La Trasgressione Fantastica Carta A Una Senorita en Paris Di Julio Cortazar e Buscador de Prodigios Di Jose Maria Merino 924014
La Trasgressione Fantastica Carta A Una Senorita en Paris Di Julio Cortazar e Buscador de Prodigios Di Jose Maria Merino 924014
GIULIANA ZEPPEGNO
Università degli Studi di Trento
Giuliana ZEPPEGNO, “La trasgressione fantastica: Carta a una señorita en Paris di Julio Cortázar e Buscador de
prodigios di José María Merino”, Artifara, 9 (2009) Addenda, pp. 91-107.
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Improntata a ‘diseguali storicità 1 e segnata, come vasta parte della letteratura postmo-
derna, da un’inclinazione quasi costitutiva all’ibridazione, la letteratura fantastica del Nove-
cento nondimeno annovera, tra le sue molte declinazioni 2, un gruppo di opere accomunate da
tratti fortemente innovativi rispetto alla tradizione su cui si innestano, che un preciso concorso
di cause tematiche e formali orienta a una radicale trasgressione semantica, prima che logica
ed epistemologica: le analisi che seguono, condotte su due racconti emblematici di questa
categoria, cercheranno di far luce sulle radici profonde di questa tendenza, lasciando sullo
sfondo tanto le strategie formali che la veicolano quanto le infrazioni logiche che ne
costituiscono il principale innesco, per concentrarsi sull’aspetto in senso lato semantico della
trasgressione e sugli effetti che essa esercita a livello ricettivo e interpretativo.
1 È l’idea blochiana, estesa qui alla storia della letteratura, della “non contemporaneità della storia”, secondo cui in
un dato periodo storico possono coesistere ‘tempi diversi’: in seno alla letteratura fantastica, racconti assolutamente
innovatori convivono con espressioni tradizionali, repliche tardive di forme letterarie i cui presupposti sociali e
culturali sono venuti a da tempo a mancare.
2 Entro quest’amalgama estremamente diversificato, per designare il quale molto pertinente appare la nozione di
modo proposta in tempi recenti da Remo Ceserani e ampiamente condivisa dalla critica più avveduta (Ceserani,
1983, 1996), sono riconoscibili: racconti fantastici perfettamente canonici, i quali replicano, riattivandoli magari con
tematiche nuove, ma anche pedissequamente, gli stessi dispositivi del fantastico à la Hoffmann (esempi di questo
tipo, probabilmente i più numerosi, sono rintracciabili anche in seno alla produzione degli autori più innovatori);
molti testi ‘spuri’, dalla difficile collocazione, in bilico tra modalità rappresentative contigue, quali il meraviglioso,
il surreale, il fantascientifico (lo stesso Kafka, spesso troppo sbrigativamente omologato al fantastico, è autore di
molte narrazioni di questo tipo); racconti ironici e parodici, che giocano consapevolmente con le forme più tipiche
del fantastico e del gotico; racconti al confine tra modalità finzionali e saggistiche che fanno scaturire il fantastico
dalla letteralizzazione di ipotesi filosofiche o teologiche (Borges, Bioy Casares); infine racconti fortemente
innovativi rispetto alla tradizione in cui si inseriscono.
3 Questo l’errore in cui incorre, tra gli altri, lo stesso Jaime Alazraki, che ritaglia la propria definizione di
neofantástico sulle dichiarazioni di poetica di Cortázar, assimilando abusivamente, come numerosi interpreti della
narrativa cortazariana, le prese di posizione teoriche dell’autore alla sua produzione letteraria (Cfr. Alazraki 1983,
1994).
4 Ha affermato in un’occasione: “Sapevo che non si erano ancora scritti racconti del genere in spagnolo, almeno nel
mio paese. Ne esistevano altri. C’erano i mirabili racconti di Borges. Ma io facevo un’altra cosa”. (Harss, 1968, cit.
in Cortázar, 1994a: XLVIII).
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approcci teorici più disparati 5) quanto, in alcuni casi, sul loro stesso contenuto letterale (non è
infrequente il dissenso dei critici sull’histoire in racconti deliberatamente reticenti e ambigui),
fanno luce sul carattere intrinsecamente ‘aperto’ e polisemico della narrativa cortazariana e
sull’attiva partecipazione ai processi interpretativi cui il suo destinatario − “lettore complice”
nella felice formula dell’autore − è intensamente sollecitato.
A differenza di numerosi racconti successivi, prevalentemente improntati a quello che
Rosalba Campra ha opportunamente definito un “fantastico del discorso” (Campra, 2000: 133)
e contagiati in misura crescente dalla concezione ‘figurale’ che Cortázar elaborerà a partire
dalla metà degli anni Sessanta, Carta a una señorita en Paris fa perno su una fantasticità
semantica ampiamente riconducibile alla celebre formula di Roger Caillois (“Il fantastico
manifesta uno scandalo, una lacerazione, un’irruzione insolita, quasi insopportabile nel
mondo della realtà […] è dunque rottura dell’ordine riconosciuto, irruzione dell’inammissibile
all’interno dell’inalterabile legalità quotidiana”. Caillois, 1984: 90-92), che con alcune corre-
zioni minime6 può essere assunta, a scopo operativo, quale valido punto di riferimento entro
l’intricato dibattito definitorio sul fantastico.
Il racconto coincide, per tutta la sua estensione, con la lunga lettera con cui un anonimo
narratore protagonista confessa, alla proprietaria dell’appartamento in cui risiede fintantoché
la donna si trova a Parigi, le ragioni del “disastro irrimediabile della sua casa” (Cortázar, 2002:
16), e con cui tenta di scagionarsi da ogni possibile accusa circa gli avvenimenti riferiti. L’uomo
esordisce narrando di come il giorno stesso del suo arrivo si sia trovato a vomitare – come gli
accade, periodicamente, da tempo – un coniglietto bianco, inconveniente che non lo avrebbe
allarmato più di tanto se non fosse stato che, avendo vomitato l’ultimo coniglietto soltanto due
giorni prima, credeva di potersene stare tranquillo per almeno un mese: la produzione di
coniglietti s’intensifica invece inaspettatamente e da quel momento il narratore inizia a
vomitarne, per ragioni imperscrutabili, addirittura uno al giorno. Incapace di sbarazzarsene,
nasconde le bestiole in un armadio e intraprende, con esasperazione crescente ma determinato
a preservare il segreto, una doppia esistenza, divisa tra il lavoro diurno di traduttore e le veglie
notturne su una folla di coniglietti sempre più feroce e distruttiva.
