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Mauro Barberis - Come Internet Sta Uccidendo La Democrazia. Populismo Digitale (Chiarelettere 2020-01)

Internet vs Democrazia

Caricato da

Gabriele Lupo
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Mauro Barberis - Come Internet Sta Uccidendo La Democrazia. Populismo Digitale (Chiarelettere 2020-01)

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L’autore

Mauro Barberis (Genova, 1956) insegna diritto all’Università di


Trieste. Fra i tanti lavori scientifici, ha pubblicato anche libri su
libertà, pluralismo ed Europa. Collabora con “Il Secolo XIX” ed è
blogger per “il Fatto Quotidiano” e “MicroMega”.
Pamphlet, documenti, storie
www.chiarelettere.it

facebook.com/Chiarelettere

@chiarelettere

www.illibraio.it

© Chiarelettere editore srl


Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A.
Lorenzo Fazio (direttore editoriale)
Sandro Parenzo
Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.)
Sede: corso Sempione, 2 - Milano

ISBN 978-88-3296-312-0

Copertina
Art director: Giacomo Callo
Graphic designer: Davide Nasta

Prima edizione digitale: gennaio 2020


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Sommario

L’autore
Pagina di copyright
Frontespizio

Questo libro
Contro gli specialisti

Populismo, o democrazia presa alla lettera


1. Premessa
2. C’era una volta la democrazia
3. C’è ancora la democrazia, oggi?
4. Ci sarà ancora la democrazia, domani?
5. Conclusione

Brexit, Trump e governo gialloblù


Tre populismi digitali
1. Premessa
2. Brexit: il populismo d’opposizione
3. Trump: il populismo di governo
4. Governo gialloblù: populismo di governo e d’opposizione
5. Conclusione

Il cavaliere oscuro
Euristiche della (in)sicurezza
1. Premessa
2. Sicurezza sociale
3. Sicurezza pubblica e nazionale
4. Sicurezza «migratoria»
5. Conclusione

La scatola delle meraviglie


Tre spiegazioni del populismo
1. Premessa
2. Cos’è un’istituzione?
3. Una democrazia demente
4. Tre spiegazioni del populismo
5. Conclusione

Dal populismo digitale si guarisce?


Tre possibili rimedi
1. Premessa
2. Difendere le istituzioni contromaggioritarie
3. Usare il populismo digitale contro sé stesso
4. Regolamentare internet
5. Conclusione

Conclusione
Apologo dello scimmione digitale

Ringraziamenti

Indice dei nomi

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COME INTERNET STA UCCIDENDO LA DEMOCRAZIA

A Carola
Ma perché venirci ancora a parlare di ideali più
nobili? Atteniamoci ai fatti: il popolo ha vinto –
ovvero «gli schiavi», «la plebe», «il gregge».
Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale
Questo libro
Contro gli specialisti

L’ondata populista che si è alzata nel 2016, e ha raggiunto il livello di


guardia nella primavera del 2019, a novembre dello stesso anno non
accenna a calare. Forse è venuta l’ora di chiedersi cosa l’abbia
originata.
Molti della mia generazione – specie i miei colleghi giuristi, anche
quando usano normalmente internet, salvo rifiutarsi di farsi
contaminare dai social – non ci hanno ancora capito niente; spesso,
meno di niente. Ne abbiamo viste ben altre, dicono, aspettiamo che
passi anche questa. Per non parlare dei politologi, ai quali il populismo
spetterebbe per competenza accademica. Molti lo considerano ancora
una sorta di anomalia nella storia della democrazia, una parentesi di
folklore politico da non prendere troppo sul serio. Alcuni negano
persino che esista. I più bravi lo lasciano ai loro colleghi di seconda
fila. E si capisce: il populismo è sempre stato la pecora nera del gregge
democratico, ed è difficile abituarsi all’idea che, dài e dài, tutte le
pecore possono diventare nere.
Si vorrebbe ridurre il populismo a un episodio, un effetto della crisi
finanziaria del 2008 o di quella migratoria del 2015. Guai a pensare a
un processo di degenerazione della democrazia rappresentativa
cominciato almeno un secolo fa, che le crisi del terzo millennio hanno
solo accelerato. Del resto non ci si riesce neppure a mettere d’accordo
su una definizione minima del termine «populismo», anche perché
qualcuno continua a pensare che gli «ismi» possano definirsi nello
stesso modo in cui si definisce «tavolo» o «gatto».
Rispetto ai politologi, va già meglio ai sociologi, agli antropologi, e
persino ai tanti filosofi convertitisi ai temi del web. Tutti costoro,
almeno, non ignorano quanto è sotto gli occhi di tutti, ossia che
l’ondata populista ha fatto seguito alla rivoluzione digitale: una volta
tanto, post hoc ergo propter hoc. Certo, la politica era diventata un
dipartimento dello spettacolo già ai tempi del populismo televisivo.
Ma oggi non la fanno più i proprietari di televisioni, bensì
direttamente i comici.
Se poi si hanno figli millennial e/o nativi digitali, si sa che
l’intrattenimento è solo una parte della storia, e che internet, nelle
nostre vite, conta molto di più. E con «nostre» non mi riferisco solo
alle vite di noi ultimi consumatori di carta stampata, divenuti sospetti
ai populisti già solo per questo. Intendo proprio le vite di tutti: la
casalinga turca, l’operaio indiano, il tagliatore di teste papuaso.
Ognuno con il proprio cellulare e le proprie private ossessioni, sociali,
psichiche e anche psichiatriche.
Frequentando convegni, mi è capitato spesso di dire, allo scopo di
épater i tanti bourgeois, che per studiare i populismi odierni non
servono più politologi, sociologi o massmediologi, ma occorre
rivolgersi agli psicologi e agli psichiatri. Certo, può suonare
irrispettoso nei confronti del popolo sovrano ritenerlo affetto da turbe
tali da richiedere cure psichiatriche. Eppure bisogna ammettere che
del populismo odierno hanno capito molto più gli psicologi dei
politologi: e nessuno dica che ci voleva poco.
Forse stupirà che a scrivere un libro così ambizioso non sia uno dei
tanti esperti che si avvicendano al capezzale della democrazia ma un
giurista. Il fatto è che gli esperti hanno fallito, e continuano a fallire:
non solo non hanno previsto nulla, fenomeno al quale ci siamo ormai
abituati, ma non vedono neppure le cose note a qualsiasi possessore di
cellulare. Si potrà dire, allora, che dei populismi odierni capisce più un
giurista curioso rispetto ai tanti specialisti accecati dai loro paraocchi
professionali?
Quantomeno, il giurista è più colpito dalla disinvoltura con la quale
i leader populisti ignorano, davvero sovranamente, non solo i principi
distintivi della cultura occidentale, come tutti, ma persino le regole
minime della democrazia. Il sottoscritto sarà forse eccessivamente
sensibile, ma non è ancora riuscito ad abituarsi al cortocircuito
populista fra circuito delle istituzioni, con tutte le sue regole, e circuito
comunicativo dei media, con tutti i suoi trucchi.
Anche per questo il libro che state per leggere avanza diagnosi
semplici, e pertanto sfuggite agli specialisti, tenta qualche prognosi e
propone addirittura dei rimedi. La diagnosi, ormai relativamente
comune, è che i social veicolati da cellulari multifunzione, gli
smartphone, non sono più semplici mezzi (media), neutrali rispetto
agli scopi buoni o cattivi per cui li usiamo. Sono molto di più. Sono
l’ambiente vitale di Homo sapiens nel terzo millennio, questa strana
scimmia che già non distingue più fra reale e virtuale.
Quanto alla prognosi, il populismo digitale pare la forma di
democrazia più adatta all’ambiente vitale di internet. Dunque le élite
democratiche, riavutesi dalla sorpresa, dovrebbero smetterla di
consolarsi con la retorica dell’uscita dal tunnel, o dal baratro nel quale
i populisti ci starebbero trascinando. E non solo perché ci siamo già,
nel baratro, e stiamo ancora scavando. Il fatto è che quelle del tunnel o
del baratro sono anch’esse narrazioni, proprio come le narrazioni
populiste, solo infinitamente meno attraenti.
La realtà sta sempre altrove, e la vita è breve, dunque sarebbe il
momento di proporre dei rimedi. Per fortuna, come vedremo
nell’ultima parte del libro, la cura del virus populista è quasi obbligata.
Primo, difendere le istituzioni contromaggioritarie, non elette dal
popolo: la democrazia non è mai stata il governo del popolo, semmai è
il controllo del popolo sul governo. Secondo, usare il populismo
digitale come cura contro sé stesso: ossia, imparare a usare i social
meglio dei populisti. Terzo, se il problema è internet, allora va
regolamentato internet.
L’unica certezza è che la soluzione non è sconnettersi dalla rete,
come propone a cadenze fisse l’apocalittico di turno. Sconnettersi può
certo servire da terapia individuale contro quella dipendenza da social
che può colpire anche i migliori. Ma sconnettersi del tutto
equivarrebbe ad abbandonare il resto degli umani al lavaggio del
cervello. Con i social, invece, bisogna fare come Ulisse quando ascoltò
il canto delle sirene. Usarli, ma restando strettamente legati all’albero
maestro della razionalità.
Genova-Trieste, novembre 2019
Populismo, o democrazia presa alla lettera

La democrazia è di gran lunga il meno imperfetto


[dei regimi], perché è quello che limita di più il
potere di chi governa.
Raymond Aron, Introduction à la philosophie
politique

1. Premessa
Democrazia geneticamente modificata

Il populismo di cui tanti straparlano è un fenomeno nuovo, globale


e digitale. Nuovo: se ne parla solo dal 2016, l’anno del referendum
sulla Brexit e della vittoria elettorale di Donald Trump. Globale: non
interessa solo le democrazie consolidate occidentali ma anche le più
recenti. Digitale: se a proposito di Iran, Cina o Corea del Nord non se
ne parla è perché queste, oltre a non essere democrazie, esercitano un
controllo sulla rete, a differenza, se non all’opposto, di quanto avviene
nelle democrazie occidentali.
È il caso di specificare da subito, a scanso di equivoci, che per
«democrazia» intendo solo la liberaldemocrazia: rappresentativa,
liberale, costituzionale, pluralista… Ma non è, la mia, una concezione
originale: anzi, a ben vedere, la liberaldemocrazia è l’unico caso
indiscusso di democrazia. 1 Tutti gli altri casi, di fatto, sono
infinitamente più dubbi: a partire dalle democrazie illiberali dell’Est
europeo per arrivare alle cosiddette democrazie popolari d’Oriente,
che con la democrazia hanno poco o nulla da spartire.
I populismi, certo, sono una possibilità inscritta nel dna della
democrazia, un’ombra che questa si porta appresso. Oggi l’ombra si è
materializzata sul web, nella forma del populismo digitale, come
vedremo. Questo solleva già due domande. Il populismo digitale non
sarà una mutazione genetica della democrazia, tale da permetterle di
adattarsi all’ambiente digitale? 2 Tale mutazione non potrebbe
trasformare in illiberali, dunque in non-democrazie, le stesse
democrazie occidentali?
Questo primo capitolo si limita a mostrare che i populismi odierni
non sono incidenti di percorso, ma si radicano appunto nella stessa
tradizione democratica. Gli slogan populisti, in particolare, sono
distorsioni, a volte mere caricature, dei principi democratici. Le tre
sezioni centrali del capitolo, nell’ordine, mostrano le distorsioni
populiste dei principi di sovranità popolare, uguaglianza e
rappresentanza, delineano la crisi della democrazia rappresentativa e
provano a immaginare le democrazie populiste di domani.
Tale ricostruzione consente già una definizione del termine
«populismo», o almeno una caratterizzazione del fenomeno populista.
Il populismo è concepito cioè come democrazia presa alla lettera,
interpretazione letterale di principi democratici che in realtà hanno
sempre significato tutt’altro. Secondo tale definizione o
caratterizzazione, un leader, un partito o un governo possono dirsi più
o meno populisti se sostengono tutte o solo alcune di tali distorsioni,
in misura maggiore o minore.
Questa premessa affronta un altro problema preliminare:
«populismo» è davvero la parola più adatta per indicare ciò di cui
stiamo parlando? Ho iniziato questa ricerca mentre organizzavo
l’annuale seminario della rivista «Ragion pratica». Avendolo intitolato
Populismi e diritto, i miei colleghi hanno obiettato che «populismo» è
termine giornalistico, spregiativo e privo di definizioni condivise. 3
Questi, in effetti, sono i sospetti che gravano sulla parola da almeno
mezzo secolo. 4
In questo capitolo fornirò una definizione o caratterizzazione
minima di populismo, ma resta il dubbio: «populismo» è davvero il
termine più indicato per designare i fenomeni oggi comunemente
chiamati così dai media e dagli stessi politici? L’unica cosa certa è che
ci sono politici che non hanno alcun timore a proclamarsi populisti. Si
pensi solo a Matteo Salvini. Nel 2016, a Mosca, il leader della Lega
partecipò a un dibattito televisivo con un filosofo neonazista russo, il
quale osservò che «populismo» dovrebbe ritenersi un complimento
perché «significa stare con il popolo, essere amici del popolo». Salvini
rispose: «Io mi sono fatto fare una T-shirt, che ogni tanto indosso, con
la scritta “Io sono un populista”». 5 Entrambi, come tutti i populisti,
non si dichiarano «né di destra né di sinistra», tipica affermazione di
destra. 6 Ma il dubbio resta ed è opportuno esaminare cinque possibili
alternative a «populismo».

Giusto parlare di populismo?

La prima alternativa a «populismo» è il buon vecchio


«demagogia», termine di origine greca duplicemente spregiativo.
Intanto, perché demos, anche nel greco demokratia, non indica solo il
popolo, ma anche la sua parte peggiore: il popolino, il volgo, la plebe.
Poi, perché aghein significa parlare alla pancia del popolino,
ingannandolo sui suoi stessi interessi. E qui ignoro davvero se i
populisti di cui sopra, provocazione per provocazione, accetterebbero
di dirsi anche demagoghi.
D’altra parte, resta bizzarro ridurre a semplice demagogia uno stile
di governo che accomuna sicuramente lo statunitense Trump, il
britannico Boris Johnson, gli italiani Salvini e Luigi Di Maio, e poi
forse il russo Vladimir Putin, l’ungherese Viktor Orbán, il turco Recep
Tayyip Erdoğan, l’indiano Narendra Modi, il filippino Rodrigo
Duterte, il brasiliano Jair Bolsonaro. Quanti riducono il populismo a
mera demagogia 7 dovrebbero finalmente spiegarci a cosa mai si deve
questa inaudita epidemia di demagogia.
La seconda alternativa a «populismo» è «reazione». 8 Il termine
proviene dalla fisica, dove ogni azione produce una reazione uguale e
contraria, ed è stato introdotto in politica a fine Settecento, dopo la
Rivoluzione francese e il Terrore. L’inventore del liberalismo politico,
Benjamin Constant, lo oppose a «rivoluzione»: più le rivoluzioni sono
sanguinose, scrisse, più producono reazioni, riportando l’opinione
pubblica molto più indietro di quanto fosse prima della rivoluzione. 9
I reazionari non sono meri conservatori: sono rivoluzionari, ma
nella direzione del passato, non del futuro. Come i rivoluzionari
sognano l’avvento della Ragione, così i reazionari sono nostalgici di
una Tradizione spesso inventata, o almeno fortemente idealizzata. 10
Basterebbe questo per capire come i populismi odierni avanzino sì
slogan reazionari – razzisti, fondamentalisti, fascisti… – ma spesso lo
facciano solo strumentalmente: se gli slogan rivoluzionari
funzionassero meglio in rete, forse userebbero quelli.
La terza alternativa a «populismo» per indicare i fenomeni odierni,
la più vicina alle espressioni usate sinora, è «populismi», al plurale, a
segnalare che il nome comune può celare differenze abissali. Intanto,
ce ne sono di enormi fra i populismi odierni e i populismi «storici»:
russo, statunitense, latinoamericani… Questi sono fenomeni nazionali,
risposte locali a processi come occidentalizzazione,
industrializzazione, democratizzazione. Il populismo odierno, invece, è
un fenomeno globale. 11
Del resto, ci sono grandi differenze anche fra gli stessi populismi
odierni, che possono dividersi almeno in tre classi. I populismi
extraoccidentali, guidati da «uomini forti» cui ormai conviene
prendere il potere tramite le elezioni piuttosto che con i soliti golpe
militari. Le democrazie illiberali fiorite ai margini dell’Occidente, in
Europa dell’Est o in Turchia. Infine, i populismi occidentali, esplosi
anche in paesi che, come Regno Unito, Stati Uniti e Francia, hanno
inventato la liberaldemocrazia.
C’è però una quarta alternativa a «populismo», sempre più
adottata nella letteratura scientifica o accademica: parlare di
«neopopulismi». 12 Questo termine semitecnico, grazie al prefisso
«neo», ci ricorda che «populismo» non è più ambiguo, vago o generico
di «gioco», «numero», «religione» o «diritto». In realtà, tutti i termini
cruciali del nostro lessico indicano realtà diverse fra loro, spesso
accomunate solo da somiglianze «di famiglia», 13 e quando si fa lavoro
scientifico andrebbero sostituiti da termini tecnici.
Tuttavia applicare ai vari populismi odierni termini semitecnici
come «neopopulismi» non risolverebbe il problema dell’ambiguità,
vaghezza e genericità di «populismi» e, in più, si esporrebbe ad
almeno due obiezioni da parte dei populisti. La prima, vagamente
ridicola, suona: voi intellettuali, professoroni o gufi parlate apposta un
linguaggio per iniziati al solo fine di confondere il popolo. La seconda,
più seria, avverte: è inutile spiegare il populismo al popolo se poi
questo non ti capisce.
Resta allora solo una quinta alternativa: chiamare gli odierni
populismi, veicolati dal web, «#populismi», da pronunciare hashtag-
populismi, oppure – per tutti coloro che come i populisti nostrani non
parlano le lingue straniere – «populismi digitali». 14 In realtà, quanto
ad aggettivi qualificativi dei populismi odierni, c’è solo l’imbarazzo
della scelta. Proprio come gli inuit, o esquimesi, hanno molti nomi per
la neve, loro ambiente vitale, così noi abbiamo almeno sei aggettivi per
qualificare i nostri populismi.
Si potrebbe chiamarli populismi elettronici o informatici o
telematici, aggettivi che però sanno già di modernariato, oppure
populismi online, se non creasse confusione tra virtuale e reale. Si
potrebbe chiamarli cyberpopulismi, da kybernetes, parola che in greco
riguarda proprio l’arte del governo e forma già il composto
«cyberbullismo». La soluzione più semplice, però, è chiamarli
populismi digitali: non analogici, connessi fisicamente con il mondo,
bensì digitali, connessi solo tramite internet. 15
Qui, però, l’obiezione diviene: perché, dei tanti aspetti dei
populismi odierni, privilegiare proprio questo? Non si tratta di un
fattore meramente comunicativo? Internet, i social, gli smartphone,
non sono forse solo strumenti, utilizzabili tanto dai populisti quanto
dagli antipopulisti? La risposta può essere secca. Come vedremo
meglio più avanti, l’aspetto certo non esclusivo ma sicuramente
distintivo dei populismi odierni è proprio l’uso di internet. Almeno,
questa è la tesi di fondo del libro.

2. C’era una volta la democrazia


La caricatura populista di questo e altri concetti

Tutti credono che «democrazia» significhi governo (kratos) del


popolo (demos), ma questa traduzione standard è piuttosto inesatta.
Nella Politica, Aristotele distingue sei forme di governo, tre buone e
tre cattive a seconda che facciano il bene di tutti o solo quello dei
governanti. Il governo di uno solo, se buono, è detto monarchia, se
cattivo, tirannide. Il governo dei pochi, se buono, si dice aristocrazia,
se cattivo oligarchia. Il governo dei molti, se buono, si chiama
repubblica o politeia, se cattivo demokratia. 16
Tutti si affrettano a tradurre il greco antico demokratia – questa
forma di governo cattiva perché fa il bene di molti ma non di tutti –
con l’italiano «democrazia», ma questo calco oscura un’ambiguità. 17
Demos, infatti, può significare appunto tanto «popolo», ossia tutti,
quanto «molti», cioè una parte: la massa, il volgo, il popolino. 18 La
demokratia «cattiva» di Aristotele non è il governo di tutto il popolo
per tutto il popolo. È il governo di una parte contro un’altra, del
popolino contro le élite. 19
Tant’è che fino alla Rivoluzione francese nessuno ha mai chiesto la
demokratia, o governo del popolino per sé medesimo, semmai la
repubblica o politeia, il governo di tutti e per tutti. Nella repubblica
romana, populus era opposto a Senatus in espressioni come «Senatus
populusque romanus», a distinguere la plebe dal patriziato. Ancora
Machiavelli oppone il «populo», o popolino, ai «grandi», o élite: in
ogni Stato, per lui, ci sono «due umori diversi, quello del populo e
quello de’ grandi». 20
Questa è la prima e più generale caricatura populista della
democrazia: intendere «democrazia» alla lettera, come governo del
popolino (lat. plebs, fr. populace, ingl. crowd o mob, da cui mobbing)
contro l’élite, l’establishment e simili. Dimenticando che questa – per
Aristotele, e per ogni persona ragionevole – è la cattiva forma di
governo dei molti, non la buona. Vediamo subito che equivoci simili si
ripetono per altre tre parole magiche democratiche: «sovranità del
popolo», «eguaglianza» e «rappresentanza».

Sovranità del popolo

«Sovranità del popolo» è la formula che, sin dalle costituzioni


rivoluzionarie francesi, allude alla democrazia, altrimenti mai
nominata. Nella Costituzione federale statunitense, infatti, la sovranità
del popolo era evocata solo dalla formula di apertura: «We, the
People». Peggio ancora, in Gran Bretagna – il paese che ha inventato
la democrazia rappresentativa, la separazione dei poteri e la
Costituzione – non si è mai parlato di sovranità del popolo ma solo, a
partire dal Settecento, di sovranità del Parlamento. Soltanto nel 1972 è
stato istituito un referendum popolare per approvare l’adesione del
paese alla Ue, poi riconvocato nel 2016 per votarne l’uscita (la Brexit).
Ma ancora in questa seconda occasione la High Court (2016) e la
Supreme Court (2017), massime autorità giudiziarie britanniche,
hanno ricordato che nel Regno Unito vige la sovranità del Parlamento,
non del popolo. Il paese è entrato in Europa con un atto del
Parlamento, e deve uscirne con un atto uguale e contrario. 21
In Europa e ovunque, oggi, «sovranità» ha assunto due sensi. Il
primo è sovranità interna, attribuita «al popolo, che la esercita nelle
forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione» (art. 1 c. 2 Cost. it.): a
tutto il popolo, non solo alla parte populista. Il secondo senso è la
sovranità esterna, di diritto internazionale, attribuita agli Stati ed
esercitata dai governi: né al popolo (tutti) né al popolino (una parte dei
tutti). Si chiama sovranismo, invece, l’idea che al popolino spetti anche
la sovranità esterna, oltre a quella interna.
Ma torneremo a suo tempo sulla sovranità esterna e sul
sovranismo. Ora concentriamoci sulla sovranità interna: cosa significa
che il popolo è sovrano? I populisti affermano, alla lettera, che il
popolo comanda: conquistata la maggioranza in Parlamento,
costituisce un governo e quest’ultimo fa quel che vuole. Queste
affermazioni, ripetute dai leader populisti sui social, paiono
corrispondere alla lettera ai testi costituzionali. Si potrebbe chiamarla
«la sovranità del popolino».
«Sovranità del popolo», però, ha sempre significato l’opposto: il
popolo (tutti) e non il popolino (una parte) è sovrano solo nel senso
che è titolare della sovranità. 22 A esercitarla, però, non è certo il
popolo (tutti) né meno che mai il popolino (una parte), bensì il
governo e il Parlamento, beninteso nelle forme e nei limiti previsti
dalla Costituzione. 23 E questa non è l’interpretazione di chi scrive, né
l’interpretazione maggioritaria: è l’interpretazione pacifica, indiscussa,
del principio di sovranità popolare.

Uguaglianza

La seconda parola magica democratica, ancor più incompresa, è


«uguaglianza». 24 Nel 1789, in un momento di disperazione, i
rivoluzionari pensarono che, prima di finire in galera o appesi a un
lampione – il loro più probabile destino, allora – occorreva lasciare un
testamento politico a quanti, prima o poi, avrebbero ripreso la loro
lotta. Così nacque la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
(1789), che solo nel Novecento, con la Quarta repubblica, verrà
considerata un documento costituzionale.
Il valore più alto proclamato in questo testamento politico era
appunto l’uguaglianza: che allora significava poco più dell’abolizione
delle distinzioni di ceto risalenti al Medioevo, fra preti, nobili e
borghesi (il Terzo stato). Non si parlava ancora di uguaglianza fra
cittadini e stranieri, ricchi e poveri, uomini e donne, cristiani, non
cristiani e atei, abili e disabili, eterosessuali e omosessuali. Tutte
distinzioni, e discriminazioni, che sono divenute, con il tempo, il
bersaglio polemico del principio di uguaglianza.
Oggi, nei documenti costituzionali e internazionali, e
nell’interpretazione indiscussa delle grandi corti costituzionali e
internazionali, «uguaglianza» significa infinitamente di più che nel
1789. Prendiamo l’art. 3 c. 1 Cost. it. (1948), che pure conserva tracce
delle origini rivoluzionarie: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale
e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali».
Qui, letteralmente, l’uguaglianza è ancora attribuita ai soli cittadini.
Nella cultura giuridica mondiale, però, tutti gli uomini, siano essi
cittadini o stranieri, sono considerati uguali nei loro diritti detti
umani. La legge non può più discriminare né per i sette motivi elencati
dall’art. 3 né per molti altri. Ora, non è questo il significato nel quale
gli slogan populisti parlano di uguaglianza: anzi, per più versi è
diametralmente opposto. Si pensi solo a slogan populisti come
«America First» (Trump) o «Prima gli italiani» (Salvini).
Questi slogan funzionano come l’appello alla sovranità del popolo.
«Popolo» significa tutti, mentre per i populisti significa solo la parte
populista. Allo stesso modo, «uguaglianza» significa pari dignità di
tutti, ma per i populisti significa maggiore dignità di una parte,
rispettivamente gli americani e gli italiani. Basta questo per accorgersi
che «America first» e «Prima gli italiani» non hanno alcun senso
giuridico. Somigliano ai grugniti emessi dai maschi alfa degli
scimpanzé quando vogliono riunire il branco.
Per i giuristi, insomma, «sovranità del popolo» e «uguaglianza»
hanno un significato tecnico preciso e indiscusso. Per i populisti,
invece, hanno un senso più vago: noi americani e noi italiani siamo
uguali, dunque abbasso le nostre élite, ma i migranti non sono uguali a
noi, dunque abbasso pure loro. Quando sospettano la differenza, i
populisti se ne sbarazzano considerandola un altro inganno dei nemici
del popolo. 25 Specie su internet: questa straordinaria invenzione per
far credere alla gente di sapere quanto ignora.

Rappresentanza

Infine, si chiama democrazia, da due secoli, la democrazia


rappresentativa, fondata su una terza parola magica, il termine
«rappresentanza». Rappresentare significa rendere presente ciò che è
assente: e nella democrazia parlamentare, come avevano compreso i
suoi critici reazionari, il popolo è l’assente per antonomasia. 26 I
parlamentari, in effetti, sono eletti a due fini: esprimere una volontà
del popolo che senza di loro non esisterebbe, e deliberare, ossia
discutere e prendere decisioni in nome del popolo.
Per gli inventori della rappresentanza parlamentare era del tutto
ovvio che la democrazia rappresentativa si distinguesse dalla
democrazia diretta degli antichi proprio per l’autonomia che lascia ai
rappresentanti nella discussione delle leggi e nel voto. L’istituto che
protegge questa autonomia è il divieto di mandato imperativo,
stabilito anche dall’art. 67 Cost. it.: «Ogni membro del Parlamento
rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di
mandato».
Detto altrimenti, i parlamentari mediano fra il popolo sovrano e il
governo, e devono essere liberi da entrambi: dal popolo, grazie
appunto al divieto di mandato imperativo, dal governo, grazie alla
fiducia che possono dargli o ritirargli. Ma il divieto di mandato
imperativo è diventato uno dei tanti oggetti dell’odio populista: come
se pensare con la propria testa fosse uno dei tanti ingiusti privilegi dei
parlamentari. Per i populisti, il mandato dev’essere imperativo: ogni
parlamentare populista deve obbedire ai capi populisti.
Il senso dell’art. 67 Cost. it., però, è tanto chiaro che nessuna
distorsione interpretativa è possibile: sicché i populisti possono solo
raccontare ai propri follower che, quando avranno la maggioranza
necessaria, cambieranno l’art. 67. Se questo succedesse, d’altra parte,
non produrrebbe affatto il ritorno alla democrazia diretta, magari
online, come qualcuno di loro sogna. Al contrario, produrrebbe il
passaggio alla democrazia plebiscitaria, dove il voto è solo un
plebiscito che ratifica il volere dei capi.
Mentre forme di democrazia diretta si trovano nelle poleis greche,
nella res publica romana e nei comuni medievali, in effetti, la
democrazia plebiscitaria è l’ultimo passo prima del totalitarismo: il
governo assoluto del capo, su tutta la società, senza mediazioni
parlamentari. Populismo e totalitarismo hanno in comune proprio
questa ostilità a corpi intermedi come il Parlamento: l’illusione,
candida o cinica, di un rapporto diretto, in-mediato, fra governo e
«popolo», fra il potere e la massa. 27
La democrazia plebiscitaria, ossia la riduzione del Parlamento a
un’aula «sorda e grigia», da trasformare in «bivacco di manipoli», 28
era l’ideale di Mussolini, Hitler e Stalin. Questo resta l’ideale anche di
leader populisti come il russo Putin e l’ungherese Orbán, che però la
chiamano democrazia illiberale. Vedremo fra poco che i capi populisti
occidentali, come Johnson, Trump e Salvini, ma anche gli studiosi del
populismo, confondono tutte queste cose sotto i nomi di
rappresentanza diretta e disintermediazione.
Si può però anticipare che, in realtà, rappresentanza diretta e
disintermediazione sono solo un’altra forma di mediazione, diversa da
quella democratico-parlamentare: sono la mediazione per
antonomasia, quella dei media. Se i capi totalitari avessero avuto la
televisione o internet, si dice, non avrebbero avuto bisogno dei campi
di sterminio. Ma vediamo il lato positivo della cosa. Un tempo, per
impadronirsi del potere, le teste calde ricorrevano a sanguinosi colpi di
Stato. Ora non ce n’è più bisogno: c’è Facebook.

3. C’è ancora la democrazia, oggi?


Tre mutamenti che l’hanno allontanata dal popolo

Il XX secolo forse non ha cambiato il concetto di democrazia. Per


democrazia si intende sempre la stessa cosa: la liberaldemocrazia,
rappresentativa, liberale, costituzionale, pluralista. Ma le istituzioni
democratiche – non solo il Parlamento, la tutela dei diritti
fondamentali e la separazione dei poteri, ma anche i partiti, la stampa,
i media… –, quelle sì sono profondamente cambiate e funzionano in
modo del tutto diverso da quelle sette-ottocentesche.
Ci si è accorti del mutamento solo dopo che il populismo era ormai
esploso, attribuendo il fenomeno a cause contingenti come
globalizzazione, crisi economiche, migrazioni, risentimento,
rivoluzione digitale. In realtà c’è una causa politico-istituzionale del
populismo che viene da molto più lontano e coincide appunto con i
mutamenti che hanno interessato la democrazia parlamentare. 29 Qui
di seguito ne menziono solo tre, i più profondi, ma anche i più vistosi.
Il primo mutamento, tanto consolidato da passare ormai
inavvertito, è la concentrazione dei poteri nell’esecutivo. E si badi che
non si parla delle democrazie illiberali, ma proprio delle democrazie
liberali. Intanto, gli studiosi si occupano prevalentemente dei due
poteri normativi, legislativo e giudiziario, e ignorano non tanto
l’esecutivo quanto l’amministrazione: l’unico potere statale che dura
anche quando cambiano maggioranze e governi, e senza il quale gli
altri poteri non potrebbero funzionare. 30
Poi, e di conseguenza, non si riflette mai abbastanza sulle
conseguenze prodotte, sulle istituzioni democratiche stesse, da due
guerre mondiali, una guerra fredda, apparentemente chiusa dalla
caduta del Muro di Berlino (1989), e un numero imprecisato di guerre
asimmetriche, dalla Corea al Vietnam, dall’Afghanistan all’Iraq, spesso
mascherate da interventi umanitari, esportazioni della democrazia o
guerra al terrore. Tutti conflitti non dichiarati dai parlamenti, e gestiti
direttamente dagli esecutivi. 31
Tutte queste guerre, scatenate nonostante il, o forse addirittura
grazie al, principio del rifiuto della guerra come soluzione dei conflitti
internazionali, 32 hanno comportato uno spostamento enorme di
poteri dal legislativo all’esecutivo, e da questo all’amministrazione. Ad
esempio, la Costituzione degli Usa (1787) considera più importante il
Congresso del presidente. Proprio le guerre del XX secolo, invece,
hanno fatto del presidente degli Stati Uniti l’uomo (politico) più
potente della Terra.
Le cose non vanno troppo diversamente nelle forme di governo
parlamentari, ossia non presidenziali come quella statunitense, o
semipresidenziali, come quella francese. Pure qui, nel Regno Unito, in
Germania o in Italia, i professori di diritto costituzionale continuano a
chiedere ai loro studenti: «Chi fa le leggi?», aspettandosi che loro
continuino a rispondere, come un sol uomo: «Il Parlamento!». Ma la
domanda è un trabocchetto e la risposta, ammesso che sia mai stata
vera, non lo è più da almeno un secolo.
Anche nei governi parlamentari, cioè, la perpetua emergenza –
dalla ricostruzione postbellica al terrorismo, dalla globalizzazione alle
varie crisi economiche – ha spostato il potere reale dal Parlamento al
governo e da questo all’amministrazione. La «legislazione
motorizzata» – i provvedimenti presi dai governi dei paesi in guerra,
con o senza delega del Parlamento – è oggi la legislazione tout court.
Si governa per decreti governativi, e l’ultima parola non tocca affatto ai
giudici, come qualcuno crede, ma all’amministrazione. 33
Così funziona ciò che Carl Schmitt ha chiamato lo Stato legislativo,
dalla codificazione alla Seconda guerra mondiale, 34 dove le uniche
norme generali e astratte, però, non si trovano nella legge ordinaria
ma nei codici, ratificati dai parlamenti ma fabbricati da giuristi di
fiducia del governo. Così, vedremo tra poco, funziona anche lo Stato
costituzionale, nonostante i limiti costituzionali alla legge. E così
funzionano, vedremo nel resto del libro, le istituzioni occupate dai
populisti.
Anticipando: chi si fosse mai illuso che il populismo avrebbe esteso
la partecipazione democratica, adottando forme di democrazia diretta,
partecipativa o deliberativa, ha avuto una cocente delusione. I
populisti governano con decisioni prese dall’alto, per ordinanza o per
decreto, negoziate fra i capi e l’amministrazione, spesso al solo scopo
di mobilitare il popolino colpendo i bersagli del suo odio. Così si hanno
leggi scritte sempre peggio, promosse da capi disinformati e capetti
più disinformati dei capi. 35
Il secondo mutamento che ha interessato le istituzioni
democratiche è chiamato costituzionalizzazione ma dovrebbe
chiamarsi anche internazionalizzazione della democrazia. Nel
decennio che va dalla Dichiarazione universale dei diritti umani (1948)
ai trattati istitutivi della Comunità europea, poi Unione europea
(1957), passando per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (1950), specie in Europa, è cambiato il
paesaggio giuridico e politico, passando dallo Stato legislativo allo
Stato costituzionale (e internazionale). 36
Si tratta della democrazia, detta appunto costituzionale, in cui il
potere statale incontra limiti sia interni (costituzioni rigide, corti
costituzionali, interpretazione costituzionale) sia esterni (trattati
internazionali, corti internazionali). La democrazia costituzionale,
impostasi in Occidente 37 con la giurisprudenza delle grandi corti
costituzionali e internazionali, si era estesa ai paesi dell’Est dopo la
caduta del Muro di Berlino. Oggi, però, viene smontata pezzo a pezzo
dalle oligarchie postcomuniste e neonazionaliste.
I paesi del Gruppo di Visegrád – Repubblica Ceca, Slovacchia,
Polonia, Ungheria – stanno tornando alle tradizioni autoritarie pre-
Muro. Esemplare il caso dell’Ungheria di Orbán, passata in pochi anni
dai muri elettrificati, per impedire ai dissidenti di uscire, ai muri
elettrificati per impedire ai migranti di entrare. 38 Primo bersaglio di
queste autoproclamatesi democrazie illiberali sono stati, come sempre,
corpi intermedi quali la magistratura e i media indipendenti, bersagli
dell’odio populista anche nell’Europa occidentale.
Ma il populismo e il sovranismo – nell’Est Europa, il ritorno ai
nazionalismi precomunisti – si sono diffusi anche in Occidente. Per
chi crede nella sovranità del popolino, infatti, giudici e giuristi sono la
parte più pericolosa dell’élite: i veri nemici. E nient’affatto a torto: la
liberaldemocrazia è un delicato equilibrio fra poteri di governo,
maggioritari o eletti dal popolo, e poteri di garanzia,
contromaggioritari e non eletti, come i giudici. 39 Tolta l’indipendenza
della magistratura, non c’è più democrazia.
Occorre appena ricordare, però, che gli istituti della democrazia e
dello Stato costituzionale – costituzioni rigide, corti costituzionali,
giudici – non hanno certo la funzione di controllare «il popolo», la
maggioranza e simili, ma proprio di limitare il governo. Sono sempre i
governi, non i popoli, l’oggetto dei sospetti liberali e costituzionali:
specie dopo che gli esecutivi si sono impadroniti anche del potere
legislativo. Aron, nella frase citata in epigrafe a questo capitolo, l’aveva
capito perfettamente. 40
Dirò di più, esprimendo un’opinione forse poco comune nel vecchio
continente, ma non negli Stati Uniti, e che svilupperò a suo tempo. Le
istituzioni contromaggioritarie come i giudici, ma anche le stesse
istituzioni maggioritarie, come il Parlamento, non hanno tanto la
funzione di legittimare il potere, quanto di limitarlo. Del resto, se lo
scopo della democrazia fosse legittimare il governo, o addirittura
governare, ci sarebbero istituzioni migliori: il totalitarismo ha più
consenso, la tecnocrazia è più efficiente. È per limitare il potere che la
democrazia è insostituibile.
Infine, c’è un terzo mutamento istituzionale da registrare, molto
differente dai precedenti: lo svuotamento neoliberista della
democrazia. Si comincia a parlare di crisi della democrazia nel 1975:
gli Stati nazionali, si dice, non sono più in grado di assicurare la
«governabilità», 41 ossia di adempiere le promesse fatte negli anni del
boom economico. «Governabilità», governance (governo pubblico-
privato) e sovranità del consumatore (decide chi compra) sono poi
divenuti i mantra del neoliberismo, di destra e di sinistra.
Dove si trovava la pomata miracolosa chiamata governabilità? Ma
sul mercato, naturalmente: bastava privatizzare i servizi pubblici,
specie i più efficienti – sanità, trasporti, istruzione, università –,
trattenendo nel pubblico solo quelli manifestamente inefficienti, così
tutti avrebbero pensato che «privato è bello». Lo Stato nazionale, altro
mantra della governabilità, è per definizione inefficiente e corrotto:
privatizziamo i servizi statali, possibilmente alle imprese
multinazionali, ancor più efficienti di quelle interne.
Il risultato del sogno neoliberista, fattosi incubo nel nuovo
millennio, è che i servizi pubblici non ancora smantellati o resi
inservibili oggi si pagano infinitamente di più. Ma qui interessa solo lo
svuotamento neoliberista della democrazia, chiamato spesso
postdemocrazia dai politologi, 42 ma anche «trasformazione dello
Stato in un’azienda» dagli imbonitori televisivi. Uno Stato che fornisce
sempre meno servizi e sempre più intrattenimento: la politica stessa,
anzi, diviene un dipartimento dello spettacolo. 43
I leader neoliberisti di destra (Thatcher, Reagan, Sarkozy…) e di
sinistra (Clinton, Blair, oggi Matteo Renzi…) lasciano il posto ai veri
professionisti dell’intrattenimento. Silvio Berlusconi e Fernando
Collor de Mello, proprietari di televisioni in Italia e Brasile, vincono
facilmente le elezioni, salvo farsi cacciare prima o dopo per scandali
denunciati dai giornali e reati provati dalla magistratura. Intanto,
però, si realizza all’incontrario il sogno dei situazionisti sessantottini:
la società dello spettacolo. 44
I politologi, così, cominciano a segnalare fenomeni nel secolo
scorso nuovi, ma oggi perfettamente normali. Personalizzazione della
leadership, incarnata dall’«uomo del destino» di turno, sia o no
proprietario di televisioni. Disaffezione e volatilità dell’elettorato, che
vota automaticamente ogni nuovo «prodotto» politico. Crisi delle
ideologie novecentesche e dei partiti tradizionali, specie se di sinistra.
Campagna elettorale permanente, con sondaggi percepiti come
continuazione delle elezioni e viceversa.
Se lo svuotamento della democrazia parlamentare così realizzato
potesse sintetizzarsi in una frase, sarebbe questa. Il centro del conflitto
(in tedesco Streitthemen, pomi della discordia) è passato con il
neoliberismo dalla politica all’economia; con il populismo digitale, alle
tecnologie dell’informazione. 45 Teorie economiche della democrazia e
massmediologia anni Cinquanta hanno solo anticipato la pratica
odierna. Gli elettori sono diventati quel che sono sempre stati senza
saperlo: consumatori di politica.
Ma lasciamo neoliberisti e populisti ai loro mantra, che ormai
stupiscono solo i politologi, e ascoltiamo il sospetto insinuato dagli
psicologi. Con buona pace di Aristotele, gli umani non sono animali
razionali, meno che mai massimizzatori di utilità, come continuano a
concepirli gli economisti. La globalizzazione neoliberista e il
populismo digitale mostrano l’esatto opposto: l’1 per cento massimizza
la ricchezza, il 99 il risentimento. Torneremo sul sospetto degli
psicologi nel capitolo «La scatola delle meraviglie».
Comunque la si pensi, i tre mutamenti incontrati dalla democrazia
rappresentativa al volgere del millennio l’hanno fatta percepire come
più lontana dai bisogni del popolo della monarchia francese prima
della Rivoluzione. 46 L’attuale ondata populista potrebbe spiegarsi
come una reazione alla deriva neoliberale, ma forse ne è solo la
continuazione con altri mezzi: il web, dopo la televisione. 47 Tanto che
sorge un altro sospetto: il populismo digitale non sarà, per caso, la
democrazia di domani?

4. Ci sarà ancora la democrazia, domani?


Il populismo come stile politico

Il primo problema, per inquadrare un fenomeno sociopolitico, è


sempre definire il termine che lo designa: nel caso, il termine
«populismo» e i suoi derivati, sino a «populismo digitale»,
quest’ultimo per indicare i populismi odierni. Qui di seguito fornirò,
anzitutto, una definizione minima di «populismo»; poi, una teoria o
spiegazione sommaria del fenomeno (cui tornerò in modo più
articolato in seguito); infine, e forse soprattutto, un inventario delle tre
principali argomentazioni populiste.
Intanto, la definizione di «populismo». Le definizioni fornite
sinora, si è detto, oscillano fra la buona vecchia nozione di demagogia
e quella, più à la page, di stile politico. 48 «Populismo», però, non è
sinonimo di «demagogia», né di qualsiasi altra strategia per
conquistare il potere. Non indica neppure una dottrina, consegnata a
libri sacri come: per il liberalismo, La ricchezza delle nazioni (1776) di
Adam Smith, per il comunismo il Capitale (1867) di Karl Marx, o per il
nazismo Mein Kampf (1925) di Adolf Hitler.
Per qualcuno, il populismo è un’ideologia, ma debole, come il
nazionalismo, 49 detto anche sovranismo, se populista. Come il
nazionalismo per le nazioni, ci sarebbero tanti populismi quanti
popoli, rendendo sovranamente improbabile la narrazione di
un’«internazionale sovranista» che li collegherebbe. 50 Ma soprattutto
il populismo, come ideologia debole da coniugare con ideologie più
forti, avrebbe varianti inclusive o di sinistra, specie latinoamericane,
ed esclusive o di destra, specie europee. 51
In realtà, i vari populismi di oggi affermano di non essere né di
destra né di sinistra: affermazione di destra, ma plausibile. 52
Soprattutto, i vari populismi di sinistra (Podemos in Spagna, Syriza in
Grecia, secondo molti il Movimento 5 Stelle in Italia) sembrano
produrre sistematicamente, per reazione o imitazione, populismi di
destra sempre più aggressivi. Insomma, il populismo non è
un’ideologia: leader, partiti e governi populisti usano le ideologie
finché gli servono e poi le buttano, come fazzoletti di carta. 53
Il populismo è piuttosto uno stile politico: 54 con tutte le ulteriori
vaghezze connesse alla nozione di stile. In assenza di una dottrina o di
un’ideologia comune, infatti, fra i vari populismi c’è solo «un’aria di
famiglia», e in particolare somiglianze comunicative, retoriche,
argomentative. I vari populismi, in altri termini, sono accomunati
quasi solo dai loro slogan, adottati esclusivamente per l’efficacia
propagandistica dimostrata. «America first» in Italia diventa «Prima
gli italiani».
Qui di seguito propongo una definizione di «populismo», o almeno
una caratterizzazione del populismo, come democrazia presa alla
lettera: come semplificazione, distorsione o mera caricatura dei
principi democratici. Detto altrimenti, la retorica populista, pure qui
senza significative differenze fra populismi di destra o di sinistra,
prende pezzi di Costituzione, specie principi democratici come
sovranità popolare, uguaglianza e rappresentanza, e ne fa altrettanti
slogan, da ripetere sino allo sfinimento.
In questa sezione elenco i tre principali slogan o luoghi comuni
della retorica populista, comuni anche nel senso che accomunano i
diversi populismi. Vorrei insistere sin d’ora, però, che questa
deformazione dei principi democratici a scopi propagandistici non
funzionerebbe così bene se non fosse compiuta tramite internet. Del
resto è proprio sul web, specie sugli smartphone, che la gente di oggi
forma principalmente le proprie opinioni politiche: la televisione, al
massimo, rinforza il messaggio. 55
Proprio in rete prevalgono, come vediamo fra poco, interpretazioni
dei principi democratici che desterebbero l’ilarità di qualsiasi
dottorando in diritto costituzionale. Quando i populisti si appellano al
popolo, in particolare, i media digitali lo rendono molto più presente,
con i suoi like o i suoi insulti, di quanto lo sia mai stato nella
rappresentanza parlamentare. E poco male, per i populisti, se questa
presenza incombente del popolo era proprio l’incubo che i padri della
liberaldemocrazia volevano esorcizzare.

