Teilkirche,en: AfkKR 153 (1984), 25-55.

Corecco, E., Chiesa particolare e Chiesa universale nel solco di


dottrina del Concilio Vaticano II, in: Chiesa universale e Chiese
particolari (IX Simposio internazionale di Teologia), Pamplona 1989,
81-99.

Gerosa, L., Fondamenti teologici del diritto della sinodalità in


Chiesa. Considerazioni introduttive, Diritto canonico
promovendo, Festschrift per H. Schmitz per il 65° compleanno, ed. da W.
Aymans-K. Th. Geringer, Regensburg 1994, 35-55.
Ghirlanda, G., Il diritto della Chiesa, mistero di comunione, Madrid
1992.

HdbKathKR= Manuale del diritto canonico cattolico, a cura di J.


Listl-H. Müller-H. Schmitz, Ratisbona 1983.

Krämer, P., Kirchenrecht, II. Stoccarda-Berlino-Colonia 1993.

Valdrini, P., Le comunità gerarchiche e il loro


Diritto canonico, sotto la direzione di P. Valdrini
Parigi 1989.

NOTA FINALE

Al consegnare agli editori il manoscritto di questo manuale, il mio primo


Il pensiero di gratitudine si rivolge ai miei studenti. Il loro interesse per me
maniera di concepire l'insegnamento del Diritto canonico, la sua curiosità
e il suo desiderio di comprendere come sia possibile entusiasmarsi ancora per
una disciplina teologica, apparentemente così arida e lontana dalla
l'esperienza quotidiana della fede cristiana mi ha sostenuto
costantemente, soprattutto nei momenti più faticosi del suo
redazione.

Cumplo, a continuación, con gioia, il dovere di ringraziare chi


mi hanno assistito nella realizzazione tecnica e pratica di questo progetto:
la signora Franca Malaguerra di Osogna (Canton Ticino), per aver
preparato, con grande pazienza e precisione, l'originale italiano per la
stampa; al mio assistente il signor Michael Werneke di Paderborn
(Germania), per avermi aiutato nella redazione dell'apparato critico.

Infine, ringrazio tutti coloro, in particolare i miei familiari e


al Abad Mauro Lepori di Hauterive (Francia), che in qualche modo mi
hanno aiutato e assistito con attenzione e affetto per portare a termine
quest'opera.

Libero Gerosa

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