Interrotta per la momentanea illusione che la genia dei coniglietti, arrivati a dieci, si
sia finalmente arrestata, la lettera è ripresa per riferire l’ultima, drammatica tappa della
vicenda:
para mí este lado del papel, este lado de mi carta no continúa la calma con que venía yo
escribiéndole cuando la dejé para asistir a una tarea de comisiones. En su cúbica noche sin
tristeza duermen once conejitos […] Usted ve: diez estaba bien, con un armario, trébol y
esperanza, cuánta cosas pueden construirse. No ya con once, porque decir once es seguramente
doce, Andrée, doce que será trece. (Ivi: 33-34).
5 Per un’attenta disamina della critica cortazariana nei suoi diversi approcci, si veda Goyalde Palacios, 2001.
6 Il termine realtà (sufficiente, da solo, a sollevare problemi teorici vertiginosi) andrà sostituito con la nozione,
proposta da Lucio Lugnani, di “paradigma di realtà” (Lugnani, 1983), più adeguata a rendere conto del carattere
convenzionale e mutevole di ciò che una data cultura tende a considerare ‘la norma’, e in grado di far luce su quella
che potremmo definire la peculiare storicità del genere, o la sua intensa deperibilità storica. Come caratteristica
determinante per l’inclusione di un testo nel genere, inoltre, si assumerà la reperibilità, al suo interno, di una
problematizzazione del concetto di reale e di quello, ad esso conseguente, di possibile: i racconti privi di tale criticità
− perché i mondi che vi sono accampati si manifestano sin dall’incipit come radicalmente distinti da quello del
lettore, o perché il testo vi è a tal punto cifrato da mancare di una vera funzione referenziale e fungere
esclusivamente da rimando a un senso secondo, o perché l’impossibile trova in essi un’esplicita giustificazione
psicologica, religiosa, pseudo-scientifica ecc., − senza dubbio comunicano, ai margini, con il modo fantastico, ma
non ne occupano il centro.
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Está este balcón sobre Suipacha lleno de alba, los primeros sonidos de la ciudad. No creo que
les sea difícil juntar once conejitos salpicados sobre los adoquines, tal vez ni se fijen en ellos,
atareados con el otro cuerpo que conviene llevarse pronto, antes de que pasen los primeros
colegiales. (Ivi: 34-35).
Che non ci si trovi all’interno di una fiaba, o di un mondo possibile in cui sia
ammissibile vomitare, di quando in quando, coniglietti vivi, è segnalato diffusamente
dall’apparato realistico del mondo rappresentato (gli stessi coniglietti, straordinari nella loro
genesi, sono connotati in modo assolutamente realistico 7), mentre l’eventualità che il racconto
non sia che il resoconto di un folle, ammessa dall’ambiguo canale espressivo (la lettera, tanto
più inaffidabile data la mancanza, qui totale, di una narrazione esterna in grado di
autenticarla), manca però di validi appigli testuali. L’impossibilium esibito dal testo è qui non
soltanto naturalizzato, mediante la tecnica, ampiamente sfruttata dal fantastico
contemporaneo, consistente nel riferire come naturale qualcosa di scandaloso per la ragione,
con forti effetti stranianti sul lettore (“Justo entre el primero y segundo piso sentí que iba a
vomitar un conejito. Nunca se lo había explicado antes, no crea que por deslealtad, pero
naturalmente uno no va a ponerse a explicarle a la gente que de cuando en cuando vomita un
conejito” [Ivi: 23]) ma viene anche anticipato, con meccanismo frequente in Cortázar, alle
prime righe del racconto, in aperta antitesi con una delle leggi fondamentali del fantastico più
tradizionale, che vincola i propri effetti alla rivelazione progressiva del soprannaturale8.
La sconcertante genesi dei coniglietti, riferita nell’osservanza pressoché totale di una
reticenza estesa tanto al piano della spiegazione interna (l’explication todoroviana) quanto a
quello dei significati simbolici, pur costituendo l’unico tassello vuoto in una tessitura per il
resto perfettamente conseguente, coinvolge di riflesso l’intera macchina testuale, trascinandola
verso un’apparente condizione di non-significanza e producendo un insuperabile
inceppamento dei processi interpretativi. Refrattario all’attribuzione di un senso contingente
per l’assoluta mancanza di un codice alla luce del quale tradurlo9, nondimeno l’evento
fantastico rimanda oscuramente a un grumo (un coagulo, direbbe Cortázar) di significati
ulteriori, in virtù di una sottile trama simbolica sottesa al racconto sin dal suo avvio e della
latenza, ad essa strettamente connessa, di una logica di tipo onirico.
Secondo Monica Farnetti, il principale scatto evolutivo tra il fantastico tradizionale e il
suo erede novecentesco è concepibile come una “transizione dall’«inconscio collettivo»,
giacenza degli archetipi di un patrimonio culturale comune, all’«inconscio individuale»,
depositario invece delle esperienze uniche e distintive di una psiche da un’altra, spazio
immaginario, personale e connotante di cui ogni individuo al contempo eredita e
peculiarmente rinnova il materiale costitutivo” (Farnetti, 1988: 27). Il bacino cui il fantastico
attinge i suoi materiali si restringerebbe pertanto, dal patrimonio collettivo, appannaggio del
7 “El conejito parece contento, es un conejito normal y perfecto, sólo que muy pequeño, pequeño como un conejito
de chocolate pero blanco y enteramente un conejito”. (Cortázar, 2002: 24).
8 Nel climax ascendente finalizzato a predisporre gradualmente il lettore all’accettazione dell’impossibile, Penzoldt
individua il principio organizzatore stesso del fantastico (Penzoldt, 1952). L’assenza di questo procedimento, o la
sua deliberata inversione, è significativamente segnalata da Todorov come uno dei principali scarti tra il fantastico
ottocentesco e quello contemporaneo. (Cfr. Todorov, 2000: 174-175).
9 L’ascendenza fiabesca dell’invenzione dispiegata qui, suggeritami da Ferdinando Amigoni durante una
conversazione (nelle fiabe si vedono spesso i personaggi vomitare oggetti inanimati o creature animate: i buoni
vomitano per lo più oggetti preziosi, i cattivi oggetti e animali ritenuti disgustosi), pur fornendo spunti interessanti
sulla concezione e composizione del racconto, non ne agevola però l’interpretazione interna, né aiuta a tracciare
una sua lettura complessiva.