La politica via smartphone

La definizione di «populismo» appena proposta rinvia a una teoria


o spiegazione del fenomeno. Fra le sue cause – crisi delle istituzioni
democratiche, globalizzazione neoliberista, risentimento dei «perdenti
della globalizzazione» –, quella distintiva e decisiva è la rivoluzione
digitale, specie la diffusione planetaria dei cellulari multifunzione. 56
Gli smartphone hanno alterato definitivamente l’equilibrio fra i due
circuiti che, dal secolo scorso, veicolano la comunicazione politica.
Il primo circuito sono le stesse istituzioni democratiche. Nella
democrazia rappresentativa, in particolare, l’informazione viene dalla
società civile, è mediata dal Parlamento, e ritorna alla società civile
nella forma di leggi o provvedimenti che governano la vita sociale.
Questo primo circuito garantisce appunto una mediazione fra
informazione e governo: vi sono corpi intermedi – il Parlamento
stesso, i partiti, i sindacati… – che filtrano l’informazione proveniente
dalla società civile.
Il secondo circuito sono i mezzi di comunicazione, i media. 57 Fino
al secolo scorso, l’informazione per antonomasia era fornita dalla
stampa: dai giornali, mezzo di comunicazione riflessivo che seleziona
le notizie in ordine di importanza, distinguendo i fatti dalle opinioni.
Non a caso, proprio i giornali – «i giornaloni» – sono diventati la
bestia nera della propaganda populista. Infatti, anche il giornale
peggiore – quello che imita il web – permette di leggere e rileggere,
talora inducendo persino a pensare.
Sin dal Novecento la stampa è stata prima integrata e poi
progressivamente sostituita da media meno riflessivi, o «freddi», e più
intuitivi, o «caldi». 58 La mobilitazione di massa tipica dei regimi
totalitari sarebbe stata impossibile senza radio; la politica odierna
resta impensabile senza la televisione. Ma la politica populista si fa
sugli smartphone, 59 dando a tutti l’illusione di poter influire sulla
politica. Altri la chiamano disintermediazione. Io lo chiamo
cortocircuito fra istituzioni e media. Detto altrimenti, smartphone e
social media come Twitter, Facebook, YouTube, «saltano» le
mediazioni politiche tradizionali. Così facendo, danno l’illusione di
una comunicazione diretta fra politici e loro follower, facendo credere
a questi ultimi di avere un’influenza sulla vita pubblica. Inoltre,
permettono di trovare subito informazioni su qualsiasi argomento:
convincendo la gente di sapere già tutto quanto c’è da sapere, senza
bisogno di tecnici, esperti, scienziati e simili. 60
In realtà, questa pretesa disintermediazione è solo una nuova
mediazione, ancor meno trasparente della precedente. Non alludo,
qui, né al controllo di internet da parte di governi come quello cinese,
né all’infiltrazione di hacker russi. Anche dove la libertà di internet è
assicurata, infatti, la navigazione online genera distorsioni
sistematiche (bias) ben note agli psicologi. Queste distorsioni, a loro
volta, impediscono quella riflessione che è la ragion d’essere della
mediazione istituzionale.

Tre argomenti populisti

In conclusione, elenco tre argomentazioni (o argomenti, all’inglese)


che innescano il cortocircuito populista fra istituzioni e media. Nella
letteratura sull’argomento, in effetti, e anche in questo capitolo, al fine
di definire «populismo», si ricorre di solito a elenchi di argomenti,
assumendo che un leader, un movimento o un governo possa
qualificarsi come più o meno populista a seconda di quanti, e di
quanto, li usi. 61 Questi elenchi sono spesso molto lunghi, ma
contengono sempre i tre argomenti seguenti.
Il primo argomento populista, ovviamente, è l’appello al popolo,
che gioca sull’equivoco fra il senso tecnico di «popolo» (tutti i
cittadini) e il senso ordinario (il popolo populista, ossia la massa, il
volgo, il popolino). Per mostrare come funziona questo abracadabra,
basta sostituire «popolo» con «popolazione», «gli utenti del web» o,
più realisticamente, «l’insieme dei miei follower», e l’incantamento
svanisce.
Talvolta ci si riferisce a questo pretenziosamente, dicendo che
«popolo» è un «significante vuoto». 62 Detto altrimenti, per chi usa
con gli studiosi gli stessi trucchi che i populisti usano con i cittadini,
«popolo» non significa nulla, è una parola (significante) priva di
significato. Questa deplorevole circostanza, secondo gli incantatori di
studiosi, non dovrebbe essere denunciata bensì, al contrario, sfruttata,
specie dalla sinistra, facendo indicare al termine «popolo» gli sfruttati,
le minoranze, i perdenti della globalizzazione eccetera. Ma anche così
l’appello al popolo non è un significante vuoto, è una truffa.
Detto questo, vedremo che l’uso incantatorio dell’appello al popolo
può persino usarsi come una risorsa per la democrazia. Quando c’è
allarme per la tenuta delle istituzioni democratiche, il populismo
digitale può essere impiegato come le modalità «aereo» o «silenzioso»
dei cellulari: ci si appella al popolo, mettendo la democrazia in
modalità «populista». Ma se la crisi della democrazia diviene
strutturale, il populismo digitale rischia di trasformarsi da patologia in
fisiologia della democrazia. Si è già detto che il popolo populista non è
l’insieme di tutti i cittadini, ma una parte; più precisamente, l’insieme
dei cittadini meno la parte contro cui l’appello è lanciato.
Il secondo argomento populista, complementare al primo, è
appunto l’antipluralismo: 63 l’espulsione dal popolo di una sua parte,
demonizzata da un lato come «élite», «establishment», «Kasta»,
dall’altro come «migranti», «parassiti», «zecche». Demonizzazioni che
possono anche combinarsi, facendo di élite e migranti parti di uno
stesso complotto.
L’argomento drammaticamente più efficace della propaganda
populista, in effetti, consiste proprio nell’indirizzare il risentimento
contro pretesi nemici interni o esterni al popolo. Dunque, contro
l’élite, le istituzioni o i corpi intermedi interni, da un lato, e contro i
migranti e i «burocrati di Bruxelles», indifferentemente, dall’altro. Si
tratta di un meccanismo antichissimo: il sacrificio di un capro
espiatorio, ossia l’attribuzione a qualcuno, chiunque sia, della colpa
per tutte le difficoltà incontrate dalla comunità. 64
Demonizzazione relativamente facile con le navi delle
organizzazioni non governative (ong) che soccorrono i naufraghi nel
Mediterraneo, subito ribattezzate «taxi del mare». Demonizzazione
tecnicamente paranoica, invece, quando vaneggia di sostituzione
etnica: il complotto che sarebbe stato ordito da finanzieri ebrei come
George Soros, le stesse ong, la Chiesa cattolica, studiosi come il
sottoscritto, perché no, e gli stessi migranti, tutti insieme, per
sostituire le popolazione autoctone con gli immigrati. 65
Queste ragioni psicologiche o psichiatriche stanno dietro al
sovranismo: lo scambio della sovranità interna, di cui è titolare il
popolo, con la sovranità esterna, di cui è titolare lo Stato, per incolpare
dei problemi di entrambi la Ue, la finanza internazionale o complotti
demo-pluto-giudaici. «Sovranismo», in particolare, indica un mix
esplosivo di nazionalismo, razzismo e complottismo per mobilitare –
non tutto il popolo, evidentemente, ma – il popolino dei social contro
un qualsiasi colpevole della sua insicurezza (si veda più avanti il
capitolo «Il cavaliere oscuro»).
Il terzo argomento populista è la rappresentanza diretta, mix di
democrazia diretta degli antichi e democrazia rappresentativa dei
moderni: l’invocazione d’un legame speciale fra popol(in)o sovrano e
suoi rappresentanti. 66 I politologi sostengono che il populismo è
caratterizzato da una rappresentanza diretta, in-mediata o dis-
intermediata. Per la solita sottovalutazione del web, però, pensano alla
relazione diretta, empatica e plebiscitaria che correva fra i leader
totalitari e le masse.

Somiglianze tra populismo e totalitarismo

Negli studi sul populismo, in effetti, ai tre elementi centrali appena


indicati se ne aggiunge almeno un quarto: la personalizzazione. Il
popolo populista, cioè, verrebbe rappresentato da un uomo (o una
donna) che ne incarnerebbe le richieste. In realtà, la personalizzazione
non è un tratto distintivo del populismo: è un aspetto comune a tutta
la politica mediatizzata. Il popolo depoliticizzato, che si interessa a
malapena di politica per sapere se e chi votare, sceglie sulla base (non
dei programmi, ma) del leader.
Fra populismo e totalitarismo, semmai, ci sono altre somiglianze:
antipluralismo, semplificazione, la stessa mediatizzazione.
Quanto all’antipluralismo, già sappiamo che liberalismo e
pluralismo sono il nemico comune ai totalitarismi novecenteschi e al
populismo del terzo millennio. Le democrazie illiberali dei vari Orbán
e Putin, anzi, sono eredi dirette di fascismi e comunismi. Con una
differenza: che pretendono di essere democrazie, appunto illiberali, e
che quindi i loro leader siano scelti dal popolo.
La semplificazione è spesso considerata un quinto ingrediente del
populismo, con i tre qui elencati più la personalizzazione. Ma, di
nuovo, si tratta di un aspetto comune a tutta la politica democratica,
sin dall’istituzione del suffragio universale. 67 Richiesti di spiegare
perché mai votino leader populisti dal passato oscuro e dagli obiettivi
inquietanti, gli elettori poco acculturati – la stragrande maggioranza –
non sanno dire altro che «Almeno parla chiaro». E hanno ragione: chi
non sa comunicare non faccia il politico.
L’ultima somiglianza fra totalitarismo e populismo, strettamente
connessa alla precedente, consiste nella mediatizzazione: entrambi
usano media che richiedono slogan semplici, capaci di parlare non al
«cervello» ma alla «pancia» degli elettori. La stessa personalizzazione,
a ben vedere, è solo un’euristica: l’abbreviazione, a uso del volgo, di
discorsi troppo complessi. Ma duci e Führer parlavano alla radio, i
videocrati tardonovecenteschi usavano la televisione, mentre leader e
movimenti populisti odierni usano internet.
Duce e Führer erano rispettivamente un giornalista e un pittore
fallito che recitavano da capi militari. I leader populisti non devono
fare neppure questo sforzo. Che siano studenti fuoricorso, conduttori
televisivi oppure comici, è sufficiente che siano sé stessi, ossia dei
mediocri, perché il popolo possa riconoscersi in loro. Devono essere,
alla lettera, uomini della folla, come l’anonimo protagonista
dell’omonimo racconto di Edgar Allan Poe. 68 Uomini (e donne) del
popol(in)o: anzi, se possibile, pure un po’ peggio.
Cos’è cambiato, fra totalitarismo e populismo? La pretesa di
democraticità del populismo, certo, ma soprattutto il web. La
rappresentanza diretta populista non è altro che la cosiddetta
disintermediazione: termine che non a caso proviene dal gergo delle
vendite online. 69 Queste «saltano» la mediazione fra produttore e
consumatore assicurata da negozi, supermercati e centri commerciali.
La rappresentanza diretta, analogamente, «salta» la mediazione fra
produttori e consumatori di politica.
Ma, come ha mostrato Gabriele Giacomini, 70 la pretesa
disintermediazione è solo un’altra mediazione. Proprio come nel
commercio online fra produttori e consumatori c’è Amazon, così nella
politica online ci sono Google, Facebook, Twitter. Gli imprenditori
californiani del digitale sono spesso liberal, come il padrone di
Facebook, Mark Zuckerberg. Come imprenditori, però, hanno
interesse al trasferimento della politica sul web, con aumento del
traffico online, della pubblicità e dei guadagni. 71
Ma l’aspetto più significativo della rappresentanza diretta
assicurata dal web è la sua pervasività: nessuna rappresentanza
precedente ha mai prodotto una presenza così ossessiva e martellante
della politica nelle nostre vite. Già i regimi totalitari invadevano ogni
sfera della vita quotidiana; già la videocrazia neoliberista occupava
anche il tempo libero. I rappresentanti diretti populisti, rivolgendosi a
comunità virtuali di milioni di persone, ne esprimono davvero «in
diretta» pulsioni, pregiudizi, ossessioni.
Non si tratta più di sola propaganda, dall’alto: fra produttori e
consumatori di politica si istituisce un circolo vizioso. Il cortocircuito
fra istituzioni e media, per cui non si sa mai se il politico populista di
turno parla come ministro o come avventore di un bar, si estende alla
vita quotidiana. (Dis-)informandosi gratis sulle news che scorrono sui
nostri cellulari, o mettendo d’istinto dei like sui social, ognuno di noi
cede i propri dati ai padroni del web e alimenta la macchina
comunicativa populista.
È in questo cortocircuito o circolo vizioso – apparentemente, la
realizzazione del sogno populista della sovranità del popolino – che
consiste il vero pericolo del populismo digitale. Il pericolo, cioè, non
sta nel fatto che il popolo viene manipolato: questo succede sempre, e
non solo nei regimi totalitari, ma anche nella democrazia
rappresentativa tradizionale. Il pericolo sta proprio nel materializzarsi
del peggiore incubo dei nostri avi liberaldemocratici: che a governare
siano la pancia e i risentimenti della massa.
La democrazia rappresentativa tradizionale è spesso accusata dai
populisti di essere autoreferenziale: di rinchiudersi nei palazzi del
potere, ignorando le sofferenze del popolo. Ma il populismo digitale è
più autoreferenziale ancora: riduce il gioco politico, come fra gli
scimpanzé, ai grugniti scambiati sui social fra il maschio alfa e il
branco digitale. Una sorta di macchina celibe alla Marcel Duchamp,
dove nessuno esce mai dal circolo delle proprie emozioni, pulsioni e
ossessioni personali. 72

5. Conclusione
Il momento populista – i quattro anni passati dal referendum sulla
Brexit, raccontati nel prossimo capitolo – ci ha insegnato di più, sul
funzionamento e sui rischi della democrazia, che sessant’anni di
routine parlamentare. La democrazia è lo strumento più semplice mai
inventato per svolgere due funzioni in conflitto fra loro: intanto
controllare il governo, e poi legittimarlo. Finché il populismo digitale
limita il governo, è compatibile con la democrazia. Se serve solo a
legittimarlo, la uccide.
Il populismo digitale, intanto, finisce per svuotare la democrazia,
riducendola al guscio vuoto di istituzioni e procedure parlamentari. 73
Queste continuano a funzionare come in una recita della quale gli
attori hanno ormai perduto il senso. Il Parlamento, nato in Inghilterra
solo per approvare il bilancio, ossia tutte le imposte necessarie al
funzionamento dello Stato, perde allora la propria funzione essenziale:
che non è decidere la politica nazionale o fare le leggi, insisto, ma
proprio controllare il governo.
Ma soprattutto il populismo digitale si rivela una macchina per il
controllo sociale molto più raffinata di quante l’hanno preceduta. Il
suo precedente più immediato è la biopolitica liberista prima, e
neoliberista poi: il controllo dei corpi tramite istituzioni disciplinari
quali carceri, caserme, scuole, ospedali, manicomi. Il paradigma di
questo controllo è il Panoptikon, il carcere-modello inventato dal
filosofo utilitarista Jeremy Bentham, nel quale un solo carceriere, dal
centro, controlla tutti, carcerati e secondini.
Il populismo digitale costituisce una tappa ulteriore del controllo
sociale perché non ha più bisogno di carcerieri che controllino i corpi
dal centro: il suo controllo è infinitamente più decentrato. Le persone
accedono al web, anche solo per ordinare una pizza o per mettere un
like, e gli cedono tutti i loro dati personali. In questo modo, finiscono
per controllarsi a vicenda tramite la rete. Il populismo digitale non si
accontenta della biopolitica, cioè del controllo dei corpi: mira alla
psicopolitica, al controllo delle anime. 74
Brexit, Trump e governo gialloblù
Tre populismi digitali

In politica, alcuni sanno moltissimo, la


maggioranza non sa niente e molti sanno meno di
niente.
Jason Brennan, Contro la democrazia

1. Premessa
2016: annus horribilis della democrazia

Si è cominciato a parlare di populismo, a proposito delle


democrazie consolidate occidentali, solo nel 2016, a seguito di tre
circostanze, poi divenute così ovvie da rischiare di passare inosservate.
Il 2016, prima circostanza, «non è stato un buon anno per la
democrazia», 1 anzi, è stato il suo annus horribilis. Quell’anno gli
inglesi hanno votato per uscire dalla Ue (la Brexit), gli americani
hanno eletto Trump presidente degli Usa. Di lì ha avuto inizio il
«momento populista», 2 dove «momento» può indicare un attimo, ma
anche un’epoca.
Seconda circostanza: nel 2016 ci si è improvvisamente accorti che ai
margini dell’Occidente – in Polonia, Ungheria, Turchia… – fioriscono
le democrazie illiberali, governate da populisti come il russo Putin e
l’ungherese Orbán.
Terza circostanza: nel 2016 si è cominciato a sospettare che la
democrazia non sia pianta adatta a tutti i terreni. Nata nelle poleis
greche, a Roma, nei comuni italiani, non cresce facilmente fuori
dall’Occidente. Potrà mai attecchire nelle megalopoli dove vive più
della metà del genere umano? 3
Verificare la seconda e la terza circostanza richiederebbe
un’indagine globale e una documentazione immensa. 4 La prima
circostanza, invece, è più alla nostra portata. Qui di seguito mi limiterò
dunque a esaminare tre casi paradigmatici di populismo digitale:
Brexit, amministrazione Trump e governo gialloblù italiano. 5 Tutti e
tre i casi sollevano lo stesso interrogativo: dopo aver espugnato tre
democrazie occidentali consolidate, il populismo digitale non potrebbe
diventare il modo di funzionamento normale della democrazia? 6
Un aspetto che accomuna questi eventi è che sono tutti e tre esempi
di effetti non intenzionali di azioni umane miranti a scopi diversi o
persino opposti a quelli che ne sono conseguiti. 7 Questo non deve
rassicurarci, come se fosse un incidente nella storia della democrazia.
Al contrario, dovrebbe allarmarci ancor di più. Ci si potrebbe persino
vedere una sorta di astuzia della ragione, come se i populismi digitali
fossero destinati a imporsi a dispetto di tutto, anche dei nostri sforzi
per contrastarli.
Fino al momento populista, l’evoluzione del diritto e della politica
occidentali sembrava scandita in tre epoche, dette Stati, con la
maiuscola, ma talvolta anche stati, con la minuscola: gli Stati o stati
giurisdizionale, legislativo e costituzionale. 8 Nello Stato
giurisdizionale, dall’antichità alle codificazioni sette-ottocentesche, il
diritto veniva prodotto da organi decentrati come giuristi e giudici:
non si trattava ancora di uno Stato nel senso moderno della parola,
cioè di un’istituzione centrale che monopolizza politica e diritto. Nello
Stato legislativo, dalle codificazioni alla fine della Seconda guerra
mondiale, invece il diritto è prodotto dalla politica, ossia da parlamenti
più o meno democratici, nella forma di una legislazione poi applicata
da giudici e funzionari amministrativi. Lo stesso avviene anche nello
Stato costituzionale, da Auschwitz ai giorni nostri, con la differenza
che politica e legislazione sono subordinate a costituzioni rigide e
trattati internazionali, fatti rispettare da tribunali costituzionali interni
e corti internazionali.
Se questa successione di epoche fosse necessaria e inevitabile –
come si pensava fossero il progresso nel Settecento, il libero mercato
nell’Ottocento, il socialismo nel Novecento –, lo Stato costituzionale,
che in politica si chiama liberaldemocrazia, sarebbe il destino
dell’Occidente e forse del pianeta. Come vediamo qui di seguito,
invece, l’ondata populista alzatasi nel 2016 incrina questa illusione,
perché erode anzitutto costituzioni e trattati internazionali.

2. Brexit: il populismo d’opposizione


L’azzardo di Cameron

Pur avendo inventato costituzionalismo, democrazia parlamentare,


separazione dei poteri, o forse proprio per questo, il Regno Unito non
è mai diventato uno Stato costituzionale, con costituzioni rigide e corti
costituzionali. Per un meccanismo psicologico comune – il ritardo
causato dall’anticipazione –, è orgogliosamente rimasto uno Stato
legislativo. 9 I britannici seguono ancora il principio ultrademocratico
della sovranità del Parlamento: il quale può far tutto tranne cambiare
l’uomo in donna e forse, oggi, persino questo.
Non solo la parte più tradizionale del diritto inglese, il common
law, dipende ancora dai precedenti giudiziali, il che ricade addirittura
nello Stato giurisdizionale. Ma nulla impedisce che le leggi ordinarie,
lo statute law, violino impunemente i diritti dei cittadini britannici,
per non parlare di quelli degli stranieri. Il massimo cui si è spinto il
Regno Unito, nella direzione dello Stato costituzionale, è infatti lo
Human Rights Act (1998), che si limita a recepire la Dichiarazione
europea dei diritti dell’uomo (1950) di quarant’anni prima.
Questo atavico attaccamento alle proprie tradizioni insulari, forse,
basterebbe già a spiegare lo psicodramma chiamato Brexit. Il termine
«Brexit» è stato coniato nel 2012, quando già montava l’insofferenza
verso governi britannici ritenuti troppo accomodanti verso l’Unione
europea, per indicare l’uscita del Regno Unito dalla stessa Ue, in cui
era entrato nel 1973. 10 Le vicende della Brexit sarebbero complicate
da raccontare, oltre a essere ancora in corso. Qui insisterò solo sul
ruolo che vi ha giocato il populismo digitale.
La decisione di indire un referendum per far decidere al popolo
britannico (inglese, gallese, scozzese, nordirlandese) l’uscita (Leave) o
la permanenza (Remain) nella Ue fu presa dal premier conservatore
David Cameron a due scopi. Intanto, per ottenere una legittimazione
politica personale, mettendo a tacere la minoranza euroscettica dei
conservatori che brigava per sostituirlo. Poi, per trattare da posizioni
di forza con l’Europa, mostrandole quanti privilegi dovessero
concedersi ai britannici per arginare il loro euroscetticismo.
Era un autentico azzardo, che non teneva conto di almeno tre
fattori. Il primo è d’ordine costituzionale: il sistema giuridico inglese,
come si è detto, è retto dalla sovranità del Parlamento, non del corpo
elettorale. 11 Giuridicamente, il referendum è solo consultivo, l’ultima
parola spetta comunque al Parlamento. Il secondo fattore è politico:
vari referendum tenutisi in vari paesi del continente avevano dato
sempre risultati contrari – non alla Ue in sé, ma – a governi
filoeuropei come quello di Cameron. 12 Il terzo fattore, su cui insisto
qui ma che nel 2016 era ignoto ai più, è proprio il populismo digitale.
Fino alla Brexit, infatti, si sapeva solo che internet era stato decisivo
per la duplice vittoria di Obama alle presidenziali statunitensi.
Nessuno, e certo non il povero Cameron, poteva immaginare che
diventasse decisivo in senso antieuropeo. Alcuni, del resto, non lo
capiscono neppure oggi, e quando si accenna al ruolo di internet in
politica ti guardano con compatimento, come se ti fossi fatto incantare
dall’ultima moda.

Puntare sugli indecisi

Partiamo proprio dal populismo digitale. Nessuno può seriamente


sostenere che una campagna elettorale in rete e accurate
manipolazioni del consenso siano sufficienti a vincere le elezioni o un
referendum: oltre alle condizioni mediatiche, occorrono anche
condizioni politiche ed economiche. Quando però, come per la Brexit,
l’elettorato è già diviso più o meno a metà, e il Remain appare molto
più incerto di quanto si illudesse Cameron, allora internet può davvero
fare la differenza. Ce lo racconta un docufilm andato in onda nel
Regno Unito e negli Usa nel gennaio del 2019: Brexit: The Uncivil
War. Soprattutto, ce lo spiega la conferenza annuale al Ted tenuta
l’aprile successivo da Carole Cadwalladr, giornalista già nota per aver
scoperchiato la pentola di Cambridge Analytica.
Cominciamo dal docufilm, incentrato sulla figura – interpretata nel
film da Benedict Cumberbatch – di Dominic Cummings, allora spin
doctor del Leave e oggi del premier Johnson. Cummings viene
assoldato da una lobby di conservatori che mirano solo a sbarazzarsi di
Cameron, e non solo inventa lo slogan vincente, ossia «Riprendi il
controllo (di casa tua)», ma ottiene da una società collegata a
Cambridge Analytica i dati personali di milioni di elettori ricavati dalle
loro pagine Facebook. I dati gli permettono di profilare gli elettori e di
inviare notizie personalizzate ai cellulari di ognuno. Anche i britannici,
infatti, non si (dis)informano più a pagamento sui giornali, ma gratis
sul telefonino. 13
Ora, mentre i leader populisti del Leave, Nigel Farage e un allora
esitante Johnson, 14 insistevano per una propaganda più tradizionale,
Cummings optò per il populismo digitale. Nel Regno Unito c’era un
terzo di fan della Brexit e un terzo di irriducibili contrari; lui decise
allora di puntare sul terzo di indecisi. Costoro cominciarono a essere
martellati da fake news personalizzate: prossime invasioni dell’Europa
da parte di 76 milioni di turchi; possibilità, in caso di Brexit, di
recuperare alla sanità britannica i contributi fino ad allora versati alla
Ue…
Funzionò. Per la verità, il Leave vinse a malapena, con il 51,9 per
cento, ma questo bastò a concludere che il popolo, ormai, aveva
deciso. In realtà, come si è detto, si era solo spostata una percentuale
di incerti, ma grazie al solito trucco populista – far passare una parte
del popolo per il tutto – la strada era in discesa. Di fatto, nel docufilm i
politici pro Leave, come Farage e lo stesso Johnson, sono presentati
come altrettanti pagliacci. A vincere il referendum, infatti, non sono
stati loro, ma proprio il populismo digitale.
Lo spiega in dettaglio Cadwalladr nel suo discorso al Ted: discorso
che si trasformerà in un formidabile atto d’accusa contro Facebook,
responsabile di essersi venduti i dati personali degli utenti. Dopo il
voto, racconta la giornalista, il direttore del suo giornale la spedì a
Ebbw Vale, paesino del Galles dove era cresciuta e dove la gente aveva
votato al 62 per cento per la Brexit. Un luogo qualunque, ma
rappresentativo delle aree extraurbane dove i populisti spopolano (per
dir così).
Il paesaggio di Ebbw, mostra Cadwalladr, è profondamente
cambiato dopo l’entrata del Regno Unito nell’Unione europea. In
sostituzione delle fabbriche dismesse, infatti, sono stati costruiti edifici
quasi spaziali, con cartelli che segnalano bene la provenienza europea
dei fondi serviti a costruirli. Ma il popolo non li vede, è ipnotizzato dai
propri cellulari. Così, un intervistato confessa candidamente di aver
votato Brexit perché l’Europa non ha mai fatto niente per lui, quando
tutto il paesaggio circostante lo smentisce.
Ancora, molti intervistati si dicono preoccupati per l’immigrazione,
benché l’unica immigrata, a Ebbw, fosse una vecchia signora polacca.
Ciò corrisponde a un’osservazione banale: di solito, più un luogo è
estraneo all’immigrazione, come l’Ungheria, e più ne ha paura. In
breve, la lezione che Cadwalladr trae dal ritorno a Ebbw è proprio
questa: il popolino populista vive ormai nella dimensione parallela dei
media e quando deve votare non crede più ai propri occhi, bensì al
proprio cellulare.
Giunti a questo punto, già li vedo, politologi e scienziati sociali in
genere, alzare il sopracciglio. E la globalizzazione? La
deindustrializzazione? La disoccupazione? Il contesto socioeconomico
è decisivo, certo, come del resto il fiume di denaro profuso da oscuri
finanziatori in violazione delle leggi britanniche. 15 Eppure, questa la
mia controbiezione, se nello stesso identico contesto socioeconomico
gli indecisi non fossero stati bombardati di fake news, non saremmo
qui a parlare di Brexit.
Dopo che il popolo aveva parlato, infatti, non solo l’inetto Cameron
ha rassegnato le dimissioni, ma la maggioranza dei parlamentari e i
nuovi premier – dall’impalpabile Theresa May al clownesco Johnson –
sono saliti sul carro del Leave. A differenza del postino, inoltre, il
popolo suona solo una volta. Voglio dire: benché in seguito i britannici
abbiano cambiato idea, di fronte alle prospettive catastrofiche di
un’uscita, specie senza accordi (il no deal), un nuovo referendum resta
improbabile.
Volendo infierire, si potrebbe raccontare la guerriglia parlamentare
e le penose trattative con la Ue, entrambe ancora in corso. Ma questi
sono tutti problemi da lasciare ai fan del Parlamento e dello Stato
legislativo, i quali dovranno pur farsi sfiorare dal dubbio circa i loro
idoli, prima o poi. D’altronde, se siamo europeisti, che ci importa del
Regno Unito? Peggio per i britannici, meglio per l’Europa. Non è stata
forse proprio la Gran Bretagna, sin dal suo ingresso nel 1973,
l’autentica palla al piede della Ue?
La narrazione del deficit democratico

Può essere interessante, invece, confrontare la spiegazione appena


fornita della Brexit – effetto di più cause, fra le quali è stato decisivo il
populismo digitale – con la narrazione (spiegazione in forma di
racconto) del deficit democratico: 16 la colpa è tutta della Ue, che non è
abbastanza democratica. Narrazione corrente fra gli stessi remainers
britannici, spesso convinti che, per uscire dal vicolo cieco della Brexit,
non basti al Regno Unito la democrazia più maggioritaria del mondo,
ma occorra ancor più democrazia. 17
Secondo la narrazione del deficit democratico, l’Ue è in crisi perché
è «lontana dal popolo», il quale, manco a dirlo, «diffida dei tecnocrati
di Bruxelles». I Brexiters avrebbero votato Leave soprattutto per
questo, non per le loro nostalgie insulari e imperiali o perché
abbindolati da Cummings, Farage e Johnson. Però chiediamoci:
ammesso e non concesso che si possa ulteriormente democratizzare la
Ue, i britannici potrebbero mai rimediare alla Brexit con più
democrazia?
La risposta è no: non esiste al mondo un sistema politico più
maggioritario della sovranità del Parlamento. Eppure questo sistema
non solo non ha messo la Gran Bretagna al riparo della Brexit, ma non
la esenta neppure dal rischio della sua propria dissoluzione. Come dice
il nome, infatti, il Regno Unito è un’unione fra quattro nazioni –
Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord –, una delle quali, la
Scozia, fu uno Stato indipendente fino agli inizi del Settecento, ed è
fortemente tentata dal ridiventarlo.
Ancora nel 2014, infatti, in un referendum indetto a questo scopo, il
45 per cento degli scozzesi voleva andarsene dalla Gran Bretagna,
proprio come i catalani dalla Spagna e i leavers dalla Ue. Nel 2014,
però, il Regno Unito stava ancora nella Ue, e questo dava agli scozzesi
garanzie contro l’Inghilterra di cui la Brexit ora rischia di privarli. Non
dimentichiamo neppure che, prima dell’Atto di unione con
l’Inghilterra (1707), la Scozia era alleata della Francia, e ancor oggi ha
un sistema giuridico diverso da quello inglese e più vicino al
continente.
Non a caso, nel referendum sulla Brexit, Scozia, Galles e Irlanda del
Nord hanno votato a maggioranza per restare nella Ue. La premier
scozzese Nicola Sturgeon, anzi, ha già chiesto un secondo referendum
in caso di Brexit. 18 Insomma, la pretesa maggiore democraticità del
Regno Unito rispetto alla Ue non lo immunizza dalla dissoluzione, al
contrario. Più in generale, se «democrazia» indicasse mai solo la
regola di maggioranza, alla crisi della democrazia si dovrebbe
rispondere con meno democrazia.
Per fortuna, in questo libro, «democrazia» significa un’altra cosa: la
liberaldemocrazia, ossia, come vedremo ancora più avanti, regola di
maggioranza più istituzioni contromaggioritarie. Più democrazia,
dunque, non significa più voti a maggioranza: semmai più controlli sul
governo. Ad esempio, mentre sto chiudendo questo libro, il premier
populista Johnson, per conseguire una Brexit ormai ottenibile solo
evitando un nuovo referendum, ha prima sospeso il Parlamento, poi
tentato di scioglierlo, infine ottenuto dall’opposizione il ritorno alle
urne.
Appellandosi al «popolo» dei sondaggi, che pare stia ancora con lui,
contro il popolo rappresentato in Parlamento, che sta certamente
contro, Johnson fa una tipica mossa populista: gioca al popolo contro
le élite parlamentari. Ma il populismo, ricordiamolo, non è
un’ideologia, è uno stile politico, senza vincoli di coerenza. Se
riacquistasse la maggioranza parlamentare e perdesse quella nei
sondaggi, dunque, Johnson farebbe l’opposto: si appellerebbe al
Parlamento contro il popolo.
Come andrà a finire lo sapremo nei prossimi mesi, dopo che questo
libro sarà stampato: Leave oppure Remain, e nel caso di Leave, pare,
accordo con la Ue. Ma qui bisogna appena sottolineare tre cose. Primo,
i britannici sono entrati in questo incubo per merito o per colpa del
populismo digitale. Secondo, apprendisti stregoni come Johnson sono
diventati semplici burattini della spirale populista che hanno
innescato. Terzo, comunque vada, il Regno Unito, ammesso che resti
tale, impiegherà anni e anni per riprendersi dallo choc.

3. Trump: il populismo di governo


Una vittoria imprevedibile a colpi di tweet
Ci sono almeno due somiglianze fra Brexit e vittoria di Trump. La
prima è il carattere non intenzionale di entrambi gli eventi: come
Cameron non avrebbe mai pensato di perdere, così Trump neppure
immaginava di diventare presidente degli Stati Uniti. 19 La seconda è il
populismo digitale: se crediamo a Cadwalladr, citata sopra, «la Brexit
e l’elezione di Trump sono strettamente legate. Ci sono dietro le stesse
persone, le stesse aziende, gli stessi dati, le stesse tecniche, lo stesso
utilizzo dell’odio e della paura». 20
Occupiamoci allora della vittoria di Trump, avvenuta pochi mesi
dopo la Brexit e parsa più sorprendente ancora. La sera delle elezioni,
il sottoscritto era a cena, a Trieste, con uno dei maggiori politologi
italiani. Sapevo che all’alba del giorno dopo il mio amico avrebbe
dovuto commentare alla radio i risultati elettorali statunitensi, sicché
gli dissi di andare pure a seguire la lunga notte elettorale. Mi rispose
che non ce n’era bisogno perché il risultato era certo: avrebbe vinto
Hillary Clinton.
Tutti sanno com’è andata, invece. Come sempre, dopo sono state
fornite molte spiegazioni del perché quanto accaduto non potesse non
accadere. Ma in realtà aveva ragione il mio amico: la vittoria elettorale
di Trump era imprevedibile. Perché? Per un fattore – il populismo
digitale – allora pressoché ignoto. 21 Altrimenti, come spiegare la
vittoria di un palazzinaro più volte fallito, poi divenuto conduttore
televisivo, senza esperienza e cultura politica, e soprattutto con un
decimo dei finanziamenti elettorali raccolti dalla signora Clinton? 22
Come sempre, c’entra anche il sistema politico ed elettorale
statunitense e, più in generale, la crisi della democrazia
rappresentativa. Già l’introduzione delle primarie, nel 1972, aveva
allentato il controllo dei partiti sui candidati. 23 A escludere gli
outsider restava però un requisito finanziario: occorreva essere ricchi e
ottenere l’appoggio dei media, costosissimo anch’esso. La rivoluzione
digitale ha eliminato questo requisito rendendo contendibile da parte
di outsider persino la presidenza degli Usa.
Obama aveva già mostrato che si può fare campagna in rete,
facendosi finanziare dai follower la pubblicità sui media tradizionali. A
Trump, già popolare come star televisiva, non sono serviti né
l’apparato del partito repubblicano, a lui ostile, né i media tradizionali,
che lo conoscevano troppo bene per prenderlo sul serio. Per incantare
un elettorato colpito dalla crisi economica e ancora traumatizzato dal
colore della pelle di Obama sono bastati, più che il suo spin doctor
Steve Bannon, i suoi tweet mattutini.
Questi sono stati oggetto di analisi linguistica e sono stati distinti in
quattro tipi. 24 Primo, proposte grottesche, come l’acquisto della
Groenlandia, ma tali da dettare l’agenda politica. Secondo, distrazioni
dell’attenzione dai problemi reali, come il riscaldamento climatico,
gettandosi in polemiche con (altre) persone di spettacolo. Terzo,
ribaltamento dell’accusa di diffondere fake news sui propri nemici,
accusati di diffonderle loro. Quarto, provare un’opinione qualsiasi con
i follower, tanto per vedere l’effetto che fa.
Il lato chiaro del populismo digitale di Trump sta qui: «the Donald»
ha «qualità ritagliate apposta per l’era digitale». 25 I suoi tweet razzisti,
sessisti e politicamente scorretti, benché spontanei, sembrano studiati
per suscitare polemiche e occupare stabilmente i media, tanto
tradizionali quanto digitali, senza sborsare un dollaro. Trump ha
capito che online non si deve piacere a tutti, anzi: bisogna farsi
idolatrare da alcuni e aborrire da altri. Molti suoi emuli italiani, come
vedremo, fanno esattamente lo stesso.
Poi c’è il lato oscuro. Intanto, il Russiagate: l’attacco di hacker russi
per il quale Trump è sfuggito all’impeachment – ma non al rischio di
essere incriminato alla fine del mandato – solo perché il suo
coinvolgimento diretto non è stato provato. 26 Soprattutto, lo scandalo
Cambridge Analytica, società coinvolta pure in Brexit. Facebook è
stata multata per cinque miliardi di dollari dalla Federal Trade
Commission per aver ceduto a questa società i profili di 87 milioni di
utenti, poi usati nella campagna pro Trump. 27
Certo, che la manipolazione del consenso basti a spiegare l’elezione
di Trump è proprio quanto vorrebbero farci credere gli stessi
manipolatori, ancora operanti sotto nomi diversi da Cambridge
Analytica, poi fallita, e per altri padroni in giro per il mondo. Essere
stati in grado di far eleggere persino un Trump, infatti, è un’ottima
pubblicità per riuscire a vendere gli stessi servizi a politici ancor più
incapaci di lui, se possibile. Infine, come vedremo, la manipolazione
del voto è anche un ottimo alibi per gli sconfitti.
Eppure la manipolazione è indiscutibile, ed è stata più
determinante ancora che per la Brexit. I manipolatori, infatti, non si
sono limitati a convincere gli elettori di Trump, ma hanno convinto gli
elettori di Hillary a disertare il voto, diffondendo menzogne su di lei.
Che poi quest’ultima abbia preso comunque tre milioni di voti in più la
dice lunga sui difetti del sistema elettorale statunitense, sui quali
insistono i politologi, ma soprattutto sul fatto che, senza i trucchi,
Hillary avrebbe vinto a mani basse.
Questa è una conseguenza della contendibilità del potere introdotta
dai media digitali. Non solo l’uso sistematico di internet – i tweet pro
Trump, anche lanciati da account fittizi (bot), sono stati cinque volte
più di quelli pro Clinton – permette di colmare il divario fra outsider e
insider. Ma lo colma sempre a favore di chi altrimenti avrebbe perso:
distorcendo il voto popolare, permettendo imboscate degli sfavoriti a
danno dei favoriti e trasformando ogni votazione in un terno al lotto.
La campagna presidenziale statunitense del 2016, in effetti, ha
costituito un salto di qualità, rispetto alle precedenti, da tutti i punti di
vista: tecnologico, comunicativo e politico. Tecnologicamente, le fake
news sono state concentrate su profili ancor più personalizzati. 28 Dal
punto di vista comunicativo, poi, Trump ha perfezionato la
denigrazione sistematica dell’avversario inventata da un suo
precursore repubblicano, Newt Gingrich, presentando Hillary come
una delinquente da sbattere in galera. 29 Politicamente, infine, Trump
è riuscito a costruire nell’immaginario collettivo degli americani,
grazie a Facebook e a Cambridge Analytica, una realtà parallela di
fronte alla quale film fantastici come The Truman Show (1998), di
Peter Weir, paiono ancora modeste approssimazioni televisive. In
questa realtà parallela, ma percepita come più vera di quella reale
perché accuratamente ricalcata sui pregiudizi degli americani, il
riscaldamento globale non esiste e il principale problema degli Usa è
l’immigrazione dal Messico.
Il vero salto di qualità, d’altra parte, sta nel fatto che mentre la
Brexit non è ancora andata in porto, Trump governa da tre anni senza
essere mai crollato nei sondaggi. Il nocciolo duro dei suoi follower,
evidentemente, vive nel mondo parallelo dei social media: un mondo
che a noi pare virtuale, mentre per molti è la realtà. È questa la ragione
per cui Richard Nixon, il presidente dimessosi per lo scandalo
Watergate (1974), sembra un’educanda al confronto. Avesse avuto
Twitter, sarebbe rimasto al suo posto.
Presidente del popolo contro l’establishment

Con Trump, comunque, inizia un’altra storia: il populismo digitale


da strumento d’opposizione diviene tecnica di governo. Questa nuova
storia comincia già dal discorso d’insediamento del neopresidente, che
esordisce solennemente così: «La cerimonia odierna […] ha un
significato molto speciale. Oggi non stiamo solo trasferendo il potere
da un’amministrazione all’altra, o da un partito all’altro. Stiamo
trasferendo il potere da Washington, D.C., e lo restituiamo al popolo
americano». 30
I repubblicani, nominalmente il partito di Trump, avevano la
maggioranza in entrambi i rami del Congresso, dunque non era
necessario mentire così spudoratamente. Eppure il neoeletto ha
sentito il bisogno di dichiararsi primo presidente del popolo, non più
dell’establishment. Nella prima settimana di mandato, anzi, ha voluto
mostrare di adempiere le proprie promesse elettorali, come tutti, ma
lo ha fatto con executive orders che spaccavano l’elettorato come una
mela: i suoi, il popolo, contro gli altri, l’élite.
Gli executive orders sono sei, uno al giorno; il settimo giorno il
presidente si è riposato a Palm Beach. Il primo avvia le procedure per
l’abrogazione dell’Obamacare, la riforma sanitaria di Obama,
abrogazione poi rifiutata dalla maggioranza repubblicana del Senato
perché avrebbe lasciato senza assistenza milioni di americani. Il
secondo inizia la serie dei ritiri da trattati internazionali, partendo
dalla Trans-Pacific Partnership (Tpp) con Giappone, Australia e
Messico, per poi rinnegare gli accordi di Parigi sul clima. Il terzo
executive order rimette in vigore la Mexico City Policy (1984) di
Reagan: le ong che assistono le donne devono impegnarsi a non
promuovere l’aborto, a pena di perdere i finanziamenti statali. Il
quarto riapre la costruzione di oleodotti, bloccata da Obama per
ragioni ecologiche e per diminuire la dipendenza dal petrolio. Il quinto
ordina di prolungare il muro antimigranti con il Messico, iniziato da
Bill Clinton e proseguito da George W. Bush, ma, con in più, la pretesa
delirante di farlo pagare ai messicani. Questo autentico tour de force
(o de farce) culmina con il sesto order, il Muslim Ban del 27 gennaio
2016: divieto d’ingresso negli Usa a viaggiatori provenienti da sei paesi
musulmani, compreso l’Iraq invaso dagli americani ed esclusa l’Arabia
Saudita, culla del terrorismo islamico. Provvedimento subito
disapplicato da varie corti, poi corretto introducendovi paesi non
musulmani, da ultimo ritenuto legittimo dalla Corte suprema, 5 a 4,
con il voto determinante del nuovo giudice nominato da Trump. 31
Il messaggio del nuovo populismo di governo, insomma, suona
forte e chiaro. Chi vince prende tutto, sempre in nome del popolo, e
peggio per gli oppositori, che ne vengono espulsi. Il presidente, che
dovrebbe governare in nome del popolo, ossia di tutti, governa solo
per il popolino populista e contro il resto degli americani, ridotti a
establishment. Con conseguenze istituzionali devastanti: a breve,
Trump può certo demolire quanto fatto da Obama, ma poi il suo
successore demolirà quanto ha fatto lui.
A lungo termine, cioè, il populismo digitale rende impossibile la
formazione di indirizzi istituzionali stabili: ogni nuova elezione
diventa un colpo di stato. Basta che il successore di Trump – cioè
chiunque riesca a procurarsi trucchi migliori dei suoi – decida di fare
tabula rasa delle politiche del predecessore e il pandemonio ricomincia
da capo, fino all’elezione successiva. La campagna elettorale diviene
permanente: una specie di surrogato populista della mobilitazione
totale. 32
A breve termine la cosa funziona: sino a poco tempo fa, l’economia
americana tirava, come durante i due mandati di Obama, nonostante
gli slogan protezionisti di Trump suonassero come altrettante eresie
per il capitalismo e il neoliberismo mainstream. Del resto, se il
paragone non suona azzardato, non funzionavano ancora meglio le
ricette naziste per la ripresa della Germania dopo la crisi di Weimar? È
dunque sempre possibile che quanto inizia come una sorta di Truman
Show diventi la realtà pura e semplice.