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genere nei suoi esiti più tradizionali, al sommerso della psiche individuale, con la conseguente
produzione di immagini enigmatiche quale quella delineata qui. Per quanto Cortázar abbia
più volte ribadito l’origine psicopatologica di molti dei suoi racconti, e pur costituendo il testo
in esame uno dei casi più emblematici di superamento, attraverso la scrittura, di un sintomo
di tipo ossessivo10, tuttavia, questa indicazione non può valere quale strumento critico
autonomo né fornire, a fronte dell’opacità del testo, una chiave di lettura privilegiata. Lo stato
di trance o di possessione sotto il cui influsso, non senza imbarazzo, Cortázar riferisce di aver
concepito la maggior parte dei suoi racconti 11, se costituisce un’interessante indicazione
compositiva di cui è impossibile non tenere conto, non ci mette però al corrente dei significati
in atto nel testo più di quanto il complesso del padre non rischiari quelli, altrettanto plurivoci
e densi, che coabitano nell’opera di Kafka.
D’altro canto, come suggerisce Alazraki, invece di lambiccarsi il cervello per tracciare,
a margine del cumulo di letture possibili, l’ennesima accattivante proposta interpretativa,
criticamente più proficuo appare, al cospetto di immagini intimamente corrose dal non detto,
attestarsi su ciò che si sa per certo e scandagliarlo con precisione. In quest’ottica sembra allora
pertinente isolare due correnti semantiche, sprofondate nel testo come fiumi carsici e
affioranti, qua e là, nell’ambito di insistenze e allusioni significative. La prima è una
similitudine stabilita obliquamente e per gradi successivi tra il rapporto (reciproco) che lega il
protagonista ai coniglietti e quello che intercorre tra Dio e le sue creature: introdotta
inizialmente con un cauto paragone (“mientras yo quisiera verlos quietos, verlos a mis pies y
quietos − un poco el sueño de todo dios, Andrée, el sueño nunca cumplido de los dioses”.
Cortázar, 2002: 29), e ribadita alcune righe dopo per mezzo di una sostituzione metaforica non
del tutto trasparente (“es casi hermoso ver cómo les gusta pararse, nostalgia de lo humano
distante, quizá imitación de su dios ambulando y mirándolos hosco”. Ivi: 31), essa finisce con
l’assumere, nel parossismo conclusivo, e senza che le allusioni trovino alcuno sfogo chiarifi-
catore, connotazioni altamente unheimlich (“llenaron de pelo la alfombra y tembién gritaron,
estuvieron en círculo bajo la luz de la lámpara, en círculo y como adorándome, y de pronto
gritaban, gritaban como yo no creo que griten los conejos”. Ivi: 34).
La seconda traccia semantica, tanto insistita da convertirsi nel principio organizzatore
stesso del discorso, è l’antitesi, istituita fin dalle prime pagine12, tra l’ordine imperante nell’ap-
partamento prima dell’irruzione del narratore e il disordine introdottovi dalla schiera di abomi-
nevoli coniglietti, così come tra l’ordine conseguito faticosamente dall’uomo nella sua esistenza
precedente il trasloco (“Las costumbres, Andrée, son formas concretas del ritmo, son la cuota
de ritmo que nos ayuda a vivir. No era tan terribile vomitar conejitos una vez que se había
entrado en el ciclo invariable, en el método”. Ivi: 25) e il perturbamento di quell’ordine a
seguito del trasferimento di cui l’anomalo incremento nella produzione di coniglietti è la più
diretta, quasi fisiologica conseguenza. In un passaggio prezioso anche per l’indiretta notazione
metanarrativa con cui l’autore più o meno consapevolmente prende le distanze dall’impiego
letterario, ai fini del fantastico, del repertorio magico, il narratore non esita a mettere in
relazione (una relazione assurda, logicamente inaccettabile) i due avvenimenti:
10 Nel corso di numerose interviste Cortázar ha dichiarato che l’immagine del vomitatore di coniglietti sarebbe
nata dall'ossessione, provata per un breve periodo e svanita in seguito alla stesura del racconto, di avere dei peli in
gola (Cfr. Picon Garfield, 1978; Prego, 1997; Goloboff, 1998; González Bermejo, 1978; Harss, 1968).
11 Ha dichiarato lo scrittore nel corso di un’intervista: “Una vez más es la eterna historia, de que a veces me da un
poco de vergüenza firmar mis cuentos, porque tengo la impresión de que finalmente me los han dictado. Claro:
tengo que convencerme de que soy yo mismo quien me los dicto. Un yo mismo al que yo no tengo acceso en el
estado de vigilia. Un yo que viene del subcosciente” (Prego, 1990: 136).
12 Si veda l’incipit del racconto, al cui carattere anticipatore si è accennato in precedenza: “Andrée, yo no quería
venirme a vivir a su departamento de la calle Suipacha. No tanto por los conejitos, más bien porque me duele
ingresar en un orden cerrado, construido ya hasta en las más finas mallas del aire”. (Cortázar, 2002: 21).
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No sé cómo resisto, Andrée. Usted recuerda que vine a descansar a su casa. No es culpa mía si
de cuando en cuando vomito un conejito, si esta mudanza me alteró también por dentro − no
es nominalismo, no es magia, solamente que las cosas no se pueden variar así de pronto, a veces
las cosas viran brutalmente y cuando usted esperaba la bofetada a la derecha (Ivi: 30).
Lo schiacciante senso di colpa che opprime il narratore in misura crescente fino a farlo
risolvere per il suicidio, tanto più evidente quanto più è negato, con procedimento noto agli
psicanalisti, nell’epilogo della lettera13, suggerisce l’esistenza (reale o fantasticata) di una colpa
senza nome, incommensurabile, di cui l’angosciato rammarico per la lampada di porcellana
andata in pezzi e i dorsi dei libri rosicchiati non costituirebbe che un pallido riflesso o, per
l’esattezza, un sintomo. Allusa fin dall’inizio della lettera e della vicenda (“Cuán culpable
tomar una tacita de metal y poterla al otro estremo de la mesa […]”. Ivi: 22), essa ricorda da
vicino, tanto per il suo trattamento fantastico quanto per l’elevato grado di densità cui
perviene, l’imperscrutabile colpa kafkiana, radicata come questa negli abissi della psiche
autoriale e altrettanto riluttante all’attribuzione del senso.