Democrazia in recessione

Spero di aver convinto il lettore, a questo punto, che il populismo


digitale è stato decisivo per la Brexit come per la vittoria e il governo di
Trump. Ora cercherò di fargli considerare un’ulteriore possibilità,
ancor meno rassicurante. Ove mai il populismo digitale si affermasse
in Occidente e altrove, sul modello angloamericano, il populismo non
sarebbe più la pecora nera del gregge democratico: tutte le pecore –
come le proverbiali vacche – sarebbero nere. Per i millennial che non
avessero mai conosciuto altro, «democrazia» indicherebbe il
populismo digitale.
Ancora nel 1970, in effetti, esistevano solo trentacinque democrazie
«elettorali», nelle quali, cioè, i governanti sono eletti dal popolo. Con
la globalizzazione e il crollo del Muro di Berlino, queste democrazie
sono salite a centoventi nei primi anni Duemila. Poi, verso il 2015, è
iniziata la recessione democratica: 33 forse, l’altra faccia della
precedente inflazione. Ma, attenzione, la recessione non consiste nella
diminuzione delle democrazie «elettorali»: i governanti sono ancora
eletti dal popolo quasi ovunque.
La recessione democratica, piuttosto, consiste nel fatto che i vari
«uomini forti», i quali in altri tempi si sarebbero impadroniti del
potere con un colpo di stato, oggi trovano più pratico farsi eleggere
«democraticamente». Non occorre neppure più essere ricchi, o trovare
finanziatori generosi: basta investire in una campagna su internet, e il
potere si prende senza spargimenti di sangue. Se questo è già accaduto
nelle due più antiche democrazie occidentali, del resto, perché non
potrebbe succedere altrove?

4. Governo gialloblù: populismo di governo e


d’opposizione
Un caso di scuola

Ci sono almeno quattro buone ragioni per dedicare al caso italiano


la stessa attenzione dedicata alla Brexit e a Trump.
La prima è che l’Italia, ancora nel Novecento, è stata spesso terreno
di sperimentazione di novità poi destinate a imporsi altrove. Si pensi
solo alla mafia: forse il made in Italy più esportato nel mondo. Oppure
al fascismo: altro brand italiano ricco di imitazioni. Ma, nel caso del
populismo, la mente corre immediatamente al berlusconismo, il
precedente televisivo del populismo digitale. 34
Nel 1994 Berlusconi ottenne il suo primo successo elettorale
alleandosi con due partiti che neppure si parlavano fra loro: i
postfascisti di Alleanza nazionale al Sud e la Lega di Umberto Bossi al
Nord. Nel 2018 la storia si ripete. M5S e Lega si ritrovano a governare
insieme, con due elettorati molto diversi: l’uno localizzato soprattutto
al Sud, con inclinazioni assistenzialiste, l’altro soprattutto al Nord, con
velleità liberiste. Quel che ne esce, come vediamo fra un attimo, è una
specie di bipopulismo autocompetitivo.
La seconda ragione è che proprio in Italia è nato il Movimento 5
Stelle: sorta di prototipo, presto superato, del populismo digitale. 35
L’inventore del format, Gianroberto Casaleggio, e l’attuale titolare del
copyright, suo figlio Davide, avevano addirittura previsto la
sostituzione della democrazia parlamentare con la democrazia digitale.
36 Previsione fallita: oggi sembra prevalere il format Putin-Orbán-
Salvini, autoritario, sovranista e antieuropeo. Ma anche solo il M5S
basterebbe a rendere interessante il caso italiano.
La terza ragione è che l’Italia, com’è stato detto in uno dei libri
migliori sul tema, si è rivelata «la Silicon Valley del populismo», 37 in
particolare digitale. Una ricerca condotta sulle elezioni europee del
2019 mostra che la campagna elettorale si è ormai trasferita sul web,
in Italia più che altrove. 38 La stessa ricerca mostra che i partiti
italiani, populisti in testa, sorpassano di gran lunga gli altri partiti
europei per i post su Facebook. E questo senza considerare le pagine
personali dei leader, le più seguite ed efficaci di tutte.
La quarta ragione, meno ovvia, è anche la più importante. La Brexit
ha mostrato come opera il populismo d’opposizione; Trump, come
funziona il populismo di governo. Il governo gialloblù, nato nel 2018
dal contratto di governo fra M5S e Lega, aggiunge alla serie lo strano
spettacolo di due movimenti populisti che si disputano lo stesso
popolo, o almeno parti complementari di esso. Manuel Anselmi lo ha
chiamato multipopulismo, facendo della proliferazione di populismi
l’aspetto distintivo del caso italiano. 39
Il multipopulismo, tuttavia, sarebbe un’autentica contraddizione in
termini se mai si considerasse il populismo, come fanno molti,
un’ideologia debole quale il nazionalismo, con applicazioni nazionali
diverse e un nucleo comune. 40 Se il populismo fosse un’ideologia,
infatti, nel suo nucleo dovrebbe esserci almeno l’idea, antipluralista e
illiberale, che il popolo è uno, e solo un leader, un movimento, un
partito populista, può rappresentarlo. Tutti gli altri, coerentemente,
sarebbero solo pezzi di establishment.
Ma il populismo, come abbiamo visto, non è un’ideologia, neppure
debole: è uno stile politico, una serie di slogan ottenuti storpiando la
tradizione democratica. È la democrazia presa alla lettera, la sovranità
del popolino, usata per fare opposizione prima, conquistare il potere
poi, infine conservarlo. Non a caso, messa da parte ogni parvenza di
ideologia, Lega e M5S si sono divisi non solo le poltrone, come fanno
tutti, ma ancor prima i due ruoli principali del gioco democratico:
governo e opposizione.
Per un anno, cioè, i media non hanno fatto altro che parlare delle
liti interne al governo, credendo con questo di danneggiarlo. In effetti,
si fosse trattato di un governo tradizionale, le liti sarebbero state
rovinose, portando presto alle dimissioni. Non così nel caso di un
governo populista digitale. Qui, invece, i dissidi sono drammatizzati
per monopolizzare l’attenzione dei media recitando entrambe le parti
in commedia. Un giorno la Lega faceva il governo e il M5S
l’opposizione, il giorno dopo si invertivano i ruoli.
La polemica permanente è rischiosa, e alla fine il governo gialloblù
è caduto davvero. Ma la cosa interessante, in questo esperimento, è
che il bipopulismo autocompetitivo sperimentato in Italia potrebbe
diffondersi altrove, diventando multipopulismo. Il governo gialloblù
non è un’anomalia durata un anno, è un caso di scuola di cortocircuito
fra istituzioni e media. Un caso che potrebbe generalizzarsi se, come
ipotizzo, il populismo digitale divenisse il modo normale di
funzionamento della democrazia.
Non è un’utopia (positiva), o una distopia (negativa): è un’ipotesi
relativamente banale. Tutti, ormai, hanno compreso la geometrica
potenza della rete. Tutti usano il web per raggiungere e mobilitare un
elettorato ormai depoliticizzato, che attribuisce alla politica le stesse
funzioni d’intrattenimento dei serial, o del wrestling. 41 Nulla vieta di
pensare, dunque, a una proliferazione di populismi digitali: cento,
mille governi gialloblù, con più partiti populisti costretti a governare
insieme. 42

M5S: da movimento di protesta a partito di governo

Ma consideriamo più da vicino il governo gialloblù. Anch’esso,


come Brexit ed elezione di Trump, si presenta come effetto non
intenzionale di azioni volte ad altri fini. Il M5S è stato progettato da
Casaleggio senior come partito di protesta, non di governo. I suoi
militanti sono stati i primi a stupirsi del successo alle elezioni politiche
del 2013 (il 25 per cento alla Camera): figurarsi quando, alle politiche
del 2018, sono diventati il primo partito italiano, con il 33 per cento.
La potenza di internet è sottovalutata persino da chi ne beneficia.
Quanto alla Lega, passata dal 4 al 17 per cento in quattro anni,
nessuno avrebbe mai immaginato che potesse governare con il M5S.
Nata come partito federalista, poi alleato di Berlusconi, la Lega
incontra la sua terza mutazione a opera del già citato Salvini. Questi si
inventa un partito sovranista – ideologia opposta al federalismo, se
mai l’ideologia contasse ancora qualcosa – sul modello del Front
national francese. Ma soprattutto intuisce le potenzialità di Facebook,
il social che impara a usare meglio del M5S.
Anche per colpa della «strategia del popcorn» adottata dal Partito
democratico – sedersi in prima fila per assistere al crollo altrui –,
cinquestelle e leghisti sono costretti a collaborare. Per giustificarsi
davanti ai loro elettorati stipulano un «contratto di governo» che
giustappone i rispettivi programmi: reddito di cittadinanza per il M5S,
sicurezza e lotta all’immigrazione per la Lega. Ma avendo il M5S, nel
2018, il doppio dei voti e dei parlamentari della Lega, le cariche di
governo vengono distribuite in proporzione.
Al M5S vanno presidenza del Consiglio e prima vicepresidenza,
affidate rispettivamente al giurista Giuseppe Conte, allora sconosciuto,
e al capo politico del Movimento 5 Stelle, Di Maio. Alla Lega va l’altra
vicepresidenza ma soprattutto il ministero dell’Interno, preteso dallo
stesso Salvini. Il più delicato dei ministeri, che controlla sicurezza
interna e internazionale, viene così affidato a un uomo di cui erano
noti l’indulgenza verso il neofascismo, la posizione anti Ue e gli stretti
rapporti con la Russia di Putin. 43
In questo modo, il compito di governare è ricaduto sui cinquestelle,
nonostante il loro quadruplice handicap.
Intanto, primo handicap, non avere un personale politico
all’altezza: e questo non per l’ostilità verso gli esperti e le élite tipica
del populismo, bensì per una precisa scelta dei fondatori. Nel progetto
originario del M5S, infatti, gli eletti dovevano essere solo portavoce del
«popolo del web», sostituibili in qualsiasi momento. Guai, dunque, ad
avere competenze tecniche o, peggio, opinioni personali. 44
Poi, secondo handicap, la lenta mutazione genetica intervenuta nel
M5S delle origini. I militanti originari non erano troppo diversi da
quelli dei vari movimenti verdi o pirata del Nord Europa, ma sono stati
progressivamente sostituiti da polli della batteria di Casaleggio, spesso
piccoloborghesi con tradizioni famigliari fasciste come i due dioscuri
Di Maio e Alessandro Di Battista. Il movimento delle origini si è così
progressivamente trasformato in una setta, tenuta insieme più dal
controllo reciproco che dal timore di espulsioni.
Ancora, terzo e più imbarazzante handicap, per un movimento nato
sul web, il M5S non ha un supporto digitale all’altezza. Il Blog delle
stelle è stato innovativo, ma oggi dipende dagli umori del cofondatore,
il comico Beppe Grillo. Invece la Piattaforma Rousseau, su cui votano i
militanti, andava bene finché serviva a fare opposizione, ma si è
rivelata una palla al piede per governare un paese sviluppato. Di fatto,
serve soprattutto per ratificare le decisioni dei vertici, con percentuali
di consensi quasi sempre superiori all’80 per cento.
Infine, quarto handicap, ma anche aspetto paradigmatico del
populismo digitale, il M5S è un partito liquido, che prende la forma del
contenitore in cui sta. 45 Se sta con la Lega, diviene populista e
sovranista; se sta con il Partito democratico, diventa riformista ed
europeista. Questo esemplifica, allo stato puro, il populismo digitale:
macchina del consenso che segue i sondaggi, sui quali si formano le
decisioni dei vertici, infine ratificate dalla base. Se cambiano i
sondaggi si ridecide, si riratifica, e così all’infinito.

La vita in diretta di Salvini

Non so se il quarto sia davvero un handicap: funzionano così,


ormai, tutti i partiti. Ma gli altri handicap sono stati evidenziati dal
confronto con il partner inizialmente minoritario dell’alleanza
gialloblù, poi divenuto predominante: la Lega di Salvini. Rispetto alla
Lega federalista di Bossi, questa ha operato un duplice innesto.
Intanto, un’ideologia sovranista, antieuropea e filorussa, opposta al
federalismo originario, ricalcata prima sul Front national francese, poi
sulla democrazia illiberale di Putin e Orbán.
Ma soprattutto la Lega salviniana si è data un apparato digitale
infinitamente più agile ed efficace di quello del M5S. La cosiddetta
Bestia di Salvini, il team di comunicatori coordinato da Luca Morisi,
sforna giorno e notte post attribuiti al leader, raccontandone su
Facebook la vita in diretta. Con un esempio da manuale di
cortocircuito fra istituzioni e media, la Bestia ha provveduto poi ad
amplificare ogni provvedimento del ministro dell’Interno, specie se
manifestamente illegale (si veda più avanti il capitolo «Il cavaliere
oscuro»). 46
Del resto, si pensi a un’altra tecnica non inventata ma certo
perfezionata da Salvini, sempre assente al ministero e agli
appuntamenti europei perché in perenne tournée elettorale: il selfie.
Ovunque vada, il Nostro dedica un quarto d’ora ai discorsi, necessari
solo per giustificare assenza dal lavoro, scorta e rimborsi. Il resto del
tempo è dedicato ai selfie. Chi si fa ritrarre con lui spedisce poi la foto
a parenti e amici, ma soprattutto gli resta fidelizzato per anni,
qualsiasi cosa accada in seguito.
Certo, a un certo punto il gioco gli è sfuggito di mano. Il selfie è
diventato un’arma per i suoi contestatori, che si fanno fotografare con
lui per irriderlo. Gli stessi happening in giro per la penisola si sono
trasformati in occasione di contestazioni, in particolare tramite
lenzuoli appesi alle finestre che, per servilismo verso il potente di
turno, la scorta del ministro si affrettava a sequestrare. Ma anche le
contestazioni sono servite allo scopo: per un anno un intero paese ha
parlato solo di Salvini, per incensarlo o per aborrirlo.
Il sobrio populismo digitale grillino, così, è stato presto eclissato dal
dadaismo salviniano. Mentre i cinquestelle fingevano, ogni giorno più
faticosamente, di decidere in rete, il Capitano, così ribattezzato dal suo
spin doctor, spettacolarizzava la propria vita privata, mischiandola con
quella pubblica nel cortocircuito di cui sopra. Alla maniera di Trump,
in particolare, la Bestia sfornava di continuo post politicamente
scorretti o banalmente razzisti, che dalla rete rimbalzavano sui media
tradizionali, occupando pure quelli.
Provocando gli avversari, come continua a fare ora che non è più
ministro, Salvini suscita reazioni che moltiplicano la sua presenza. Il
sottoscritto lo ha sperimentato personalmente, beneficiando dello
stesso meccanismo. In un post del 2013 lo avevo paragonato a Gengis
Khan, Tamerlano e Attila: un trucco già usato da Constant con il
Napoleone dei Cento giorni. La Bestia mi ha subito additato al
pubblico ludibrio: ma questo è valso al post ventimila condivisioni che
altrimenti non avrebbe mai avuto. 47
Comunque sia, la trama del serial gialloblù era già scritta nel
contratto di governo. Il M5S ha dovuto fare i salti mortali per
adempiere la concreta promessa del reddito di cittadinanza. Per
rispettare la promessa puramente virtuale di garantire la sicurezza e
combattere l’immigrazione, invece, alla Lega è bastato occupare
mediaticamente il palcoscenico del ministero dell’Interno. La chiara
superiorità nell’intrattenimento digitale, così, ha finito per invertire i
rapporti di forza fra i due populismi e i loro rispettivi ruoli.
I rapporti di forza, intanto. Le elezioni europee del 26 maggio 2019
hanno visto la Lega passare dal 17 al 34 per cento, i cinquestelle dal 33
al 17 per cento, anche in conseguenza di una campagna elettorale dei
secondi platealmente sbagliata. Memorabile il compitino recitato da Di
Maio il giorno della Liberazione: mentre la Lega si tirava fuori con il
solito slogan populista – «Non partecipiamo al derby fra fascisti e
antifascisti» –, il capo cinquestelle mimava l’antifascismo, per molti
dei suoi seguaci un perfetto sconosciuto.
Poi, i ruoli nel bipopulismo: la vera novità del governo gialloblù.
All’inizio il M5S faceva la parte del governo e la Lega quella
dell’opposizione; dopo le europee del 2019, invece, Salvini ha
governato e i cinquestelle si sono arresi ai sondaggi. Se n’è avuta
conferma in ognuno degli scandali che hanno punteggiato la lunga
estate calda del ministro dell’Interno: dalla scoperta di finanziamenti
russi promessi alla Lega (Moscopoli) all’omicidio di un carabiniere a
Roma, il copione era sempre lo stesso.
Su Moscopoli, Salvini è stato smentito non dai partner di governo,
ipnotizzati dai sondaggi che lo davano in irresistibile crescita, ma dal
presidente del Consiglio Conte. Anche l’omicidio di un servitore dello
Stato, montato dai media sovranisti solo perché inizialmente attribuito
a immigrati, si è rivelato un boomerang. Gli arrestati erano in realtà
ricchi turisti americani, e l’omicidio è stato oscurato, specie sui media
internazionali, dalla foto di uno degli accusati bendato e ammanettato
in una caserma dei carabinieri.
Possibili sviluppi del populismo digitale

Tutto questo, d’altra parte, solleva interrogativi che vanno oltre il


governo gialloblù e investono il futuro del populismo digitale.
Anzitutto, non sarà che le alternative governo/opposizione e
destra/sinistra sono nel dna della democrazia parlamentare e possono
essere superate solo con la sua abolizione? Poi, il fallimento dei vari
tentativi di conversione a sinistra del M5S non suggerisce che
l’approdo di tutti i populismi è a destra? 48 Infine, i partiti populisti
possono davvero governare insieme oppure uno finisce fatalmente per
cannibalizzare l’altro?
Anche a questi interrogativi, naturalmente, potrà rispondere solo il
futuro. Qui, però, si possono già ipotizzare alcuni possibili sviluppi del
populismo digitale, relativi alle tre ragioni che hanno attirato la nostra
attenzione sul governo gialloblù. La prima ragione, si ricorderà,
riguarda l’Italia come cavia di un esperimento globale: un po’ come il
Cile di Pinochet per la sperimentazione del neoliberismo. E qui
l’esperimento gialloblù mostra davvero linee di tendenza interessanti.
Per più versi, infatti, si tratta di un perfezionamento della
videocrazia, o «democrazia del pubblico», inaugurata in Italia nel
secolo scorso da Berlusconi. 49 I puristi cinquestelle del web, certo, si
illudevano di poter saltare la mediazione della tivù, ma hanno dovuto
rassegnarsi anche loro: ci sono andati, salvo imporre ai conduttori,
inizialmente, di non poter esser contraddetti in diretta da altri politici.
Il populismo digitale ha dunque funzionato come un circuito
mediatico ibrido: un mix di televisione, internet e altri media ancora.
Con un’importante differenza, però. In termini massmediologici o
di marketing la tivù è un dispositivo non interattivo, da uno a molti
(one to many), mentre internet è un dispositivo interattivo, da molti a
molti (many to many). Brexit, Trump e governo gialloblù, però, fanno
pensare a un ritorno al primo modello, il meno democratico di tutti.
Ogni leader populista, cioè, si rivolge a follower personalizzati, già
scelti e profilati in base ai big data raccolti su ognuno di loro.
La seconda ragione, si ricorderà pure, riguardava il M5S come
prototipo di un populismo puramente digitale, mirante alla
sostituzione della democrazia parlamentare con la democrazia diretta
online. Ha retto, questo progetto originario, alla prova del governo?
Direi proprio di no. Anzitutto il M5S ha creduto di doversi dare un
«capo politico», Di Maio, e questo, fatalmente, si è attorniato di un
«cerchio magico», formato soprattutto da addetti alla comunicazione,
ancor più impenetrabile di quelli dei leader tradizionali.
Poi la disciplina interna si è allentata, anche per il rischio che,
espellendo i dissidenti, il governo perdesse la maggioranza al Senato.
Quindi, il limite dei due mandati, pensato per evitare la formazione di
politici professionali, si sta allentando anch’esso. Ancora, il M5S sta
cercando di darsi un’organizzazione territoriale, non solo online.
Infine, e soprattutto, invece di cambiare il Parlamento sostituendolo
con il web, il M5S ne è stato cambiato, diventando un partito come gli
altri.
Ma la terza e più importante ragione di interesse del caso italiano,
si ricorderà, riguardava la combinazione dei due populismi: il bi- o, in
prospettiva, multipopulismo. Se mai il bi- o multipopulismo potesse
diventare il funzionamento di default della democrazia parlamentare,
cosa ci insegnerebbe l’esperimento gialloblù? Non solo che siamo a
un’altra tappa dell’eclissi della democrazia parlamentare, ormai
ridotta a spettacolo per i media. Ma che lo spettacolo si è spostato dal
Parlamento, rappresentante della sovranità popolare, al governo.
È solo sul governo, infatti, e sui suoi provvedimenti più o meno
propagandistici, che si è concentrata l’attenzione dei media. E
giustamente: in assenza di un’opposizione che conoscesse le regole
minime della comunicazione, il governo ha giocato entrambi i ruoli,
maggioranza e opposizione. Così, proprio nel governo, nei suoi
quotidiani conflitti interni, subito drammatizzati e spettacolarizzati
proprio dai media più ostili, si è trasferito ed esaurito il gioco politico.
Questo potrebbe divenire lo scenario abituale della politica interna
occidentale: una sorta di sit-com o di gioco di ruolo, costellato di
tradimenti e colpi di scena, nel quale ci si azzuffa e poi ci si
riappacifica in diretta Facebook. 50 Finita la commedia, ognuno ritira
il proprio bottino elettorale, sennò si passa disinvoltamente alla
tragedia, ricominciando sempre da capo alle elezioni successive,
indefinitamente. Solo che il problema diventa: quanto può reggere una
democrazia trasformata in pandemonio digitale?
5. Conclusione
Se questi fossero gli scenari del populismo digitale, allora per le élite
democratiche occidentali si aprirebbe un falso dilemma: una scelta fra
due tentazioni, che portano entrambe a un vicolo cieco.
Da un lato, le élite potrebbero essere tentate di cercare nel
populismo digitale un alibi per la loro sconfitta. Dall’analisi appena
fornita, infatti, potrebbero concluderne che non c’è più niente da fare:
internet ha ormai istupidito la gente, il sogno democratico è finito e,
cosa ancora più importante, non è colpa loro. 51
Dall’altro lato, le élite democratiche potrebbero trovare nel
populismo digitale un’ottima scorciatoia per tornare al potere senza
fare i conti con i propri errori. Il loro ragionamento potrebbe essere il
seguente: dotiamoci di spin doctor migliori di quelli populisti, o
assumiamo direttamente loro, e torniamo al potere. Il vantaggio di
questa soluzione, per le élite, è che non ci sarebbe neppure più bisogno
di pensare a problemi insormontabili come globalizzazione,
cambiamento climatico, migrazioni…
Anche seguire la seconda tentazione, però, sarebbe un errore: il
marketing politico aiuta, ma da solo non è sufficiente. Non basta
aprire siti e cominciare a twittare o postare sui social. Gli slogan
«funzionano solo se, alle spalle, hanno un effetto-cornice (framing),
spesso di durata decennale, che ha preparato i cervelli di migliaia di
persone a recepirli». 52 Appare qui la nozione di cornice (frame), che
ritroveremo spesso, e che è essenziale per capire la politica populista, e
forse la politica in genere. 53
Facciamo l’esempio della stessa nozione di popolo. Il populismo
non sarebbe neppure concepibile in una società non democratica: ad
esempio tradizionale, teocratica, aristocratica… Perché il popolino
possa qualificarsi come popolo, e in suo nome si possano insultare le
élite, denigrare le istituzioni e mandare in rovina lo Stato, occorre un
secolare effetto-cornice democratico. Occorre ripetere per trecento
anni che il popolo è sovrano perché qualcuno possa poi immaginarsi
che diventi sovrano il popolino. 54
Certo, quando un frame come questo si è imposto, è difficile
scalzarlo. Sicuramente non bastano i libri: chi li legge più i libri?
Semmai, bisogna riprendere il frame del popolo sovrano caricaturato
dai populisti e ripetere come un mantra, postandoli, twittandoli,
eventualmente scrivendoli sui muri, slogan liberaldemocratici
parapopulisti come i seguenti. «Il popolo sovrano non siete voi: siamo
tutti noi»; «Tutti sovrani: donne e uomini, poveri e ricchi, popolino ed
élite»; «Sovrani tutti: non uno di meno».
Ma questo sarebbe ancora usare i social meglio dei populisti, che è
necessario, ripeto, ma non sufficiente. Da solo, anzi, sarebbe un
rimedio peggiore del male: se passasse, il populismo digitale avrebbe
vinto e la democrazia perso, definitivamente. A quel punto, invece di
andare a votare, si potrebbero organizzare tornei fra spin doctor e far
governare chi li vince. Come vedremo nel capitolo conclusivo, invece,
ci sono molte altre soluzioni, e fra queste una in particolare:
regolamentare internet.
Il cavaliere oscuro
Euristiche della (in)sicurezza

Se qualcuno ci dice di non pensare a un elefante,


noi penseremo inevitabilmente a un elefante.
George Lakoff, Non pensare all’elefante!

1. Premessa
L’ossessione securitaria

La sicurezza è la prima parola dell’agenda populista e il principale


messaggio del populismo digitale. Dopo gli attentati dell’11 settembre
2001, la crisi economica del 2007-2008 e la crisi migratoria del 2015, i
populisti ci hanno abituati ad associare i tre problemi sollevati da
questi eventi sotto un’unica etichetta: sicurezza. Invece si tratta di
questioni differenti, rispettivamente di ordine pubblico, economico e
umanitario, che questa associazione finisce per trasformare in
un’unica ossessione.
L’ossessione securitaria che attraversa l’Occidente, frutto
avvelenato della propaganda populista, sfrutta le nostre euristiche, le
scorciatoie cognitive che ci permettono di risolvere i problemi pratici. 1
Nella vita quotidiana non sapremmo dove sbattere la testa se non
avessimo sviluppato una serie di reazioni automatiche a situazioni
ricorrenti: ad esempio, non riusciremmo mai a guidare l’auto, se
dovessimo decidere ogni volta se tenere la destra (o la sinistra, a
seconda dei paesi).
Le euristiche sono oggi studiate dai teorici della razionalità limitata
(bounded rationality) e dagli psicologi comportamentali 2 come parti
del nostro pensiero «veloce», o intuitivo, distinto dal pensiero «lento»,
o riflessivo. Gli studiosi ci dicono che le euristiche funzionano bene
nella vita quotidiana mentre si convertono in errori cognitivi (bias)
dove c’è bisogno di pensiero riflessivo. Così, ad esempio, invece di
informarci su quale partito votare, tendiamo a personalizzare, votando
un leader.
Euristiche e bias sono lo strumento preferito della propaganda
politica, specie in internet. Ad esempio, gli umani hanno sempre avuto
paura in situazioni di pericolo: se non l’avessero avuta, infatti, si
sarebbero già estinti. Ma le società occidentali contemporanee sono
forse le più sicure mai esistite nella storia, in termini di sicurezza
reale: le statistiche relative agli omicidi – almeno sul continente
europeo dove si controlla il commercio delle armi – sono in calo
verticale. Perché, allora, non si è mai parlato tanto di sicurezza come
oggi?
Le euristiche, dunque, non bastano a spiegare l’aumento continuo
dell’insicurezza percepita e l’ossessione securitaria. C’è evidentemente
dell’altro: il populismo digitale. I video degli attentati dell’11
settembre, dei manager di Wall Street che lasciano gli uffici con i loro
scatoloni, o dei migranti che sbarcano sulle nostre coste non si
imprimono così profondamente nella nostra psiche solo perché
continuano a girare in rete, generando inquietudine.

Imprenditori della paura

In realtà, sono soprattutto i populisti a sfruttare le nostre ansie e le


nostre paure convertendole da euristiche in bias e facendoci credere di
aver bisogno di protezione. In un ambiente fortemente depoliticizzato,
in particolare, i più non avrebbero una ragione al mondo per andare a
votare. Se invece votano, e votano populista, spesso contro ogni loro
interesse, non è certo perché vadano a leggersi i programmi dei partiti
– l’ultima cosa al mondo per cui si vota – ma perché attratti da un
tema che li coinvolge.
Ora, la sicurezza, in tutte le accezioni del termine considerate in
questo capitolo, è il tema che più si presta a essere selezionato dalle
euristiche: un’autentica miniera, dunque, per la propaganda populista.
La maggior parte di noi, ma soprattutto il popolino populista, non ha
tempo né voglia di informarsi: al massimo dà un’occhiata distratta al
flusso di notizie (news feed) che gli scorre sullo smartphone. Senza
riflettere che queste sono selezionate da algoritmi personalizzati,
autentiche euristiche digitali ad personam. 3
Bene, le notizie sulla sicurezza vengono sempre prima. Questo
succedeva già in televisione, dove i programmi preferiti dai teleutenti
hanno come ingredienti-base ammazzamenti, stupri e simili
piacevolezze. Ma avviene in modo ancor più pervasivo e inconsapevole
online, a opera dei vari «imprenditori della paura». 4 Basta lanciare un
tweet o un post terrorizzante e subito, anche grazie a falsi siti creati
appositamente, diventano cascate (cybercascades) di migliaia, milioni
di tweet o post.
Tutto funziona come nella pubblicità commerciale (marketing),
dove per reclamizzare un prodotto si usano brevi slogan detti claim:
«Il detersivo che lava più bianco», «La pomata che libera
definitivamente dai brufoli». Slogan populisti tipo «Riprendi il
controllo» o «Prima gli americani», cioè, sono l’ultima frontiera del
marketing, e «sicurezza» il claim più efficace. Lo vediamo in questo
capitolo per i tre oggetti principali dell’ossessione securitaria:
sicurezza sociale, pubblica e migratoria.
Un’ultima avvertenza. Il sottotitolo del capitolo parla di euristiche
della (in)sicurezza perché ogni nuovo slogan, ogni nuova misura
securitaria, aumenta la percezione dell’insicurezza (l’insicurezza
percepita). E lo fa intenzionalmente: finché l’(in)sicurezza sarà il
primo problema in agenda, infatti, i populisti vinceranno sempre.
Dunque l’alternativa è secca. O la liberaldemocrazia riuscirà a
governare la paura o lo farà il Cavaliere oscuro: 5 il populismo digitale
prima, la democrazia illiberale poi.

2. Sicurezza sociale
La linea americana: difendere il giardino di casa

«Sicurezza» (dal latino securitas, mix di sine, senza, e cura,


preoccupazione) ha tre sensi, veicolati in italiano dallo stesso termine
«sicurezza», in inglese da tre. 6 Il primo senso è safety, incolumità
personale: l’impossibilità che una persona sia colpita da
un’aggressione a vita, integrità fisica e psicologica, libertà personale e
simili. È la sicurezza reale, opposta a quella percepita (secondo senso);
è anche la sicurezza individuale opposta a quella collettiva (terzo
senso), sorta di sua generalizzazione statistica.
Il secondo senso di «sicurezza» è certainty, la percezione che
ognuno ha della propria incolumità individuale: la sicurezza percepita,
opposta a quella reale (primo senso). Molti scienziati sociali hanno
notato che l’uncertainty, l’insicurezza percepita, può essere prodotta
appositamente: basta dire che l’emigrazione è un problema di
sicurezza, e questa magicamente lo diventa. 7 Eppure resta importante
distinguere tra sicurezza reale, più o meno oggettiva, e sicurezza
percepita, più o meno soggettiva e indotta dai media.
Il terzo senso di «sicurezza», il più importante, è security: la
sicurezza collettiva, opposta a quella individuale, della quale può
considerarsi una generalizzazione statistica. 8 La sicurezza collettiva,
infatti, non è la semplice somma delle sicurezze individuali; se lo fosse,
si potrebbe calcolarla esattamente. È un bene pubblico, nel senso degli
economisti: non escludibile (la mia fruizione non esclude quella
altrui), non rivale (non lo esaurisco fruendone), 9 e comunque
difficilmente calcolabile.
La security collettiva presenta tre principali aspetti o dimensioni:
sociale, pubblico-nazionale e migratorio. La sicurezza sociale riguarda
conservazione e riproduzione di vita, salute, lavoro, pensioni:
insomma il welfare, benché detto in inglese sembri un lusso. Invece,
pubblica sicurezza e sicurezza nazionale, le sicurezze per
antonomasia, riguardano tutela dell’ordine interno e difesa dei confini.
Infine i populisti considerano le migrazioni un problema di sicurezza:
la sicurezza migratoria.
Il primo aspetto della sicurezza – quello che, se mai fossimo
animali razionali, dovrebbe essere al centro delle nostre
preoccupazioni – è la sicurezza sociale. Scrivendo un libro sulla
sicurezza nel 2017 – la mia prima approssimazione al tema del
populismo –, me ne occupavo di striscio, solo per completezza. Poi,
cercando un esempio di conflitto fra sicurezze rispettivamente
individuale e sociale, mi sono imbattuto in un caso verificatosi durante
la Grande depressione (1929).
Allora un milione di immigrati messicani, seicentomila dei quali
cittadini statunitensi, vennero rimandati in Messico, o mandati lì per
la prima volta perché nati negli Stati Uniti, violando tutti i loro
possibili diritti costituzionali. Perché? L’unica spiegazione di queste
espulsioni, attuate da diversi soggetti e in modi differenti, ma quasi
sempre illegali, è che cittadini e governi statunitensi, senza troppe
differenze fra destra e sinistra, non volessero dividere con i
«messicani» la propria sicurezza sociale.
L’espulsione dei messicani durante la Grande depressione, però,
non è solo la prefigurazione delle politiche antimigranti dei vari
Trump o Orbán, e la conferma che essa può coinvolgere anche governi
democratici. È la prova di una sorta di primato razionale della
sicurezza sociale sulle altre. Nei sondaggi tenuti a debita distanza da
episodi cruenti che innescano reazioni irrazionali, infatti, gli
intervistati mettono al primo posto la sicurezza sociale: non la
pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale.
In lavori successivi al libro, 10 così, ho riscoperto una tesi avanzata
vent’anni fa dal sociologo Zygmunt Bauman, ma ormai divenuta un
autentico luogo comune. La globalizzazione neoliberista, questa la tesi,
impone l’ottimizzazione degli investimenti non solo alle aziende, ma
anche ai governi. In particolare, costringe i governi a concentrare
investimenti già scarsi su obiettivi minimi ma fortemente simbolici,
come quelli tipici del populismo digitale: ordine pubblico, guerra al
terrore e anche contrasto all’immigrazione.
Sicurezza pubblica e nazionale, dopotutto, costano meno della
sicurezza sociale e pagano molto di più: sui media, elettoralmente,
persino economicamente, visto che finiscono per favorire quella stessa
industria militare che ha creato internet. 11 I governi, allora, sono
sempre esposti a questa tentazione: lasciar perdere la sicurezza sociale
e puntare solo sulla sicurezza pubblico-nazionale. Neoliberisti e
populisti, benché per più versi in conflitto, trovano un punto d’accordo
sull’obiettivo dello Stato di sicurezza. 12
Si pensi solo alle politiche economiche di Trump. Questi, in
campagna elettorale e ancora nel suo discorso d’insediamento, si è
presentato come protettore degli operai americani colpiti dalle
politiche neoliberiste. Poi, però, ha disinvestito sulla sicurezza sociale,
cercando solo di smontare riforme come l’Obamacare, e investendo
invece sull’industria bellica, dunque sulla sicurezza pubblico-
nazionale. Questa era anche la conclusione di Bauman, che tanto vale
citare per intero:
Per farla breve, i governi non possono francamente promettere ai loro cittadini
un’esistenza sicura e un futuro certo; ma possono per il momento alleviare almeno in
parte l’ansia accumulata (approfittandone anche a fini elettorali) con l’esibire la loro
energia e determinazione in una guerra contro gli stranieri in cerca di lavoro e altri
estranei penetrati senza invito nel giardino di casa. […] Agire in questo modo […]
potrebbe compensare la sensazione avvilente di non sapere cosa fare. 13

Il caso italiano: il reddito di cittadinanza

Quando non sai che pesci pigliare, insomma, lascia perdere la


sicurezza sociale e punta su legge, ordine e contrasto all’immigrazione.
Questa massima di esperienza, sulla quale neoliberisti e populisti
finiscono per concordare al di là dei rispettivi slogan, non è stata però
seguita dal governo gialloblù. Infatti, se M5S e Lega avessero scelto fra
sicurezza sociale da un lato, e sicurezza pubblico-nazionale e contrasto
all’immigrazione dall’altro, avrebbero disatteso le promesse elettorali
o dell’uno o dell’altra.
Il loro Contratto per il governo del cambiamento (2018), invece,
somma il programma del M5S e quello della Lega, con la tacita intesa
che nessuno dei due avrebbe poi messo bocca sulla realizzazione del
programma dell’altro. Il Contratto, così, giustappone sicurezza
pubblico-nazionale e contrasto all’immigrazione, temi cari alla Lega, e
sicurezza sociale, cavallo di battaglia del M5S. Parlerò qui solo del
reddito di cittadinanza (Rdc) dei M5S, lasciando gli altri temi alle
prossime sezioni.
Il Rdc è uno fra i molti strumenti immaginati in epoca
contemporanea per garantire la sicurezza sociale, 14 strumenti che
possono ordinarsi in una serie continua fra due poli. A un polo sta il
reddito minimo (Basic Income), garantito senza condizioni a chiunque
viva in un paese. All’altro polo c’è il sussidio di disoccupazione, dato
solo, a certe condizioni, a chi ha perso il lavoro. 15 Il Rdc del M5S,
come vediamo subito, è più un sussidio di disoccupazione che un
reddito minimo, ma con l’aura «radicale» tipica del Basic income.
Qui diventa necessaria una precisazione. Mentre i sussidi di
disoccupazione hanno una bicentenaria storia di sinistra, la proposta
del Basic Income viene invece dai padri del neoliberismo. Essa faceva
capolino nell’autore che può considerarsi il nonno del neoliberismo,
Friedrich August von Hayek. Compariva già nel suo primo pamphlet
postbellico, che associava welfare e totalitarismo come se il primo
fosse solo l’anticipazione del secondo, per poi tornare anche nella
summa del suo pensiero giuridico-politico. 16
Una forma di reddito minimo garantito è stata poi riproposta da
Milton Friedman, padre del neoliberismo e teologo del mercato
globale, 17 nel suo libro più noto Capitalismo e libertà (1962). Qui il
nome diventa «imposta negativa sul reddito», 18 e la cosa funziona
così. Fissato un reddito minimo soggetto a imposta, lo Stato integra
ogni reddito inferiore al minimo erogando al suo percettore una
somma in contanti che gli permette di raggiungerlo. Carità di Stato?
Nient’affatto: anzi, esattamente il contrario.
Lo scopo era ben altro: sostituire il welfare, deprecato come
«congerie di misure attualmente in vigore», 19 e quindi togliere
«assistenza agli anziani, pensioni, assistenza per i figli a carico,
assistenza sociale generica, programmi di sostegno dei prezzi agricoli,
edilizia popolare e così via». Con il solo rischio, per Friedman, che gli
elettori poveri poi votino per partiti che aumentano il sussidio, sicché
si trattiene a stento dall’invocare l’unico vero rimedio a questo rischio:
togliere a tutti i beneficiari il diritto di voto. 20
L’eco di queste origini ritorna nel maggiore proponente odierno del
Basic income, Philippe van Parijs, che propone un’erogazione minima
in denaro a tutti, ricchi compresi, non condizionata allo svolgimento di
un lavoro e finanziata anch’essa, oltre che dalle imposte sul reddito,
dalla «soppressione di tutti i sussidi sociali di importi inferiori». 21
Anche questa misura, cioè, sostituisce sanità, istruzione, pensioni: in
una parola il welfare. Van Parijs la considera un’utopia nello stesso
senso in cui Hayek parlava di un’utopia liberista. 22
In Van Parijs, apparentemente insospettabile di simpatie liberiste,
si riaffaccia dunque un dilemma affiorante anche in altri autori, ancor
più insospettabili: 23 la compatibilità del reddito minimo universale
con il welfare, ossia con i diritti sociali a istruzione, sanità, pensioni e
simili. Se il reddito minimo si aggiunge semplicemente a essi, infatti,
non semplifica nulla e fa scoppiare il bilancio dello Stato. Se invece il
reddito minimo sostituisce i diritti sociali, come vorrebbero i liberisti e
lo stesso Van Parijs, consegue un risultato paradossale.
Propongo di chiamarlo totalitarismo di mercato. 24 Da un lato, il
reddito minimo universale fa dipendere ogni povero dallo Stato per la
propria stessa sopravvivenza. Dall’altro, lo stesso povero, godendo del
reddito minimo ma venendo privato di ogni altro servizio sociale, deve
rivolgersi al mercato per salute, istruzione, pensioni… Insomma, i
poveri ci perdono, e ci guadagnano solo lo Stato (minimo) e il mercato.
La semplificazione neoliberista appare così un pretesto per togliere ai
poveri i servizi sociali. 25

Soluzioni spettacolari a problemi insolubili

Comparato al reddito minimo, il Rdc del M5S pare una misura


bolscevica: non sostituendo affatto i diritti sociali e le altre misure di
welfare, infatti, bensì aggiungendosi a essi, ne aggrava solo i costi per
il bilancio dello Stato. Di fatto, il Contratto fra M5S e Lega lo presenta
al punto 19 come un sussidio di disoccupazione: «Uno strumento di
sostegno al reddito per i cittadini italiani che versano in condizione di
bisogno». 26 Molto meno, comunque, dell’«abolizione della povertà»
poi proclamata da Di Maio.
Il decreto legge 28 gennaio 2019 n. 4, poi convertito nella legge 28
marzo 2019 n. 26 e intitolato Disposizioni urgenti in materia di
reddito di cittadinanza e di pensioni, lo definisce all’art. 1 «misura
fondamentale […] a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla
povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale». La misura, come
tutti i provvedimenti populisti, è presa nella forma di un decreto legge:
benché l’unica necessità-e-urgenza fosse sbandierarlo nella campagna
elettorale europea del maggio 2019. 27
L’art. 12 destina a finanziarlo quasi 6 miliardi di euro nel 2019, e
oltre 7 sia nel 2020 sia nel 2021, tutti iscritti in un apposito Fondo per
il Rdc. L’erogazione delle prestazioni, richieste fino a inizio maggio del
2019 da oltre un milione di residenti – il 60 per cento al Sud, il 20 per
cento stranieri – è soggetta a condizioni di reddito stringenti ed
espone a sanzioni in caso di dichiarazioni non veritiere. Le pene
possono arrivare a sei anni di reclusione, oltre alla restituzione delle
somme indebitamente percepite.
La principale novità, rispetto tanto ai redditi di base quanto ai
sussidi di disoccupazione, è rappresentata dalla figura del navigator,
detto tutor nei documenti ufficiali. «Navigator» è termine che ricorre
solo in un film fantascientifico della Disney del 1986, poi in alcuni
lavori di un docente italiano alla Mississippi State University, Mimmo
Parisi, ispiratore del provvedimento. Il termine è stato però ripreso dal
capo politico Di Maio per reclamizzare il Rdc, sempre con un occhio
alle elezioni europee del maggio 2019.
A farla breve, i trentamila navigator sono stati assunti per tre anni
dai Centri per l’impiego, finanziati dalle Regioni, al fine di guidare i
beneficiari del Rdc nella ricerca di un lavoro, principale condizione cui
è subordinata la fruizione del sussidio. Il problema, qui, non è tanto
l’assunzione a tempo determinato e con concorsi ultrarapidi a test. È
che i navigator, arruolati fra i laureati disoccupati, dovrebbero trovare
ad altri l’occupazione che non sono riusciti a trovare per sé stessi, con
l’ovvia tentazione di tenersela.
La figura del navigator si presta così a compendiare il senso
dell’intero Rdc. Anch’esso – come le misure sulla sicurezza pubblico-
nazionale di cui alle prossime sezioni – appartiene soprattutto alla
sfera dell’intrattenimento. Lo spettacolo si conferma la cifra della
politica populista, indirizzata a un mondo nel quale – per la
disoccupazione, l’aumento delle aspettative di vita, l’informatizzazione
– chi lavora viene spremuto come un limone, mentre chi non lavora ha
molto tempo libero da riempire.
Il Rdc, con i suoi navigator, ma anche con la card per spendere il
sussidio senza imbarazzi, risponde perfettamente a queste esigenze di
entertainment. Il Contratto, sempre al punto 19, ha un bell’indicare
come suo scopo la «piena occupazione»: il vero nome del diritto al
lavoro ex art. 4 Cost. it. In realtà il Rdc è pensato per un mercato del
lavoro poverissimo di occasioni da offrire ai giovani, sicché mira a
divertirli, nel senso del divertissement di Blaise Pascal: 28 a distrarli,
far passare il tempo, dare loro un obiettivo.
Intrattenimento per intrattenimento, d’altronde, ci sarebbero state
altre misure, più costose ma anche socialmente più utili: ad esempio il
servizio civile obbligatorio, che però avrebbe rischiato di fare del bene,
oltre che a malati, anziani e disabili, anche ai maledetti migranti. Il
Rdc, invece, ripiega sull’assunzione a termine di trentamila navigator e
sulla riattivazione dei Centri per l’impiego, spesso privi persino di
computer. Purché sia chiaro che l’obiettivo non è questo ma dare
soluzioni spettacolari a problemi pressoché insolubili.
Fra questi problemi c’è il fatto, denunciato dagli economisti
stranieri, che l’Italia spende per rimborsare gli interessi sul suo debito
pubblico, accumulatosi a partire dagli anni Ottanta del Novecento, sei
volte quanto spende per tutta l’istruzione superiore. 29 Il decreto
4/2019, erogando miliardi per il Rdc del M5S, e altri miliardi ancora
per la cosiddetta Quota cento richiesta dalla Lega – beninteso
rigorosamente prima delle elezioni europee del maggio 2019 –, ignora
questo problema e grava ulteriormente sul bilancio dello Stato.
In generale i vincoli di bilancio europei e internazionali, dopo l’uso
terroristico fattone dalla Ue per punire la Grecia dei suoi debiti-peccati
(entrambi detti Schulden, in tedesco), godono di pessima reputazione,
specie sui social. Se i vincoli hanno una funzione, però, è proprio
quella di impedire ai governi nazionali di rovinare i rispettivi paesi
dilapidando denaro per vincere le successive elezioni. Ma qui
l’alternativa si fa netta e dura: o si aboliscono i vincoli di bilancio
oppure, à la Friedman, le elezioni stesse.