Per quanto il racconto manchi − come tutti i successivi, almeno fino a El perseguidor
(1959), con il quale Cortázar dichiarerà di aver inteso creare, per la prima volta, un
personaggio14 − di qualsivoglia indagine psicologica, si potrebbe anche dire che in esso non si
trova, paradossalmente, nient’altro che psicologia. Condannati alla passività di fronte
all’incursione dell’altro e simili a burattini senz’anima, i protagonisti di racconti quali Casa
tomada, Omnibus, Cefalea, Circe, Bestiario, assolvono al ruolo di funzioni narrative più che
riprodurre individui in carne ed ossa; lo psichico nelle sue forme più riposte e inconsce,
tuttavia, espunto dai personaggi e per così dire spogliato dell’umano, è installato al centro
stesso della narrazione, dove si trova letteralizzato, ovvero tradotto − con gli esiti oscuri e
polisemici di cui si è detto − in termini di realtà.
Pur riconoscendo nella dialettica tra ordine e disordine l’asse portante del racconto, e
acutamente intuendo, nella struttura del testo, l’esatto inverso di quella sottesa a Casa tomada 15,
la lettura con cui Jaime Alazraki tenta di ricondurre il testo al paradigma comune all’intera
raccolta suscita non poche perplessità: qui l’irruzione del disordine non conduce infatti, come
altrove, all’instaurazione di un ordine aperto, ne è possibile convenire sul fatto che “el pro-
tagonista de Carta a una señorita en Paris rompe el orden cerrado del departamento de la calle
Suipacha suicidándose” (Alazraki, 1983: 204): in esso si passa piuttosto, come suggerisce con
maggiore aderenza ai testi Antonella de Laurentiis, “da una situazione iniziale di ‘normalità’
(di inserimento in un ordine prestabilito) a una situazione intermedia in cui qualcosa o
13 “Basta ya, he escrito esto porque me importa probarle que no fui tan culpable en el destrozo insalvable de su
casa”; e poco oltre: “No tuve tanta culpa, usted verá cuando llegue que muchos de los destrozos están bien
reparados con el cemento que compré en una casa inglesa, yo hice lo que pude para evitarle un enojo”. (Ivi: 33-34).
14 “En todos los cuentos precedentes, los personajes pueden estar vivos, pueden comunicarle algo al lector, pero si
se analiza bien es como en los cuentos de Borges, los personajes son marionetas al servicio de una acción fantástica
[...] Antes de El perseguidor yo ya había escrito algunos cuentos que no tienen nada de fantástico, que son muy
humanos, como Final del juego. Eso ya eran caminos que se me iban abriendo. Pero la primera vez que se me planteó
eso que vos llamás existencial − y es certo −, es decir el diálogo, el enfrentamiento con un semejante, con alguien
que no es un doble mío, sino que es otro ser humano que no está puesto al servicio de una historia fantástica, en la
que la historia es el personaje, contiene al personaje, está determinada por el personaje, fue en El perseguidor”.
(Prego, 1997: 92-93).
15 Mentre in Casa tomada il punto di vista narrativo si focalizza sugli ‘invasi’, situandosi all’interno dell’ordine e
documentandone la progressiva distruzione ad opera di entità indefinite, qui si trova trasferito sull’‘invasore’,
sull’elemento apportatore di disordine (il vomitatore di coniglietti). Questo inoltre, al contrario degli anonimi
invasori di Casa tomada, i quali demoliscono l’ordine iniziale espellendo i due protagonisti dalla casa, finisce con
l’essere distrutto dal disordine che egli stesso ha immesso nell’appartamento. (Cfr. Alazraki, 1983).
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qualcuno (in molti casi qualcuno diventa qualcosa) viola quest’ordine chiuso, per finire con
un movimento circolare che porta al ripristino di quello stesso ordine” (de Laurentiis, 2005:
21).
Parafrasabile soltanto a prezzo di gravi semplificazioni e perdite, non trasponibile a un
discorso logico né tanto meno inchiodabile a un significato univoco, il senso complessivo di
Carta a una señorita en Paris va immaginato, più che come un pianeta interamente circumna-
vigabile, come una nebulosa di cui non siano visibili né il centro né i contorni esatti, ma che è
compito dell’interprete tentare di circoscrivere, senza cedere alla tentazione della sovrain-
terpretazione né prima di averne indagato, come ammonisce Alazraki, il suo funzionamento
‘sintattico’.
Nel racconto in esame, il ristabilirsi finale dell’ordine in nome o sotto il giogo di un
principio di inamovibilità a tal punto radicato da scatenare nel protagonista, quale
estrinsecazione fantastica del suo senso di colpa, l’incremento della produzione di coniglietti
che lo condurrà al suicidio, appare allora come il veicolo di una riflessione, semanticamente
densa e oscura, sulla potenza annientatrice dell’abitudine, e sul necessario sacrificio (o, quel
che è ancor peggio, autosacrificio) di chi si trovi a contravvenire all’ordine immodificabile che
essa instaura. Desolato resoconto di una capitolazione (ma la battaglia non è neanche stata
ingaggiata) di fronte all’imperativo, subdolo perché ormai installatosi sul fondo del cervello,
della Gran Costumbre, Carta a una señorita en Paris potrebbe recare in calce i versi, pubblicati a
diversi anni di distanza:
[…]
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16 José María Merino è uno trai più importanti scrittori fantastici spagnoli contemporanei: nato a La Coruña nel
1941, cresciuto a León e attualmente residente a Madrid, è autore di alcune raccolte di racconti, tra le quali si
segnalano, oltre alla presente, El viajero perdido (1990), Cuentos del Barrio del Refugio (1994) e Cuentos de los dias raros
(2004), nonché di poesie, saggi e romanzi, il più celebre dei quali è La orilla oscura, vincitore del Premio de la Crítica
nel 1985.
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en el cielo había un objeto osuro, redondeado, que se iba haciendo cada vez mayor. No era un
avión. Al poco tempo estuvo casi encima de nosotros y me asusté de pensar que fuese a caernos
encima. No tenía luces ni forma definida. Parecía una gran roca. Sin ruido, se posó en la pradera,
junto al lago, y entonces reconocí su forma : era una casa vieja, una palloza muy bien techada
de esa paja que llaman cuelmos. (Ivi: 73).