3. Sicurezza pubblica e nazionale


Psicopoliziotti gialloblù

La sicurezza per antonomasia (la security) consta della tutela


dell’ordine interno (pubblica sicurezza) e della difesa dei confini
esterni (sicurezza nazionale). Questi erano i due obiettivi originari
dello Stato moderno, poi divenuto Stato guardiano notturno
nell’Ottocento, poi ancora superato dallo Stato totalitario e dal Welfare
State novecenteschi, ma tornato presentabile, nella forma di Stato
minimo, per i neoliberisti tardonovecenteschi. Infine è venuto l’11
settembre 2001, ed è cambiato di nuovo tutto.
L’attentato alle Torri gemelle ha fatto quasi tremila morti, ma la
guerra al terrore (war on terror) ne ha fatti trecentomila. 30 Basti
pensare all’intervento americano in Iraq. Questo non ha solo
destabilizzato l’intero Medio Oriente, innescando terrorismi peggiori,
come il cosiddetto Stato islamico (Isis). Ha minato le tradizioni
legalitarie e garantiste delle liberaldemocrazie occidentali, facendo
percepire l’Altro – ladri di polli, tagliagole dell’Isis o naufraghi – come
una minaccia da combattere con qualsiasi mezzo.
Salvo per i soldi regalati all’industria della sicurezza, delle armi e
degli armamenti, le risposte a delinquenza, terrorismo e insicurezza
sono soprattutto simboliche. Apparentemente si alzano le pene, si dà
la mano libera alla polizia, si minaccia il ritiro della cittadinanza, come
se terroristi suicidi potessero impressionarsi per questo. In realtà, ci si
rivolge ai cittadini promettendo protezione. Anche se, contro l’ansia
securitaria e le sue derive reazionarie, servirebbe di più diluire
ansiolitici negli acquedotti comunali.
Il populismo digitale ha fatto il resto, trasformando definitivamente
la sicurezza, pubblica e nazionale, in intrattenimento. 31 Un’altra arma
di distrazione di massa, come le favole raccontate ai bambini per farli
dormire. Un esempio evidente di intrattenimento sono anche le
politiche della (in)sicurezza del governo gialloblù italiano, di cui ci si
occupa qui di seguito. Ma non per provincialismo: anche gli
osservatori stranieri, ormai, studiano il caso italiano come un
inarrivabile modello propagandistico. 32
La tendenza è quella accennata nel primo capitolo: dalla biopolitica
neoliberista (controllo dei corpi da parte di istituzioni totali come
fabbriche, caserme, scuole, ospedali, manicomi…) alla psicopolitica
populista (controllo delle anime tramite la rete). Più che psicopolitica,
nel caso, psicopolizia: per tutto l’anno che è durato il governo gialloblù
gli psicopoliziotti gialloblù si sono divisi i ruoli anche in questo. La
Lega ha recitato la parte dello psicopoliziotto cattivo, e il M5S quella
dello psicopoliziotto buono.
Più precisamente, i cinquestelle hanno tentato di arginare le
politiche securitarie del ministro Salvini senza avere, per farlo, né la
preparazione giuridica minima, né una qualsiasi sensibilità garantista:
giustizialista, semmai. Così, rispettando l’intesa siglata nel Contratto,
hanno lasciato al ministro dell’Interno tutta la scena mediatica,
prestandosi anzi, per eccesso di zelo, a peggiorare i provvedimenti
presi contro terroristi, delinquenti e migranti. Tutti trasformati
indifferentemente in capri espiatori da offrire al risentimento
popolare.
La sicurezza pubblico-nazionale è un’autentica miniera di consenso
elettorale per tre ragioni. Primo, «sicurezza» è un abracadabra
perfetto per chi non distingue sicurezza reale e percepita, e scambia
per realtà le proprie ossessioni. Secondo, la paura è un’euristica
evolutiva comune a tutti gli animali, e la sicurezza è un bene
inesauribile, nel senso che non ce n’è mai abbastanza. Vivessimo in un
condominio-fortezza latinoamericano, con le telecamere di
sorveglianza e i cecchini sui tetti, avremmo ancora più paura. 33
Terzo, ogni misura securitaria, anzi le stesse tecniche di
securizzazione, produce l’effetto opposto: aumenta l’insicurezza. 34 Lo
spiega Lakoff nella frase messa in epigrafe a questo capitolo: 35 se si
chiede a qualcuno di non pensare all’elefante, lui inevitabilmente ci
penserà. Allo stesso modo, se ci si chiede di non pensare alla sicurezza,
questa giganteggerà nel nostro immaginario collettivo e si aggirerà,
sempre come un elefante, nella cristalleria in frantumi della nostra
cultura giuridica.
Con l’ulteriore complicazione, per i populisti italiani, che la
sicurezza specificamente nazionale non è mai stata un problema, dopo
la fine del fascismo e l’adesione alla Nato. Dopo l’11 settembre, anzi,
l’Italia è stata l’unico paese occidentale a non subire attentati, anche
per i buoni rapporti sempre tenuti con i vicini. Risultato non banale:
dopotutto ospitiamo il Vaticano e partecipiamo a tutte le possibili
missioni di pace internazionali. Così, gli imprenditori della paura
nostrani hanno dovuto ripiegare su altre paure.

«Rapine in villa» in mancanza di terrorismo

In realtà ci sarebbe un altro giacimento di paura tipicamente


italiano: la grande criminalità, che controlla interi territori. Ma la
destra italiana, tradizionalmente, la combatte solo a parole, lasciando
volentieri il compito alla sinistra: salvo applicarle, sin dal lontano
1987, l’etichetta di «professionisti dell’antimafia». Nel governo
gialloblù il tema è servito soprattutto all’intrattenimento cinquestelle:
sulla grande criminalità è il M5S a fare lo psicopoliziotto cattivo.
Per gli imprenditori della paura leghisti, così, è rimasta solo la
criminalità comune: furti, rapine, al limite stupri, i soliti bersagli del
populismo penale. 36 Ma il quadro non era troppo promettente
neppure per questo tipo di imprenditoria. Senza fare confronti con il
Novecento o con le guerre puniche, infatti, le statistiche dei reati
registrano un calo costante a partire dal 2013: tranne forse per forme
di microcriminalità come i borseggi o i furti negli alloggi, che incidono
di più sull’insicurezza percepita.
Le stesse statistiche, alle quali stavolta i populisti eccezionalmente
credono, segnalano che la percezione dell’insicurezza aumenta nelle
periferie degradate. Queste sono state abbandonate a sé stesse da una
sinistra light che ha investito le calanti risorse pubbliche nella
pedonalizzazione e gentrification dei centri urbani. 37 Proprio nelle
periferie, dalle quali, come dai piccoli centri, viene gran parte dei voti
populisti, si tratterebbe dunque di investire in riqualificazione, sanità,
istruzione, ben prima che in sicurezza.
Ma i soldi non ci sono: né per la sinistra, rinchiusa nelle nicchie Ztl
dei centri urbani, né per una destra poco interessata a bonificare le
sacche di risentimento che l’alimentano. Quali sono, allora, le
rispettive politiche della (in)sicurezza? Che differenza c’è ancora, se
c’è, fra partiti non populisti e partiti populisti? Non molta, si direbbe.
Le rispettive politiche della sicurezza, infatti, consistono nella
costruzione, spesso nell’invenzione, di bersagli verso cui dirottare
indignazione pubblica e repressione penale.
Nel caso della sinistra, esemplare è il frame del femminicidio,
neologismo emerso negli anni Novanta e figura di reato sanzionata a
partire dal 2013. 38 A scanso di equivoci, la figura del femminicidio ha
l’enorme pregio di evidenziare che oltre la metà di omicidi e stupri si
consuma in famiglia e a danno di donne, non fuori casa e magari da
parte di immigrati. L’incidenza dei femminicidi in Italia, però, è
minore che altrove, e la loro drammatizzazione non influisce granché
sulla maggioranza femminile dell’elettorato.
Nel caso dei cinquestelle, invece, il bersaglio principale è sempre la
corruzione. La costruzione della corruzione come bersaglio è molto più
facile che per il femminicidio: gli indici della corruzione percepita di
Transparency International, infatti, danno l’Italia al sessantesimo
posto, dietro il Ruanda e poco prima dell’Arabia Saudita. 39 Di qui
l’estensione, voluta dal M5S, delle intercettazioni telefoniche da
terrorismo e mafia alla stessa corruzione: estensione che spinge molti,
ormai, a parlarsi solo di persona e a telefono spento.
Nel caso della Lega, finalmente, paradigmatica è l’invenzione della
cosiddetta «rapina in villa»: l’attacco a soggetti che abitano in case
isolate, non necessariamente in campagna, da parte di ladri, spesso
stranieri, che scoperti trasformano il furto in rapina, eventualmente
sequestrando le vittime ed esercitando su di loro ulteriori violenze.
Questo è lo stereotipo principale, benché non unico, 40 su cui la Lega
ha costruito la propria campagna securitaria più riuscita, basata sullo
slogan «la difesa è sempre legittima».
Si tratta di un caso classico di euristica della disponibilità: detto
altrimenti, la rapina in villa è un evento rarissimo, ma solo pensarci
basta a terrorizzare. 41 I media le danno enorme risalto, senza che ce
ne sia bisogno: ognuno di noi inclina già di suo alla paranoia e
sopravvaluta la possibilità di essere rapinato. Peccato solo che,
secondo le statistiche, i processi in cui viene invocata l’esimente della
legittima difesa oscillino fra i due e i tre all’anno, e finiscano quasi
sempre con l’assoluzione dell’imputato.
Eppure, l’idea che la difesa sia sempre legittima basta e avanza
all’intrattenimento della Lega, rivolto a un elettorato sub- o
extraurbano, poco istruito e anziano. La campagna, inoltre, corona il
lavoro decennale compiuto dalle televisioni sui pensionati, sottoposti
per interi pomeriggi a trasmissioni sui crimini più efferati. Ecco
spiegate, insomma, le due riforme leghiste della legittima difesa:
quella del 2006, classico caso di populismo penale, e quella del 2019,
inedito caso di populismo digitale.
Il codice penale fascista (1930), ancora in vigore benché più
garantista delle leggi repubblicane, prevede all’art. 52 che «non è
punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla
necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo
attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata
all’offesa». La riforma leghista del 2006 aveva complicato questa
disposizione aggiungendovi due commi illeggibili, nel tentativo di
introdurre una presunzione di proporzionalità.
Tale presunzione, però, sarebbe stata non solo irragionevole –
come può dirsi legittima una difesa non proporzionata all’offesa? – ma
anche incostituzionale: la proprietà della vittima finirebbe per valere
più della vita dell’aggressore. D’altronde, i casi di legittima difesa sono
così rari che i giudici non hanno quasi occasione di sollevare questione
di costituzionalità. Tant’è che, anche quando sono di manica larga nel
concedere il beneficio della legittima difesa a chi ha sparato,
ribadiscono che la proporzionalità non si presume.
Ora, la legge 36/2019, proprio assumendo che «la difesa è sempre
legittima», tenta di rinforzare questa presunzione irragionevole e
incostituzionale spargendo nel testo vari «sempre» ed escludendo la
punibilità dell’eccesso colposo in legittima difesa (art. 55 c.p.) in caso
di «grave turbamento» dello sparatore. Al punto che il presidente della
Repubblica, promulgando la legge, ha dovuto precisare che il
turbamento dovrà pur sempre provarsi oggettivamente: altrimenti
qualsiasi emozione giustificherebbe un omicidio.
Ma il punto principale non è di redazione dei testi legislativi
(drafting), rispetto alla quale la legislazione, o decretazione d’urgenza
populista, prosegue l’andazzo dei governi precedenti. 42 Il punto è
comunicativo: passato il messaggio che la difesa è sempre legittima,
molti correranno ad armarsi e qualcuno si caccerà nei guai. Nel
frattempo, però, i critici della riforma saranno sospettati di simpatie
per i criminali e indifferenza per il popolo, aggredito, in tre casi
all’anno, da torme di rapinatori.
Un esempio ancor più pittoresco di populismo penale digitale è la
castrazione chimica: cura estrema per alcune deviazioni sessuali
prevista, su richiesta del condannato, in sistemi penali stranieri.
Salvini, nei suoi tour per l’Italia, raccoglie firme per introdurla, a un
fine analogo, suppongo, alla negazione dei campi di sterminio. In
entrambi i casi, cioè, si cerca di far passare l’idea che in materia
possano esserci due opinioni ugualmente rispettabili: una a favore,
l’altra contro. 43
A che serve tutto questo? A creare la stessa realtà parallela prodotta
dai tweet di Trump. In questo Truman show casereccio, pieno di
rapine in villa e di invasioni barbariche, cioè, l’insicurezza (percepita)
diviene il problema principale, da affrontare con strumenti ancor più
spettacolari come la castrazione chimica. Così la gente finirà per
pensare che il terrore ormai dilaghi e che l’unico rimedio rimasto per
arginarlo sia conferire i pieni poteri a un qualche capataz populista. 44

4. Sicurezza «migratoria»
Il trucco dei muri

L’immigrazione, in Italia, è ormai un’ossessione di massa. Di


qualsiasi cosa si discuta, sempre lì si va a parare: l’immigrazione,
neppure più la sicurezza, è il vero elefante che barrisce nel nostro
immaginario collettivo. E pensare che l’immigrazione sarebbe un
semplice problema umanitario se non fosse criminalizzata da
vent’anni, tramite l’istituzione di reati come l’immigrazione
clandestina. Con il solito paradosso del proibizionismo: 45 proibite
un’attività lecita (alcol, droghe, migrazioni…) e la trasformate in un
affare.
Così è successo anche per l’immigrazione: il divieto l’ha trasformata
in business per almeno quattro categorie di soggetti. Anzitutto, i
gestori dei lager libici cui i governi italiani di centrosinistra hanno
appaltato la «prima accoglienza». Poi gli scafisti (smugglers), che
traghettano i migranti depredandoli dei loro ultimi beni. Ancora,
l’industria dell’accoglienza, con le sue cooperative create ad hoc.
Infine, gli stessi politici populisti, pronti a presentarsi come ultima
barriera contro l’invasione.
In realtà il fenomeno migratorio, nei grandi paesi dell’Occidente, è
divenuto un problema soprattutto per il suo collegamento con la
sicurezza (né pubblica né nazionale, bensì) sociale. 46 È da quando allo
status di residente sono connessi alcuni diritti verso lo Stato – i diritti
sociali a sanità, istruzione, pensioni… – che le migrazioni sono
percepite come problema. E questo anche in paesi, come gli Stati
Uniti, fondati da migranti e più aperti verso l’immigrazione, ma molto
più ostili a riconoscere diritti sociali.
La spiegazione, qui, è semplicemente economico-psicologica: a
quanti ricevono sovvenzioni dallo Stato non piace doverle dividere con
i nuovi venuti. Chi paga le imposte, a sua volta, non ama che i proventi
di queste finiscano a gente mai vista né conosciuta. Il populismo, in
questo, è davvero solo una guerra dei penultimi contro gli ultimi, come
si dice. Una guerra che però, specie in paesi privi di confini naturali,
come Israele, Usa e Ungheria, si gioca soprattutto con i simboli: i
muri.
Questi, naturalmente, non servono affatto a difendere i confini:
basti pensare alla Grande muraglia cinese, visibile dalla Luna ma
divenuta presto inutile alla difesa del Celeste Impero. Anche i muri
servono soprattutto all’intrattenimento, cioè a distrarre l’eterno
fanciullo populista: il popolino. 47 Intrattenimento rivolto tanto verso
l’esterno, per scoraggiare l’immigrazione, ma soprattutto verso
l’interno, come mostrano proprio i tre paesi che hanno inaugurato
questa forma di spettacolo politico.
Israele, in guerra sin dalla nascita con i propri vicini, è stato il vero
laboratorio delle politiche occidentali sulla sicurezza, muri compresi.
48 Negli Usa gran parte dei migranti entra legalmente, non attraverso i
confini, eppure da decenni tutti i presidenti, sia di destra sia di
sinistra, costruiscono muri. Quanto all’Ungheria, ai muri è legata la
strabiliante carriera di quello che forse è il più creativo degli
entertainer populisti, oltreché inventore della stessa espressione
«democrazia illiberale»: il presidente Orbán. 49

La lezione ungherese

Già giovanissimo eroe della transizione postcomunista, poi


governante filoeuropeo, anche per approfittare dei fondi Ue che
avevano sostituito quelli sovietici, Orbán ha perfezionato il trucco dei
muri come segue. Accorso anche lui a Parigi, l’11 gennaio 2011, per
portare il sostegno del mondo alla Francia colpita dall’attentato
islamista a «Charlie Hebdo», sulle rive della Senna, nel cuore
dell’Occidente liberaldemocratico, Orbán fu visitato da una fatale
illuminazione.
Allora, nei sondaggi, solo il 3 per cento degli ungheresi percepiva
l’immigrazione come un problema. Ma Orbán, o il suo spin doctor,
l’ebreo gay newyorkese Arthur Finkelstein, intuirono che era quella la
miniera del futuro. Così, il presidente si distinse dichiarando che mai e
poi mai l’Ungheria avrebbe accettato migranti sul proprio territorio.
Nel 2014 venne rieletto all’insegna del motto «L’Ungheria agli
ungheresi». Poi però il suo partito, Fidesz, venne travolto dagli
scandali e calò sino al 20 per cento nei sondaggi.
Il duo Orbán-Finkelstein provò inutilmente a divertire gli ungheresi
proponendo la pena di morte, ma loro non ci cascarono. Oltretutto
l’immigrazione era, ed è, un non-problema, in un paese che ospita l’1,4
per cento di stranieri, ben pochi dei quali musulmani. 50 Ma nel 2015
l’Europa, e anche l’Ungheria, furono investite dalla grande crisi
migratoria: da Siria, Somalia e Afghanistan arrivò un milione di
rifugiati. 51 A quel punto tornò buona l’intuizione del 2011 e la sua
principale euristica: il muro.
Il muro è un’euristica perché simbolizza meglio di tanti slogan il
messaggio politico da comunicare agli elettori. In particolare, come ci
insegnano gli psicologi cognitivi, simboli come i muri attivano circuiti
neuronali formatisi non solo nell’evoluzione di Homo sapiens ma
anche nella storia nazionale. L’Ungheria comunista aveva 240
chilometri di muro elettrificato con l’Austria. Ai muri, evidentemente,
molti ungheresi avevano fatto in tempo ad abituarsi abbastanza da
non poterne più fare a meno.
Di fatto, in due ore Orbán fece approvare dal Parlamento una legge
per costruire una barriera antimigranti di 175 chilometri, con reticolati
elettrificati e tutto. Poi chiuse la stazione ferroviaria di Budapest,
costringendo i rifugiati che viaggiavano in treno verso il Nord Europa
a proseguire a piedi. Nel 2016, infine, bandì un referendum
antieuropeo e antimigranti per rifiutare di accogliere la quota di
milleduecentonovantaquattro rifugiati che sarebbe toccata
all’Ungheria. Vinse con il 98 per cento dei voti.
Non è un caso, insomma, se il leader della Lega e ministro
dell’Interno italiano, prima delle elezioni europee del maggio 2019, si è
fatto fotografare accanto a Orbán sul muro ungherese, mentre scruta
l’orizzonte con il binocolo. Foto tragicomica, paragonabile alla scena di
Hitler che gioca con il mappamondo ne Il grande dittatore (1940) di
Charlie Chaplin. Ma il punto importante è che il duo Salvini-Morisi,
leader & spin doctor, ha imparato perfettamente la lezione ungherese:
coniugare i simboli con il sadismo amministrativo.
Nel caso ungherese, i simboli sono i muri, il sadismo
amministrativo la chiusura della stazione di Budapest che trasformò
un viaggio a pagamento sulle ferrovie ungheresi in una marcia della
disperazione. 52 Nel caso italiano, l’accoppiata simboli-sadismo è la
chiave di lettura dei due decreti sicurezza del governo gialloblù. Senza
però dimenticare la differenza fra i due paesi. L’Ungheria ha confini
terrestri, sui quali si possono costruire muri. L’Italia, invece, ha confini
soprattutto marittimi, con 7548 chilometri di coste.
Chi proponesse di difendere i confini italiani con muri, dunque,
diverrebbe subito un soggetto d’interesse psichiatrico. Rileggendo
questa frase, scritta nella primavera del 2019, mi accorgo che potrebbe
suonare come una gaffe. 53 Dopo quella data, infatti, Salvini ha
davvero proposto di costruire un muro antimigranti fra Italia e
Slovenia, oltretutto negli stessi luoghi dove, sino al 1989, passava la
Cortina di ferro. Lascio lo stesso la frase, magari a psicologi sociali e
psichiatri interessa.
Per fortuna, nella scatola dei trucchi populista c’è una valida
alternativa ai muri: i respingimenti in mare. 54 Questi sono ancor più
spettacolari dei muri: che dopotutto sono fatti solo di cemento,
reticolati ed elettricità. L’unico problema è che i respingimenti sono
vietati dai trattati internazionali, perché non permettono di accertare
gli aventi diritto all’asilo, garantito dall’art. 10 c. 3 Cost. it. 55 Per un
respingimento del 2009, regnante Berlusconi, l’Italia fu condannata
nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. 56
I governi di sinistra postberlusconiani hanno aggiornato la strategia
delegando il blocco dei migranti ad appositi lager in Libia. Qui si
delinea la principale differenza fra governi populisti e non populisti.
La politica dell’immigrazione dei governi non populisti consiste
essenzialmente nel nascondere l’immigrazione sotto il tappeto:
«Aiutiamoli a casa loro» si dice, come se la loro casa fossero i lager. La
politica populista, invece, trasforma l’immigrazione da problema a
opportunità.

I decreti sicurezza salviniani

Qualche natante carico di migranti sfugge ai libici? Occasione


imperdibile per criminalizzare le ong che li soccorrono, per le quali il
cinquestelle Di Maio conia un’espressione di successo: «taxi del
mare». Soprattutto, pretesto perfetto per il contributo originale di
Salvini all’intrattenimento populista: l’invenzione della chiusura dei
porti. Il ministro dell’Interno, in realtà, potrebbe solo impedire lo
sbarco ai naufraghi per ragioni di sicurezza: epidemie di peste
bubbonica, infiltrazioni terroristiche…
Le ragioni di sicurezza sono infinite, e altrettanti i pretesti per
tenere le navi delle ong, ma anche quelle della marina militare, fuori
dai porti per settimane, con la certezza che mai gli apparati dello Stato
si opporranno a un ordine illegale del ministro dell’Interno. 57
Neppure davanti a decisioni della magistratura come quella del Tar del
Lazio che, nell’agosto del 2019, ha annullato l’ordine del ministro per
«eccesso di potere per travisamento dei fatti». 58
Eccesso di potere: l’ordine del ministro di chiudere il porto di
Lampedusa era illegittimo, e il prefetto di Agrigento e i suoi sottoposti
non avrebbero dovuto obbedirgli. Il ministro ha annunciato ricorso al
Consiglio di Stato contro il provvedimento del Tar ma si è guardato
bene dal presentarlo. E non si tratta solo di illeciti amministrativi:
trattenere illegalmente i naufraghi fuori dai porti, specie se si trovano
su una nave italiana che come tale fa parte del territorio italiano, è
sequestro di persona. 59
Questa ricetta – simboli + sadismo amministrativo – è la chiave per
interpretare i due decreti sicurezza, capolavori della letteratura
populista. 60
Benché illeggibili ai comuni cittadini, infatti, essi presentano tutti e
due i registri del genere. Intanto, il registro simbolico, dove la chiusura
dei porti sostituisce i muri. Ma qui, purtroppo, il modello insuperato
resta il duo Orbán-Finkelstein, capace persino di coniare,
appositamente per i migranti, un termine estraneo all’ungherese,
«migrans». 61
Poi, e soprattutto, il sadismo amministrativo: e qui, per gli esempi,
c’è solo l’imbarazzo della scelta. Sono infinite, infatti, le disposizioni
dei due decreti che smantellano le strutture faticosamente messe in
piedi per l’accoglienza ai profughi, specie dai Comuni. L’unica ratio di
molte disposizioni pare quella, tecnicamente sadica, di rendere la vita
impossibile a tutti i migranti, compresi quelli che avrebbero diritto
all’asilo.
Mentre però il marchese de Sade trasgrediva le regole del diritto e
della morale ma almeno scriveva bene, i decreti sicurezza neppure
questo. Essi, infatti, violano le regole minime del drafting legislativo,
tramite un labirinto di rinvii a disposizioni precedenti. 62 Pure qui la
questione non è meramente tecnica. Decreti illeggibili sia per il
Parlamento, che deve convertirli in leggi, sia per il popolo, sono la
negazione della democrazia: in nome del popolo si impedisce al
cittadino di capire cosa dicono le leggi.
Ma forse i due decreti sicurezza non vogliono affatto sottrarsi alle
critiche, bensì provocarle. E quando queste fatalmente arrivano – non
solo dalle ong, ma da giornali, magistrati, enti locali, dallo stesso
presidente della Repubblica – finiscono per confermare i peggiori
sospetti del popol(in)o. Quali inconfessabili interessi i decreti avranno
colpito? Le élite non cercheranno davvero nei migranti un «popolo di
ricambio», più docile da governare del popolino populista, per i loro
piani di sostituzione etnica? 63
A riprova di questo complotto tentacolare 64 si adduce il fatto che
finanzieri, ong e professoroni difendono anche i diritti degli
omosessuali, corresponsabili del calo dei tassi di natalità. Qualcuno
potrebbe anche concluderne che, se i nativi italiani sono così stupidi
da bersi tutte queste sciocchezze, allora ben venga la loro sostituzione
con i migranti. Ma le cybercascate d’odio (shit storms, hate speech),
contro le ong e chiunque la pensi diversamente, sono davvero un
problema serio.
Lo sono in sé, perché documentano situazioni di sofferenza psichica
a un passo dalla camicia di forza. Ma lo sono anche in relazione ai
decreti, evidentemente scritti per essere dati in pasto a quel tipo di
uditorio. Basti pensare al secondo decreto, il 53/2019. Il testo,
approvato anche dai cinquestelle solo due giorni prima della caduta
del governo gialloblù, è stato qualificato come «sgangherato» da molti
costituzionalisti, 65 e presenta almeno tre motivi di manifesta
incostituzionalità.
Primo motivo: in violazione dell’art. 98 della Convenzione Onu sul
diritto del mare (Montego Bay, 1982), il decreto considera chi rispetta
l’obbligo di «prestare assistenza a qualsiasi persona trovata in mare»
colpevole di traffico di migranti, assimilandolo a uno scafista.
Secondo motivo: un emendamento peggiorativo del M5S ha
innalzato le pene pecuniarie per una condotta non solo lecita, ma
doverosa, di quindici volte nel minimo e di venti nel massimo,
arrivando, per il capitano della nave, a un milione di euro.
Terzo e più incredibile motivo di incostituzionalità: per pura
insipienza, il decreto considera oltraggio a pubblico ufficiale qualsiasi
resistenza a qualsiasi autorità. Dunque, non solo gli appartenenti alle
forze dell’ordine, ai quali i redattori del decreto probabilmente
pensavano: diventa oltraggio a pubblico ufficiale anche litigare con il
postino. 66 Eppure questa roba è diventata legge dello Stato, avendola
il presidente della Repubblica firmata, sia pure auspicando
l’intervento della Corte costituzionale.
Molti osservatori hanno considerato questa vicenda frutto dello
stesso delirio di onnipotenza che, sull’onda dei sondaggi favorevoli, ha
portato Salvini a chiedere i pieni poteri e a far cadere il proprio stesso
governo. Spiegazione riduttiva, però, che non spiega come un intero
paese, per un anno, sia rimasto ostaggio del delirio di un uomo. La mia
spiegazione è un’altra. La politica antimmigrazione del governo
gialloblù è un caso da manuale di populismo digitale, che si alimenta
fino all’autodistruzione. 67

5. Conclusione
Le euristiche della sicurezza sociale, pubblica e migratoria, sfruttate
dal populismo digitale, non producono solo insicurezza: si traducono
in bias devastanti per la razionalità delle istituzioni. Narrazioni come
la sostituzione etnica sono autentiche droghe che, come abbiamo visto,
finiscono per far deragliare il legislatore. Droghe ancora legali, però:
Facebook, Twitter o YouTube possono diffonderle e moltiplicarle
impunemente, distribuendole a quello zotico credulone che è il
popolino del web.
Precedo l’obiezione: ma anche la tua è una narrazione, uguale e
contraria a quelle populiste; non puoi venirci a raccontare che, in tutto
l’Occidente, il popolo sovrano è stato ingannato per quattro anni. La
spiegazione è più semplice, prosegue l’obiezione: il popolo sovrano ha
paura e sceglie democraticamente le politiche populiste della
sicurezza. A questa obiezione, che colpisce l’idea stessa di populismo
digitale, rispondo lasciando la parola a un autore dal quale ho
imparato molto. L’insicurezza, scrive,
si nutre di due ingredienti […]: la rabbia delle classi popolari fondata su cause
economiche e sociali reali, da una parte, e dall’altra una poderosa macchina
comunicativa, concepita all’origine per fini commerciali e divenuta lo strumento
privilegiato di tutti quelli che vogliono moltiplicare il caos. Se ho scelto […] di
concentrarmi su questo secondo aspetto non è certamente per negare l’importanza
del primo. 68
La scatola delle meraviglie
Tre spiegazioni del populismo

Non sono i prodotti migliori a vincere. Sono quelli


che usano tutti.
Dirigente di Facebook

1. Premessa
Nella storia umana sono capitate cose ben peggiori: caccia alle streghe,
genocidi, Auschwitz… Intere civiltà sono collassate per l’arrivo di
nuove malattie, il cambio delle condizioni climatiche, l’esaurimento
delle risorse. L’Isola di Pasqua è stata deforestata per erigere
enigmatiche statue di pietra. 1 Ma è forse la prima volta che
un’istituzione vecchia di tre secoli – la liberaldemocrazia – rischia di
collassare per colpa di un giocattolo: la scatola delle meraviglie
chiamata smartphone.
Per spiegare come questo simpatico ammennicolo rischi di uccidere
la democrazia prenderò la questione alla lontana. Anzitutto sosterrò
che le istituzioni sono dispositivi salvarazionalità, 2 con la funzione
principale, cioè, di preservare la razionalità mezzi-fini; quando
smettono di assolvere questa funzione, possono anche estinguersi. 3 Il
populismo digitale, la sovranità del popolino della rete, moltiplica i
rischi per le istituzioni democratiche, convertendole in un
pandemonio di pulsioni in conflitto.
Mostrerò poi cinque bias, distorsioni generalissime della
razionalità, che sono moltiplicate sino al parossismo dal populismo
digitale. Infine proporrò tre spiegazioni del populismo odierno, non
alternative ma complementari, tali da dar conto di diversi aspetti del
fenomeno. Homo oeconomicus, Homo psychologicus e Homo
mediaticus hanno tutti pregi e difetti, ma solo Homo mediaticus
spiega tre aspetti distintivi del populismo odierno:
disintermediazione; frammentazione o polarizzazione; contendibilità
del potere.
Soprattutto insisterò sul fatto che la sfida portata dal populismo
alla razionalità delle istituzioni democratiche non sarebbe così grave se
non dipendesse dall’autentica mutazione antropologica portata nelle
nostre vite dalla scatola delle meraviglie. La cultura e le istituzioni
umane, infatti, sono largamente determinate dall’ambiente, e
l’ambiente digitale è – niente di meno e niente di più – una nuova
forma di vita, capace di cambiare quel che gli antichi chiamavano la
natura umana.

2. Cos’è un’istituzione?
Rimedio all’irrazionalità

Le istituzioni sono sistemi di norme, comprendenti valori, principi


e regole, emersi per coordinare azioni individuali rimediando alle loro
irrazionalità. 4 Si dice razionale – razionalità minima detta
strumentale – un’azione atta a conseguire gli scopi cui mira. 5 Ad
esempio, posso voler acquistare una pistola per difendermi – scopo
perfettamente razionale –, ma se tutti fanno lo stesso il rischio che mi
sparino aumenterà anziché diminuire. Il rimedio è un’istituzione: la
regolamentazione del commercio di armi. 6
Le istituzioni emergono da azioni individuali in tre passi. 7 Il primo
di questi passi è rappresentato da atti individuali fini a sé stessi, giochi
solo nel senso del giocare (play). Il secondo, da microsistemi di
norme, giochi nel senso di games o istituti. Il terzo, da macrosistemi
capaci di produrre norme, o istituzioni in senso stretto. Non escludo
certo che istituzioni possano nascere da progetti, contratti sociali, atti
del potere costituente. Noto solo che istituzioni «progettate», di solito,
non fanno che imitare istituzioni «spontanee» preesistenti
Basta aver avuto figli piccoli, ma anche un animale domestico come
la mia gatta Entropia, per capire che gran parte delle loro attività, ma
anche delle nostre, è semplicemente un gioco, o meglio un giocare (lat.
lusus, ingl. play). Il gioco è un’attività ma anche un valore in sé, con la
stessa dignità di conoscenza e razionalità. 8 Certo, giocare poi serve
anche ad altri scopi importantissimi, come l’adattamento all’ambiente
e la socializzazione dei bambini, ma resta soprattutto un’attività
autotelica, fine a sé stessa. L’unica funzione manifesta del gioco, anche
in età adulta, è cioè giocare, benché i giochi abbiano poi funzioni
latenti ulteriori e tremendamente importanti. 9
In inglese, play significa anche recitare: l’uomo è un animale che ha
imparato a recitare imitando gli altri umani. I cuccioli di Homo
sapiens hanno una finestra temporale molto ristretta per imparare la
parte; chiusa quella, resteranno animali, come capita ai bambini
allevati dai lupi. L’umanità si compone proprio dell’insieme dei giochi
che si imparano da bambini: allevare i figli, fare la guerra… 10
Prima di occuparci di questi giochi più «seri», consideriamo
brevemente le conseguenze dell’esposizione precoce dei cuccioli di
Homo sapiens all’uso dei cellulari multifunzione, gli smartphone. 11 Se
non imparano a disconnettersi, il rischio è che restino bambini tutta la
vita. Certo, con gli anni cambieranno giochi, aggiungendo ai
videogiochi i pornogiochi, le scommesse sportive, la politica. Ma ne
resteranno dipendenti: continueranno a giocare non solo nel tempo
libero, ma andando a lavorare o sul lavoro stesso.
Quali sono le conseguenze politiche, su questi eterni bambini, della
dipendenza da cellulare? Il fenomeno è troppo recente per disporre di
dati precisi, e comunque l’ultima cosa che vorrei fare è del terrorismo
psicologico. Ma i primi sintomi sono allarmanti. L’uomo digitale
sembra avviarsi a divenire disumano, o postumano: 12 autocentrato,
irrazionale, dissociato. Peggio ancora: portatore di risentimenti
viscerali, ignoti persino a quella psicologia delle folle ottocentesca che
aveva annunciato i totalitarismi novecenteschi.

Istituzioni come macrogiochi

Da Wittgenstein in poi la nozione di gioco (lat. ludus, ingl. game) è


divenuta la metafora più usata, nelle scienze sociali, per riferirsi a
istituti e istituzioni umane. La usa anche la teoria dei giochi, dove però
«gioco» assume il senso più tecnico di attività strategica, che mira alla
massimizzazione dell’utilità degli individui nell’interazione con gli
altri. Utilità sempre perseguita ma non sempre conseguita: l’esempio
dell’acquisto di armi, infatti, mostra che fare il proprio interesse può
sortire l’effetto opposto. 13
Comunque sia, nel senso ordinario, wittgensteiniano, un game è
concepito come un insieme di norme costitutive, istitutive del gioco, e
regolative dell’attività dei giocatori. 14 Per distinguere giochi come
promessa, proprietà, dono, sui quali si basano intere civiltà umane, da
quei macrogiochi che sono le istituzioni in senso stretto, chiamerò i
primi microgiochi o istituti. Un’istituzione, o macrogioco, come lo
Stato, il mercato o il diritto, è un insieme di istituti o microgiochi
capace di modificarli e di crearne altri. 15
Nel senso più tecnico della teoria dei giochi, invece, gli stessi
microgiochi, o istituti, e anche i macrogiochi, o istituzioni, sono
soluzioni a problemi di coordinazione delle azioni. 16 Le azioni
individuali, che mirano a massimizzare l’utilità individuale, entrano in
conflitto fra loro. Ad esempio, avremmo interesse a non rispettare le
promesse, a violare la proprietà altrui, a sottrarci al gioco ipocrita dello
scambio dei regali di Natale. Perché, invece, normalmente rispettiamo
le promesse, non rubiamo e ci scambiamo regali?

Dispositivi di razionalità strumentale

Diventa rilevante, qui, la nozione di razionalità, e in particolare di


razionalità strumentale, il cuore di quanto gli antichi chiamavano
ragione e consideravano l’aspetto distintivo degli umani – definiti
animali razionali da Aristotele – rispetto agli (altri) animali. Se io
mantengo le mie promesse, non rubo proprietà altrui e adempio tutti
gli anni allo stanco rituale dei regali di Natale, è perché ho
sperimentato che, dopotutto, mi conviene farlo: è strumentalmente
razionale comportarsi così.
Ed è razionale – è un buon mezzo per conseguire i miei fini, e lo
stesso per tutti gli altri – anche se nessun legislatore lo stabilisce:
quale legislatore potrebbe essere così sadico da imporci di scambiare
regali a Natale? Solo nel Regno Unito, ma come estrema
manifestazione di eccentricità, sono stati codificati minuziosamente i
giochi «ludici» o sportivi (dal tennis al football, dal golf al rugby)
mentre i giochi «seri» – dal common law alla stessa costituzione
inglese – non sono scritti da nessuna parte.
In effetti, istituti occidentali come la proprietà e istituzioni
occidentali come il diritto si sono sviluppati senza bisogno né di
legislazione né di sanzioni. Rispettarne le norme, benché seccante sul
momento, a medio termine corrisponde ai nostri interessi: ciò che
spiega il loro carattere autoapplicativo (self-enforcing). 17 Eppure, nel
Regno Unito e nel resto dell’Occidente, si è imposta un’altra
concezione delle istituzioni: il positivismo giuridico, per cui esse
sarebbero addirittura create dagli umani.
Secondo questo modo di pensare, per la verità non condiviso dai
maggiori teorici positivisti, 18 le istituzioni nascerebbero da contratti
sociali o da atti del potere costituente. Ho chiamato l’idea di questa
creazione dal nulla creazionismo, per le sue analogie con la narrazione
della Genesi biblica. 19 In realtà, istituzioni «artificiali» o «costruite»,
normalmente, imitano istituzioni «evolutive» o «spontanee»
precedenti: non sono la creazione ma la mera istituzionalizzazione di
consuetudini o convenzioni precedenti.
Eppure c’è davvero un elemento di progettazione consapevole in
questi processi, per il resto in gran parte evolutivi. Gli umani, a partire
dalla rivoluzione cognitiva che li ha distinti dagli scimpanzé,
possiedono un dispositivo evolutivo che ha permesso loro di
sopravvivere, poi di sterminare migliaia di altre specie e infine di
dominare la Terra. Oggi, infatti, gli umani vivono nell’antropocene,
un’epoca nella quale la sopravvivenza stessa del pianeta dipende da
decisioni umane.
Il dispositivo evolutivo che ci ha consentito queste prodezze fu
chiamato dai filosofi greci «ragione» (logos), ma dovrebbe chiamarsi
«razionalità strumentale». Si tratta della capacità di ottenere certi fini
usando i mezzi adeguati: strumentalmente, ossia indipendentemente
dal fatto che il fine sia buono o cattivo. Fin da quando siamo usciti dal
branco di scimpanzé per cacciare animali più grossi di noi, infatti,
abbiamo capito che per sopravvivere, ma anche solo per convivere,
dovevamo adottare istituzioni adeguate.
Le istituzioni sono appunto dispositivi per raggiungere fini che il
singolo, da solo, non conseguirebbe mai. Il loro elemento distintivo,
rispetto agli istituti, è il potere di creare intenzionalmente norme,
istituti e altre istituzioni al fine di conseguire tali fini. Le istituzioni,
d’altronde, si collocano entro una scala tra due poli. Si dicono
inclusive le istituzioni aperte agli interessi di tutti, estrattive le
istituzioni che servono solo a un’élite per estrarre lavoro e ricchezza da
tutti gli altri. 20
Sono tipicamente estrattive le società schiaviste, come quelle
latinoamericane prima e dopo la conquista europea. È tipicamente
inclusiva la società senza classi immaginata dai comunisti utopisti e
mai realizzatasi sulla Terra. Tutte le istituzioni esistenti sono
intermedie ai due poli, avvicinandosi più all’uno o all’altro. Res
publica romana e repubblica di Venezia, ad esempio, sono fiorite
finché sono rimaste inclusive, sono decadute quando sono diventate
estrattive. Fioritura e decadenza sono state in ogni caso conseguenza
delle loro istituzioni, economiche e, prima ancora, politiche.

Dai micro ai macrogiochi: l’esempio del diritto

Il passaggio da microgiochi o istituti (promessa, proprietà, dono…)


a macrogiochi o vere e proprie istituzioni (Stato, mercato, diritto),
capaci di modificare i microgiochi e di crearne altri, può avvenire in
molti modi. Prendiamo una tipica istituzione estrattiva, il sistema
indiano delle caste. Un popolo indoeuropeo, appena conquistato il
subcontinente indiano, impose una gerarchia in cui i conquistatori
formavano le caste superiori – sacerdoti, guerrieri, mercanti –, 21 i
conquistati quelle inferiori.
Questa istituzione, finalizzata allo sfruttamento delle caste inferiori,
non solo è durata millenni, ma si è sviluppata a dismisura, producendo
a un certo punto della sua evoluzione qualcosa come tremila caste,
tanto da costituire ancora un problema per l’India democratica, o
populista, odierna. Le caste, infatti, assicuravano una sorta di armonia
sociale: ognuno conosceva il proprio ruolo e funzione nella società e
sapeva come agire, strumentalmente, per sopravvivere, riprodursi e
conseguire altri obiettivi sociali.
Il sistema indoeuropeo delle caste, tipicamente estrattivo, ha
lasciato tracce nella stessa democrazia parlamentare occidentale,
istituzione molto più inclusiva. Nelle monarchie medievali il re
consultava i grandi del regno (clero e nobiltà) e i mercanti (borghesia,
Terzo stato) prima di prendere decisioni. Si sono formate così la
Camera dei Lord e la Camera dei Comuni del Parlamento inglese, la
cui principale funzione era originariamente quella di approvare il
bilancio, cioè le imposte necessarie al funzionamento dello Stato.
Con la formazione degli Stati Uniti prima e la Rivoluzione francese
poi, il sistema parlamentare si è diffuso in tutto l’Occidente, non solo
perché più inclusivo rispetto al sistema delle caste, ma anche per la
sua maggiore razionalità strumentale. A differenza dei maschi alfa
degli scimpanzé, e dei re, guerrieri e sacerdoti successivi, infatti, le
democrazie parlamentari deliberano razionalmente: i parlamenti, cioè,
trasmettono ai governi le esigenze dei consociati e discutono per
decidere quali norme adottare.
Come modello dei processi di istituzionalizzazione – di formazione
di istituzioni a partire da istituti – userò l’esempio del diritto
(occidentale o per antonomasia). 22 Partendo dalla migliore teoria
disponibile, quella di Herbert Hart, si può dire che l’istituzione diritto
nasca dalla sovrapposizione, a istituti «spontanei» come famiglia,
proprietà, contratto, responsabilità civile e penale, di poteri pubblici
per applicarli (giurisdizione), mutarli (legislazione) e riconoscerli
(Costituzione). 23
Quale razionalità ha un’istituzione così concepita, in tutti e tre gli
stadi – giurisdizionale, legislativo e costituzionale – che ne
punteggiano l’evoluzione? Il diritto si adegua ai mutamenti
dell’ambiente sociale, sempre più veloci nella modernità, soprattutto
divenendo legislazione. Questo è il modo non solo più rapido, ma più
democratico, di produrlo: il Parlamento eletto fa una legge o, più
spesso, converte in legge un decreto del governo, e così (crede di)
risolve(re) ogni problema sociale. 24
In realtà, oltre che da Parlamento e governo, il diritto continua a
essere prodotto anche da giudici e funzionari amministrativi. Inoltre,
dopo Auschwitz, la Costituzione fissa parametri formali e sostanziali
cui le leggi devono adeguarsi. Il diritto moderno, d’altronde, non è
prodotto in forma legislativa solo perché questo è il modo più veloce di
adattarlo all’ambiente: l’ukaz di uno zar sarebbe più rapido. Piuttosto,
la legislazione si presenta come più razionale e democratica: le leggi
vengono proposte, discusse, votate…
Il diritto, insomma, è un sistema di norme che, oltre a regolare la
condotta tramite istituti come famiglia, proprietà, contratto, autorizza
la creazione deliberata di altre norme: è dunque un’istituzione in senso
stretto. Le istituzioni sono dispositivi salvarazionalità anche nel senso
che ci costringono a essere razionali quando non vogliamo. Per fare un
esempio già proposto, vorremmo comprare armi per difenderci, ma
questo produrrebbe il far west. Allora il Parlamento regola il
commercio di armi.
D’altra parte, in tempi di populismo, la democrazia parlamentare
non funziona più così, ammesso che lo abbia mai fatto. I parlamenti, o
le loro maggioranze, non fanno quasi altro che ratificare decreti del
governo, i quali mirano soprattutto a vincere le elezioni successive. Il
popol(in)o, appositamente terrorizzato, chiede sicurezza? E allora si
deregolamenta il commercio delle armi. Molti se ne sono accorti solo
davanti a governi populisti. Ma a irrazionalità come queste è dedicata
la prossima sezione.

3. Una democrazia demente


Le euristiche intuitive o «di pancia»

Fin dalla critica aristotelica della demokratia, tutti sanno quanto la


politica democratica possa essere viziata dall’irrazionalità. La ragione,
la logica, la scienza le sono indispensabili per le loro applicazioni
pratiche o tecniche: senza di esse, oggi, Homo sapiens non
sopravvivrebbe una settimana. Ma il cervello umano non si è affatto
evoluto per ragionare scientificamente, semmai per prevalere nelle
discussioni. Un esempio evidente di questa constatazione è proprio la
discussione politica.
I sofisti greci, gli spin doctor dell’epoca, addestravano gli
apprendisti politici a sostenere tesi fra loro opposte, a seconda delle
circostanze. Oggi, invece, l’irrazionalità umana, anche in politica, è
studiata scientificamente dagli psicologi cognitivi, detti anche
economisti comportamentali. 25 Costoro forniscono lunghe liste di
euristiche o scorciatoie cognitive utilissime nella vita quotidiana ma
tali da trasformarsi, in politica, in altrettanti bias, pregiudizi o
distorsioni sistematiche del giudizio.
Vedremo a suo tempo come anche i computer che imparano
dall’esperienza (tramite il cosiddetto machine learning), i cui
algoritmi cioè generalizzano a partire da grandi dati (big data),
possono essere ingannati (biased). Questo accade normalmente ai
cuccioli di Homo sapiens, che diventano umani imitando i genitori e
altri componenti del gruppo. Quando crescono e partecipano alla vita
pubblica, però, l’imitazione dei pregiudizi del loro ambiente produce
conformismo, razzismo, fanatismo. 26
Per studiare i bias umani, gli psicologi operano esperimenti divisi
in tre fasi. Prima calcolano a tavolino quale sarebbe la condotta
razionale, tale da massimizzare l’utilità individuale in una data
situazione. Poi, tramite test o questionari, chiedono a persone in carne
e ossa come si comporterebbero davvero in tale situazione. Infine
misurano lo scostamento della condotta reale da quella razionale,
constatando che quasi mai gli umani si comportano razionalmente,
specie in politica e sul web.
In questo modo gli psicologi mostrano che nella vita reale seguiamo
le euristiche automatiche e intuitive apprese per esperienza,
imitazione o abitudine (il cosiddetto Sistema1), e non quelle riflessive
dettate dalla parte razionale del cervello (il cosiddetto Sistema2). 27
Dal punto di vista dell’evoluzione della specie, ossia dell’adattamento
all’ambiente e al gruppo, seguire il Sistema1, intuitivo-automatico, è
perfettamente razionale: se non avesse fatto così, Homo sapiens si
sarebbe già estinto da un pezzo. 28
Ma dal punto di vista del Sistema2 (la ragione, «il cervello»), le
euristiche seguite dal Sistema1 (gli istinti, «la pancia») diventano bias,
ottenendo risultati irrazionali, diversi o opposti a quelli perseguiti.
Quando dobbiamo prendere decisioni riflessive – che partito votare,
quali condotte approvare o condannare, per non parlare di governare
–, le euristiche del Sistema1 diventano una sciagura. Qui si
elencheranno cinque bias, i più noti e rovinosi: ma con una
precisazione.
A rigore, i bias basterebbero già a spiegare irrazionalità della
condotta politica come il disinteresse, la disinformazione o il voto
casuale, seguendo la suggestione del momento. Anche gli elettori,
infatti, seguono più il Sistema1 («la pancia») che il Sistema2 («il
cervello»). Da soli, però, i bias non spiegano il picco d’irrazionalità
tipico dei populismi: la demenza populista. Gli studi sul populismo,
qui, normalmente partono da un’ipotesi minima: internet, gli
smartphone, i social, facilitano l’irrazionalità.
Ormai tutti gli studiosi, anche quelli che attribuiscono il populismo
a cause principalmente economiche o politiche, ammettono che la sua
crescita «è stata facilitata dalla rivoluzione tecnologica». 29 Questa,
però, è solo un’ipotesi minima. Il libro che state leggendo si distingue
dalla letteratura mainstream perché sostiene un’ipotesi massima: non
solo internet moltiplica i pregiudizi sino al parossismo, ma la
rivoluzione digitale è la causa principale, benché non l’unica, del
populismo odierno.
Un esempio, prima di passare all’elenco dei bias. Un governatore
regionale populista, richiesto di commentare l’aiuto fornito a migranti
irregolari da parte di contadini della propria regione, ha dichiarato che
lui li avrebbe denunciati alla polizia: beninteso i migranti (ma forse
anche i contadini). Sentita questa dichiarazione, un mio collega
professore universitario, persona notoriamente tranquilla, ha afferrato
d’istinto lo smartphone e scritto subito un tweet in cui dava del nazista
al governatore, provocando uno scandalo.
Evidentemente il mio collega aveva attivato il proprio Sistema1. Poi,
ripreso il controllo, ha attivato il Sistema2 cancellando il tweet e
scusandosi. Ciò non ha impedito agli utenti populisti di Twitter o di
Facebook – compresi i falsi profili (bot) creati per moltiplicare i loro
tweet o post, ritwittandoli o condividendoli 30 – di sommergere il mio
collega con cybercascate di odio online. Ancora una volta il bias contro
le élite, come i professori universitari, è stato sfruttato dalla
«macchina del fango» populista.

Cinque bias che viziano la comunicazione

Il primo bias che vizia la comunicazione, specie politica, è il


tribalismo: siamo tutti divisi in tribù di tifosi, e tendiamo a dire tutto il
bene possibile dei «nostri» e tutto il male possibile degli «altri». Ad
esempio, se la stessa legge viene attribuita a legislatori di sinistra, gli
elettori di sinistra ne parleranno pregiudizialmente bene, quelli di
destra pregiudizialmente male, e viceversa. Ed è sempre la stessa
legge: altrettanto ignota agli uni e agli altri, anche perché solitamente
incomprensibile a tutti.
Sul web, questa dinamica noi/altri diviene feroce. La tribalizzazione
politica, in particolare, è una delle concause delle bolle o camere
dell’eco mediatiche (filter bubbles; echo chambers). 31 Ognuno tende
istintivamente a comunicare solo con la propria «tribù», di cui
condivide a priori le opinioni, evitando di esporsi a smentite
provenienti da «tribù» diverse. Si producono così quei fenomeni tipici
del populismo digitale che sono detti frammentazione e polarizzazione
dell’opinione.
L’ho sperimentato sulla mia pelle, per dir così. Una volta ho chiesto
l’amicizia su Facebook a un collega, ma sono stato quasi costretto a
ritirarla solo un giorno dopo perché non reggevo l’idiozia di molti suoi
follower. Il ritiro ha migliorato di molto il mio umore, ma non la mia
autostima. Infatti uno studioso, ma forse ogni essere umano, dovrebbe
sempre chiedersi: le opinioni che a me paiono ovvie non saranno
invece, molto spesso, solo quelle della bolla mediatica o della tribù cui
appartengo? 32
La seconda distorsione che vizia la comunicazione, rafforzando la
prima, è chiamata della conferma (e disconferma): tendiamo ad
accettare le opinioni che confermano le nostre, prendendo sul serio
solo i dati che le sorreggono e trascurando gli altri. Esposti a un
apposito esperimento, ad esempio, forniamo risposte sensate circa
l’efficacia di creme per la pelle, sulle quali non abbiamo opinioni
preconcette, mentre forniamo risposte deliranti sulla limitazione del
commercio di armi, dove invece le abbiamo. 33
Il confronto fra gli enormi tassi di omicidi americani e quelli
bassissimi europei suggerisce che liberalizzare il commercio di armi,
come negli Usa, produce più omicidi. Eppure chi risponde al test tende
a interpretare i dati in modo da confermare le proprie opinioni, e
questa tendenza si amplifica sui social. In particolare, i sostenitori
populisti delle armi libere o ignorano bellamente i dati oppure li
leggono come parte del solito complotto degli esperti contro il popolo e
a favore dei delinquenti.
Il terzo bias è detto del conformismo o dell’autorità, ed è illustrato
dal seguente esperimento. Si mostrano due linee di lunghezza
chiaramente diversa a dieci studenti e, dopo essersi messi d’accordo
con nove di loro perché forniscano la risposta sbagliata, si chiede loro
se siano di lunghezza uguale o diversa. Il decimo studente, che non sa
di essere l’unica cavia dell’esperimento, normalmente finisce per fare
propria la risposta sbagliata della maggioranza, solo perché è la
maggioranza. 34
Sottoposto il decimo studente a risonanza magnetica per accertarne
le reazioni emotive, in effetti, ci si accorge che non finge affatto di
vedere quanto crede vedano gli altri. Al contrario, finisce per vedere
davvero quel che crede vedano loro. Il conformismo e l’autorità della
maggioranza, cioè, cambiano la sua percezione, inducendolo a negare
l’evidenza: come avviene, su scala più larga, nei regimi totalitari. Lo
stesso, naturalmente, avviene anche sui social, specie quando si
seguono leader con milioni di follower.
Attivare il bias del conformismo sembra anche il normale effetto
dei sondaggi elettorali. Questi, in teoria, dovrebbero solo registrare le
intenzioni di voto degli elettori. In realtà in molti paesi la diffusione di
sondaggi è vietata nell’ultimo periodo della campagna elettorale
proprio perché influenza il voto. Generalmente la influenza nel senso
che il bias rafforza la tendenza a votare candidati e partiti in testa ai
sondaggi. A volte produce anche l’effetto contrario, inducendo i
perdenti a mobilitarsi, ma non è mai ininfluente.
La quarta distorsione cognitiva si chiama bias (o euristica) della
disponibilità (availability): tendiamo a sovrastimare le probabilità che
ci sono più familiari e a sottostimare quelle che lo sono meno. Questo
bias ha applicazioni spettacolari in materia di terrorismo. I cittadini
statunitensi sanno dell’11 settembre ma ignorano la geografia del
Medio Oriente, sicché sono stati disposti a farsi raccontare dai propri
governanti che invadere l’Iraq era un buon modo per evitare il
ripetersi di attentati negli Stati Uniti.
Invece è ormai noto cosa ha comportato l’invasione dell’Iraq: la
destabilizzazione dell’intero Medio Oriente e il prodursi di forme di
terrorismo (l’Isis) peggiori delle precedenti. L’invasione, e
l’antiterrorismo in genere, è così costata al contribuente americano, e
ai civili mediorientali, infinitamente più del terrorismo. Contiamo solo
i morti: trecento vittime dell’11 settembre, da un lato, dall’altro almeno
seimila soldati americani e forse trecentomila persone, fra militari e
civili, uccisi fra Iraq, Pakistan e Afghanistan.
Eppure, proponete a un qualsiasi cittadino americano di abolire
l’Homeland Security Act (2002), le cui spese stellari si
giustificherebbero solo se prevenissero diciassette 11 settembre l’anno.
Molti vi risponderanno che se servono a prevenire attentati sono soldi
ben spesi, benché il ripetersi di un attentato del genere sia probabile
quanto un’invasione marziana. Le uniche a guadagnarci, qui, sono le
industrie statunitensi della sicurezza, che dopo l’11 settembre hanno
stipulato duemila contratti con il governo. 35
Come il lettore avrà ormai capito, anche il bias della disponibilità
viene moltiplicato dal web. Di fatto è all’origine, direttamente,
dell’isteria securitaria dilagante sui social, indirettamente, delle
politiche sovraniste e antimigranti che si sono diffuse su entrambi i lati
dell’Atlantico. Esposto alla propaganda, questa sì davvero terroristica,
e non potendo calcolare la reale probabilità di futuri attentati, il
popol(in)o ha paura. Ma a gongolare, qui, non sono solo le industrie
militari: sono i leader populisti.
Il quinto bias è il già menzionato framing effect, riassumibile così:
non contano le informazioni in sé, ma come le si presenta, cioè come
sono formulate (framed). 36 Lo sanno bene i pubblicitari, i cattivi
giornalisti e gli spin doctor: le tre principali categorie di persuasori
occulti. 37 La stessa identica informazione, cioè, può essere data in
molti modi diversi a seconda che si vogliano vendere più giornali,
reclamizzare prodotti commerciali o fare propaganda politica,
dichiarata o, più spesso, occulta.
Oggi tutti credono di essere vaccinati contro l’imbonimento: uno
dei pretesti per non comprare giornali, ad esempio, è proprio questo.
Così, i più preferiscono l’informazione fai da te sugli smartphone, in
realtà orientata dagli stessi algoritmi della pubblicità commerciale.
Avviene così che, nell’estate del 2019, l’algoritmo di Google – un
segreto meglio custodito dei tre di Fatima – ha privilegiato per
settimane la notizia seguente: una trans canadese avrebbe fatto causa
a estetiste che le rifiutavano la ceretta del pene.
Perché? Il news feed, il flusso di notizie che scorre sui nostri
cellulari, è calibrato sui big data che cediamo quando navighiamo in
internet. Così, se una volta abbiamo manifestato una tendenza
all’omofobia, anche solo scherzando, riceveremo notizie come quella
della trans. I giornali buoni si distinguono dai cattivi, invece, perché
distinguono i fatti dalle opinioni ed evitano strumentalizzazioni,
rivolgendosi più al Sistema2 («il cervello») e meno al Sistema1 («la
pancia»).
Un bell’esempio di framing effect è la riforma sanitaria fatta
approvare da Obama nel 2011 e che neppure Trump è riuscito ad
abolire, perché estende la copertura sanitaria a poveri altrimenti privi
di qualsiasi assistenza. Bene, se i sondaggi chiamano la riforma
Obamacare, con il nome spregiativo datole dai repubblicani, i giudizi
su di essa sono negativi. Se invece la chiamano con il nome vero datole
da Obama, Affordable Care Act, i giudizi diventano positivi. 38 E, di
nuovo, è sempre la stessa riforma.
Altro esempio memorabile è l’espressione «taxi del mare» coniata
da Di Maio per le navi delle ong che soccorrono i naufraghi nel
Mediterraneo. Usandola, si insinua che i migranti naufraghino
apposta e che le navi, d’accordo con gli scafisti, attendano il naufragio
per portare i naufraghi nei porti italiani. Tutte le inchieste giudiziarie
sulle ong hanno sempre smentito questa insinuazione: ma il frame dei
taxi del mare si ritrova in ogni tempesta d’odio scatenata sul web
contro i soccorritori.

La vita onlife

Questi cinque bias, e le loro strumentalizzazioni digitali,


confermano che internet non è più solo un mezzo, ossia una tecnologia
che, come tutte, si presta a usi buoni o cattivi. È molto di più: è un
ambiente vitale. Specie per i millennial e i nativi digitali, l’esperienza
di tutti i giorni non è più divisa fra offline e online, reale e virtuale. La
vita è ormai onlife: si svolge nell’ambiente vitale dei social. Chi vive lì,
perennemente connesso, neppure distingue più: il reale gli appare
virtuale e il virtuale reale. 39
I social sono diventati una droga perché producono un
potenziamento dell’esperienza (enhancement of reality). 40 La nostra
vita offline, con le sue inevitabili miserie, non ci basta più: vorremmo
una vita di ricambio, anzi molte altre ancora. Ad esempio, una volta si
scattavano foto delle vacanze da infliggere agli amici invitati a cena.
Oggi la vita intera è condivisa sui social, illudendosi di redimerla, ossia
di darle quell’aura di straordinarietà di cui è perfettamente priva.
Così si formano comunità digitali – dai partner con cui scambiamo
foto osé su Instagram agli immancabili tweet mattutini di Trump –
spesso formate da perfetti estranei, che non si incontreranno mai fra
loro fuori dal web e di cui nessuno conoscerà il vero nome. Comunità
fittizie che però ne sostituiscono altre – famiglia, amicizie, colleghi,
città, nazioni, umanità – le quali, al confronto, sembrano
infinitamente meno reali: con il solito scambio fra reale e virtuale, e la
progressiva perdita della capacità di distinguerli.
Nei casi migliori, si crea una sorta di fraternità fra estranei. 41 Il
problema, però, sono i casi peggiori. Potenziando l’esperienza, infatti,
la si potenzia tutta: anche quella di chi guida a duecento all’ora, sotto
l’effetto della cocaina, con i figli piccoli sui sedili di dietro. Ma la
politica fa usi pure peggiori, se possibile. Qui i bias elencati sopra
producono intolleranza, fanatismo, servilismo, processioni per farsi un
selfie con il potente di turno. Tutto questo non fa bene alla
democrazia. A occhio, anzi, direi che la uccide.

4. Tre spiegazioni del populismo


Tutte complementari l’una con l’altra

Qui di seguito tento di spiegare l’attuale ondata populista, ossia


l’insieme di fenomeni selezionato dalle definizioni o caratterizzazioni
fornite nei capitoli precedenti. Impresa oscillante fra l’eroico e
l’inutile, per chi ragiona in termini di big data e di machine learning:
per costoro, basta accumulare dati che a loro volta producono
automaticamente previsioni. A questa vecchia fallacia ribattezzata
come datismo (datism), 42 però, si può sobriamente replicare come
segue.
Abbiamo sempre bisogno di spiegazioni – attribuzioni di effetti a
cause, o ragioni – e di spiegazioni scientifiche, cioè falsificabili in base
all’esperienza, che si distinguano dalle tante narrazioni diffuse sul
web: terrapiattismo, No-wax, sostituzione etnica… Nel primo capitolo
ho già sbozzato una prima spiegazione, solo politica, del populismo in
genere: la democrazia rappresentativa è in crisi da un secolo e forse da
sempre, basata com’è su abracadabra quali sovranità del popolo,
uguaglianza e rappresentanza. 43
Qui, invece, cerco i perché del populismo di oggi esaminandone tre
spiegazioni più generali di quella politica, che chiamo Homo
oeconomicus, Homo psychologicus e Homo mediaticus. 44 Si tratta
delle spiegazioni che tendono a dare, rispettivamente, economisti,
psicologi ed esperti di mass media. La prima è comunissima, forse
addirittura dominante, la seconda è relativamente più rara, mentre la
terza, che è la mia, è minoritaria. Per evitare fraintendimenti, devo
allora fare due precisazioni.
Intanto, le tre spiegazioni non sono alternative ma complementari.
Ognuna di esse, cioè, spiega solo certi aspetti del fenomeno populista,
il quale viene spiegato interamente – se mai si può spiegarlo del tutto
45 – solo dalla combinazione delle tre. Si tratta dunque di una
spiegazione pluricausale, non monocausale. Ciò richiede un’altra
precisazione. Le spiegazioni pluricausali sono complesse e tendono
fatalmente a disperdere l’attenzione, facendosi sostituire da narrazioni
monocausali più semplici. 46
La spiegazione del populismo qui fornita è pluricausale, e come tale
destinata all’oblio. Per sottrarla a tale destino, insisterò su Homo
mediaticus molto più che sulle altre, e comunque maggiormente di
quanto abbiano mai fatto gli studi sul populismo. Proprio come se
fornisse una spiegazione monocausale, cioè, questo libro indica una
causa principale dell’ondata populista: la scatola delle meraviglie
chiamata smartphone. Spero che molti la intendano così e anzi la
critichino proprio per questo, altrimenti sparirebbe dai radar.

Homo oeconomicus

Sembra impossibile che la spiegazione prevalente del populismo sia


ancora Homo oeconomicus: nel caso, l’idea che l’ondata populista sia
una reazione alla globalizzazione neoliberista. Secondo questo tipo di
spiegazione, le cause ultime dei fenomeni sociali sono sempre
economiche, perché gli individui agiscono per massimizzare la loro
utilità. In realtà, gli economisti per primi sanno che Homo
oeconomicus è solo un modello ideale, un’approssimazione utile per
misurare gli scostamenti della condotta reale.
Lo abbiamo visto: la condotta umana reale raramente massimizza
l’utilità perché segue i bias del Sistema1, dettati dalla nostra storia
evolutiva e dalle esigenze della vita quotidiana, e non il calcolo
razionale del Sistema2. 47 Dunque, per spiegare tale condotta, le
motivazioni economiche non bastano: occorre tener conto, almeno, dei
bias psicologici. Tanto più nel caso dei populismi, che generano
condotte utili ai governanti populisti ma controproducenti per i
governati e per la società nel suo insieme.
Di per sé, Homo oeconomicus è insostenibile, salvo modificarlo fino
a renderlo irriconoscibile. Ad esempio, si può trasformarlo in una
teoria apertamente normativa, come fa il neoliberismo: agisci come
vuoi, tanto poi il mercato aggiusta tutto. 48 Oppure si può trasformarlo
in una teoria analitica, vera per definizione: qualunque cosa uno scelga
di fare, anche immolarsi per amore dell’umanità, sarebbe per
definizione conforme ai suoi interessi. Ma allora ogni condotta
diverrebbe razionale.
Eppure, nonostante Homo oeconomicus sia indifendibile, il
populismo odierno viene spiegato comunemente in termini economici
non da qualche autore in particolare, ma dall’opinione corrente sui
media. In particolare, si invocano gli studi sull’accumulazione del
capitale di Thomas Piketty, i quali hanno accertato che in Occidente la
globalizzazione ha prodotto disuguaglianze di reddito, di opportunità o
anche solo di qualità della vita paragonabili a quelle precedenti la
Rivoluzione francese. 49
L’ondata populista, dunque, sarebbe una reazione di rigetto contro
la crescente integrazione dell’economia mondiale a opera del
capitalismo economico (le multinazionali) e soprattutto finanziario
(banche, società finanziarie, fondi pensione…). Il Kasinokapitalismus
globale, in effetti, non solo preferisce delocalizzare le imprese in
Oriente, dove i lavoratori non hanno tutele politiche e sindacali, ma si
arricchisce molto di più speculando in Borsa che investendo nella
produzione di beni e servizi. 50
I populismi, sia di destra sia di sinistra, sarebbero allora l’ideologia
dei perdenti della globalizzazione: la reazione all’aumento delle
disuguaglianze nei paesi ricchi. I populismi di sinistra
rivendicherebbero le ragioni del 99 per cento impoverito contro l’1 per
cento arricchito. I populismi di destra reagirebbero a una congiura tra
finanzieri e migranti, o almeno a una coincidenza dei loro interessi,
chiedendo la chiusura delle frontiere economiche (protezionismo) e
politiche (sovranismo).
Dopo la crisi economica del 2007-2008, effettivamente, molti
elettori hanno abbandonato i partiti tradizionali, accusati di non fare
più i loro interessi. Sotto l’aspetto strettamente economico hanno
ragione: per una lunga stagione, destra e sinistra hanno aderito
entrambe, senza troppe differenze, al Pensiero unico neoliberista. 51 In
particolare, Homo oeconomicus è la base su cui poggiano anche Homo
psychologicus e Homo mediaticus: la condizione necessaria, benché
non sufficiente, dell’ondata populista.
Eppure la spiegazione economicistica non sfugge a quattro
obiezioni devastanti. La prima è puramente scientifica: in realtà non
esiste una spiegazione economica pura, che non rinvii ad altri fattori,
specie psicologici e mediatici. 52 La seconda è strettamente economica:
se nella storia del capitalismo le crisi sono cicliche, perché proprio
quella del 2006-2008 avrebbe generato il populismo? La terza è
politica: la democrazia ha sempre controllato il conflitto ricchi/poveri,
perché ora non lo controlla più?
La quarta obiezione combina spiegazione economica e mediatica.
Ancora nel 1998, fra le quattro più grandi multinazionali del pianeta,
solo Microsoft era digitale, mentre General Electric, Exxon e Shell
erano imprese dell’energia. Vent’anni dopo, le prime quattro
multinazionali sono tutte digitali: Apple, Google, Microsoft e Amazon.
53 Il grande capitale, oggi, è l’industria digitale, i cui interessi, come
mostra il caso Cambridge Analytica, s’intrecciano spesso a quelli
populisti.

Homo psychologicus

Alle obiezioni mosse a Homo oeconomicus cerca di rispondere


Homo psychologicus, indicando la principale causa dell’odierna
ondata populista in un’emozione: il risentimento. Già Nietzsche, a fine
Ottocento, spiegava la rivoluzione cristiana non con l’amore
dell’umanità, ma con il ressentiment, termine francese da lui usato in
assenza di corrispettivi tedeschi. Tutto si ridurrebbe al risentimento
nutrito contro i dominatori romani, prima dagli ebrei oppressi in
Palestina, poi dai cristiani perseguitati.
Questo sarebbe il vero significato del motto evangelico «gli ultimi
saranno i primi»: prima o poi, gli oppressi asfalteranno gli oppressori.
Dal risentimento degli ebrei prima e dei cristiani poi nascerebbe il
ribaltamento di tutti i valori pagani realizzato dal cristianesimo: la
sostituzione dei valori guerreschi romani con la «morale del gregge»
cristiana. Nietzsche conclude sarcasticamente che i romani dei suoi
tempi – gli occidentali in genere – obbedivano ormai a quattro ebrei:
Pietro, Paolo, Cristo e la Madonna. 54
Più recentemente, verso la fine dell’era coloniale, anche Isaiah
Berlin, il più noto riformulatore del pluralismo dei valori (value
pluralism) inventato da Nietzsche, nel sesto paragrafo del saggio Due
concetti di libertà (1958) afferma che non il benessere economico ma
il riconoscimento (ingl. recognition) è la motivazione prevalente delle
persone e dei gruppi. Gli umani preferiscono farsi governare male da
uno di loro, purché li riconosca come simili, piuttosto che farsi
governare bene da estranei. 55
Il maggior rappresentante odierno di Homo psychologicus è però
Francis Fukuyama: il profeta subito smentito della fine della storia. 56
Il populismo, secondo Fukuyama, sarebbe causato meno da motivi
economici (l’invidia sociale dei poveri verso i ricchi) che da motivi
identitari: il risentimento verso chi non ci rispetta. 57 La sua
spiegazione rinvia alla distinzione fatta da Platone, nel libro quarto
della Repubblica, fra tre parti sia dell’anima sia della polis: razionale
(gr. ant. nous), passionale (epithumia) e orgogliosa (thumós). 58
Gli psicologi cognitivi, come già sappiamo, tendono a concepire la
politica populista come il campo nel quale alla razionalità umana, al
nous, si sostituiscono le passioni, l’epithumia. Fukuyama, invece, fa
appello alla terza parte dell’anima umana e della città, il thumós.
L’orgoglio indurrebbe le maggioranze disprezzate dalle élite a
risentirsi, reclamando però dignità e rispetto non uguali bensì
maggiori. Prendendo alla lettera principi come la sovranità popolare, il
popolo sovrano si ribella alle élite.
Ci sono molte prove empiriche a favore di questa spiegazione.
Intanto Homo psychologicus spiega l’atteggiamento antiélite di tutti i
movimenti chiamati populisti, sia di sinistra sia di destra. Tutto nasce
a sinistra, dalle rivendicazioni no global, di Occupy Wall Street o degli
Indignados, che si ergono a rappresentanti del 99 per cento
impoverito contro l’1 per cento arricchito dalla globalizzazione. Poi,
però, il risentimento diffuso passa a destra: a euroscettici,
protezionisti e sovranisti.
Paradossalmente, Homo psychologicus spiega anche il
risentimento populista contro le minoranze più povere, specie gli
immigrati: paradossalmente, perché qui sono i penultimi, come si
dice, a risentirsi contro gli ultimi. In realtà, studi sulla campagna
elettorale di Trump mostrano che i suoi elettori non sono poi così
poveri. Spesso sono americani benestanti che, per il loro minor livello
di istruzione, temono di essere sostituiti nelle fabbriche e negli uffici
da computer, robot e dagli stessi immigrati. 59
Si osservi che questa non è più una spiegazione solo economica del
populismo, che rinvia esclusivamente all’impoverimento delle fasce
medio-basse della popolazione. In realtà Fukuyama mostra che quanto
le persone meno istruite temono non è l’impoverimento in sé, ma la
perdita di rango sociale che ne consegue. Negli immigrati, in
particolare, costoro vedono chi prima o poi li supererà nelle gerarchie
sociali. Qui, chiaramente, Homo psychologicus si sovrappone a, e
comunque completa, Homo oeconomicus.
Personalmente credo che la spiegazione psicologica debba essere
tenuta in grande considerazione, almeno quanto quella economica.
Tuttavia Homo psychologicus è esposto a due obiezioni, che rinviano
entrambe a Homo mediaticus. La prima suona così: vero, il thumós è
una componente essenziale della psiche individuale e collettiva. Ma, di
nuovo, perché solo oggi, dopo la rivoluzione digitale, e non dopo tante
altre crisi economiche e migratorie, il risentimento ha assunto questo
ruolo politico decisivo?
La seconda obiezione è documentata da una delle rare dichiarazioni
pubbliche di Arthur Finkelstein, lo spin doctor del leader populista
ungherese Orbán. Nel 2011, a Praga, ha dichiarato: «Io vado molto in
giro per il mondo e vedo, dappertutto, un’enorme quantità di rabbia»,
che si concentra su élite, migranti e minoranze in genere. «Questo»
prosegue «produrrà la richiesta di governi più forti e uomini più forti,
che “facciano smettere quella gente”.» La rabbia, conclude, è il core
business del marketing politico populista. 60
La seconda obiezione, allora, suona così: il risentimento e la rabbia,
naturali fra gli umani per evidenti motivi evolutivi, non sarebbero mai
diventati discorso d’odio (hate speech) 61se non fossero stati alimentati
dalla manipolazione populista dei social. Ad esempio, una valanga di
dati empirici mostra la correlazione fra l’uso di Facebook, esteso ormai
a oltre un terzo degli umani, e le sempre più frequenti esplosioni di
violenza collettiva: dalla Birmania alla Germania, dagli Stati Uniti alla
Francia.
Si pensi solo ai gilets jaunes, il maggior movimento populista
francese insieme con l’ex Front national di Marine Le Pen, dal quale è
infiltrato. Tutto è nato su Facebook, da comunità digitali come La
France en colère. La stessa idea dei giubbetti gialli come distintivo
della protesta è venuta a un giovane meccanico francese, il quale l’ha
postata in un video che ha raccolto cinque milioni di visualizzazioni in
pochi giorni. 62 Anche la spiegazione psicologica, insomma, rinvia a
quella mediatica.

Homo mediaticus o digitalis

Ogni spiegazione dell’azione umana ha, per definizione, una


componente cognitiva: gli uomini differiscono dagli animali solo
perché sanno quel che fanno, o almeno credono di saperlo. Anche
Homo oeconomicus presenta tale componente: per fare il proprio
interesse gli uomini dovrebbero sapere in cosa diavolo esso consista.
Pure Homo psychologicus richiede una qualche percezione dei valori e
delle gerarchie sociali: per risentirmi di non essere rispettato devo
avere un’idea anche confusa del rispetto che merito.
Ora, la componente cognitiva della condotta dipende a sua volta dai
media: dove «medium», plurale «media», indica qualsiasi strumento
di comunicazione, nessuno escluso. 63 Si va dal linguaggio del corpo
degli animali e dei primi ominidi al discorso orale delle democrazie
greche; dal discorso scritto, specie dopo l’invenzione della stampa nel
Cinquecento, alla radio, usata negli Stati totalitari per mobilitare le
masse, sino alla televisione della cosiddetta democrazia del pubblico,
ma nel senso dell’audience. 64
Internet non si sostituisce ma si aggiunge a tutto questo: la
comunicazione odierna è ibrida, una rete che avvolge tutto il pianeta
connettendo fra loro tutti i media. 65 La tesi di questo libro è che,
senza internet e gli smartphone, l’ondata populista in Occidente, e
ovunque il web non sia controllato dai governi, sarebbe inspiegabile.
Peggio, se non si considerassero i nuovi media digitali, e in particolare
gli smartphone, il populismo odierno parrebbe caduto dal cielo: come
del resto sembra ancora a tante anime belle smarrite.
In termini poco più rigorosi, internet, i social media, gli
smartphone sono una condizione necessaria, benché non sufficiente,
della nascita, diffusione e successo di leader, movimenti e governi
populisti. Togliete internet o fatelo controllare dal governo – come in
Cina, Corea del Nord, Iran, e chissà quanti altri paesi al mondo – e al
populismo mancherà l’aria per respirare. Le anime belle, spesso, non
usano internet, non possiedono uno smartphone e hanno ribrezzo dei
sociali: dunque, cosa possono capirne?
In questo senso, Homo mediaticus diviene – non l’unica, ma – la
principale spiegazione del fenomeno populista. Sicuramente è la
spiegazione di ciò che distingue il populismo odierno da tutti i
precedenti, e che rende adeguato il nome di populismo digitale. Per
togliere ogni sospetto di apoditticità a queste affermazioni, però, di
seguito cerco di mostrare che senza Homo mediaticus – che qui e oggi
potrebbe chiamarsi Homo digitalis – non si spiegano almeno tre
aspetti del populismo odierno.
Il primo aspetto del populismo spiegato da Homo mediaticus è la
(pretesa) disintermediazione: termine coniato per le vendite online,
che saltano la mediazione dei negozianti, ma presto passato al
marketing politico. Qui esso indica un altro salto, stavolta dei più
tradizionali mediatori politici: non solo quelli formalmente incaricati
di mediare fra il popolo e il governo (politici, partiti, sindacati…), ma
anche i mediatori informali (preti, notabili, giornalisti, esperti, giuristi,
professori…).
Scrive un autore che ha capito quasi tutto: «Basta […] digitare certe
parole, in sequenza, e chiunque [ha] l’impressione di agire in prima
persona, senza ricorrere ai soliti fastidiosi intermediari. Se questo vale
per un viaggio o una prenotazione di albergo, perché non [deve] valere
anche per la politica?». 66 I partiti, compresi i loro siti, sono così
sostituiti dal contatto online fra singolo e leader politici con milioni di
follower: contatto che dà al primo l’illusione di un rapporto personale
con il proprio idolo.
Naturalmente è solo un’illusione. Chi parla di disintermediazione,
in effetti, si mette dal punto di vista dell’elettore illuso: doppiamente
illuso, poi, se nel mondo offline ha l’occasione di farsi un selfie con il
leader, da condividere online con parenti e conoscenti. Dal punto di
vista del sistema comunicativo, invece, la pretesa disintermediazione
si rivela una sorta di reintermediazione: internet, i social, gli
smartphone prendono il posto di parlamentari, opinion makers e
parroci. 67
Ma «prendere il posto» è dire ancora poco. Perché le opinioni e le
emozioni delle persone non vengono semplicemente trasmesse dal
web. Come minimo vengono distorte, come massimo sono plasmate, e
comunque sono consapevolmente manipolate da molti soggetti che si
sostituiscono ai mediatori tradizionali. Chi sono i nuovi mediatori
occulti? Presto detto: leader, spin doctor e staff comunicativi, o
addirittura algoritmi automatici usati da centinaia di siti anonimi,
creati apposta per manipolare gli elettori.
Qual è il risultato di questa nuova mediazione digitale, risultato
chiamato giustamente da Giacomini re-intermediazione? Gli psicologi
cognitivi la chiamano sostituzione del Sistema1, intuitivo-automatico,
al Sistema2, riflessivo-razionale: con la differenza che le euristiche del
Sistema1, divenute bias quando usiamo il Sistema2, vengono
ulteriormente rafforzate da internet. Se quest’ultimo è immediato,
infatti, lo è solo nel senso di velocissimo: è ancor più automatico-
intuitivo del Sistema1.
C’è chi, senza giri di parole, la chiama uccisione del pensiero. 68 Le
persone perennemente connesse perdono ogni capacità di giudizio. A
giudicare dai test Invalsi, in particolare, i nativi digitali perdono la
capacità di capire un testo scritto, di fare ragionamenti complessi, di
controllare (fact checking) una qualsiasi delle tante informazioni che
scorrono incessantemente sui loro cellulari, dove il gossip diviene
virale molto più facilmente dell’informazione. Del resto, perché
affaticarsi a pensare? C’è già internet.
Il secondo aspetto della politica populista spiegato da Homo
mediaticus è la frammentazione o polarizzazione tipica della
democrazia populista. La frammentazione consiste nel fatto che
attorno a ogni utente dei social si addensano sciami di informazioni
personalizzate, tarate da algoritmi automatici sui big data di ognuno.
Si chiama così la massa di informazioni personali, relativa a gusti sia
commerciali sia politici, ricavate da ogni clic, like o cuoricino che
ognuno di noi mette sui social. 69
La frammentazione riguarda ogni singolo utente: contro il quale si
ritorce, beffardamente, la sovranità attribuita ai consumatori dai
neoliberisti californiani. 70 Ogni nostro gusto, vizio o ossessione viene
accettato dal web, che ci induce a soddisfarlo purché renda. La
polarizzazione, invece, riguarda comunità di utenti i quali – proprio
come fa il singolo con le proprie ossessioni – tendono a rinchiudersi,
ognuno nella sua bolla o camera dell’eco, formando tribù digitali in
guerra fra loro. 71
Si pensi alla politica statunitense dove, prima di Reagan, i due
principali partiti, repubblicano e democratico, erano comitati elettorali
poco distanti ideologicamente: Abraham Lincoln, il liberatore degli
schiavi neri, era repubblicano, mentre il governatore razzista
dell’Alabama, George Wallace, era democratico. Oggi, ai tempi di
Trump, democratici e repubblicani sono polarizzati. Ad esempio, se
intervistati, dicono che sarebbe una sciagura se i loro figli sposassero
qualcuno del partito avverso.
Pure qui, d’altra parte, frammentazione e polarizzazione
trascendono la sfera politica e interessano non solo gli Usa ma il
mondo intero, colonizzato dalle multinazionali americane del digitale.
Gruppi politici, religiosi ed etnici che avevano convissuto felicemente
per secoli oggi si guardano in cagnesco, agitati da risentimenti indotti,
più che spontanei. L’idea stessa del rispetto dell’altro – il
multiculturalismo – è sospettata di nascondere un progetto di
sostituzione etnica.
Il terzo e sinora più trascurato aspetto del populismo spiegato da
Homo mediaticus è quanto propongo di chiamare contendibilità del
potere. Il digitale rende il potere delle élite tradizionali contendibile da
parte di outsider. Si è già verificato nelle tante guerre civili che
insanguinano l’Africa: l’introduzione dei cellulari permette ai gruppi
ribelli di colmare il divario con gli eserciti governativi, prevalenti
finché erano gli unici ad avere la radio, generando un aumento della
violenza. 72
Spesso si dice che la politica è la prosecuzione della guerra con altri
mezzi: luogo comune che andrebbe anch’esso corretto. La politica dei
grandi paesi occidentali, oggi, pare sì la prosecuzione delle guerre civili
extraoccidentali, ma non con mezzi diversi, bensì con lo stesso: il
cellulare. Pure qui, tutto è iniziato a sinistra, con Howard Dean, il
primo a fare politica su internet, ed è proseguito con Obama. Ma la
loro lezione – internet permette agli outsider di colmare il divario con
gli insider – è stata subito appresa a destra.
È a destra che si è capito come internet permetta di aggirare i
tradizionali guardiani (gatekeepers): stampa e televisione. 73 Fino alla
rivoluzione digitale, i gatekeepers controllavano l’accesso alla
comunicazione da parte degli outsider, che non potevano pagarsi
costose campagne sui media tradizionali. Soprattutto, gli stessi
guardiani filtravano l’accesso alla grande comunicazione da parte delle
voci fuori dal coro, ostacolando le minoranze politiche, i dissidenti, gli
antagonisti…
L’apparente fioritura di gruppi di ultradestra, che spesso si rivelano
un bluff al momento delle elezioni, si spiega anche così: i ponti non
sono più controllati o sono proprio saltati, perché chiunque può
accedere alla rete. Non solo le fake news circolano liberamente, ma le
notizie vere passano per fake news. I discorsi politicamente corretti e
la stessa buona educazione vengono tacciati di «buonismo». In
compenso, l’hate speech contro avversari politici, donne, migranti,
omosessuali, è ormai completamente sdoganato.
Ma l’aspetto più importante, in tutto ciò, resta la contendibilità del
potere da parte di persone che, in altre epoche, non sarebbero mai
riuscite ad attraversare i ponti: attori di serie B, conduttori televisivi,
comici, tutti votati da masse di follower non benché siano privi di
preparazione politica, ma proprio per questo. Ciò alimenta la spirale di
antipolitica o depoliticizzazione: 74 chi vorrà mai sporcarsi le mani con
questa politica demente?
Eppure la campagna elettorale permanente, la politicizzazione di
ogni evento di cronaca, la polarizzazione dell’opinione pubblica e la
conseguente instabilità dei governi hanno almeno un lato positivo. Gli
stessi governi populisti non sono eterni: basta una foto
compromettente, una frequentazione imbarazzante, un tweet più
demenziale degli altri e – almeno in Occidente, e finché la democrazia
funziona ancora – anche loro cadono. Per fortuna, anche il potere
populista è contendibile.
5. Conclusione
In breve, Homo mediaticus è l’elemento che mancava alla diagnosi del
populismo. In positivo, spiega quanto Homo oeconomicus e Homo
psychologicus, da soli, lasciavano inspiegato, sia pure in aggiunta e
non in sostituzione. In negativo, invece, Homo mediaticus o Homo
digitalis spiega perché, dove il web e tutti gli altri media non sono
liberi, il populismo non c’è. Detto altrimenti, il populismo è pur
sempre una patologia della democrazia: e, finché le istituzioni
democratiche reggono, resterà tale.
Passando dalla diagnosi alla prognosi, però, viene da chiedersi fino
a quando le democrazie occidentali potranno reggere alla sfida del
populismo digitale senza trasformarsi in democrazie illiberali. Che poi
vuol dire non-democrazie se, come in questo libro, «democrazia»
significa liberaldemocrazia. Guardando solo all’Italia, si potrebbe
aggiungere che non è un caso se la Russia finanzia partiti sovranisti
come la Lega e se il M5S si presta a stipulare trattati con la Cina: i
populismi sono antipluralisti e illiberali.
Ma la parte più problematica di questo bollettino medico non è né
la diagnosi né la prognosi, bensì la cura. Tutti i libri usciti a partire dal
2016 sulla crisi della democrazia in Occidente, e anche nel resto del
mondo, dedicano almeno la loro parte finale a proporre rimedi contro
il populismo: che, per la maggior parte di loro, è ancora populismo
tout court, o al massimo neopopulismo. Questo libro, avendo
diagnosticato nella rivoluzione digitale la fonte del virus, può
finalmente proporre rimedi più specifici.
Dal populismo digitale si guarisce?
Tre possibili rimedi