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dargli alcuna spiegazione: con un cenno alla tenda del marito si limita a dire “Despídeme de
él” (ibidem), poi si avvia alla capanna e scompare al suo interno, poco prima che questa si alzi
in volo librandosi nel chiarore del sole nascente, sotto lo sguardo del bambino e dell’attonito
cercatore di prodigi, emerso in quel momento dalla sua tenda.
Un racconto di questo tenore, che in un mondo noto e padroneggiabile scaraventa una
porzione, oscura, d’inesplicabile, procurando di tacerne accuratamente tanto l’origine quanto
il possibile significato metaforico e mantenendosi nel complesso non solo essenziale in ogni
sua parte, come è chiamato a fare qualunque racconto che si voglia efficace, ma anche
notevolmente restio a fornire le informazioni fondamentali, imprescindibili e per così dire
‘dovute’ al lettore, edifica uno di quei mondi impossibili, logicamente concepibili ma
inabitabili, alla cui intrinseca contraddittorietà il fantastico novecentesco deve gran parte della
sua dirompenza. L’oscurità che il testo veicola, lungi dal funzionare come una facile scappatoia
dinnanzi alla responsabilità del senso o una scelta di comodo a fronte della complessità della
sua costruzione, può essere concepita come il tentativo di dare una forma nuova, sfuggente, a
qualcosa di vago ma intenso che la narrazione preferisce ammantare d’ombra piuttosto che
esporre a una luce cruda e diretta.
A quest’oscuro precipitato semantico ci instrada, come già riscontrato per il cortaza-
riano Carta a una señorita en Paris, una serie di allusioni disseminate lungo la narrazione e
portatrici del discorso parallelo che questa non cessa di pronunciare, sotto voce, nelle pause e
negli interstizi di quello principale. Questi ultimi ci parlano sin dalla prima pagina di
un’opposizione latente, verosimilmente antica ed esito di un’altra, taciuta vicenda, tra il
cercatore di prodigi e sua moglie: connotata fin da subito come una ragazza molto giovane,
dagli occhi chiari e dallo sguardo perso nel vuoto, questa entra immediatamente in sintonia
con il giovane narratore, e decisamente parteggia, nella piccola disputa del marito con gli
abitanti del villaggio, per questi ultimi, dapprima con discrezione (“La mujer del buscador de
prodigios, que había seguido con indudable interés todos los relatos de la gente, le miró con
una expresión que a mí, que estaba a su lado, me pareció muy intensa, como si le pidiese algo”.
Ivi: 67), poi in aperta contestazione:
− ellos lo vieron y tú no. ¿ Cómo puedes estar tan seguro de que se equivocan?
El forastero miró a su mujer con desconcierto.
− Eres tú quien les ha pedido que te lo cuenten − añadió ella − Tú mismo. (Ivi: 68).
Durante l’ascesa alla grotta poi, a differenza del marito che cammina senza arrestarsi
mai né guardarsi intorno e impazientemente esorta i due ad accelerare il passo (“El buscador
de prodigios andaba con ritmo invariabile. Su mujer se detenía a veces y hablaba conmigo, o
recuperaba el aliento […] A su mujer le despertaban la curiosodad muchas cosas”. Ivi: 69), si
ferma a contemplare la natura circostante con stupore infantile e giunta in cima non sa
trattenere, di fronte allo spettacolo del lago e delle montagne, una vera e propria esclamazione
di meraviglia. Se il marito reagisce alla visione delle pitture rupestri affermando con freddezza
di scienziato (“Esto es bueno […] Muy bueno. ¿No hay más?”. Ivi: 71), la giovane donna
“contemplaba las pinturas con ayuda de la linterna” (ibidem, corsivo mio), con occhi che
“brillaban de excitación” (ibidem) e i cunicoli della grotta scintillanti di stalattiti d’avorio e
d’argento, o screziate di rossi e di verdi ”como si un pintor las hubiese decorado” (ibidem)
rivelano a lei e al bambino un mondo fatato che il cercatore di prodigi, intento a preparare
l’attrezzatura, non può e non sa vedere. Tornata all’aria aperta la ragazza si tuffa, non vista
dal marito, nell’acqua gelata del lago, immettendo nel panorama incontaminato che la
circonda, silhouette bianca in mezzo all’acqua scura, “una novedad que el paisaje asumía sin
turbación” (ivi: 72) e lo spettacolo del tramonto, precluso all’uomo rinserrato nella grotta con
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i suoi apparati fotografici, è destinato agli sguardi più avidi, più attenti, della giovane donna
e del narratore.
La moglie del cercatore di prodigi, sensibile alla bellezza e al mistero, aperta all’incanto
e allo stupore, ‘irragionevole’ come lo sono il bambino e gli abitanti del villaggio, si pone in
violenta antitesi con la figura del marito, connotata invece sin dall’inizio nel senso della
razionalità fredda, calcolatrice, e della passione ragionata, indirizzata a un fine. La tensione tra
i due è palpabile, e la vicenda narrata riferisce precisamente, mediante l’irruzione di quanto
di più estraneo al fallimento di un amore si possa immaginare, l’apice e lo scioglimento del
conflitto: quando la capanna plana dal cielo, la ragazza spegne la sua sigaretta, si alza, e si
dirige verso l’abitazione, come se non avesse atteso altro sino a quel momento; alla domanda
sgomenta del ragazzino che la tiene per un braccio e sta per cedere al pianto (“¿Adonde va?
¿Qué va a hacer?”. Ivi: 73), replica tranquillamente, non senza un moto di sfida: “Ven, vamos
a ver eso ” (ibidem), e s’indirizza alla capanna senza il minimo vacillamento17.
L’abitazione dal tetto di paglia, da cui provengono voci amiche, festose, e la cui luce
calda è già una promessa di ristoro e ospitalità, lungi dall’immettere nello scenario circostante
una presenza ostile appare, al contrario, come luogo deputato alla vicinanza, all’umanità, al
conforto. Per quanto molteplici e nebulosi siano i significati evocati, allora, non sembra
avventato intravedere, nella planata della capanna sulla prateria e nella sua lieve, delicata
dipartita, la storia fantastica di una liberazione, e nel volo al di sopra delle montagne lo slancio
di quello, ardimentoso e pieno di bellezza, dell’utopia.
L’immagine, leggerissima, della casupola che si libra in cielo, portandosi via in un
soffio la moglie del cercatore di prodigi, che nulla ispira di perturbante e angoscioso eccezion
fatta per l’impossibilità di darne una spiegazione, più che uno squarcio sui recessi tormentati
della psiche e del sogno notturno può essere vista, suggestivamente, come il prodotto del coté
luminoso, pacato, dell’inconscio, così poco battuto dalle traiettorie del fantastico più
tradizionale, e come un bagliore di quella peculiare qualità della rêverie che Gaston Bachelard
rinchiuse, con invenzione felicissima, nella formula di “psichismo dorato” (Bachelard, 2005:
19).
3. CONCLUSIONI
Tentando di sistematizzare le osservazioni emerse sin qui, occorre rilevare come
l’implicita trasgressività cui si accennava all’inizio – tanto accentuata da costituire, secondo
alcuni, l’ubi consistam del genere18 – venga determinata, nei due casi in esame come in
numerosi altri racconti fantastici ascrivibili alla medesima categoria, dal concorso di alcune
caratteristiche tematiche e formali, spesso a tal punto embricate tra loro da impedire una netta
17 La familiarità della donna con l’abitazione e la consuetudine con i suoi abitanti può indurre il lettore a
immaginare una spiegazione più ‘articolabile’, ai confini con la fantascienza: la moglie del cercatore di prodigi
sarebbe un essere proveniente da un altro mondo e gli ospiti della capanna una gruppo di conterranei tornati per
prelevarla e restituirla alla sua esistenza più autentica; ma questa spiegazione, peraltro sfruttata, in modo diverso,
nel racconto El niño lobo del cine Mari, appartenente alla stessa raccolta, non convince per la mancanza di sufficienti
puntelli nel testo ed è costretta ad arrestarsi al livello delle ipotesi speculative.
18 In particolare Rosalba Campra − che pure non instaura, a questo riguardo, alcuna distinzione netta tra il
fantastico tradizionale e il suo erede novecentesco − individua nell’isotopia della trasgressione il dinamismo
organizzativo del fantastico, specificandone le diverse modalità in una formulazione rigorosa ancorché elastica, che
non cede alla tentazione della tassatività né a quella della coesione a oltranza e forse per questo si dimostra così
aderente all’oggetto della sua indagine: “Sarebbe illusorio pretendere una risposta assoluta ugualmente valida per
ogni manifestazione storica del fantastico, ma seguendo un ragionamento in negativo penso che sia possibile dire
che non esiste testo al quale applichiamo l’etichetta di «fantastico» che non presenti una trasgressione di ciò che
viene dato come «naturale»: sia a livello semantico (come superamento di barriere tra due ordini della realtà); sia a
livello sintattico (come sfalsamento o mancanza di funzioni in senso lato); sia a livello verbale (come negazione
dell’arbitrarietà del segno e di conseguenza come azione del significante sul significato)”. (Campra, 2002: 137).
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distinzione tra ciò che attiene al piano della forma e ciò che inerisce a quello dei contenuti: 1.
da un lato, il carattere radicalmente negativo dell’immagine intorno alla quale si struttura il
testo fantastico, fortemente refrattaria alla significazione e conseguentemente veicolo di
un’ampissima, se pure non infinita, apertura semantica; 2. dall’altro, la contraddittorietà interna
del mondo finzionale istituito dal testo, per rendere conto del quale la semantica a mondi
possibili 19 si rivela, ancorchè ricca di spunti nelle sue linee generali, fondamentalmente
insuffiente; 3. infine, come si è visto, una marcata inclinazione alla reticenza e alla sottrazione
d’informazione, in alcuni casi portata a un parossisimo tale da risultare sufficiente, anche in
assenza di eventi esplicitamente meravigliosi, all’instaurazione del fantastico 20, ed estesa tanto
alla spiegazione interna dei fatti narrati (si può parlare, in questo senso, di reticenza esplicativa),
quanto ai significati complessivi e, latu sensu, simbolici del testo (reticenza semantica), quanto
spesso a intere porzioni della fabula (con conseguente produzione di quelle che Umberto Eco
[2002: 119-121] ha denomianto fabule aperte).
Il primo di questi aspetti è senza dubbio il più complesso nonché quello che con più
tenacia si sottrae allo scandaglio teorico: per coglierne esattamente la portata e misurarne
appieno il grado di novità, appare indispensabile esaminarlo alla luce dei mutamenti che
investono la produzione fantastica nel passaggio tra Otto e Novecento, nell’arco di un processo
di cui l’opera di Franz Kafka segna indubbiamente la tappa più significativa e che in larga
misura va ricondotto al mutato rapporto, assolutamente fondante per il fantastico, tra finzione
letteraria e immaginario collettivo. Facciamo quindi, provvisoriamente, un passo indietro.
Sorto tra fine Settecento e inizio Ottocento come sintesi e superamento delle varie
tendenze gotiche (gothic novel inglese, Schauerroman tedesco, roman noir francese) e affermatosi
nel corso del XIX secolo in vasta parte d’Europa e negli Stati Uniti, il fantastico “nasce nel
momento in cui nessuno crede più alla possibilità del miracolo” (Caillois, 1985: 21), sui detriti
della fede nel meraviglioso e nel clima di scetticismo che va addensandosi attorno alle
spiegazioni sacrali e religiose del mondo. Nata come reazione al razionalismo illuminista e allo
scientismo settecentesco, e presa con essi in un rapporto ambivalente, teso tra il conflitto e la
liaison amorosa, la narrativa fantastica ottocentesca attinge tanto i suoi temi quanto il loro
sistema concettuale di riferimento a un codice già noto alla collettività, ma dismesso dalla
cultura e soppiantato da nuovi modelli, facendo propri quegli oggetti della credenza
(fantasmi, stregoneria, mondo ctonio, vampirismo, magia, ecc.) che il mutamento dei codici
conoscitivi ha fatto decadere a superstizione.