Internet, nostro massimo strumento di


emancipazione, s’è trasformato nel più pericoloso
sostegno al totalitarismo mai visto.
Julian Assange, Internet è il nemico

1. Premessa
Rimedi alla crisi della democrazia

La spiegazione del populismo fornita in questo libro potrebbe


riassumersi così. 1 Il populismo è sempre stato un’anomalia, una sorta
di pecora nera del gregge democratico, alla quale le democrazie si sono
periodicamente rivolte per superare le loro crisi di legittimità.
Stavolta, però, non siamo di fronte alla solita crisi politica o
economica: siamo davanti alla rivoluzione digitale. L’ipotesi è che, per
adattarsi al nuovo ambiente di internet, la democrazia abbia
sperimentato una sorta di mutazione: il populismo digitale.
La domanda è: l’esperimento funzionerà? Questo libro risponde di
no, per via del cortocircuito fra istituzioni e media che caratterizza il
populismo digitale. Quando i vari Trump, Johnson o Salvini twittano o
postano, in particolare, non si capisce mai se lo facciano come
governanti oppure come semplici utenti dei social. Questo genera
equivoci, polemiche, a volte veri e propri disastri: crolli di Borsa,
conflitti internazionali, fallimento di operazioni di polizia che
dovevano restare segrete… Certo non siamo di fronte a una replica del
vecchio conflitto fra grandi e popolo, che secondo Machiavelli avrebbe
reso libera Roma. 2 Al contrario, il cortocircuito fra istituzioni e media
porta anche il Potere, con la maiuscola, a rinchiudersi nella propria
bolla mediatica, dove si ascolta e si piace. 3 Così i governi populisti non
fingono neppure più di governare e si dedicano apertamente
all’intrattenimento: 4 non fanno altro che leggi manifesto al fine di
vincere le elezioni successive.
Intanto, un altro potere, stavolta con la minuscola, prende il loro
posto. È il potere amministrativo: le burocrazie ministeriali, gli
apparati di sicurezza, i corpi separati dello Stato. Finché il Potere
governava, non ci si accorgeva quasi della loro esistenza, mentre da
quando ha smesso abbiamo capito che governavano loro anche prima.
5 Peggio ancora, l’amministrazione viene sostituita a sua volta dagli
algoritmi usati per automatizzarne le procedure, 6 e noi viaggiatori ci
accorgiamo con orrore che la cabina di pilotaggio è vuota.
Così, se un Platone redivivo tornasse a studiare l’anima della città la
troverebbe divisa in due sistemi, come la psiche umana.
Da un lato, il Sistema1, il potere con la minuscola, che opera
riparando i ponti o lasciandoli cadere, soccorrendo i malati o
abbandonandoli nei pronto soccorso, rispondendo alle chiamate delle
donne picchiate dai mariti oppure continuando a ingannare il tempo
con i videogiochi… Il potere automatico funziona così, proprio come il
Sistema1: può essere indifferentemente fraterno o brutale.
Dall’altro lato c’è il Sistema2, il Potere con la maiuscola. Per i padri
della liberaldemocrazia, i governi avrebbero dovuto essere più
razionali dell’amministrazione, per poterla guidare, controllare e
magari riformare. Ma oggi i governi populisti si trastullano con i
videogiochi pure loro, in un’irresponsabilità davvero sovrana. E anche
i loro oppositori non scherzano, se è vero che rifiutano di vedere che il
rimedio è nel male, 7 internet.
Quasi ogni libro sul populismo uscito a partire dal 2016 dedica una
parte finale ai rimedi. 8 Uno dei migliori parte con il piede giusto,
osservando che «l’ascesa del populismo è motivata in gran parte da
ragioni tecnologiche», sicché parrebbe ovvio «che anche la soluzione
debba essere tecnologica». 9 Poi però propone i soliti palliativi:
addomesticare il sovranismo, risanare l’economia, educare il
popol(in)o. Qui si indicano invece rimedi più specifici, di tre tipi:
costituzionali, politici e mediatici.
2. Difendere le istituzioni contromaggioritarie
Governo del diritto

Un luogo comune particolarmente rovinoso è che alla crisi della


democrazia si risponda con più democrazia, ossia introducendo forme
di democrazia diretta, partecipativa, deliberativa… Follia: basti
pensare ai danni prodotti dai referendum sulla Ue e sulla Brexit. Al
contrario, ove mai per democrazia si intendesse solo la regola di
maggioranza, come fanno i populisti, alla crisi della democrazia si
dovrebbe rispondere con meno democrazia. Ma, per fortuna, non è
questo il senso di «democrazia» adottato qui.
Questo libro parla infatti di democrazia in un senso più ampio della
semplice regola di maggioranza: nel senso di liberaldemocrazia. La
democrazia, il governo di tutto il popolo, non solo di quella parte che è
il popolino populista, è un governo nel quale, certo, tutti decidono a
maggioranza chi governerà, ma sapendo già che a governare saranno
poi politici professionali e non dilettanti allo sbaraglio. È, soprattutto,
il governo continuamente controllato da istituzioni
contromaggioritarie.
Uso qui «contromaggioritario» nel senso della letteratura
nordamericana sul judicial review, quel controllo di costituzionalità
statunitense spesso accusato di essere antidemocratico. 10 Se mai i
suoi critici anglofoni si degnassero di studiare i sistemi costituzionali
continentali, però, si accorgerebbero di questa differenza: in alcuni
Stati degli Usa i giudici sono eletti dal popolo, mentre in Europa si
pensa che una magistratura indipendente dal governo non possa
essere eletta dalla stessa maggioranza che elegge quest’ultimo.
Sono contromaggioritari, in questo senso, non solo il potere
giudiziario, corti costituzionali comprese, ma tutte le istituzioni
oggetto del livore populista: presidente della Repubblica, agenzie
indipendenti, organi sovranazionali… Bisognerebbe spiegare al popolo
che sono proprio gli organi contromaggioritari a fare i suoi interessi,
non i governi populisti che, come tutti i governi, fanno i propri
interessi. Le istituzioni contromaggioritarie sono contro i governi, non
contro il popolo.
Il primo rimedio alla politica populista, di tipo istituzionale o
costituzionale, è appunto difendere le istituzioni contromaggioritarie
distintive della liberaldemocrazia. Non tutti sanno che, nella storia, la
democrazia è sempre durata poco. 11 Nata nelle città antiche,
trapiantata negli stati nazionali, oggi rischia di estinguersi dopo
l’ulteriore trapianto sul web. Il primo rimedio, puramente negativo, è
allora mettere in sicurezza le istituzioni contromaggioritarie:
magistratura, stampa indipendente, gli stessi media…
Si parla spesso di questo sotto l’etichetta del costituzionalismo
populista: espressione equivoca, però, perché dotata di almeno tre
significati.
Nel primo, prevalente nell’Europa occidentale, «costituzionalismo»
significa governo del diritto e non degli uomini. 12 In questo senso,
dunque, «costituzionalismo populista» è una contraddizione in
termini: il populismo promuove il governo degli uomini, non quello
del diritto. Anzi, per i populisti, giuristi e giudici sono solo élite
ingombranti, di cui sbarazzarsi al più presto.
Nel secondo senso, diffuso soprattutto in quelle democrazie
illiberali dell’Europa orientale tanto ammirate dai populisti nostrani,
«costituzionalismo» indica solo l’insieme delle leggi costituzionali,
come quelle fatte in Ungheria e Polonia per liberarsi di magistratura,
stampa e media indipendenti. 13 Qui, almeno, «costituzionalismo
populista» non è più autocontraddittorio, ma le leggi costituzionali
populiste spesso violano le costituzioni precedenti e minano il
costituzionalismo nel primo senso.
Il significato più interessante è però il terzo, tipico degli Stati Uniti,
la cui Costituzione federale inizia con la formula «We, the people».
Qui, espressioni come «constitutional populism», «populist
constitutionalism» e «popular constitutionalism» indicano una
dottrina costituzionale ultrademocratica, non tanto favorevole a
istituzioni maggioritarie come il Congresso e lo stesso presidente degli
Stati Uniti, quanto masochisticamente ostile a istituzioni
contromaggioritarie come il judicial review. 14
Qui userò «costituzionalismo» nel primo senso, come governo del
diritto, e sosterrò che per garantirlo occorre difendere, contro
istituzioni maggioritarie come parlamenti e governi nazionali, tre tipi
di istituzioni, a ognuna delle quali è dedicata una sottosezione.
Intanto, istituzioni non politiche: scienza, università, ong. Poi,
istituzioni contro-maggioritarie in senso stretto: magistratura,
presidente della Repubblica, autorità indipendenti. Infine, istituzioni
sovranazionali: Onu, Ue, grandi corti internazionali.

Istituzioni non politiche

I populisti ignorano molte cose, ma la più enorme – il vero elefante


che non entra nella loro immaginazione – è il pluralismo: l’idea che il
mondo è bello perché è vario, o che la realtà è terribilmente più
complessa di come la pensano loro. I populisti ignorano che non tutto
è politica: non tutto, cioè, va soggetto a valutazioni, controlli e governo
politici. E lo ignorano perché molti di questi cultori dell’antipolitica, in
realtà, hanno sempre vissuto di politica. 15
La manifestazione più imbarazzante del populismo è proprio
questa. Colpiti da critiche non politiche, ma tecniche (economiche,
finanziarie, giuridiche…), i populisti rispondono invitando i critici a
presentarsi alle elezioni. Ad esempio, se mai il capo cinquestelle Di
Maio passerà alla storia, sarà per una replica alla Banca d’Italia che,
con sprezzo del congiuntivo, suona: «Se la Banca d’Italia vuole un
governo che non tocca [sic] la [legge] Fornero, la prossima volta si
presenta [sic] alle elezioni». 16
Estendiamo questa linea di ragionamento. Se il governo sbaglia i
calcoli, un economista, un matematico o un passante non può
segnalarglielo: prima deve presentarsi alle elezioni. Se il governo fa
pasticci come i vari decreti sicurezza, presidente della Repubblica,
esperti di redazione di testi (drafting) e comuni cittadini non possono
segnarglielo, neppure osservando che tali pasticci violano le
elementari regole di drafting, oltre che i diritti umani e il buonsenso:
prima devono presentarsi alle elezioni.
Ancora, se, dopo il crollo del ponte Morandi, il governo non pensa
subito alla ricostruzione ma a additare al pubblico ludibrio la Società
Autostrade, salvo poi chiederle di entrare nel salvataggio di Alitalia,
uno psichiatra non può segnalare in questa alternanza di opinioni un
caso lampante di schizofrenia: prima deve presentarsi alle elezioni.
Infine, se una delle fidanzate di Di Maio, vera o inventata dal suo staff,
si è scocciata del loro rapporto, non può dirglielo: prima deve
presentarsi alle elezioni.
Cosa segnalano questi esempi, non sempre del tutto inventati? Che
i populisti ignorano, o fingono di ignorare, l’esistenza di una pluralità
di valori, concetti e criteri diversi per ogni differente sfera dell’agire.
Non esiste solo la politica: esistono anche la matematica, il diritto, la
psichiatria, persino l’amore. 17 La prima cosa da difendere contro
l’arroganza populista è proprio questa ricchezza. Le civiltà muoiono se
subordinate a un solo valore: l’Isola di Pasqua è stata deforestata per
erigere statue agli dei. 18
Anche chi scrive in realtà vuole più democrazia: ma non la
democrazia populista o maggioritaria, basata sulla sola regola di
maggioranza. Se per democrazia si intendesse questo, allora i
populisti, e chiunque vincesse le elezioni, avrebbero sempre ragione.
Per fortuna, nelle società occidentali, e anche in questo libro, per
democrazia si intende liberaldemocrazia: regola di maggioranza più
istituzioni contromaggioritarie che impediscano la dittatura della
maggioranza prima, la dittatura pura e semplice poi. 19

Istituzioni politiche interne

La seconda cosa da fare per difendere la democrazia è appunto


impedire ai governi populisti di occupare istituzioni
contromaggioritarie come magistratura, presidenza della Repubblica,
autorità indipendenti. È all’autonomia di queste istituzioni che sono
appese le sorti delle democrazie consolidate e anche di una democrazia
meno solida come quella italiana. La democrazia produce pace e
ricchezza non grazie alla regola di maggioranza, ma proprio in virtù
delle istituzioni contromaggioritarie. 20
Chiediamoci a cosa le democrazie occidentali debbano non solo la
loro sopravvivenza per trecento anni, ma anche la conquista del
mondo realizzata nello stesso periodo. Il loro successo evolutivo è
dovuto a un’anomalia: Inghilterra, Stati Uniti e Francia hanno fatto tre
rivoluzioni, togliendo ai monarchi prima, al popolo poi, il potere
assoluto. Si pensi solo alla Gran Bretagna: sarà un caso che la
Rivoluzione industriale e l’Impero coloniale si siano sviluppati proprio
lì, dopo le due rivoluzioni secentesche? 21
L’obiezione che sorge spontanea, certo, sono le attuali fortune della
Cina, ottenute imitando tutte le istituzioni occidentali tranne la
liberaldemocrazia. 22 Di fronte a questa obiezione, però, si può solo
aspettare: ad esempio, che ne sarà della sfida del Davide democratico,
Hong Kong, al Golia autocratico, la Cina? Vedremo però che garanzie
liberaldemocratiche come la libertà di espressione non servono solo ai
paesi ricchi: i paesi poveri che tutelano la libertà di espressione non
hanno più conosciuto carestie.

Istituzioni politiche internazionali

Infine, quanto alle istituzioni sovranazionali, dall’Onu in giù, il


problema principale, per i populisti occidentali e orientali, è l’Unione
europea. L’Ue è un problema già per i partiti populisti, sovranisti ed
euroscettici dell’Europa occidentale, ma lo è ancor più per i governi
dell’Europa orientale. Questi hanno conosciuto la liberaldemocrazia,
spesso estranea alle loro tradizioni nazionali, soprattutto dopo la
caduta del Muro (1989). Poi hanno subito l’attrazione fatale della
democrazia illiberale à la Putin o à la Orbán.
Tanto per i populisti dell’Europa occidentale quanto per i governi
illiberali dell’Europa orientale, l’Unione è divenuta un problema
soprattutto perché è facile, per gli uni e per gli altri, attribuire la colpa
di ogni difficoltà nazionale a un potere distante, quello della Ue, del
quale il popol(in)o ignora tutto e può sospettare qualunque cosa. Si
pensi solo ai fondi europei che, quando paesi o regioni riescono a
ottenerli, non spendono o sprecano, ad esempio per piste ciclabili
realizzate al solo fine di disfarsi dei soldi.
In altri casi, certo, la Ue ci ha messo del suo. Si pensi alla crisi
greca, sulla quale è stato costruito il frame populista della Ue asservita
al capitalismo globale. Avendo i governi di destra greci truccato i
bilanci, il debito, o la colpa (in tedesco sempre Schulde), è stato fatto
pagare dalla Ue ai governi di sinistra e soprattutto al popolo greco,
anche per dare un avvertimento a Italia, Spagna e Portogallo. Con la
piccola differenza che a paesi più grossi della Grecia gli stessi sacrifici
non sarebbero mai stati imposti.
Il problema che la Ue è diventata per i populisti, prima del
populismo, aveva ricevuto una (pretesa) spiegazione scientifica: il
deficit democratico della Ue. In realtà, non si tratta di una spiegazione
ma di una narrazione: una pretesa spiegazione in forma di racconto.
Questa narrazione è stata demolita da Andrew Moravcsik, esperto
statunitense d’origine europea, in un saggio del 2008. 23 Qui di seguito
espongo la sua demolizione, che in gran parte condivido, ma subito
dopo ne denuncio il principale limite.
Non è vero, secondo Moravcsik, che l’Ue privi gli Stati delle loro
competenze fondamentali. Al contrario, essi restano competenti su
tutte le questioni decisive per gli elettori nazionali: welfare, sanità,
pensioni, sicurezza interna, istruzione, per non parlare di difesa,
politica estera, immigrazione… Non è vero neppure che la Ue abbia un
potere tecnocratico incontrollabile: ha solo un «potere regolatore», 24
però sottoposto a controlli più stringenti di quelli degli Usa o della
Svizzera sui propri governi centrali.
Soprattutto, non è vero che la Ue sia poco democratica: la sua
scarsa democraticità è solo percepita, non reale. 25 Chiamerò questo
ragionamento argomento della democraticità percepita, per analogia
con l’argomento della sicurezza percepita affrontato nel capitolo «Il
cavaliere oscuro». Quest’ultimo, come si è visto, funziona più o meno
così: secondo le statistiche, i delitti diminuiscono e la sicurezza reale
aumenta, dunque che c’è da preoccuparsi? La paura è un sentimento
irrazionale, peggio per chi la prova.
Moravcsik fa lo stesso ragionamento a proposito della narrazione
del deficit democratico. Questa «manca di conferme empiriche»,
dunque il deficit democratico non esiste: basta spiegarglielo bene, al
popolo, e prima o poi capirà. Ad esempio, basterà dirgli che, esclusa la
Commissione europea, ormai sostituita dal Consiglio dei capi di Stato
e di governo nelle decisioni che contano, gli unici poteri non elettivi
della Ue sono quelli che, per definizione, non sono elettivi neppure
negli stati membri: Banca centrale e Corte di giustizia.
Ora, Moravcsik ha certo ragione sul fatto che, contrariamente a
quanto spesso si pretende, la Ue è molto più democratica di molti dei
suoi Stati membri: quella del deficit democratico è davvero solo una
narrazione. Il problema è che l’utente medio del web crede molto più a
narrazioni del genere che alle prove empiriche e agli argomenti
razionali: non foss’altro perché non ha la fortuna di conoscerli. Questa
constatazione, già ovvia nel 2008, è ancora più ovvia oggi, in tempi di
populismo digitale.
Il tragico limite del discorso di esperti ed élite democratiche, però,
consiste proprio nel credere che la gente si convinca con prove
empiriche e argomenti razionali. Non è mai stato così: prima
dell’ondata populista la gente capiva ancor meno, però si fidava degli
esperti. Oggi non si fida più di loro, anzi non si fida soprattutto di loro:
chi distingue, online, una spiegazione da una narrazione? Per chi si
(dis)informa sul proprio cellulare, qualsiasi narrazione è più comoda
delle spiegazioni europeiste.
Il principale limite degli esperti à la Moravcsik e dell’opinione
pubblica «illuminata» è proprio questo: credono di vivere nel mondo
reale, mentre i populisti vivrebbero in una bolla mediatica, nella quale
la Terra è piatta, il riscaldamento globale non c’è e i burocrati di
Bruxelles cospirano contro di noi. Di nuovo, avvertiteli: già Immanuel
Kant aveva capito che noi tutti, e non solo i populisti, viviamo ognuno
nella propria bolla cognitiva. Con la piccola differenza che i populisti
sono la maggioranza.
Certo, poi nulla vieta di rilanciare la Ue facendo proposte opposte
alle critiche euroscettiche, populiste e sovraniste. Penso al Bilancio di
democratizzazione (Budget de démocratisation), finanziato da quattro
imposte europee: sulle multinazionali, sui redditi più alti, sui grandi
patrimoni, sulle emissioni di carbone. 26 Approvare il bilancio, cioè le
imposte, è la funzione originaria dei parlamenti e l’unica davvero
essenziale, non certo fare le leggi. Proprio come la democrazia, i
parlamenti servono a controllare i governi, non a governare.
Ricapitolando: contro il populismo, anche digitale, occorre
difendere le istituzioni contromaggioritarie, siano esse non politiche,
politico-interne o politico-internazionali. In una parola, bisogna
difendere il pluralismo: il nemico giurato di tutte le posizioni illiberali.
Anche qui, forse, un esempio storico aiuta. Come si impadronirono, i
conquistadores spagnoli, degli imperi inca e azteco? Catturandone gli
imperatori. Catturati costoro, inca e aztechi, privi di istituzioni
contromaggioritarie, obbedirono a loro. 27

3. Usare il populismo digitale contro sé stesso


Usare i media meglio dei populisti
Durante l’infernale agosto del 2019, punteggiato in Italia da sbarchi
di profughi e negli Usa da stragi nei supermercati, l’unica notizia
consolante è stata la seguente. Obama – che non è stato solo il primo
presidente americano nero, ma anche il primo eletto grazie a internet
– ha sorpassato la popstar Katy Perry per numero di follower. 28 Voi
direte: se la migliore notizia è questa… Vorrei stupirvi con il mio
ottimismo e farvi riflettere su due aspetti che rendono questo fatto
qualcosa di più di una semplice curiosità.
Intanto, Obama non è l’uomo al mondo di cui si parla di più su
internet: quello ovviamente è Trump, il suo successore. Ma quando
Trump, seccato perché Obama aveva un elenco di follower più lungo
del suo, ha convocato alla Casa Bianca il padrone di Twitter, questi
non ha potuto far altro che allargare le braccia. Gli ha dovuto
rispondere che entrambi, Obama e Trump, aumentano ogni giorno i
rispettivi follower, ma che al ritmo attuale Trump potrebbe forse
superare Obama fra vent’anni.
Ancora l’estate scorsa, infatti, l’ex presidente aveva centosette
milioni di follower, cresciuti nel 2019 di mezzo milione al mese. Poi, e
soprattutto, il 13 agosto 2017, dopo l’ennesima strage razzista, Trump
è riuscito a condannare la violenza «da entrambe le parti», mettendo
assassini e assassinati sullo stesso piano. L’ex presidente gli ha
risposto su Twitter in un modo abbastanza fermo, pacato e intelligente
da illustrare tutta la differenza che corre fra uso rispettivamente
populista e antipopulista dei social.
Obama ha twittato una foto dei compagni multicolori delle sue
figlie con una frase di Nelson Mandela che iniziava così: «Nessuno è
nato odiando…». Quattro milioni e quattrocentomila persone hanno
messo il loro cuore rosso su quel tweet, il più amato nella storia di
Twitter. Questo è il secondo rimedio contro il populismo: usare i
media più efficacemente dei populisti. Ma come? Ci sono molti modi
di usarli: qui di seguito ne distinguo tre, che chiamo rispettivamente
omeopatico, automatico e mirato.

Modo omeopatico

Intanto, si possono usare i media in modo omeopatico, come in


quel tipo di medicina che inocula sostanze – farmakoi, vox media
greca che significa tanto veleni quanto medicine – in dosi bassissime
eppure sufficienti, secondo i medici omeopatici, a generare anticorpi.
È lo stesso principio delle vaccinazioni, con la piccola differenza che i
vaccini funzionano. Lo stesso avviene con i social: usare internet in
dosi omeopatiche, come fanno spesso gli oppositori dei populisti, serve
a poco o nulla.
Prendiamo l’esempio del sito internet del partito democratico
statunitense. Per anni, prima e dopo la sconfitta di Hillary Clinton, sia
pure con tre milioni di voti più di Trump, il sito dei Democrat non ha
parlato alla maggioranza del paese, bensì a diciassette minoranze.
Avete capito bene: sulla sua homepage si trovavano diciassette link,
uno al sottosito delle femministe, l’altro dei neri, l’altro ancora degli
omosessuali… Per non escludere qualcuno, non si parlava a nessuno.
29
Quest’uso omeopatico, ideologico e buonista del web, per
dimostrare quanto si è inclusivi, ha la stessa efficacia che vaccinarsi
contro l’influenza dell’anno prima: è cioè inutile e controproducente. È
inutile contro il populismo digitale, che invece finge di parlare a tutto
il popolo, benché poi si rivolga solo al popolino populista. È
controproducente perché mostra di considerare la comunicazione una
sorta di optional: conterebbero solo i mitici «contenuti», peraltro
pneumaticamente assenti pure loro.

Modo automatico

Poi si possono impiegare i social in modo automatico, mimando le


tecniche di disinformazione (disinformatja, in russo) populiste. Basta
investire una cifra relativamente modica, e comunque molto inferiore
a quanto si spenderebbe per la propaganda tradizionale, in uno staff
digitale che risponda colpo su colpo alla disinformatja populista. Se
poi si trova una squadra di hacker efficienti, magari forniti
gratuitamente da qualche potenza straniera, il servizio è addirittura
gratis.
La macchina propagandistica populista diffonde fake news, hate
speech, narrazioni (narratives), del tipo che lo sterminio degli ebrei
non c’è mai stato, Obama non è nato negli Stati Uniti, i vaccini
producono l’autismo? No problem, si arma una macchina
propagandistica uguale e contraria, ma non per ristabilire la verità. Il
controllo delle notizie (fact checking), infatti, ha il solo effetto di
propagare ulteriormente le menzogne, dando loro la dignità di «fatti
alternativi», altrettanto credibili di quelli reali. 30
Molto meglio, allora, diffondere fake news, hate speech e
contronarrazioni, ma stavolta antipopuliste. Del resto, con bersagli
come Johnson, Trump, Salvini, non è necessario inventarsi nulla,
fanno già tutto loro. La strategia automatica, con i suoi bot, siti
fantasma, hacker stranieri, presenta però un problema: non combatte
il populismo digitale, lo alimenta. Ricordiamo che il populismo
digitale non è un’ideologia, ma uno stile politico; se gli antipopulisti lo
adottano a loro volta, in cosa si distinguono dai populisti?
L’effetto del populismo digitale, se condiviso da tutti gli attori del
gioco politico, sarebbe lo stesso del populismo tout court:
irrazionalità, ingovernabilità, anarchia. E non solo a breve termine. Gli
effetti sulle istituzioni sarebbero così devastanti che l’unico rimedio
diverrebbe lo stesso che per la demokratia greca: la tirannide o, qui e
oggi, la democrazia illiberale. 31 Con l’ulteriore incognita dell’ambiente
digitale, che mette a disposizione dei governi odierni risorse
inimmaginabili per le tirannidi antiche.

Uso mirato

Per fortuna c’è un’alternativa agli usi rispettivamente omeopatico e


automatico di internet: l’uso mirato. Contro il populismo digitale, cioè,
si può impiegare una strategia mista, consistente di almeno tre
attività. Anzitutto la denuncia di fake news, hate speech e narrazioni
populiste, ma non automatica: alcune di esse meritano di essere
lasciate semplicemente cadere. Poi, la contronarrazione da parte delle
minoranze demonizzate dalle narrazioni populiste, ma stavolta
rivolgendosi a tutti. Infine, e soprattutto, il ricorso a tutti gli strumenti
comunicativi forniti dalle nuove tecnologie, e non solo durante le
campagne elettorali, del resto divenute ormai permanenti. Nelle
democrazie populiste, cioè, internet può giocare ancor più
efficacemente quel ruolo di cane da guardia (watchdog) del Potere,
con la maiuscola, ma anche del potere con la minuscola, che nelle
democrazie rappresentative era giocato dalla stampa indipendente. Mi
limito a tre esempi, tratti dall’esperienza del governo gialloblù.
Primo esempio, vanno denunciate puntualmente tutte le
compromissioni di partiti e governi populisti occidentali con regimi
orientali che reprimono il dissenso a casa loro, salvo finanziarlo in
casa altrui. Si pensi solo alle compromissioni della Lega con il regime
russo, non percepite in tutta la loro gravità. La cosa grave, in vicende
come questa, non sono i finanziamenti richiesti a una potenza
straniera, quanto il sospetto che servissero a incoraggiare l’uscita
dell’Italia dall’euro prima e dalla Ue poi.
Secondo esempio, vanno denunciate le violazioni dei diritti umani
compiute da governi sedicenti sovranisti ma che in realtà si limitano a
seguire modelli stranieri. Chi denuncia tali violazioni sa già che la
macchina del fango (storm of shit) populista lo investirà,
criminalizzandolo come amico di delinquenti, terroristi o migranti. Ma
stavolta potrà appellarsi lui al popolo del web, ricordando che le
violazioni dei diritti delle minoranze sono solo l’inizio, la prova
generale della fine della democrazia.
Terzo esempio, vanno denunciati gli abusi compiuti dal potere con
la minuscola, l’amministrazione, in esecuzione degli input provenienti
dal Potere con la maiuscola. In particolare, se un ministro dell’Interno
cerca di sfruttare l’indignazione per l’omicidio di un carabiniere, le
forze dell’ordine non possono prestarsi a far circolare sulle loro chat la
foto di un arrestato bendato. Non è possibile per operatori della
sicurezza ignorare che immagini così rivoltanti avranno fatalmente
una circolazione mondiale. 32
Più in generale, i governi populisti per primi dovrebbero sapere di
essere strutturalmente instabili. Avendo scommesso di cavalcare la
fluttuante opinione digitale, cioè, non dovrebbero ignorare che questa,
prima assicura trionfi immeritati, ma poi cambia, come le maree. Il
problema vero, d’altronde, non sono le tendenze autoritarie dei
populisti, né la capacità dei loro oppositori di denunciarle, ma la
tenuta delle istituzioni di fronte al pandemonio digitale. È questa la
principale ragione per adottare un terzo tipo di rimedi.

4. Regolamentare internet
Meno potere alla rete padrona

Il terzo rimedio non è pensare che la crisi della democrazia si


combatta con più democrazia. Non è illudersi che, giocando ad armi
pari con i bari della rete, il populismo digitale possa battersi con i suoi
stessi trucchi. E non è neppure consolarsi con l’idea che l’oceano
populista possa essere svuotato con il secchiello dell’educazione civica,
debitamente integrata da educazione digitale ed etica dei media. 33 Se
il cuore del problema è internet, bisogna regolamentare internet.
Su questo tema, dopo il 2016, si rincorrono le ricette. Fra i medici
accorsi al capezzale della democrazia, in particolare, molti hanno
adottato il metodo populista dell’intrattenimento, sicché si sforzano di
attirare l’attenzione del popolo del web ricorrendo a titoli choc. A
leggere questi titoli, si direbbe che l’alternativa sia fra chiudere
internet e rispettare religiosamente la libertà della rete. A leggere le
proposte concrete, invece, si fatica a distinguerle l’una dall’altra. 34
Forse occorre partire da più lontano, e ricordare che nella storia
dello Stato moderno si sono accumulate tre progressive limitazioni del
potere. Prima la sovranità dei monarchi e la stessa sovranità popolare
sono state limitate imponendo loro di rispettare la legge (Stato
legislativo). Poi, alla stessa legislazione democratica è stato imposto di
rispettare la Costituzione (Stato costituzionale). Oggi si tratta di
limitare un ulteriore potere, più pervasivo e sfuggente dei precedenti,
che taluno chiama sovranità della rete. 35
La rete è sovrana, oggi, perché conferisce legittimità e potere,
togliendoli agli Stati nazionali. Gli Stati avevano i monopoli di tre beni:
forza, moneta e comunicazioni. 36 Ma le comunicazioni sono ormai
passate alla rete, almeno da quando il governo americano ha regalato
quest’ultima ai giganti del web. La moneta potrebbe farlo a sua volta se
andasse in porto il progetto Libra, la valuta digitale di Facebook.
Manca solo il monopolio della forza, ma il populismo digitale sta
provvedendo anche a questo.
Consapevole di tutto ciò, Mark Zuckerberg, fondatore e
amministratore delegato di Facebook – il social più interessato alla
regolamentazione, specie dopo la multa di cinque miliardi di dollari
subita per Cambridge Analytica – ha chiesto lui per primo nuove
regole. 37 Come modello di regolamentazione, ha indicato il Grdp
(General Regulamentation of Data Protection), approvato dall’Unione
europea nel 2018, che già oggi regola la condotta anche delle imprese
digitali esterne all’Unione. 38
Regolamentare internet, d’altra parte, è un problema enorme
perché incide sulla libertà di espressione (free speech): diritto
fondamentale tutelato, fra gli altri, dal Primo emendamento alla
Costituzione statunitense (1791) e dall’art. 10 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo (1950). 39 Come nota Cass Sunstein, però,
della libertà di espressione possono darsi due interpretazioni opposte:
una estensiva (e restrittiva della regolamentazione) e una restrittiva
(ed estensiva della regolamentazione).
La prima interpretazione, estensiva, concepisce la libertà di
espressione come un aspetto della sovranità del consumatore.
Libertarians californiani e neoliberisti angloamericani, cioè, ritengono
che esprimersi in rete, anche a fini commerciali, sia un diritto naturale
del consumatore sovrano. Le uniche regolamentazioni ammesse,
dunque, sono quelle generalmente ammesse anche per il mercato:
sicurezza, proprietà intellettuale (copyright), rispetto dei contratti fra
utenti, provider e industria digitale…
La seconda interpretazione, restrittiva, concepisce invece la libertà
di espressione come precondizione della democrazia. 40 I liberals
come Sunstein – favorevoli sì alla tutela dei diritti individuali, come i
libertarians e i neoliberisti ma, a differenza di costoro, sostenitori
dell’intervento statale 41 – osservano che senza libertà d’espressione,
ma anche di riunione, d’associazione, d’informazione, la
(liberal)democrazia semplicemente non c’è. Senza free speech il
popolo potrebbe solo votare fidandosi di quanto gli dice il governo. 42
Qui di seguito sbozzo tre possibili soluzioni al problema della
regolamentazione di internet. La prima è la soluzione libertarian e
neoliberista: regolamentare internet il meno possibile, al limite non
regolamentarlo affatto. La seconda è la soluzione tipica delle
democrazie illiberali e delle sedicenti democrazie popolari: controllare
internet, abolendo la libertà di espressione. La terza è la soluzione
liberal, liberaldemocratica e antipopulista: dosare con il bilancino
regolamentazione e libertà.

Autoregolamentazione
La prima soluzione è lasciare che internet si autoregoli, proprio
come il mercato. Soluzione dotata originariamente di un certo fascino
libertario: si pensi alla Dichiarazione di indipendenza del cyberspazio
(1996) di John Barlow, paroliere del gruppo californiano dei Grateful
Dead. «Autorità del mondo industrializzato» vi si legge, «chiedo a voi
del passato di lasciarci in pace. Non siete i benvenuti fra noi. Non
avete sovranità nel luogo dove ci raduniamo […]. Non avete alcun
diritto morale a governarci.» 43
Peccato però che le principali autorità del mondo industrializzato,
oggi, siano gli stessi fricchettoni californiani di allora, divenuti i
padroni del web. I proprietari di Apple, Microsoft, Google, Facebook,
Amazon, almeno fino a Cambridge Analytica, hanno sostenuto la
libertà illimitata di internet, e si capisce facilmente perché. Infatti, da
quando il web è stato privatizzato dal governo statunitense,
regalandone il monopolio all’industria digitale, loro sono divenuti
l’élite del capitalismo globale.
Una metamorfosi opposta ha colpito gli eroi del web, i denunciatori
(whistleblowers) della sorveglianza globale come Chelsea Manning,
Edward Snowden e Julian Assange, oggi in esilio o in carcere, a pagare
con la distruzione fisica e psicologica la loro fedeltà alla libertà della
rete. 44 Lo stesso Assange, il fondatore di Wikileaks detenuto
illegalmente in un carcere di massima sicurezza britannico, oggi
denuncia la parabola della rete: da promessa di liberazione a
strumento di asservimento.
Queste denunce non bastano ancora a confutare la prima soluzione.
Per farlo, occorre prima sfatarne il presupposto neoliberista: l’idea che
il mercato possa autoregolamentarsi, come se anch’esso non fosse una
variabile dipendente della politica. Bisogna dire, anzitutto, che non si è
mai autoregolamentato neanche il mercato in genere: senza le
istituzioni liberaldemocratiche, nate dalle due rivoluzioni inglesi del
Seicento, non ci sarebbe stata neppure la Rivoluzione industriale del
Settecento. 45
Ma bisogna anche dire che non si è mai autoregolamentato neanche
il mercato digitale. Internet nasce da Arpanet, una rete chiusa creata
dal ministero della Difesa statunitense nell’eventualità di attacchi
nucleari. Questa si è poi trasformata in NSFnet, altra rete chiusa che
connetteva amministrazione e università Usa. Solo da trent’anni
NSFnet si è aperta trasformandosi in internet – la rete delle reti, o
World Wide Web –, subito privatizzata dal governo statunitense
lasciandone la gestione a imprese anch’esse Usa. 46
La libertà della rete, se è mai esistita, è dunque l’effetto di una
privatizzazione o deregolamentazione. Liberals come Sunstein, quindi,
non chiedono affatto di regolamentare un web originariamente libero:
propongono di riregolamentare una rete oggi deregolamentata a
esclusivo favore dell’industria privata. Se però l’autoregolamentazione
della rete non è mai esistita, allora si può solo scegliere fra due
regolamentazioni: una privata, da parte dei monopolisti del web,
l’altra pubblica, sotto il controllo degli Stati.
La regolamentazione privata che abbiamo conosciuto finora non
può risolvere il problema del populismo digitale per la banale ragione
che lo ha creato. I casi Brexit, Trump e governo gialloblù, infatti, ci
insegnano che fra populisti digitali e giganti del web c’è un’oggettiva
coincidenza d’interessi. Gli uni e gli altri guadagnano solo se il
consumatore esercita la propria sovranità nell’unico modo possibile:
consumando. Dunque comprando creme per i brufoli o ritwittando
tweet di Trump, indifferentemente.

Regolamentazione di Stato

La seconda soluzione del problema della regolamentazione di


internet è il suo controllo totale da parte dello Stato: dei diversi Stati
sovrani o sovranisti. È la soluzione adottata dalle democrazie illiberali
e dalle autocrazie: in diverse gradazioni, da Ungheria, Russia e Cina,
fino alla Corea del Nord. È la soluzione più semplice, perché elimina
alla radice i due problemi: libertà di espressione e populismo digitale.
In questi paesi il populismo non c’è, o è monopolizzato dal governo,
che stabilisce lui quali minoranze demonizzare.
Purtroppo, come tutte le soluzioni semplici, anche questa si rivela
un rimedio peggiore del male. Equivale a buttare via, insieme con
l’acqua sporca – il populismo digitale – anche il bambino: la libertà di
espressione, ossia la democrazia. Quando i populisti presentano il free
speech come un lusso per le élite, di cui il popol(in)o non saprebbe che
fare, mentono sapendo di mentire: dove c’è la libertà d’espressione i
governi non possono più nascondere carestie, disastri naturali,
incidenti nucleari. 47
Cosa succede, invece, nei paesi dove la libertà d’espressione non
c’è? Nel 1932-1933 l’Ucraina ha conosciuto l’Holomodor, la morte per
fame di dieci milioni di contadini indipendenti (kulaki) pianificata da
Stalin: non a caso l’Ucraina democratica non vuole più saperne della
Russia e vuole aderire alla Ue. 48 Ma anche la Cina maoista del preteso
«balzo in avanti», negli anni Cinquanta del Novecento, ha avuto trenta
milioni di morti per fame. La libertà di espressione serve al popolo
molto più che all’élite. 49
Incontriamo qui una delle tante contraddizioni populiste – e
contraddizioni per modo di dire, perché il populismo non è
un’ideologia, soggetta a vincoli di coerenza –: i populismi digitali
devono dichiararsi favorevoli alla libertà della rete eppure
simpatizzare con democrazie illiberali come la Russia o «popolari»
come la Cina, che controllano militarmente il web. È facile essere
favorevoli alla libertà del web quando si è all’opposizione; un po’ più
difficile quando si prende il potere.

Regolamentazione mista

Resta evidentemente solo la terza soluzione: regolamentare internet


ma farlo tutelando il più possibile la libertà di espressione. Questa
soluzione potrebbe dirsi mista perché comporta la cooperazione, ma
anche il conflitto, fra due, o forse tre, sistemi di regolamentazione.
In prima battuta c’è il sistema privato dei grandi social, che
provvedono a controllare il traffico sul web tramite appositi
moderatori, per mezzo di algoritmi che li sostituiscono oppure
intervenendo d’autorità contro siti che incitano all’odio. 50 In seconda
battuta ci sono apposite autorità indipendenti statali (sulle
comunicazioni, la protezione dei dati personali, la privacy…) e
l’amministrazione statale (polizia postale, servizi segreti e così avanti).
In terza battuta ci sono le istituzioni statali – il government, nel senso
lato statunitense che abbraccia esecutivo e legislativo – che
dovrebbero dare indicazioni sia all’industria digitale sia alla macchina
statale. E qui non tira aria buona per la libertà di espressione, come
mostra l’episodio seguente.
La senatrice Elizabeth Warren, candidata alle prossime
presidenziali per il partito democratico, dopo essere stata dileggiata
sui social senza che i moderatori intervenissero, ha proposto il
breakup: togliere a Facebook il quasi monopolio dei social ottenuto
grazie all’acquisto di WhatsApp e di Instagram. Solo che i suoi post
contenenti la proposta, pubblicati su Facebook, sono stati prima
rimossi e poi rimessi dai moderatori, evidenziando un conflitto
d’interessi grosso come un grattacielo
Ma i monopoli, e la tassazione degli enormi profitti che i giganti del
web traggono dai nostri dati, sono solo i primi problemi di
regolamentazione. Ce ne sono molti altri, spesso usati come pretesti
per la sorveglianza: 51 dalla tutela del copyright alla pedopornografia,
dalla pubblicità commerciale a quell’autentico paradosso che è la
privacy. Da un lato esibiamo su Snapchat i nostri genitali, dall’altro
nelle sale d’aspetto non ci chiamano per nome ma per numero, al fine
di rispettare la nostra privacy. 52

Combattere le fake news

Qui tocco solo tre problemi, più direttamente rilevanti per il


populismo digitale. Sui primi due, fake news e hate speech, esiste già
un’enorme letteratura. Più interessante, invece, è il terzo: il
cortocircuito fra istituzioni e media. I tanti libri sul populismo usciti a
partire dal 2016, infatti, sembrano ignorare proprio questo aspetto
distintivo del populismo digitale: i social si sovrappongono alle
istituzioni e tendono a sostituirle, e appunto da questo vengono i rischi
per la (liberal)democrazia.
Le fake news sono difficili da definire, ma ancora più difficile è
trovare modi per combatterle che non siano poi utilizzabili dai governi
a fini di censura della libertà di espressione. A proposito di governi, va
appena ricordato che combattere le fake news ha senso solo entro una
(liberal)democrazia, dotata di istituzioni contromaggioritarie. In una
democrazia populista, illiberale o «popolare», è il governo stesso a
poter diffondere tutte le fake news che convengono a lui e al suo
popol(in)o di riferimento.
Dell’espressione «fake news» può darsi solo una definizione
operativa e orientativa: di fatto, la definizione fornita da quegli stessi
giudici, come la Corte europea dei diritti dell’uomo, che si confrontano
sempre più spesso con il problema. La definizione è operativa perché
serve solo a distinguere le fakes da esercizi legittimi della libertà
d’espressione. È orientativa perché, anche ove adottata dal legislatore,
va continuamente aggiornata sui casi sempre nuovi che continuano a
presentarsi.
Una notizia, per considerarsi fake, deve essere 1) falsa, o almeno 2)
vera ma ingannevole (misleading), e comunque 3) diffusa con
l’intenzione di ingannare (misleading by design). 53 Facciamo un
esempio utile a mostrare le difficoltà d’applicazione dei tre criteri.
Nell’estate del 2019, la Sea Watch è entrata nel porto di Lampedusa
con un carico di naufraghi forzando la chiusura illegale disposta dal
ministro dell’Interno. Costui ha allora twittato che la nave aveva
«speronato» un’imbarcazione della guardia di finanza.
L’ordinanza che ha rimesso in libertà la capitana della nave ha
ridimensionato lo speronamento a semplice urto: costretta a entrare
nel porto a marcia indietro e con la telecamera in avaria, la Sea Watch
aveva urtato il motoscafo dei finanzieri che le aveva tagliato la strada.
Qualificare un urto come speronamento è un tipico esempio di frame
propagandistico, volto nel caso specifico a ribaltare i ruoli: le vittime di
un ordine illegale erano diventate colpevoli di aver disobbedito.
Oltre che di fake, si trattava pure di hate speech: accusare la
capitana di aver attentato alla vita dei finanzieri, infatti, è servito
soprattutto a scatenare la solita storm of shit contro le ong. La
domanda qui diviene: come reprimere queste tecniche di
disinformazione, specie se usate da un’autorità dello Stato? I
moderatori non si sarebbero mai permessi di intervenire: oltretutto la
shit incrementa il traffico in rete, per la gioia degli inserzionisti.
L’unico rimedio è stato querelare il ministro per calunnia.