19 Sorta negli anni Sessanta in seno alla filosofia analitica e alla logica modale, ed estesa negli anni Settanta
all’indagine narratologica dalle proposte di studiosi di letteratura quali van Dijk, Pavel, Eco, Doležel, la semantica
a mondi possibili offre strumenti preziosi per l'indagine di mondi dotati di strutture modali ‘omogenee’ al loro
interno, o di universi ibridi, diadici, quali quelli accampati da larga parte della narrativa kafkiana. Resta però
infruttuosa nell’esame dei mondi intimamente contraddittori del fantastico più innovativo, in cui un solo elemento
entra in collisione con il mondo perfettamente conseguente che lo alberga; universi non solo fisicamente ma anche
logicamente impossibili; che non fanno sistema; che sgretolano dall’interno le loro stesse condizioni di edificabilità;
che, come giustamente sottolinea Eco, “vogliono farci provare il disagio della contraddizione logica”, giocando
proprio “sul fatto che, secondo le regole di costruzione di mondi e la lista di proprietà che la nostra enciclopedia ci
fornisce, il mondo che essi propongono non potrebbe funzionare” (Eco, 1990: 153). Cfr. soprattutto Doležel, 1999;
Pavel, 1992; Eco, 1990, 2002.
20 Si vedano i casi, paradigmatici, di Casa tomada di Julio Cortázar e Qualcosa era successo (1957) di Dino Buzzati:
costruiti entrambi intorno all'omissione di un frammento (il più importante) della fabula, nonché su un’accentuata
reticenza esplicativa e semantica, pur mancando di un evento dichiaratamente fantastico i due racconti insinuano
l’idea che ciò che essi si rifiutano - per scelta nel primo caso, per reale impossibilità nel secondo - di nominare possa
avere una natura soprannaturale o comunque trasgredire i dettami del plausibile: sollecitato da una rete di indizi
invisibili o da un’atmosfera latente, il completamento inferenziale tende a riempire i vuoti disseminati nel testo con
contenuti fantastici e la fabula, di per sé colmabile anche mediante ipotesi realistiche, è pervasa invece – in virtù di
una reticenza esasperata e ‘tendenziosa’ - da una tacita fantasticità.
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È Freud a illuminare per primo, in una pagina definitiva 21, il legame esistente tra la
nuova modalità narrativa e il riemergere di qualche cosa di familiare che è stato respinto,
attribuendo il sentimento dell’unheimlich − effetto psicologico che egli intuisce peculiare alla
letteratura fantastica − tanto al ritorno di complessi infantili rimossi (vedrängt), quanto a quello
di credenze primitive superate (überwunden), sulla base della corrispondenza profonda
istituita tra lo sviluppo del singolo individuo (ontogenetico) e quello della collettività
(filogenetico).
A prescindere dal processo di formazione storica di tali immaginari, ciò che preme qui
sottolineare è il carattere già codificato, già noto, di quel materiale, e l’alto grado di decifrabilità
che esso detiene per il suo pubblico, secondo un paradigma − assimilabile, con Bozzetto, alla
nozione formalista di rebarbarisation 22 − svincolato da un repertorio tematico determinato e
anzi ricorrente in configurazioni storiche e geografiche del tutto distinte: un identico rapporto
tra invenzione letteraria e superato è rintracciabile ad esempio, in pieno Novecento, persino
nell’opera di un rinnovatore del genere come Julio Cortázar, che in un racconto dall’apparente
impenetrabilità quale Axolotl fa di fatto riemergere, entro un mondo realistico, la verità,
sorpassata, di un mito23.
Alla luce di queste considerazioni, è possibile ricondurre l’ambivalenza ideologica
sotto il cui segno nasce e si sviluppa la letteratura fantastica − sottolineata dalla critica più
avveduta contro la tentazione, cui molti cedono, di gettare qualunque infrazione del codice
vigente nel calderone del ‘sovversivo’ − a due ordini di motivi: da un punto di vista
strettamente contenutistico, è stato osservato24 come temi apparentemente trasgressivi, quali
soprattutto le diverse forme della sessualità nelle sue molteplici variazioni e perversioni
(incesto, necrofilia, omosessualità, amore a tre o a più, sadismo, vampirismo), agiscano spesso
in modo funzionale alla riconferma dell’ordine costituito, nella misura in cui forniscono una
soddisfazione vicaria di desideri espulsi dalla cultura, consentendo a una scarica provvisoria
e innocua che di fatto ne disinnesca il potenziale eversivo.
A un’osservazione più distanziata del fenomeno, lo sguardo di condiscendenza che il
fantastico rivolge a codici di lettura del mondo obsoleti, a prima vista interpretabile come
un’istanza contestataria, nel senso della regressione, verso il paradigma vigente, si rivela più
un modo per ‘addomesticare il diverso’ che un’effettiva relativizzazione della norma vigente:
il superato che riemerge in larga parte del fantastico più tradizionale, richiuso entro le
parentesi della finzione narrativa e sottomesso a una funzione puramente ludica, è destituito
dell’originaria valenza epistemologica e non costituisce più alcuna minaccia per il sistema del
sapere: perturbante a livello inconscio ma inoffensivo per la ragione, il represso ritorna, sotto
vesti letterarie, più come indugio nostalgico che come ripensamento della cultura25.
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A questa vocazione del fantastico − regressiva nella misura in cui accredita, anche solo
in forma dubitativa, codici sorpassati; tendenzialmente conservatrice a uno sguardo com-
plessivo e, direi, sociologico, del fenomeno − nel corso del Novecento va gradualmente so-
stituendosi, come si è visto, una tendenza di segno inverso. Gli oggetti o avvenimenti fantastici
convocati dai più innovativi tra i suoi racconti (metamorfosi in insetto; atto di vomitare
coniglietti vivi; misteriosa planata di una capanna dal cielo e sua successiva dipartita ecc.) sono
infatti creazioni immaginative ex novo: non esiste, né verosimilmente esisterà mai, un codice
in base al quale tradurle. Se l’oggetto fantastico tradizionale, estraneo all’enciclopedia dei suoi
lettori, si richiamava comunque a un sapere enciclopedico assimilato da generazioni, i mon-
strua della letteratura fantastica contemporanea non rimandano più a nulla: forme nuove,
ancora sconosciute all’immaginario culturale e letterario, aprono squarci e spazi vuoti nel
paradigma di realtà vigente, che minano dall’interno senza rimpiazzarlo con alcun modello
alternativo 26.