Reprimere l’hate speech

Anche sull’hate speech la letteratura continua a crescere, ma è


spesso viziata da un equivoco relativo alla nozione di neutralità. 54 Per
inventori e propagandisti della rete, infatti, il web è una sorta di terra
promessa della libertà. Ma, com’è avvenuto per molti ideali di quella
generazione, il sogno si è presto rovesciato in incubo. Come abbiamo
visto in questo libro, internet potenzia sì l’esperienza, ma la potenzia
tutta: permette ugualmente di eleggere il primo presidente nero degli
Usa e un entertainer pazzo.
Cosa vuol dire, allora, «neutralità delle rete»? La rete deve essere
neutrale (prescrizione), nel senso di non discriminare fra i suoi utenti.
55 Ma ciò non significa che la rete sia neutrale (descrizione) nel senso
che non favorisce certi contenuti rispetto ad altri. Si è calcolato che le
fake circolano sette volte più velocemente delle notizie vere. Interi
paesi, come la Birmania, sono stati devastati dall’hate speech contro la
minoranza musulmana, i Rohingya, oggetto di omicidi, stupri,
deportazioni. 56
Il principio da seguire è di fatto il seguente. Per i discorsi d’odio che
costituiscono reato già offline, l’uso di internet va ritenuto
un’aggravante, proprio come ricoprire cariche pubbliche. Dunque, per
punire un ministro che insulta la comandante della Sea Watch
chiamandola «zecca dei centri sociali», nella consapevolezza che i
propri follower faranno peggio, non serve regolamentare internet: il
codice penale basta e avanza. Ma forse, in casi come questi, è meglio
prevenire che reprimere: come vediamo subito.

Arginare l’abuso dei social da parte dei governanti

Il meccanismo distintivo del populismo digitale, e anche il criterio


per distinguerlo dalla semplice demagogia e dal populismo senza
aggettivi, è il cortocircuito fra istituzioni e media. Si dà populismo
digitale quando istituzioni e web entrano in un circolo vizioso per cui i
social sono usati da chi ricopre cariche pubbliche, come se non
bastasse detenere il potere. Questo è il pericolo più grave del
populismo digitale: che la rete diventi sovrana, che a governare non
siano più i rappresentanti del popolo ma il popolino del web.
Non è possibile, per fare solo esempi ovvi, che chi fa il presidente
degli Stati Uniti, il presidente di una banca centrale e, ancora più
ovviamente, il ministro dell’Interno, possa usare i social come un
teppista sotto l’effetto di stupefacenti. O preferiamo le stragi nelle
scuole, il crollo delle Borse, l’aumento continuo dell’insicurezza
percepita? A chi ricopre poteri delicati come questi i social devono
essere vietati, punto. Il free speech dei governanti viene sospeso:
dovranno scegliere fra la scatola delle meraviglie e il potere.
Inutile aggiungere che il principio varrebbe per chiunque detenesse
un potere sensibile, compresa l’amministrazione, potere con la
minuscola più pervasivo del Potere con la maiuscola. Si tratta di
impedire il populismo digitale a chiunque detenga il potere, ma non
all’opposizione. Ciò determina un vantaggio per gli oppositori e
aumenta la contendibilità e instabilità delle istituzioni. Il teppista che
abita la psiche di ogni governante ne soffrirà, ma poi si consolerà con il
potere.
Ricapitolando, gli abusi dei social da parte dei governanti
potrebbero venire arginati togliendo loro per legge l’uso dei social, per
l’intera durata del loro mandato. Abusi arginati, non eliminati: i
seguaci dei governanti continuerebbero a postare e twittare come
prima, ma almeno non a spese del contribuente. Le fake news e l’hate
speech dovrebbero invece essere vietati a tutti ove costituiscano già
reato in base a una previa legge penale. Il fatto di essere compiuti
tramite internet, però, dovrebbe considerarsi un’aggravante.

5. Conclusione
In Purity (2015), romanzo di Jonathan Franzen, la metamorfosi del
web da promessa di libertà a tecnica di asservimento è incarnata dal
personaggio di Andreas Wolf, ispirato ad Assange. Ex dissidente della
Germania Est, Andreas aveva finito per considerare la Stasi, la polizia
del regime, «il migliore amico che avesse mai avuto, finché non aveva
incontrato internet». 57 Universi totalitari entrambi, la Germania Est e
il web, ma dal primo si poteva fuggire scavalcando il Muro, mentre alla
rete non si scappa, ti segue sul tuo cellulare. 58
Dello stesso web, del resto, Andreas pensa quanto segue: «Lo scopo
di internet e delle tecnologie connesse era [stato] “liberare” l’umanità
dai compiti – fabbricare cose, imparare cose, ricordare cose – che
prima davano significato alla vita e perciò ne costituivano l’essenza.
Ora sembrava che l’unico compito significativo fosse l’ottimizzazione
dei motori di ricerca». 59 Anche il populismo digitale doveva solo
rilegittimare la democrazia, ma poi ha finito per minacciarla, o per
trasformarsi in intrattenimento.
Eppure la ricetta per rimediare alla psicopolitica, al controllo
populista delle anime, ci è stata fornita dallo stesso Assange, prima che
iniziasse la sua scientifica distruzione nel supercarcere britannico
dov’è detenuto. La ricetta è molto semplice: «Privacy per i deboli,
trasparenza per i potenti». 60 Privacy sì, ma solo per i deboli, ai quali
devono essere forniti tutti gli strumenti per proteggere i propri dati
personali. 61 L’equivoco ideale della trasparenza, invece, deve valere
solo per i potenti.
Conclusione
Apologo dello scimmione digitale

Cinque rivoluzioni per cinque ambienti vitali

Racconta un antropologo di aver visitato un’isola della Polinesia,


Tikopia, così piccola che da ogni punto si sentiva il fragore dell’oceano.
Gli indigeni, che non avevano mai conosciuto altro luogo, gli chiesero
se esistesse, sulla Terra, un posto dove non si sentiva il rumore del
mare. 1 La risposta fu naturalmente sì: ad esempio, le sterminate
pianure centrali dell’Eurasia. Senza i media, lì nessuno potrebbe mai
immaginare il mare.
Cosa ci insegna la domanda dei nativi di Tikopia? Che gran parte di
quanto sappiamo o crediamo di sapere dipende dal nostro ambiente.
Un tempo questo corrispondeva a una qualche nicchia ecologica, come
Tikopia per gli indigeni; nella stessa Europa attuale l’80 per cento
delle persone vive nel raggio di cinquanta chilometri da dove è nato.
Oggi, invece, specie per i nativi digitali, l’ambiente è una bolla
mediatica.
Ora, dall’ambiente e dalle relative credenze dipende anche il regime
politico. Qui di seguito distinguo cinque ambienti nella storia di Homo
sapiens, e immagino gli effetti dell’ultimo, quello digitale, sulla
democrazia. 2
Il primo ambiente è stato il branco degli scimpanzé, la scimmia più
prossima a noi sulla scala dell’evoluzione. L’uomo non discende dalle
scimmie, è una specie di scimmia che si è imprevedibilmente evoluta.
Mutazioni genetiche casuali si sono rivelate adatte all’ambiente e di
fatto hanno superato la prova della selezione naturale. «Appena 6
milioni di anni fa» riassume uno storico «un’unica scimmia femmina
ebbe due figlie. Una fu la progenitrice di tutti gli scimpanzé, l’altra la
nostra nonna.» 3
Prima di questa mutazione, i nostri antenati vivevano in Africa, in
branchi guidati da un maschio alfa. Quando il branco superava le
centocinquanta unità, un maschio più giovane portava via gli
scimpanzé in eccesso e formava un nuovo branco. Poi è capitato
l’evento più misterioso della storia dell’universo dopo il Big Bang. Una
prima rivoluzione, detta cognitiva, ha prodotto una scimmia più
intelligente delle altre, capace di unirsi in gruppi superiori alle
centocinquanta unità e di dominare il mondo: Homo sapiens.
Questo si è progressivamente differenziato dalle altre scimmie per
molti aspetti: la posizione eretta, la scoperta del fuoco, la capacità di
fare gruppo e di attaccare animali molto più grandi di lui. Ma la
differenza più importante, sinora mai replicata in laboratorio, neppure
dal computer più intelligente, è il pensiero narrativo, la capacità di
inventare storie. Gli umani formano comunità (famiglie, clan, tribù,
imperi, città, Stati…) inventate, cioè giustificate da – null’altro che –
narrazioni, miti fondativi, formule politiche. 4
Questa capacità, la cui mancanza ha determinato l’estinzione o lo
sterminio di altre specie umane, come i Neanderthal, ha permesso a
Homo sapiens di propagarsi per l’Eurasia e di raggiungere e popolare
l’America e l’Australia. Come gli scimpanzé, in questa fase gli umani
erano cacciatori-raccoglitori, però liberi: le famiglie si davano un capo
solo in caso di guerra, come facevano ancora i Germani invasori
dell’Impero romano. Lo stato di natura degli Homo sapiens, a
differenza degli scimpanzé, non è il branco ma la libertà.
Un giorno, però, i cacciatori-raccoglitori scoprirono che alcune
piante possono coltivarsi e alcuni animali addomesticarsi, e che ciò
produce un surplus di cibo. Questa fu la seconda rivoluzione, detta
agricola o del Neolitico: a partire dalla cosiddetta mezzaluna fertile
mediorientale, culla delle più antiche civiltà stanziali, gli umani
coltivarono i campi, loro secondo ambiente vitale. Il surplus
alimentare permise di mantenere élite – sacerdoti, guerrieri, re – che
garantivano la benevolenza degli dei offrendo loro sacrifici, anche
umani.
I cacciatori-raccoglitori persero così la loro libertà trasformandosi
in contadini schiavizzati. Forse il conflitto populista fra élite e popolo
ha origine proprio qui, e i governi populisti, senza saperlo, continuano
la tradizione dei Sumeri, il più antico popolo stanziale, offrendo al
popolo altri capri espiatori: migranti, ong, burocrati di Bruxelles…
Poi, attorno al 3500 a.C. le élite cinesi e mediorientali inventarono
la scrittura, determinando così il passaggio dalla preistoria alla storia e
conseguendo un enorme vantaggio tecnologico. 5 Fu questo vantaggio
(più i cavalli, le armi da fuoco, le malattie sconosciute portate
dall’Europa…), cinque millenni dopo, a permettere a un pugno di
spagnoli di distruggere gli imperi azteco, maya e inca. 6 Ma
l’invenzione della stampa, con la diffusione della Bibbia, produsse la
Riforma protestante e la terza rivoluzione, quella scientifica: la
scoperta delle principali leggi astronomiche, fisiche e biologiche. 7 Il
terzo ambiente umano divennero le città, dove gli umani tornarono
liberi ma in modo diverso dai loro avi cacciatori.
Infatti, proprio nelle città, dov’era nata la democrazia diretta degli
antichi, gli umani sostituirono il diritto divino dei monarchi con la
sovranità del popolo, inventando la democrazia rappresentativa. Ma
totalitarismi, genocidi, guerre mondiali, sovrappopolazione,
riscaldamento climatico e altre seccature non avrebbero forse
impedito alla (liberal)democrazia di estendersi fuori dell’Occidente se
la scienza e la sua figlia degenere, la tecnica, non avessero prodotto
una quarta rivoluzione e un quarto ambiente vitale: internet.

La rivoluzione digitale produrrà un’enorme regressione?

Ora, tutte le comunità umane sono inventate: ma internet di più.


Gli individui incollati davanti al computer o allo smartphone non
formano neppure una moltitudine, semmai un assembramento. 8
Quando vivremo davvero onlife, dipendendo dall’«internet delle cose»
che gestirà la nostra esistenza senza di noi, 9 non cambierà solo la
natura umana, com’è sempre avvenuto al mutare degli ambienti vitali.
Forse anche gli uomini diverranno cose amministrate da altre cose,
come nel vecchio sogno positivista. 10
Quale sarà il regime politico più adatto a questo ambiente onlife,
più tecnologico che umano? Il populismo digitale, qui, si rivela un
esperimento fatto a tentoni. In realtà potrebbero darsi tre alternative:
lo Stato costituzionale, difeso dalle élite intellettuali, lo Stato
neoliberista, preferito dalle élite economico-finanziarie e
tecnocratiche, e quella specie di Stato di sicurezza sovranista che piace
tanto al popol(in)o populista. Dove le tre alternative si scontrano senza
interposizioni, come a Hong Kong, scorre già il sangue.
Nella storia, normalmente, non prevale mai una soluzione pura, ma
un mix: qui, forse, vari mix di costituzionalismo, neoliberismo e
populismo. Se il populismo è un fenomeno soprattutto digitale, però,
non pensiamo di liberarcene con un’alzata di spalle: dove tutto è
onlife, la politica non può stare da un’altra parte. Gli antichi,
ragionando in termini aristotelici, penserebbero forse a un ciclo di
governi populisti e di tirannidi, passando per democrazie illiberali. Ma
gli antichi non immaginavano neppure l’evoluzione e internet.
La rivoluzione digitale, da questo punto di vista, potrebbe persino
rivelarsi un’enorme regressione. Già oggi, sulla rete, la Terra torna
piatta, i vaccini provocano l’autismo e i giudici obbediscono al popolo,
cioè al governo. Non si può escludere, dunque, che la civiltà umana
finisca come quella dell’Isola di Pasqua, autoimmolandosi ai propri
idoli tecnologici. Sarebbe la chiusura di un ciclo: Homo sapiens
tornerebbe uno scimpanzé. Nostro cugino, il maschio alfa, già sorride
all’idea di riprenderci fra i suoi follower.
Ringraziamenti

Non mi resta che ringraziare quanti mi hanno aiutato nell’anno della


tormentata gestazione di questo libro.
Un grazie va a tutti coloro con cui ho discusso in occasione di
convegni e soggiorni di studio. In ordine cronologico: Angelica
Károlyi, dell’omonima fondazione ungherese; Antonio Masala,
Raimondo Cubeddu e Adriano Fabris dell’Università di Pisa; Andrea
Simoncini, dell’Università di Firenze; Antonio Marturano, di Roma2;
Manuel Anselmi, dell’Università di Perugia; Alessio Sardo, borsista
Humboldt in Germania.
Un secondo ringraziamento va ai tanti che mi hanno aiutato
altrimenti che discutendo. Prima di tutti Anna Pintore, che mi ha fatto
scoprire la macrostoria dei vari Diamond, Harari, Acemoglu… Poi
Gwendal Châton, al quale devo l’epigrafe di Aron che cattura, credo, la
nostra comune idea di democrazia. Ancora, Gabriele Giacomini,
infaticabile demolitore del mito della disintermediazione. Infine,
Andrea Acquarone, con cui condivido letture per altri esoteriche e
punti di vista inusuali.
Un terzo ringraziamento va a tutti i direttori di rivista che mi hanno
permesso di riprendere parti più o meno estese di lavori precedenti:
fra questi i direttori di «Jura Gentium», «Esprit», «Rassegna di diritto
pubblico», «Lo Stato», «Il pensiero», per non parlare degli atti di
convegno. Un grazie particolare va ad Aljs Vignudelli, che si è offerto
di pubblicare il libro dopo le mie dimissioni dall’Associazione il
Mulino e la rottura con l’omonima casa editrice.
Ultimi, ma non meno importanti, verrebbero appunto quanti hanno
contribuito al libro solo facendomi provare l’autentica emozione
populista, il risentimento. Ma la loro lista sarebbe troppo lunga e
coinvolgerebbe molti che non lo meritano.
Indice dei nomi

Acquarone, Andrea
Acemoglu, Daron
Agamben, Giorgio
Alexander, Amy C.
Alexandre, Laurent
Anastasia, Stefano
Anderson, Benedict
Anderson, Chris
Anselmi Manuel
Antonelli Francesco
Aristotele
Aron, Raymond
Arrow, Kenneth J.
Aslanidis, Paris
Asch, Solomon E.
Assange, Julian
Attila
Austin, John

Baldini, Massimo
Bannon, Steve
Barber, Nicholas
Barberá, Pablo
Barberis, Mauro
Barlow, John
Baroncelli, Flavio
Bartlett, Jamie
Bauman, Zygmunt
Bellucci, Lucia
Benoist, Alain de
Bentham, Jeremy
Bentivegna, Sara
Benveniste, Émile
Berlin, Isaiah
Berns, Gregory S.
Berlusconi, Silvio
Bevir, Mark
Bickel, Alexander
Birdwell, Jonathan
Blair, Tony
Blokker, Paul
Bobbio, Norberto
Bodei, Remo
Bolsonaro, Jair
Bossi, Umberto
Boudon, Raymond
Bovero, Michelangelo
Bracciale, Roberta
Brennan, Jason
Brigaglia, Marco
Brown, Wendy
Bush, George W.
Buzan, Barry

Cadwalladr, Carole
Calasso, Roberto
Cameron, David
Campesi, Giuseppe
Canfora, Luciano
Casadei, Thomas
Casaleggio, Davide
Casaleggio, Gianroberto
Cassese, Sabino
Castells, Manuel
Cerasa, Claudio
Chadwick, Andrew
Chaplin, Charlie
Châton, Gwendal
Ciarrocca, Luca
Clinton, Bill
Clinton, Hillary
Cohen, Michael
Coleman, Stephen
Collor de Mello, Fernando
Condry, John
Constant, Benjamin
Conte, Giuseppe
Copé, Jean-François
Corbellini, Gilberto
Corbetta, Piergiorgio
Corbyn, Jeremy
Corso, Lucia
Cristo, Gesù detto il
Croce, Mariano
Crouch, Colin
Crozier, Michael
Cubeddu, Raimondo
Cumberbatch, Benedict
Cummings, Dominic

Da Empoli, Giuliano
Dal Lago, Alessandro
Damele, Giovanni
Davies, William
Dean, Howard
De Nardis, Fabio
Dennett, Daniel
De Siervo, Ugo
Debord, Guy
De la Torre, Carlos
Diamond, Jared
Diamond, Larry
Di Battista, Alessandro
Dicey, Albert V.
Diciotti, Enrico
Di Maio, Luigi
Douglas, Mary
Duchamp, Marcel
Dugin, Alexandr
Dumézil, Georges
Dumont, Louis
Duterte, Rodrigo

Earle, Timothy
Elster, Jon
Engesser, Sven
Entropia
Erdoğan, Recep Tayyip
Evangelista, Riccardo

Fabris, Adriano
Falcinelli, Daniela
Farage, Nigel
Ferrajoli, Carlo Ferruccio
Ferrajoli, Luigi
Finkelstein, Arthur
Finnis, John
Fioravanti, Maurizio
Firth, Raymond
Floridi, Luciano
Foa, Roberto Stefano
Foucault, Michel
Franzen, Jonathan
Freeden, Michael
Freelon, Deen
Friedman, Milton
Frosini, Tommaso E.
Fukuyama, Francis

Gallino, Luciano
Gatti, Claudio
Gelfert, Axel
Gellner, Ernest
Gengis Khan
Giacomini, Gabriele
Gigerenzer, Gerd
Gingrich, Newt
Girard, René
Goffman, Erving
Golia
Gometz, Gianmarco
Gori, Cristiano
Graziano, Paolo
Greenwald, Glenn
Grillo, Beppe
Guala, Francesco
Gualmini, Elisabetta
Guerrera, Antonello

Habermas, Jürgen
Haidt, Jonathan
Halmay, Gábor
Halpern, Sue
Han, Byung-Chul
Harari, Yuval Noah
Harding, Luke
Hart, Herbert Lionel Adolphus
Harvey, David
Hayek. Friedrich-August von
Hitler, Adolf
Hobsbawn, Eric
Hollenbach, Florian M.
Honneth, Axel
Horsfield, Bruce
Huizinga, Johan
Huang, Yinghui
Hume, David
Huntington, Samuel

Iacoboni, Jacopo
Inglehart, Roland
Ionescu, Ghita

Johnson, Boris
Jünger, Ernst

Kahan, Dan M.
Kahneman, Daniel
Kant, Immanuel
Károlyi, Angelica
Kelsen, Hans
Kramer, Larry D.
Kyi, Aung San Suun

Laclau, Ernesto
Lakoff, George
La Spina, Antonio
Leghissa, Giovanni
Leoni, Bruno
Le Pen, Marine
Levitsky, Steven
Li, Guanyu
Lilla, Mark
Lincoln, Abraham
Littler, Mark
Luhmann, Niklas
Luna, Riccardo
Lupo, Nicola
MacCormick, Neil
Machiavelli, Niccolò
Madonna, Maria, detta la
Maistre, Joseph de
Majone, Giandomenico
Mandela, Nelson
Manin, Bernard
Manning, Chelsea
Marquand, David
Martigny, Vincent
Marturano, Antonio
Marx, Karl
Masala, Antonio
Mazzoleni, Gianpietro
May, Theresa
McIlwain, Charles H.
McLuhan, Marshall
Mendeluk, George
Menger, Karl
Mény, Yves
Merton, Robert
Michéa, Jean-Claude
Milani, Marco
Miller, Stephen
Modi, Narendra
Moffitt, Benjamin
Moravcsik, Andrew
Morgenstern, Oskar
Morisi, Luca
Morosini, Marco
Mounk, Yascha
Mudde, Cass
Mueller, John
Mueller, Robert
Müller, Jan-Werner
Mussolini, Benito
Napoleone (Bonaparte)
Neumann, John von
Nichols, Tom
Nicita, Antonio
Nietzsche, Friedrich
Nolan, Christopher
Norris, Pippa
Nozick, Robert

Obama, Barack
Olson, Mancur
Orbán, Viktor
Origgi, Gloria
Orsina, Giovanni

Packard, Vance
Palano, Damiano
Pannarale, Luigi
Paolo
Pareto, Vilfredo
Parijs, Philippe van
Pariser, Eli
Parisi, Mimmo
Pascal, Blaise
Pellizzetti, Pierfranco
Perry, Katy
Persily, Nathaniel
Pierskalla, Jan H.
Pietro
Pievani, Telmo
Piketty, Thomas
Pinochet, Augusto
Pintore, Anna
Platone
Poe, Edgar Allan
Polanyi, Karl
Polibio
Popper, Karl R.
Pupolizio, Ivan
Putin, Vladimir

Rábanos, Julieta A.,


Ranger, Terence
Raynaud, Philippe
Reagan, Ronald
Renzi, Matteo
Rescigno, Giuseppe Ugo
Riesman, David
Robinson, James A.
Rocca, Christian
Romano, Santi
Rosanvallon, Pierre
Rosenfeld, Michel
Ross, Alf
Rousseau, Jean-Jacques
Rovira Kaltwasser, Cristóbal
Runciman, David
Rusconi, Gian Enrico

Sade, Donatien-Alphonse-François, marchese de


Saint-Simon, Henri de
Sajó, András
Salvini, Matteo
Samuelson, Paul A.
Sardo, Alessio
Sarkozy, Nicolas
Sartori, Giovanni
Schauer, Frederick
Schelling, Thomas C.
Schmitt, Karl
Schumpeter, Joseph A.
Schwab, Katherine
Semi, Giovanni
Sen, Amartya
Sennett, Richard
Sfardini, Anna
Shils, Edward
Shyrock, Andrew
Simon, Herbert A.
Simoncini, Andrea
Slovic, Paul
Smail, Daniel Lord
Smith, Adam
Snowden, Edward
Spinelli, Barbara
Stalin, Iosif Vissarionovič Džugašvili detto
Starobinsky, Jean
Stewart, Julianne
Stewart, Mark G.
Stuart Mill, John
Sturgeon, Nicola
Sunstein, Cass
Surel, Yves
Suweiss, Samir
Svendsen, Lars F.H.

Taguieff, Pierre-André
Tamerlano
Thaler, Richard
Thatcher, Margaret
Thio, Li-Ann
Tincani, Persio
Trivers, Robert
Trump, Donald
Tushnet, Mark
Tversky, Amos

Ulisse
Urbinati, Nadia

Vanderborght, Yannick
Vecchio, Concetto
Vermeule, Adrian
Vignudelli, Aljs
Vreese, Claes H. de

Waever, Ole
Wallace, George
Walzer, Michael
Warren, Elizabeth
Watanuki, Joji
Weber, Max
Weinberger, Ota
Welzel, Christian
Weir, Peter
Wiesel, Elie
Wilde, Jaap de
Willes, Peter
Williams, Bernard
Wolf, Andreas
Wittgenstein, Ludwig
Wu, Tim