Questa insorgenza del ‘negativo’ e il categorico rifiuto della significazione che ne
consegue sono configurati nel testo non soltanto, come si è visto, da scelte tematiche ‘scan-
dalose’, ma anche da precise strategie orientate, in antitesi ai dispositivi attuati di preferenza
dal fantastico ottocentesco, a quella che potremmo chiamare una retorica dell’oscurità. Il
fantastico più canonico ricorreva prevalentemente, tanto a livello della fabula quanto sul piano
dell’interpretazione interna, a strategie retoriche improntate all’ambiguità, laddove col
termine ambiguità si intende l’incertezza, più o meno esplicitamente rappresentata nel testo,
entro una gamma ristretta (due, massimo tre) di interpretazioni alternative, determinata
dall’impiego topico del narratore inaffidabile e declinata in opposizioni indecidibili del tipo:
il personaggio ha visto il fantasma/ il personaggio ha sognato il fantasma; il personaggio ha
visto il fantasma/ il personaggio crede di aver visto il fantasma ma si sbaglia perché è folle/era
ubriaco/aveva ingerito droghe, ecc.
Costruito su un’incertezza, nondimeno il racconto conduceva il suo lettore a crocicchi
di strade ben delineate, per quanto spesso impraticabili. Come emerso dalle analisi precedenti,
e come riscontrabile nella quasi totalità della narrativa di Julio Cortázar e in molti racconti di
Kafka, Buzzati, Borges, Silvina Ocampo, Merino, per citare solo alcuni degli autori più
significativi, i testi fantastici più innovativi del XX secolo si presentano, al contrario, come
costitutivamente oscuri, nella misura in cui costringono il proprio lettore in un’impasse er-
meneutica da cui è impossibile evadere se non a prezzo di un’interpretazione aberrante, coin-
volgendolo in un rapporto incongruo di complicità e violenza basato su un protratto
disattendimento delle attese e sul sostanziale tradimento del patto di lettura.
Che tale procedimento sfoci immancabilmente su un vuoto, e che sia proprio tale
vacuità a dirigere e coordinare intorno a sé, tanto a livello di interpretazione interna quanto di
lettura complessiva, le tensioni in gioco nei testi, è qualcosa che non è sfuggito alla critica più
avveduta. Scrive in proposito Roger Bozzetto:
Nel fantastico precedente si aveva a che fare con una sovranatura conosciuta, repertoriata,
presente, solida e, al limite, disponibile. […] Nel fantastico moderno, la sovranatura non appare
più come tale. Qualcosa d’assurdo, d’irrazionale, si produce indubbiamente, senza essere
percepito come l’irruzione di un ordine superiore, ma piuttosto come un impedimento, un
innocuo dalla sublimazione, meriterà entrambi questi attributi contraddittori, piuttosto che uno solo dei due”.
(Orlando, 1990: 28).
26 “lo scrittore fantastico” osserva in proposito Amigoni, “si guarda bene dal suggerire un’enciclopedia diversa da
quella canonica, in cui magari fosse possibile fornire una soddisfacente spiegazione per l’irriducibile alterità che
contrassegna l’evento fantastico, e non la suggerisce perché non può farlo, non essendo in possesso di alcuna
enciclopedia alternativa”. (Amigoni, 2004: 23).
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perturbamento, un disordine che s’insinua attraverso faglie minime, sovvertendo le basi rite-
nute normali della realtà […] L’universo del fantastico moderno è disconnesso dal senso […] il senso
sembra avere disertato il mondo. (Bozzetto, 1992: 216-217, trad. e corsivi miei).
Come si è cercato di dimostare, tuttavia, l’epochè del senso su cui sbocca la trasgressione
fantastica non sancisce affatto, per il lettore e per quel lettore più smaliziato e meglio equi-
paggiato che è il critico, la rinuncia all’interpretazione: per quanto rimanga, come l’allegoria
benjaminiana, “a mani vuote” (Benjamin, 1999: 207), l’immagine intorno a cui si struttura il
racconto è vuota di un vuoto pieno di senso, densa di significazioni plurime che non si elidono
a vicenda.
Intimamente consonante tanto con l’idea di allegoria moderna quale è delineata in
filigrana in Ursprung des deutschen Trauerspiels (Il dramma barocco tedesco, 1928), poi appro-
fondita polemicamente da György Lukács e in tempi recenti applicata con profitto da Giuliano
Baioni alla narrativa kafkiana, quanto con la nozione – con essa convergente – di metáfora
fantástica introdotta, in relazione al cosiddetto genere neofantástico, dallo studioso argentino
Jaime Alazraki, l’immagine impossibile del fantastico più avanguardistico del secolo agisce
come l’innesto, su un terreno narrativo, di un nucleo di linguaggio poetico. Disattendendo
immancabilmente un’intrinseca “promessa di senso” (Bozzetto, 1992: 65), e al contempo
invocando l’attribuzione di un significato ulteriore, simbolico in senso lato, il discorso oscuro
tende infatti a far coesistere, con contraddizione solo apparente, il senso dell’ineffabile da un
lato e una certa ‘esuberanza semantica’ dall’altro, veicolando in molti casi, laddove non sia
portato a un livello tale da far arretrare in partenza qualunque tentativo ermeneutico, un grado
di densità semantica toccato raramente dalla narrativa in prosa27.
Grumi di senso oscuro, circondati da un fitto strato di silenzio, immagini quali il vomi-
tatore di coniglietti, la misteriosa planata di una capanna dal cielo o l’immotivata metamorfosi
di un uomo in insetto depositano nella memoria del lettore forme in grado di suscitargli, anche
a distanza di anni, interrogativi destinati allo scacco, e d’innescare cortocircuiti logici ed erme-
neutici capaci di mettere in pericolo, nei modi obliqui e plurivoci propri della letteratura, i
discorsi gnoseologici, etici e politici dominanti, con cui essa si trova a intrecciare da sempre,
che lo voglia o meno, il proprio ostinato dialogo.
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de l’imaginaire, Aix en Provence, Publications de l’Université de Provence.
27 Ne è ben conscio Julio Cortázar, quando afferma, replicando a una domanda circa le possibili cause della
disparità dei risultati ottenuti nella scrittura in prosa e in quella in versi: “por más vanitoso que parezca […]
fondamentalmente y al margen de la división entre prosa y poesía o prosa y verso, yo creo que mi manera de captar
la realidad, mi manera de verla, de sentirla y de vivirla, es una actitud de poeta” (Cortázar, 1977: 13).
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