Ziblatt, Daniel
Ziccardi, Giovanni
Zuboff, Shoshana
Zuckerberg, Mark
Note al capitolo Populismo, o democrazia presa
alla lettera
1 Così Norberto Bobbio, Teoria generale della politica, a cura di Michelangelo Bovero,
Einaudi, Torino 1999, pp. 381-382: «Confesso che ho una certa difficoltà ad ammettere che,
quando si parla di democrazia […], si voglia intendere altro».
2 Così Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello
Cortina, Milano 2017, p. 53: «L’ambiente del populismo contemporaneo non è altro che la
realtà immanente e al tempo stesso evanescente di internet. Se non si comprende la natura di
questa dimensione, qualsiasi analisi del populismo sarà fantasmatica quanto il suo oggetto».
3 Cfr. Mauro Barberis (a cura di), Populismi e diritto, in «Ragion pratica», 52, giugno 2019,
pp. 185-286. L’obiezione viene, sin dal titolo, da Giuseppe Ugo Rescigno, Populismo
(presunto, asserito, proclamato) e diritto costituzionale in Italia, in «Ragion pratica», 52,
giugno 2019, pp. 273-286.
4 Ghita Ionescu, Ernest Gellner (eds.), Populism: Its Meaning and National
Characteristics, Weidenfeld and Nicolson, London 1969.
5 Il filosofo è Aleksandr Dugin; lo scambio si legge in Claudio Gatti, I demoni di Salvini,
Chiarelettere, Milano 2019, p. 230.
6 Così Raymond Aron, L’oppio degli intellettuali (1955), trad. it. Lindau, Torino 2017.
7 Cfr. Pierfranco Pellizzetti, Il conflitto populista. Potere e contropotere alla fine del secolo
americano, Ombre corte, Verona 2019, specie pp. 136-137.
8 Cfr. già Yves Mény, Yves Surel, Populismo e democrazia (2000), trad. it. il Mulino,
Bologna 2001, p. 72, e ora Pippa Norris, Roland Inglehart, Cultural Backlash. Trump, Brexit
and Authoritarian Populism, Cambridge University Press, New York 2019.
9 Cfr. Benjamin Constant, Le reazioni politiche. Gli effetti del Terrore (1797), trad. it.
Liberilibri, Macerata 2009, sul quale cfr. l’intera prima parte di Mauro Barberis, Benjamin
Constant. Rivoluzione, costituzione, progresso, il Mulino, Bologna 1988.
10 Così Eric Hobsbawn, Terence Ranger (eds.), The Invention of Tradition, Cambridge
University Press, Cambridge (UK) 1983, e da ultimo Mark Lilla, Il naufragio della ragione.
Reazione politica e nostalgia moderna (2016), Marsilio, Venezia 2018.
11 Cfr. Benjamin Moffitt, The Global Rise of Populism. Performance, Political Style, and
Representation, Stanford University Press, Stanford 2016, e Carlos de La Torre (ed.),
Routledge Handbook of Global Populism, Routledge, London 2018.
12 Cfr. già Pierre-André Taguieff, Cosmopolitismo e nuovi razzismi. Populismo, identità e
neocomunitarismi (2002), trad. it. Mimesis, Milano-Udine 2003 e Id., L’illusione populista
(2003), trad. it. Bruno Mondadori, Milano 2003, dove si parlava del nazionalpopulismo del
Front national; Gianpietro Mazzoleni, Julianne Stewart, Bruce Horsfield, The Media and Neo-
populism. A Contemporary Comparative Analysis, Praeger, Westport 2003; Paolo Graziano,
Neopopulismi. Perché sono destinati a durare, il Mulino, Bologna 2018; Manuel Anselmi,
Populismo. Teorie e problemi, Mondadori Università, Milano 2019, pp. 73 ss.
13 Così Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1953), trad. it. Einaudi, Torino 1967, pp.
46-47: che, se non fosse citato da Margaret Canovan, sarebbe ignoto agli studiosi del
populismo.
14 Così Jamie Bartlett, Jonathan Birdwell, Mark Littler, The New Face of Digital Populism,
Demos, London 2011; Stephen Coleman, Deen Freelon (eds.), Handbook of Digital Politics,
Elgar, Cheltenham (UK) 2015; soprattutto A. Dal Lago, Populismo digitale, cit.
15 Cfr. Luciano Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo
(2014), trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2017, p. 111.
16 Cfr. in particolare Aristotele, Politica, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1986, specie p. 85:
«Deviazioni delle forme ricordate sono la tirannia rispetto alla monarchia, l’oligarchia rispetto
all’aristocrazia, la democrazia rispetto alla politeia» (trad. it. modificata).
17 Nota questa ambiguità di demokratia Michelangelo Bovero, Contro il governo dei
peggiori. Una grammatica della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 6. Sulla storia
della democrazia c’è solo l’imbarazzo della scelta. A chi scrive piace Luciano Canfora, La
democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2004.
18 Che alle origini del populismo ci sia lo scambio – metonimia – fra la parte e il tutto è
notato anche dal libro più sopravvalutato negli studi sul populismo: Ernesto Laclau, La
ragione populista (2005), trad. it. Laterza, Roma-Bari 2008. Ma cfr. soprattutto Nadia
Urbinati, Antiestablishment and the Substitution of the Whole with One of Its Parts, in C. de
La Torre (ed.), Routledge Handbook of Populism, cit., pp. 77-97.
19 Per una forma aggiornata di elitismo – l’idea, già proposta da Gaetano Mosca e Vilfredo
Pareto, che in qualsiasi regime politico a governare sia sempre una ristretta minoranza (élite)
– cfr. Joseph A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia (1954), trad. it. Etaslibri,
Milano 1994, specie pp. 257 e 271: «democrazia» indica la competizione delle élite per
ottenere il voto degli elettori, e «non significa, né può significare, che il popolo governi
realmente», bensì «che il popolo ha il potere di accettare o rifiutare gli uomini che dovranno
governarlo».
20 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1512-1519), Rizzoli,
Milano 1984, p. 71: nel famoso paragrafo IV del libro primo, dove si dice pure che la libertà dei
romani dipendeva proprio dal conflitto fra popolo e grandi.
21 Lo ricorda Yves Mény, Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico (2019), trad. it. il
Mulino, Bologna 2019, p. 163.
22 Cfr. la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789): «Il principio di ogni
sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può
esercitare un’autorità che non ne emani espressamente». La Costituzione del 1791 ripete: «La
sovranità è una, indivisibile, inalienabile e imprescrittibile. Essa appartiene alla Nazione;
nessuna parte del popolo, nessun individuo, se ne può attribuire l’esercizio». Cfr. anche
Benjamin Constant, Principi di politica (1815), trad. it. Editori Riuniti, Roma 1970, p. 55.
23 Philippe Raynaud, Trois révolutions de la liberté: Angleterre, Amérique, France, Puf,
Paris 2009, p. 157, parla a questo proposito di «paradoxe central de la démocratie libérale».
24 Cfr. almeno Pierre Rosanvallon, La società dell’uguaglianza (2011), trad. it. Castelvecchi,
Roma 2018.
25 Memorabile, a questo proposito, lo scambio di opinioni con un mio lettore populista de
«Il Secolo XIX», che rifiutò di leggere una prima versione di questo lavoro affermando che a
lui bastava l’art. 1 della Costituzione italiana.
26 Joseph de Maistre, Considérations sur la France (1797), ora in Écrits sur la Révolution,
Puf, Paris 1989, p. 126, n. 5: «Le peuple réunit éminemment ces trois qualités, car il est
toujours enfant, toujours fou et toujours absent».
27 Cfr. Pierre Rosanvallon, Penser le populisme (2011), http://laviedesidees.fr/..., p. 5.
28 Così Benito Mussolini, nel discorso alla Camera del 16 novembre 1922, all’atto della
formazione del suo primo governo: «Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di
manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti.
Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto».
29 Insiste su questo aspetto Y. Mény, Popolo ma non troppo, cit.
30 Riprendo qui Marco Brigaglia, Potere. Una rilettura di Michel Foucault, Editoriale
scientifica, Napoli 2019, pp. 323-337, che a sua volta riprende il succo delle riflessioni sul
potere dell’ultimissimo Michel Foucault.
31 Qui non posso fare a meno di rinviare a Mauro Barberis, Non c’è sicurezza senza libertà.
Il fallimento delle politiche antiterrorismo, il Mulino, Bologna 2017, che oggi considero
importante solo per la scoperta di molti temi approfonditi nel libro che state leggendo.
32 Cfr. art. 11 Cost. it.: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli
altri popoli e come mezzo di soluzione delle controversie internazionali». Come aveva già
notato Karl Marx nell’Ottocento, peraltro, i principi costituzionali liberali, enunciati
solennemente, trovano poi infinite limitazioni: nel caso dell’art. 11, in particolare, le
limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni».
33 Tutte queste dinamiche sono meno comprese dai teorici del diritto progressisti, ossia da
positivisti come Hans Kelsen o da realisti come Alf Ross, che da grandi reazionari come Carl
Schmitt, Le categorie del «politico». Saggi di teoria politica (1932-1968), trad. it. il Mulino,
Bologna 1972, specie pp. 211-242, oppure da critici liberisti della legislazione come Friedrich
August von Hayek, Legge, legislazione e libertà (1973-1979), trad. it. il Saggiatore, Milano
1989.
34 C. Schmitt, Le categorie del «politico», cit., pp. 411-412.
35 Per due testimonianze aggiornatissime, fornite da studiosi che lavorano dentro o a
ridosso del Parlamento italiano, cfr. Carlo Ferruccio Ferrajoli, Un declino senza cambiamento.
Il Parlamento italiano tra la XVII e la XVIII legislatura, in «Costituzionalismo.it», 2019/1,
pp. 33-94; Nicola Lupo, «Populismo legislativo?»: continuità e discontinuità nelle tendenze
della legislazione italiana, in «Ragion pratica», 52, 2019, pp. 251-271.
36 Cfr. Maurizio Fioravanti, Stato e costituzione, in Id. (a cura di), Lo Stato moderno in
Europa. Istituzioni e diritto, Laterza, Roma-Bari 2010; Mauro Barberis, Una filosofia del
diritto per lo stato costituzionale, Giappichelli, Torino 2017.
37 Nozione tutt’altro che ovvia, specie se connessa a quella di razionalità: cfr. Gian Enrico
Rusconi, Cosa resta dell’Occidente, Laterza, Roma-Bari 2012.
38 Cfr. Lucia Bellucci, La sindrome ungherese. Media, diritto e democrazia in un’analisi di
Law and politics, Giuffrè, Milano 2018.
39 Per la distinzione fra poteri di governo e poteri di garanzia, che percorre tutta l’opera di
Luigi Ferrajoli, cfr. almeno Id., La democrazia attraverso i diritti, Laterza, Roma-Bari 2013.
40 Cfr. Raymond Aron, Introduction à la philosophie politique. Démocratie et révolution,
Livre de Poche, Paris 1997, p. 136 (ma l’idea risale al 1952) e Gwendal Châton, Introduction à
Raymond Aron, La Découverte, Paris 2017.
41 Cfr. Michel J. Crozier, Samuel P. Huntington, Joji Watanuki, La crisi della democrazia.
Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale (1975), trad. it.
Franco Angeli, Milano 1977.
42 Cfr. Colin Crouch, Postdemocrazia (2000), trad. it. Laterza, Roma-Bari 2005.
43 Cfr. Vincent Martigny, Le Prince face à la foule, in «Esprit», 458, 2019, p. 88: la politica è
diventata «le stade ultime du spectacle».
44 Guy Debord, La società dello spettacolo (1967), trad. it. Massari, Milano 2002.
45 Terminologia ancora una volta introdotta da C. Schmitt, Le cateogorie del «politico», cit.,
pp. 167-184.
46 Percezione che, del resto, corrisponde all’effettiva distribuzione del reddito, secondo
l’ormai classico Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo (2013), trad. it. Bompiani, Milano
2014.
47 Cfr. almeno Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità
nell’era dei nuovi poteri (2019), trad. it. Luiss University Press, Roma 2019.
48 Cfr. già Peter Willes, A Syndrome, not a Doctrine: Some Elementary Theses on
Populism, in Gh. Ionescu, E. Gellner (eds.), Populism, cit.
49 La nozione d’ideologia debole è stata introdotta da Michael Freeden, Ideology: a Very
Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2003, insieme con l’idea che essa
consiste in una serie di cornici (frames) nei termini delle quali la gente pensa il mondo.
50 Se ne parla spesso a proposito di Steve Bannon, già animatore del sito di ultradestra
statunitense Breitbart, poi spin doctor di Trump, da cui è stato infine licenziato per
inaffidabilità: cfr. Giuliano da Empoli, Gli ingegneri del caos. Teoria e tecnica
dell’internazionale populista, Marsilio, Venezia 2019, specie pp. 25-36.
51 Cfr. già Cas Mudde, The Populist Zeitgeist, in «Government and Opposition», 39/4,
2004, pp. 51-63, e poi Exclusionary vs. Inclusionary Populism: Comparing Contemporary
Europe and Latin America, in «Government and Opposition», 48/2, 2013, pp. 147-174: testi
seminali, come si dice, ma ormai datati.
52 Cfr. Nadia Urbinati, Me the People. How Populism Transforms Democracy, Harvard
University Press, Cambridge (Mass.), 2019, p. 205.
53 Cfr. Paris Aslanidis, Is Populism an Ideology? A Refutation and a New Perspective, in
«Political Studies», vol. 64, 2015, pp. 1-17.
54 Così B. Moffitt, The Global Rise of Populism, cit., specie pp. 25-37.
55 Per una prima, alquanto superficiale, sintesi degli studi in materia, cfr. almeno la quarta
parte, dedicata interamente al tema, di C. de La Torre (ed.), Routledge Handbook of Global
Populism, cit., pp. 217-259.
56 Cfr. C. de La Torre (ed.), Routledge Handbook of Global Populism, cit., pp. 219-280, ma
soprattutto G. da Empoli, Gli ingegneri del caos, cit.
57 Di questi temi si occupano oggi molte discipline, ma soprattutto l’etica dell’informazione:
cfr. almeno Antonio Marturano, Etica dei media. Regolare la società dell’informazione,
Franco Angeli, Milano 2000; Adriano Fabris, Etica dei media (2004), Carocci, Roma 2017.
58 La terminologia viene dal maggiore massmediologo del Novecento, Marshall McLuhan,
inesauribile inventore di slogan: villaggio globale, il mezzo è il messaggio, la Galassia
Gutenberg… McLuhan, però, la usa al contrario: cfr. Id., Gli strumenti del comunicare (1964),
trad. it. il Saggiatore, Milano 1967.
59 Cfr. Gianmarco Gometz, Democrazia elettronica. Teoria e tecniche, Ets, Pisa 2017;
Giovanni Damele, L’impatto dei social media sulla cittadinanza politica (2019),
https://www.anselmianum.com/...
60 Cfr. Tom Nichols, The Death of Expertise, Oxford University Press, Oxford 2017.
61 Nei miei primi lavori sul tema, oggi superati, mi ero ispirato fruttuosamente a Piergiorgio
Corbetta, Tra ideologia debole e paradosso della leadership, in «il Mulino», 2017/5, pp. 727-
735, dove si elencavano cinque argomenti populisti, fra i quali i tre menzionati qui di seguito.
Per ragioni motivate in questo libro, né la personalizzazione né la semplificazione mi
sembrano più tratti distintivi, né del populismo in genere, né del populismo digitale.
62 L’allusione è ancora a E. Laclau, La ragione populista, cit.
63 Qui, il lavoro di riferimento è Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo? (2016), trad. it.
Università Bocconi, Milano 2017. Sul pluralismo come vero bersaglio del populismo cfr.
Edward Shils, The Torment of Secrecy: the Background and Consequences of American
Security Policies, Dee, Chicago 1996, e Nadia Urbinati, A Revolt against Intermediary Bodies,
in «Constellations», 22/4, 2015, pp. 477-485.
64 Su questo meccanismo, classici sono gli studi di René Girard, ll capro espiatorio (1984),
trad. it. Adelphi, Milano 1999.
65 Cfr. in particolare Luca Ciarrocca, L’affaire Soros, Chiarelettere, Milano 2019.
66 Per la riproposizione della sua teoria della rappresentanza diretta, intermedia a
democrazia diretta e democrazia rappresentantiva, cfr. da ultimo N. Urbinati, Me the People,
cit.
67 Di qui le proposte, che si rincorrono sin dai tempi di John Stuart Mill, di correggere il
meccanismo democratico dando un voto plurimo agli elettori più acculturati: cfr. da ultimo
Jason Brennan, Contro la democrazia (2016), trad. it. Luiss University Press, Roma 2018.
68 Il riferimento è al racconto di Edgar Allan Poe intitolato The Man of the Crowd (1840),
ma anche a The Lonely Crowd (1950) di David Riesman: cfr. ancora A. Dal Lago, Populismo
digitale, cit., pp. 66-67.
69 Il termine viene dal gergo del marketing: cfr. Andrew Chadwick, Disintermediation, in
Mark Bevir (ed.), The Encyclopedia of Governance, Sage, London 2007, p. 918.
70 Cfr. già Gabriele Giacomini, Psicodemocrazia. Quanto l’irrazionalità condiziona il
discorso pubblico, Mimesis, Milano-Udine 2016, ma soprattutto Id., Potere digitale. Come
internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia, Meltemi, Milano 2018, pp. 87-114.
71 Esempi impressionanti in S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, cit., pp. 520 ss.
72 Cfr. almeno Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia
dell’antipolitica, Marsilio, Venezia 2018.
73 Così Remo Bodei, Vivere online. Riflessi politici dell’essere connessi virtualmente, in «il
Mulino», 490/2, 2017, pp. 205-209.
74 Così Byung-Chul Han, La società della trasparenza (2012), trad. it. Nottetempo, Roma
2014, p. 81, e Id., Psicopolitica (2014), trad. it. Nottetempo, Roma 2016, p. 31.
Note al capitolo Brexit, Trump e governo
gialloblù. Tre populismi digitali
1 Così J. Brennan, Contro la democrazia, cit., p. 31 (trad. it. modificata).
2 Così Y. Mény, Popolo ma non troppo, cit.
3 «Oggi metà dell’umanità, vale a dire 3,5 miliardi di persone, vive in città. Entro il 2030,
quasi il 60 per cento della popolazione mondiale abiterà in aree urbane. Il 95 per cento
dell’espansione urbana nei prossimi decenni avverrà nei paesi in via di sviluppo»: così
https://unric.org/... Eppure, o forse proprio per questo, c’è chi pensa, come David Harvey,
Città ribelli (2012), trad. it. il Saggiatore, Milano 2013, che proprio dalle grandi città partirà la
riscossa democratica.
4 Cfr. ancora B. Moffitt, The Global Rise of Populism, cit., e C. de La Torre (ed.), Routledge
Handbook of Global Populism, cit.
5 Gialloblù e non gialloverde, perché la sua componente numericamente minoritaria ma
politicamente dominante, la Lega sovranista, ha ormai poco a che fare con la Lega federalista,
il cui colore era il verde. La Lega di Salvini ha molto più a che fare, invece, con i movimenti di
destra centro e nordeuropei, dei quali ha adottato il colore: un blu virante al nero.
6 La crisi delle democrazie consolidate si chiama talvolta deconsolidation: cfr. Roberto
Stefan Foa, Yascha Mounk, The Danger of Deconsolidation: The Democratic Disconnect, in
«Journal of Democracy», 27, 2016, pp. 5-17; Id., The Signs of Deconsolidation, in «Journal of
Democracy», 28, 2017, pp. 5-15. Per una critica, cfr. invece Amy C. Alexander, Christian
Welzel, The Myth of Deconsolidation. Rising Liberalism and Populist Reaction, ILE Working
Papers, n. 10, University of Hamburg, online.
7 Cfr. almeno Raymond Boudon, Effetti «perversi» dell’azione sociale (1977), trad. it.
Feltrinelli, Milano 1981. Gli effetti non intenzionali, però, possono anche essere positivi: come
cultura, diritto, mercato…
8 Cfr. C. Schmitt, Le categorie del «politico», cit., pp. 211-246; M. Fioravanti, Stato e
costituzione, cit., pp. 7-21; M. Barberis, Una filosofia del diritto per lo stato costituzionale, cit.
9 Sul ritardo causato dall’anticipazione, cfr. Mauro Barberis, Europa del diritto. Sull’identità
giuridica europea, il Mulino, Bologna 2008, pp. 147-148. Anche nel Regno Unito, d’altra
parte, si comincia a parlare di Stato costituzionale: cfr. Nicholas W. Barber, The Constitutional
State, Oxford University Press, Oxford 2010.
10 Il termine «Brixit», con la i, fu coniato nel 2012 e poi modificato in «Brexit», con la e,
probabilmente per influenza di un altro evento poi non verificatosi: la Grexit, ossia l’uscita
della Grecia dall’euro, se non proprio dall’Europa.
11 È sempre rimasta isolata, cioè, l’opinione di John Austin, Delimitazione del campo della
giurisprudenza (1932), trad. it. il Mulino, Bologna 1995, p. 268, secondo cui sovrano non
sarebbe tanto l’istituzione Parlamento (formata da re, Lord e Comuni) quanto il corpo
elettorale che elegge la Camera bassa.
12 Si parla dei tre referendum indetti da Francia, Olanda e Irlanda sul progetto di
Costituzione europea, affossato dagli elettori per ragioni di politica interna e poi recuperato,
depotenziandolo, con il Trattato di Lisbona (2008).
13 Per la situazione Usa nel 2017, cfr. Cass R. Sunstein, #Republic. La democrazia nell’epoca
dei social media (2017), trad. it. il Mulino, Bologna 2017, specie p. 158.
14 Di cui si racconta che per il proprio giornale, di cui era corrispondente da Bruxelles,
avesse scritto due articoli, uno contro e uno a favore della Brexit, scegliendo il secondo solo in
extremis, per tagliare l’erba sotto i piedi di Cameron.
15 Il 17 luglio 2018 la Commissione elettorale britannica ha multato Vote leave,
l’organizzazione della campagna elettorale pro-Brexit, per aver aggirato il tetto di spesa,
fissato in sette milioni di sterline.
16 Espressione coniata da David Marquand, A Parliament for Europe, Jonathan Cape,
London 1979 per un problema specifico – il metodo di elezione del Parlamento europeo – ma
poi estesasi a ogni (pretesa) mancanza di democrazia della Ue.
17 Cfr. David Runciman, I deputati contro il popolo, in «Internazionale», 26/1031, 11 aprile
2019, p. 23, ma anche l’ambigua posizione del Labour di Jeremy Corbin, che crede di poter
cavalcare la tigre populista e ne viene continuamente disarcionato.
18 Cfr. Antonello Guerrera, Il popolo contro il popolo. Perché dopo la Brexit la democrazia e
l’Europa non saranno più le stesse, Rizzoli, Milano 2019, pp. 78-86. Molti di questi problemi,
in effetti, potrebbero essere risolti da un’Europa delle regioni «storiche» (Catalogna, Scozia,
Liguria), come quella immaginata da Andrea Acquarone, Una tranquilla ora d’Europa, De
Ferrari, Genova 2019.
19 «Non pensava di vincere le primarie. Non pensava di vincere le elezioni. La campagna per
lui era soltanto una opportunità di marketing»: così l’avvocato di Trump, Michael Cohen, nella
deposizione giurata resa a una commissione del Congresso (28 febbraio 2019),
https://www.ilfoglio.it/...
20 Carole Cadwalladr, Lo speech integrale al Ted (aprile 2019), https://www.agi.it/...
21 Ancora nel 2014 uno dei maggiori esperti mondiali del digitale accreditava una tendenza
dell’elettorato «verso il centro»: cfr. L. Floridi, La quarta rivoluzione, cit., p. 212.
22 Su populismo e ignoranza cfr. almeno Persio Tincani, La cultura come nemico, in
«Ragion pratica», 2018, 51, pp. 491-506.
23 Sui quali, naturalmente, insistono soprattutto i politologi: cfr. in particolare Steven
Levitsky, Daniel Ziblatt, Come muoiono le democrazie (2018), trad. it. Laterza, Roma-Bari
2019, pp. 24-43 (il capitolo 2, intitolato «Sentinelle in America»).
24 Cfr. Katharine Schwab, Graphic: Trump’s Tweet Can Be Reduced to Four Rhetorical
Strategies, https://www.fastcompany.com/...
25 Così Nathaniel Persily, The 2016 U.S. Election: Can Democracy Survive the Internet?, in
«Journal of Democracy», 28/2, 2017, p. 67.
26 L’ha confermato più volte il procuratore speciale Robert Mueller, incaricato dal
Congresso di indagare sulla vicenda. Cfr. almeno Luke Harding, Collusion. Come la Russia ha
aiutato Trump a conquistare la Casa Bianca (2017), trad. it. Mondadori, Milano 2017.
27 Cfr. Giovanni Ziccardi, Tecnologie per il potere. Come usare i social network in politica,
Raffaello Cortina, Milano 2019, pp. 211 ss.
28 Sul passaggio dal broadcasting al narrowcasting insiste Gloria Origgi, La democrazia
può sopravvivere a Facebook? Egualitarismo epistemico, vulnerabilità cognitiva e nuove
tecnologie, in «Ragion pratica», 51, 2018, specie p. 454, seguendo Sue Halpern, How he used
Facebook to win (2018), in «The New York Review of Books», 8 giugno 2017: le tecniche usate
da Cambridge Analytica trapiantano in politica le tecniche usate da Facebook per il commercio
digitale.
29 Cfr. S. Levitsky, D. Ziblatt, Come muoiono le democrazie, cit., pp. 149-153.
30 Così Donald Trump, Inaugural Address (20 gennaio 2017), ancora leggibile in
https://www.whitehouse.gov, trad. it. di chi scrive. Il discorso, scritto da Bannon e Stephen
Miller, fu commentato così dall’ex presidente George W. Bush: «Certo che ne ha detta di roba
strana» (cit. in David Runciman, Così finisce la democrazia. Paradossi, presente e futuro di
un’istituzione imperfetta (2018), trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 2019, p. 18).
31 Cfr. Trump v. Hawaii, decisa il 26 giugno 2018 e leggibile in
https://www.supremecourt.gov/...
32 Alludo qui alla totale Mobilmachung nazista: cfr. Ernst Jünger, La mobilitazione totale
(1930), trad. it. in Id., Scritti politici e di guerra, 1919-1933, Goriziana, Gorizia 2005.
33 Cfr. Francis Fukuyama, Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi (2018),
trad. it. Utet, Milano 2019, pp. 9 e 11, e Larry Diamond, Facing Up to the Democratic
Recession, in «Journal of Democracy», 26/1, 2015, pp 141-155.
34 Cfr. Giovanni Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero (2000), Laterza, Roma-
Bari 2007, ma prima ancora Bernard Manin, Principi del governo rappresentativo (1997),
trad. it. il Mulino, Bologna 2010, specie pp. 267-287.
35 Cfr. Alessandro Dal Lago, Clic. Grillo, Casaleggio e la demagogia elettronica, Cronopio,
Napoli 2013; Id., Populismo digitale, cit. Non coglie portata e limiti del populismo digitale,
come al solito, la letteratura politologica standard: cfr. sin dal titolo infelice Piergiorgio
Corbetta, Elisabetta Gualmini (a cura di), Il partito di Grillo, il Mulino, Bologna 2013.
36 Del primo è rappresentativo il cortometraggio Gaia, https://www.youtube.com/...; del
secondo, un’intervista al quotidiano «La Verità» (23 luglio 2018), dove si legge: «Oggi grazie
alla Rete e alle tecnologie, esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici
ed efficaci in termini di rappresentatività popolare di qualunque modello di governo
novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è inevitabile».
37 Così G. da Empoli, Gli ingegneri del caos, cit., p. 119.
38 Cfr. www.electionsmonitoringcenter.eu.
39 Così Manuel Anselmi, Fabio de Nardis, Italian Politics between Multipopulism and
Depoliticization, in «Revista Internacional de Sociología», 76/4, 2018, pp. 1-13. Ma c’è anche
chi parla di multiplebiscitarismo: cfr. Francesco Antonelli, Verso una democrazia
multiplebiscitaria?, in «Società, mutamento e politica», 2/3, 2011, pp. 153-168.
40 Cfr. M. Freeden, Ideology, cit. e, per la sua più nota applicazione al populismo, C. Mudde,
The Populist Zeitgeist, cit.; Id., On Extremism and Democracy in Europe, Routledge, London-
New York 2017; Id. e Cristóbal Rovira Kaltwasser, Populism: a Very Short Introduction,
Oxford University Press, Oxford 2017: il populismo sarebbe una thin ideology, atta a
combinarsi con ideologie più dense (thick), sia di destra sia di sinistra.
41 Cfr. già Gianpietro Mazzoleni, Anna Sfardini, Politica pop. Da Porta a porta a L’isola dei
famosi, il Mulino, Bologna 2009.
42 Cfr. sin dal titolo, M. Anselmi, F. De Nardis, Italian Politics between Multipopulism and
Depoliticization, cit., dove si insiste su due aspetti: gli elettori sono depoliticizzati e tutti e
quattro i partiti che si contendono i loro favori – Forza Italia, Lega, M5S, ma anche il Pd di
Matteo Renzi – sono considerati populisti.
43 Citazioni testuali impressionanti, tratte dai discorsi di Salvini, specie a Mosca, si trovano
in C. Gatti, I demoni di Salvini, cit.
44 Per i dettagli di questo autentico esperimento in corpore vivi (gli italiani) progettato da
Casaleggio senior, cfr. Jacopo Iacoboni, L’esperimento. Cinque Stelle da movimento a
governo, Laterza, Roma-Bari 2019, ma soprattutto Marco Morosini, Snaturati. Dalla social-
ecologia al populismo, Castelvecchi, Roma 2019.
45 Cfr. Nadia Urbinati, Liquid Parties, Dense Populism, in «Philosophy and Social
Criticism», 45, 2019, pp. 1069-1083.
46 Cfr. già – in una letteratura che cresce esponenzialmente – Gianpietro Mazzoleni,
Roberta Bracciale, Socially Mediated Populism: the Communicative Strategies of Political
Leaders on Facebook, 50, 2018, https://www.nature.com/...; Claes H. de Vreese et alii,
Populism as an Expression of Political Communication Content and Style: a New
Perspective, in «The International Journal of Press/Politics», 2018, 23/4, pp. 423-438.
47 Il post, del 9 dicembre 2018, è ancora in rete, su ilfattoquotidiano.it: s’intitola Salvini, tre
motivi per cui dovremmo smetterla di (s)parlare di lui. Il paragone fra Napoleone e i
condottieri asiatici si trovava invece in un articolo pubblicato da Constant il 19 marzo 2015 sul
«Journal des Débats», per contrastare il ritorno dell’imperatore dall’esilio all’Elba.
48 Cfr. paradigmaticamente C. Mudde, Cr. Rovira Kaltwasser, Exclusionary vs. Inclusionary
Populism, cit. Concependo il populismo come ideologia sottile, Mudde è quasi costretto a
pensare che esso dovrebbe coniugarsi con ideologie più dense, tanto di destra quanto di
sinistra.
49 Cfr. almeno Karl Popper, John Condry, Cattiva maestra televisione (1996), trad. it.
Donzelli, Roma 1996; B. Manin, Principi del governo rappresentativo, cit.; G. Sartori, Homo
videns, cit.
50 Cfr. ancora V. Martigny, Le Prince face à la foule, cit., p. 88: «Plus que jamais, la
politique est devenue une réalité parallèle […]. Elle est comme une série qu’ils [les citoyens]
regardent à la télévision: parfois ils adorent, parfois ils détestent».
51 Questa, temo, è la ragione del successo di lavori quali William Davies, Stati nervosi. Come
l’emozione ha conquistato il mondo (2018), trad. it. Einaudi, Torino 2018.
52 Cfr. George Lakoff, Non pensare all’elefante! Come riprendersi il discorso politico (2004,
2014), trad. it. Chiarelettere, Milano 2019, p. 59 (trad. it. modificata).
53 Cfr. già Erving Goffman, Frame Analysis. An Essay on the Organization of Experience,
Northeastern University Press, Evanston 1986.
54 Sugli stereotipi, specie sui loro impieghi giuridici, cfr. almeno Frederick Schauer, Di ogni
erba un fascio. Generalizzazioni, profili, stereotipi nel mondo della giustizia (2003), trad. it.
il Mulino, Bologna 2008.
Note al capitolo Il cavaliere oscuro. Euristiche
della (in)sicurezza
1 Il concetto era già presente nella teoria della bounded rationality di Herbert A. Simon: cfr.
Id., La ragione nelle vicende umane (1983), trad. it. il Mulino, Bologna 1984. Il nome, invece,
è stato coniato dagli psicologi cognitivi, o economisti comportamentali: cfr. Daniel Kahneman,
Amos Tversky, Paul Slovic (eds.), Judgment under Uncertainty: Heuristics & Biases,
Cambridge University Press, Cambridge (UK) 1982 e Gerd Gigerenzer, Decisioni intuitive.
Quando si sceglie senza pensarci troppo (2007), trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2009.
2 Ma anche dai giuristi più attenti alle scienze empiriche: cfr. F. Schauer, Di ogni erba un
fascio, cit.; Cass Sunstein, Il diritto della paura. Oltre il principio di precauzione (2003), trad.
it. il Mulino, Bologna 2010.
3 Cfr. G. Ziccardi, Tecnologie per il potere, cit., specie pp. 95-139.
4 Espressione che, a mia conoscenza, non esiste in altre lingue, e che fu coniata per la Lega
pre-Salvini da Marco Milani, Lega Nord. Gli imprenditori della paura, Smart Edizioni,
Verona 2013.
5 Nel film omonimo di Christopher Nolan (2008), la relazione sicurezza/insicurezza è
simbolizzata dal conflitto fra Cavaliere oscuro e Joker. Nel populismo digitale i due diventano
una persona sola, la quale crea l’insicurezza che poi pretende di risolvere.
6 Cfr. almeno Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale (1999), trad. it.
Feltrinelli, Milano 2000, pp. 24-26.
7 Sulle strategie di securizzazione (securitization) restano importanti i contributi della
Scuola di Copenaghen: cfr. Barry Buzan, Ole Waever, Jaap de Wilde, Security. A New
Framework of Analysis, Boulder, London 1998.
8 Che la sicurezza collettiva sia un’astrazione statistica è sostenuto in M. Barberis, Non c’è
sicurezza senza libertà, cit., ma criticato da Anna Pintore, Non c’è libertà senza sicurezza, in
«Ragion pratica», 50, 2018, pp. 99-124.
9 Cfr. Paul A. Samuelson, The Pure Theory of Public Expenditure, in «Review of Economics
and Statistics», 36/4, 1954, pp. 387-389.
10 Mauro Barberis, Insicurezza e stato costituzionale. Per una teoria del diritto impura, in
«Analisi e diritto», 1, 2018, pp. 9-30.
11 Cfr. C. Sunstein, #Republic, cit., p. 228.
12 Cfr. ad esempio Giorgio Agamben, The Security State and a Theory of Destituent Power,
https://philosophersforchange.org/...
13 Così Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, cit., p. 58.
14 In un testo introduttivo, Thomas Casadei, Oltre lo stato sociale? Il dibattito di lunga
durata sul «reddito di cittadinanza», in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero
giuridico moderno», 46, 2017, pp. 141-171, solo l’elenco dei nomi usati per indicare i diversi
strumenti occupa dodici righe di testo.
15 Una documentata presentazione del Rdc – che distingue la sua prima versione, proposta
nel 2013, e la seconda, approvata nel 2019 anche sulla base del reddito di inclusione del
governo precedente – è Massimo Baldini, Cristiano Gori, Il reddito di cittadinanza, in «il
Mulino», 2019/2, pp. 269-277.
16 Friedrich A. von Hayek, La via della schiavitù (1944; 1949), trad. it. Rubbettino, Soveria
Mannelli (Cz) 2011, specie p. 259, e Id., Legge, legislazione e libertà, cit., pp. 292-293.
17 Questa la caratterizzazione, come sempre azzeccata, che ne fa B.-C. Han, Psicopolitica,
cit., p. 45.
18 Cfr. Milton Friedman, Capitalismo e libertà (1962), trad. it. Ibl Libri, Torino 2010, p. 285:
il beneficiario «verserebbe un’imposta negativa, ossia riceverebbe un sussidio».
19 Ivi, pp. 285-286.
20 Ivi, pp. 287-289. Togliere ai pensionati il diritto di voto, impedendo loro di votare per
l’aumento delle pensioni, era suggerito da Albert V. Dicey, Diritto e opinione pubblica
nell’Inghilterra dell’Ottocento (1905), trad. it. il Mulino, Bologna 1997, specie p. 22,
nell’introduzione a una seconda edizione che commentava l’Old age pensions act (1909),
introdotto nel frattempo.
21 Così Philippe van Parijs, Il reddito di base. Un’utopia indispensabile, in «il Mulino»,
2018/1, pp. 173-179, a p. 174. Cfr. anche Id. e Yannick Vanderborght, Il reddito minimo
universale (2005), trad. it. Ube, Milano 2013, e soprattutto Idd., Il reddito di base: una
proposta radicale (2017), trad. it. il Mulino, Bologna 2017. Nella forma proposta dall’autore il
basic income ha avuto sinora un’unica applicazione, in Alaska e dopo la scoperta del petrolio
(1976), anche se è in corso una sua sperimentazione in Finlandia.
22 Così Ph. van Parijs, Il reddito di base, cit., p. 179.
23 Cfr. da ultimo Luigi Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, Roma-Bari 2018, pp.
218-246.
24 Che gli ideali di comunismo e liberismo in realtà coincidano è sostenuto da Enrico
Diciotti, Il mercato delle libertà, il Mulino, Bologna 2006.
25 Cfr. Riccardo Evangelista, Polanyi, Hayek e le aporie del reddito di cittadinanza (2017),
https://www.economiaepolitica.it/... Per la cronaca, i Chicago Boys della scuola di Friedman
sperimentarono le proprie ricette economiche nel Cile di Pinochet.
26 Ce ne sono varie versioni in rete; qui si è attinto a https://download.repubblica.it/...
27 Di fatto, gli unici articoli costituzionali citati sono i soliti artt. 77 e 87, che fissano requisiti
di necessità e urgenza qui del tutto assenti. Non si invoca, invece, l’art. 38 c. 2 Cost. it.: «I
lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di
vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria»
(corsivo nostro). Sino al Rdc, l’Italia era l’unico paese europeo, a parte la Grecia, a non
prevedere una misura del genere.
28 Cfr. Blaise Pascal, Pensieri (1670), trad. it. Einaudi, Torino 1967, pp. 150-151 e 157 (specie
la sezione 159, intitolata appunto Divertissement, distrazione). Circa l’intervento americano in
Iraq (2003), giustificato dall’amministrazione Bush con la fake news di armi nucleari
irachene, si è parlato di armi di distrazione di massa. Il Rdc appartiene allo stesso arsenale
propagandistico.
29 Cfr. Thomas Piketty, De l’inégalité en Europe, in Id. et alii, Une certaine idée de l’Europe,
Champs, Paris 2019, p. 112: «Pensez que l’Italie dépense chaque année 3% de son [Pil] pour
rembourser les intérêts de sa dette, et à peine le 0,5% pour l’ensemble de son système
d’enseignement supérieur».
30 Secondo le stime più moderate. Invece, contando tutti i morti delle guerre mediorientali
da allora a oggi, Edward Snowden, Errore di sistema (2019), trad. it. Longanesi, Milano 2019,
arriva a un milione di morti.
31 Sulla parabola che porta dai governi neoliberisti tardonovecenteschi ai populismi digitali
del nuovo millennio cfr. almeno, sin dai titoli, Sara Bentivegna, Politica e nuove tecnologie
della comunicazione, Laterza, Roma-Bari 2002; Id., Campagne elettorali in rete, Laterza,
Roma-Bari 2006; Id., A colpi di tweet, il Mulino, Bologna 2015.
32 Basti vedere la prefazione all’edizione italiana di Yascha Mounk, Popolo vs Democrazia,
trad. it. Feltrinelli, Milano 2018.
33 Constatazione evidentemente estranea a chi, come Lars F.H. Svendsen, Filosofia della
paura. Come e quando e perché la sicurezza è divenuta nemica della libertà (2017), trad. it.
Castelvecchi, Roma 2017, pensa che basterebbe rilassarsi.
34 Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, cit., p. 31: «In breve, al cuore della
biopolitica troviamo un desiderio forte e inestinguibile di sicurezza, ma agire in base a quel
desiderio rende maggiormente insicuri, e sempre più profondamente insicuri» (trad. it.
modificata).
35 G. Lakoff, Non pensare all’elefante!, cit., specie pp. 6-7: caso di scuola di frame che
determina la nostra percezione della realtà.
36 Espressione usata dai criminologi dagli anni Novanta del secolo scorso: cfr. almeno
Daniela Falcinelli, Manuel Anselmi, Stefano Anastasia, Populismo penale: una prospettiva
italiana, Cedam, Padova 2015.
37 Cfr. Giovanni Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, il Mulino, Bologna
2015.
38 Cfr. almeno Barbara Spinelli, Femminicidio: dalla denuncia sociale al riconoscimento
giuridico internazionale, Franco Angeli, Milano 2008.
39 Cfr. https://www.transparency.it/...
40 Il principale ma non l’unico: un altro must della propaganda leghista sono le rapine a
tabaccai e gioiellieri. La prossima riforma della legittima difesa – perché ce ne sarà
inevitabilmente una terza – permetterà forse a queste categorie di sparare anche ai clienti
importuni: che nel caso dei tabaccai sarebbe un ottimo rimedio contro il vizio del fumo.
41 Cfr. C.R. Sunstein, Il diritto della paura, cit., pp. 54-58.
42 Cfr. Carlo Ferruccio Ferrajoli, Rappresentanza politica e responsabilità. La crisi della
forma di governo parlamentare in Italia, Editoriale scientifica, Napoli 2018, specie pp. 553
ss.
43 Dinanzi a proposte come queste, però, l’unica risposta possibile non è indignarsi, come
fanno regolarmente gli oppositori di sinistra, ma battere una mano sulla spalla del
proponente, mostrando umana comprensione per i suoi problemi psichici.
44 Ottenne un Decreto dei pieni poteri (Ermächtigungsgesetz) Hitler il 24 marzo 1933. Cfr.
Claudio Cerasa, Che cosa significa dare i pieni poteri a Salvini, in «il Foglio», 19 agosto 2019.
45 Sul quale rinvio all’ormai classico Persio Tincani, Perché l’antiproibizionismo è logico (e
morale). Filosofia, diritto e libertà individuali, Sironi, Milano 2012.
46 Una buona introduzione a tutta questa tematica è Giuseppe Campesi, Le migrazioni in
Luigi Pannarale, Ivan Pupolizio, Giuseppe Campesi (a cura di), Sociologia del diritto, Le
Monnier, Firenze 2017, pp. 211-247. Ma sui profili geopolitici del problema cfr. Giovanni
Leghissa, Per la critica della ragione europea. Riflessioni sulla spiritualità illuminista,
Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 36-73.
47 Cfr. Wendy Brown, Stati murati, sovranità in declino (2010), trad. it. Laterza, Roma-Bari
2013, p. 13.
48 Sui muri israeliani cfr. la fondamentale Advisory Opinion della Corte internazionale di
giustizia intitolata Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied
Palestinian Territory, General List N. 131 (9 July 2004).
49 Cfr. G. da Empoli, Gli ingegneri del caos, cit., pp. 101 ss., in realtà dedicato meno a lui che
al suo spin doctor Finkelstein.
50 Anche se M. Lilla, Il naufragio della ragione, cit., p. 136, fa notare che, sin
dall’implosione della Iugoslavia e dalla caduta del Muro, si erano cominciate a tirare fuori dai
cassetti le vecchie mappe geografiche. Molti paesi dell’Est, come l’Ungheria, la Polonia,
l’Ucraina, la Russia, non hanno confini naturali: il che già spiega la loro passione per i muri.
51 Si noti però che, secondo dati Onu aggiornati al 2015, l’80 per cento di tutti i rifugiati è
ospitato in paesi in via di sviluppo: 3,9 milioni in Turchia, 1,5 milioni in Pakistan, 1,2 milioni
in Libano, un milione in Iran: cfr. United Nations, International Migration Report 2015.
Higlights, Department of Economic and Social Affairs, 2016.
52 Marcia che, sempre preterintenzionalmente, ne evoca altre: prima la deportazione turca
degli armeni, per la quale fu coniato il termine «genocidio», poi la marcia della morte
(Todesmärsche) da Auschwitz a Buchenwald raccontata da Elie Wiesel.
53 Per associazione, torna in mente Flavio Baroncelli, Il razzismo è una gaffe: eccessi e virtù
del politically correct, Donzelli, Roma 1996.
54 L’analogia fra muri, barriere, reticolati e simili, da un lato, e respingimenti in mare,
dall’altro, è tracciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in NT and NT vs. Spain (2017),
che si aggiunge a Xhavara and fifteen vs. Italy and Albania, Appl. n. 39473/98 (11 January
2001); M.S.S. vs Belgium and Greece [GC], Appl. n. 30696/09 (21 January 2011); Hirsi
Jamaa and Others vs. Italy, Appl. n. 27765/09 (23 February 2012); Sharifi and Others vs.
Italy and Greece, n. 16643/09 (21 October 2014). Ringrazio Alessio Sardo per avermi
segnalato tutte queste decisioni.
55 «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della
Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.»
56 Corte europea dei diritti dell’uomo, Hirsi Jamaa and Others vs. Italy, cit.
57 Cfr. M. Brigaglia, Potere, cit.: gli automatismi psicologici, amministrativi e disciplinari
«concorrono a rendere fortemente improbabile il rifiuto di militari e di agenti di pubblica
sicurezza di obbedire a ordini illegittimi».
58 Tar del Lazio, decisione del 14 agosto 2019. Si ha eccesso di potere quando un funzionario
va oltre ai poteri assegnatigli dalla legge per perseguire l’interesse pubblico, specie se si
giustifica con rappresentazioni degli eventi che li travisano.
59 È il caso del sequestro di 177 migranti sulla nave della marina italiana Diciotti, per un
ordine illegittimo, in base all’art. 605 c.p. e all’art. 13 Cost., da parte del ministro dell’Interno.
La messa in stato di accusa del ministro davanti al Tribunale dei ministri è stata poi insabbiata
da un voto del Parlamento, con l’apporto determinante del M5S.
60 Per un esempio di analisi – né di diritto nella letteratura, né di letteratura nel diritto,
bensì – del diritto come letteratura, cfr. già Mauro Barberis, La musa dei decreti, in «il
Mulino», 2009/1, pp. 30-38.
61 Cfr. ancora G. da Empoli, Gli ingegneri del caos, cit., p. 111: il termine magiaro per
«migranti» è bevándorló.
62 È la tecnica della novellazione. Quasi ogni disposizione del decreto è formulata come l’art.
1, sui permessi di soggiorno per motivi umanitari, quando ad esempio recita: «All’art. 18 bis
[del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286] 1) al comma 1 le parole “ai sensi dell’articolo 5,
comma 6” sono soppresse».
63 Cfr. Alain de Benoist, Populismo. La fine della destra e della sinistra (2017), trad. it.
Arianna, Bologna 2017, p. 130, che accoglie i vaneggiamenti di Jean-Claude Michéa, Le
Complexe d’Orphée: la gauche, les gens ordinaires et la religion du progrès, Flammarion,
Paris 2011, p. 142.
64 Sulle teorie del complotto cfr. almeno Cass R. Sunstein, Adrian Vermeule, Conspiracy
Theories, http://ssrn.com/...
65 Così Ugo De Siervo, Testo sgangherato ma ha fatto bene a promulgarlo [titolo
redazionale], «la Repubblica», 9 agosto 2019, p. 13.
66 L’elenco dei soggetti ai quali si estenderebbe un provvedimento formulato così
genericamente produce effetti allucinatori: cfr. Concetto Vecchio, Mattarella: «Salvare vite è
un dovere, modificate il decreto sicurezza», «la Repubblica», 9 agosto 2019, p. 13.
67 Sulla derazionalizzazione degli attori politici cfr. almeno G. Giacomini, Psicodemocrazia,
cit., pp. 75 ss.
68 G. da Empoli, Gli ingegneri del caos, cit., pp. 22-23 (dove il soggetto della frase, però,
non è l’insicurezza ma quello che lui chiama «il carnevale contemporaneo»).
Note al capitolo La scatola delle meraviglie. Tre
spiegazioni del populismo
1 Cfr. Jared Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (2005), trad. it.
Einaudi, Torino 2005 e, da una prospettiva istituzionale, Daron Acemoglu, James A.
Robinson, Perché le nazioni falliscono. Le origini di prosperità, potenza e povertà (2012),
trad. it. il Saggiatore, Milano 2013.
2 Uso appositamente «dispositivi» nel genericissimo senso foucaultiano, sul quale cfr.
almeno Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Milano 2006.
3 Cfr. Laurent Alexandre, Jean-François Copé, L’intelligence artificielle va-t-elle aussi tuer
la démocratie?, Lattès, Paris 2019 e D. Runciman, Così finisce la democrazia, cit.: che però,
nonostante i titoli, sostengono tesi molto lontane da quelle difese nel presente libro.
4 Nell’enorme letteratura su questo tema, segnalo solo due libri italiani recenti: Mariano
Croce, Che cos’è un’istituzione, Carocci, Roma 2010, nonché Francesco Guala, Pensare le
istituzioni. Scienza e filosofia del vivere insieme, Luiss University Press, Roma 2018. Sulle
istituzioni come rimedi all’irrazionalità cfr. ancora Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci
(2011), Mondadori, Milano 2012, p. 565 e Mary Douglas, Come pensano le istituzioni (1984),
trad. it. il Mulino, Bologna 1990, p. 84. Su democrazia e razionalità cfr. anche Gilberto
Corbellini, Scienza, quindi democrazia, Einaudi, Torino 2011.
5 Sulla razionalità in generale, rinvio ancora a: H.A. Simon, La ragione nelle vicende
umane, cit.; Jon Elster, Come si studia la società. Una «cassetta degli attrezzi» per le scienze
sociali (1989), trad. it. il Mulino, Bologna 1993; Robert Nozick, La natura della razionalità
(1993), trad. it. Feltrinelli, Milano 1995.
6 Cfr. il Secondo emendamento della Costituzione statunitense: «Essendo necessaria, per la
sicurezza di uno Stato libero, una Milizia ben organizzata, non sarà violato il diritto del popolo
di tenere e portare armi». Qui «popolo» significa evidentemente popolo, non ogni singolo
individuo. Eppure, dopo ogni strage nelle scuole, appellandosi a un’interpretazione della
disposizione ricalcata sui sondaggi, i presidenti repubblicani sino a Trump, e la stessa Corte
suprema, attraverso la sentenza Heller (2008), difendono il libero commercio delle armi.
7 Riprendo qui temi già trattati in Mauro Barberis, Santi Romano e le metamorfosi
dell’istituzionalismo, in «Lo Stato», 9/2017, pp. 243-260, e Id, Dopo Romano. Istituzioni,
razionalità, populismo, in «Jura Gentium», XV/2, 2018, pp. 129-142.
8 John Finnis, Legge naturale e diritti naturali (1980; 1992), trad. it. Giappichelli, Torino
1997, pp. 94-98.
9 Per questa distinzione, cfr. Robert K. Merton, Manifest and Latent Functions (1945), in
Id., Social Theory and Social Structure, Free Press, New York 1957, pp. 9-75; sul play in
generale cfr. Johan Huizinga, Homo ludens (1938), trad. it. il Saggiatore, Milano 1983.
10 Cfr. A. Marturano, Etica dei media, cit., specie pp. 88 ss. e, sulla stessa nozione di
umanità, Bernard Williams, Comprendere l’umanità (1995), trad. it. parz. il Mulino, Bologna
2006.
11 Lo spin doctor di Trump, poi autoelettosi missionario dell’ultradestra europea, Bannon,
inizia a Hong Kong proprio come produttore di videogame violenti e misogini, così capendo
l’importanza delle comunità virtuali: cfr. G. da Empoli, Gli ingegneri del caos, cit., pp. 80 ss.
12 Non però nel senso di Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dèi (2011), trad. it.
Giunti, Milano 2019, pp. 502 ss., che ipotizza l’innesto, su membri dell’élite, di dispositivi
digitali i quali ne farebbero una razza a parte. Le conseguenze dell’uso dei social sono altre:
incapacità di capire semplici frasi in italiano, difficoltà di apprendimento, credulità infinita.
13 Cfr. almeno Raymond Boudon, Effetti «perversi» dell’azione sociale, cit., e prima ancora
Mancur Olson, La logica dell’azione collettiva (1965), trad. it. Feltrinelli, Milano 1990.
14 Cfr. in particolare Neil McCormick, Ota Weinberger, Il diritto come istituzione (1985;
1986), trad. it. Giuffrè, Milano 1990.
15 Riprendo quest’idea da F. Guala, Pensare le istituzioni, cit., che però ignora trattarsi di
un’idea comune nell’istituzionalismo giuridico, per esempio in Santi Romano.
16 La teoria dei giochi è una disciplina matematica che studia vari tipi di azione strategica,
ossia assunta in considerazione dell’azione altrui. Codificata da John von Neumann e Oskar
Morgenstern nel loro Theory of Games and Economic Behaviour, Princeton University Press,
Princeton 1944, ha avuto una fioritura in considerazione delle sue applicazioni economiche e
militari: cfr. Thomas C. Schelling, La strategia del conflitto (1960), trad. it. Bruno Mondadori,
Milano 2006.
17 Questa è la grande intuizione dell’Illuminismo scozzese (Smith, David Hume) e poi della
Scuola austriaca di economia (Karl Menger, Hayek): cfr. la mia voce Evolutionist
Jurisprudence, in corso di stampa per l’Enciclopedia dell’Ivr, l’associazione mondiale dei
filosofi del diritto.
18 I primi nomi che vengono in mente sono quelli di Austin, Kelsen, Herbert Hart, per non
parlare di tutto il filone istituzionalista, dall’italiano Romano allo scozzese MacCormick.
19 Cfr. Mauro Barberis, Contro il creazionismo giuridico. Il precedente giudiziario fra
storia e teoria, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», xliv,
2015, pp. 67-102.
20 Questa distinzione, che qui complico un po’, è tracciata. da D. Acemoglu, J.A. Robinson,
Perché le nazioni falliscono, cit., specie pp. 91 ss.
21 Cfr. Georges Dumézil, L’ideologia tripartita degli indoeuropei (1958), trad. it. il Cerchio,
Rimini, 2003; Émile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee (1969), trad. it.
Einaudi, Torino 1976, vol. I, pp. 215 ss.; Louis Dumont, Homo hierarchicus. Il sistema delle
caste e le sue implicazioni (1966), trad. it. Adelphi, Milano 1991.
22 Resto infatti dell’idea, sostenuta in M. Barberis, Europa del diritto, cit., che il diritto (ius,
law, Recht…), autonomo dalla religione, dalla morale e dalla politica, sia un’istituzione
originariamente occidentale.
23 Per questa riformulazione e semplificazione di Herbert L.A. Hart, Il concetto di diritto
(1961), trad. it. Einaudi, Torino 1965, devo rinviare a M. Barberis, Una filosofia del diritto per
lo stato costituzionale, cit., pp. 118-125.
24 Gli autori che più hanno contribuito a fare di questa teoria della differenziazione,
razionalizzazione e positivizzazione del diritto un autentico luogo comune sono Max Weber e
Niklas Luhmann.
25 Tra i vari aderenti a questo indirizzo di ricerca, alcuni dei quali premiati con il Nobel per
l’economia, occorre ricordare almeno Kahneman, Richard Thaler, Tversky e lo stesso
Sunstein, giurista che ha impiegato questo approccio nello studio dei media e del populismo
digitale.
26 Su inganno e autoinganno cfr. almeno Robert Trivers, La follia degli stolti. La logica
dell’inganno e dell’autoinganno nella vita umana (2011), trad. it. Einaudi, Torino 2013.
27 Cfr. ancora D. Kahneman, Pensieri lenti e veloci, cit., che sin dal titolo caratterizza il
Sistema1 come pensiero veloce, il 2 come pensiero lento.
28 Cfr. Telmo Pievani, Imperfezione, Raffaello Cortina, Milano 2019, pp. 174-175, che critica
evoluzionisti razionalisti (un ossimoro, anche secondo me) come Daniel Dennett.
29 Così P. Graziano, Neopopulismi, cit., p. 147, dove «facilitante» è addirittura usato fra
virgolette, e soprattutto Y. Mény, Popolo ma non troppo, cit., p. 175, che certo non sottovaluta
il fenomeno. Anzi, poco dopo, a p. 177, afferma che per colpa di internet «l’umanità può
sprofondare nell’abiezione».
30 «Macchina del fango» è la traduzione italiana, eufemistica, dell’inglese shit storm
(tempesta di merda): cfr. Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale (2014), trad. it.
Nottetempo, Milano 2016, pp. 13 ss.
31 Cfr., in termini di filter bubbles, Eli Pariser, Il filtro. Quello che internet ci nasconde
(2011), trad. it il Saggiatore, Milano 2012: libro che ha ricevuto molte smentite, ma nessuna
falsificazione scientifica. In termini di echo chambers, invece, cfr. Pablo Barberá et alii,
Tweeting from Left to Right: Is Online Political Communication More than an Echo
Chamber?, in «Psychological Science», 26/10, 2015, pp. 1531-1542.
32 Cfr. J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, cit., p. 232: «Riconoscere la
validità relativa delle proprie convinzioni e tuttavia combattere inflessibilmente per esse, è ciò
che distingue l’uomo civile dal barbaro».
33 Cfr. Dan M. Kahan et alii, Motivated Numeracy and Enlightened Self-Government
(2013), in https://papers.ssrn.com/...
34 Cfr. Solomon E. Asch, Social Psychology, Prentice-Hall, New York, 1952, pp. 457-458,
esperimento poi ricontrollato con la risonanza magnetica da Gregory S. Berns et alii,
Neurobiological Correlates of Social Conformity and Independence during Mental Rotation,
in «Biological Psychiatry», 58/3, 2005, pp. 245-253.
35 I dati sono tratti da John Mueller, Mark G. Stewart, Terror, Security and Money:
Balancing the Risks, Benefits, and Costs of Homeland Security, Oxford University Press, New
York 2011.
36 Cfr. già Daniel Kahneman, Amos Tversky, Scelte, valori e frame (1984), trad. it. in D.
Kahneman, Pensieri lenti e veloci, cit., pp. 595-621.
37 Espressione coniata dal classico Vance Packard, I persuasori occulti (1957), trad. it.
Einaudi, Torino 2005.
38 Cfr. G. Lakoff, Non pensare all’elefante!, cit., p. 96.
39 Cfr. Adriano Fabris, Etica della comunicazione, cit., p. 108, e soprattutto L. Floridi, La
quarta rivoluzione, cit., specie pp. 47 ss., cui si deve il conio dell’espressione «onlife».
40 Così A. Fabris, Etica della comunicazione, cit., p. 107.
41 «Fraternità fra estranei» evoca Jürgen Habermas, Solidarietà fra estranei: interventi su
Fatti e norme (1997), Guerini, Milano 1997, ma suggerendo che sui social questa si polarizza in
fraternità con gli amici e ostilità o indifferenza verso tutti gli altri.
42 Il datismo è stato sostenuto da Chris Anderson, The End of Theory: the Data Deluge
Makes the Scientific Method Obsolete, https://www.wired.com/... Contro queste posizioni ha
buon gioco L. Floridi, La quarta rivoluzione, cit., p. 17, a osservare che: «Non si fa scienza
semplicemente accumulando dati».
43 Cfr. Y. Mény, Popolo ma non troppo, cit., specie pp. 164-179.
44 Cfr. Raymond Boudon, Homo Sociologicus: neither a Rational nor an Irrational Idiot
(2006), https://papers.uab.cat/..., da cui riprendo lo schema tripartito, che però riempio
diversamente, assimilando Homo sociologicus e Homo psychologicus e aggiungendo Homo
mediaticus. Ma cfr. anche, più vicino al tema, Y. Mounk, Popolo vs. democrazia, cit., p. 166.
45 Contro l’iperrazionalismo (la pretesa di spiegare tutto razionalmente, attribuendo
motivazioni razionali agli agenti sociali), cfr. Jonathan Haidt, The Emotional Dog and Its
Rational Tail, in «Psychological Review», 8/4, pp. 814-834, la cui segnalazione devo a Julieta
A. Rábanos.
46 Cfr. M. Lilla, Il naufragio della ragione, cit., p. 41, che scrive, ironicamente: «Gli storici
che forniscono “spiegazioni pluricausali” […] non durano, mentre quelli che scoprono la
sorgente nascosta di tutto sono imitati e attaccati ma mai dimenticati».
47 Cfr. almeno Giovanni Leghissa, Neoliberalismo. Un’introduzione critica, Mimesis,
Milano-Udine 2012, pp. 95-115, specie p. 103.
48 Cfr. ancora Milton Friedman, La metodologia dell’economia positiva (1953), in Id.,
Metodo, consumo e moneta, trad. it. il Mulino, Bologna 1996, specie pp. 93-136. Famose
critiche a questi dogmi economici sono Kenneth J. Arrow, A Difficulty in the Concept of Social
Welfare, in «Journal of Political Economy», 58, 1959, pp. 328-356, e Amartya K. Sen, The
Impossibility of a Paretian Liberal, in «Journal of Political Economy», 78, 1970, pp. 152-157.
49 Cfr. T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, cit. e Amartya K. Sen, La disuguaglianza. Un
riesame critico (1994), trad. it. il Mulino, Bologna 2010.
50 Cfr. almeno Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi,
Torino 2011.
51 Si tratta dell’ideologia, criticata prima dai movimenti No global o altermondialisti, e oggi
da quelli populisti e sovranisti per cui, per dirla con la Thatcher, «there is no alternative»
(riassunto dall’acrostico Tina) alla globalizzazione neoliberista.
52 Cfr. Ronald F. Inglehart, Pippa Norris, Trump, Brexit and the Rise of Populism:
Economic Have-Nots and Cultural Backlash, Faculty Research Working Papers, Harvard
2016, https://formiche.net/..., discusso da M. Anselmi, Populismo, cit., pp. 89-93.
53 Cfr. Antonio Nicita, La guerra dei dati. La sfida di una regolazione efficace per le Big
Tech ci obbliga a rivedere i nostri concetti di privacy e libero mercato, in «Left Wing»,
numero monografico su «L’algoritmo dell’antipolitica», 2019, specie pp. 14-15 (articolo
reperibile anche sul sito della rivista).
54 Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico (1887), trad. it.
Adelphi, Milano 1964, p. 26.
55 Così Isaiah Berlin, Due concetti di libertà (1958; 1969), trad. it. Feltrinelli, Milano 1989,
p. 58. Da un’altra prospettiva cfr. ora Axel Honneth, Riconoscimento. Storia di un’idea
europea (2018), trad. it. Feltrinelli, Milano 2019.
56 Francis Fukuyama, Fine della storia (1992), trad. it. Rizzoli, Milano 1992.
57 Id., Identità, cit.
58 Cfr. Platone, La Repubblica, trad. it. Rizzoli, Milano 1981, vol. I, specie p. 152: «Come
nella città si comprendevano insieme tre classi, degli artigiani, dei guerrieri e dei filosofi, così
anche nell’anima v’è questo terzo elemento, l’irascibile (gr. ant. thumoidés), ausiliario per
natura del razionale, purché non sia viziato da cattiva educazione» (trad. it. modificata).
59 Y. Mounk, Popolo vs. Democrazia, cit., pp. 146-148, che peraltro adduce questi studi
come prova a favore della spiegazione economica.
60 La dichiarazione pubblica è citata da G. da Empoli, Gli ingegneri del caos, cit., pp. 72-73.
61 Cfr. Giovanni Ziccardi, L’odio online, Raffaello Cortina, Milano 2016.
62 Cfr. G. da Empoli, Gli ingegneri del caos, cit., pp. 69-70.
63 Cfr. G. Mazzoleni et alii, The Media and Neo-populism, cit. Un quadro molto più
aggiornato – il libro appena citato risale al 2003, all’epoca della videocrazia – si trova in
Benjamin Moffitt, Populism and Media in Western Europe, in Carlos de la Torre (ed.),
Handbook of Global Populism, cit., pp. 235-248.
64 Cfr. Bernard Manin, Principi del governo rappresentativo, cit., specie la postfazione «La
democrazia del pubblico rivisitata» (2010), pp. 267-287.
65 Cfr. già Andrew Chadwick, The Hybrid Media System: Politics and Power (2013), Oxford
University Press, Oxford 2017.
66 Così Roberto Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi, Milano 2017, p. 77.
67 Cfr. entrambi i libri di G. Giacomini, Psicodemocrazia, cit. e Potere digitale, cit.,
caratterizzati entrambi dal poco o punto uso del termine «populismo».
68 R. Calasso, L’innominabile attuale, cit., p. 77, che estende il fenomeno all’illusione della
democrazia diretta, derivante non «da una riflessione politica, ma dall’infatuazione
informatica».
69 Così B.-C. Han, Nello sciame, cit.
70 L’idea, risalente a Smith, secondo cui a determinare l’andamento dell’economia è la
domanda, non l’offerta, il consumatore e non il produttore: cfr., a favore, Bruno Leoni, La
sovranità del consumatore, Ideazione, Milano 1997, contro C. Sunstein, #Republic. La
democrazia nell’epoca dei social media, cit.
71 Cfr. ancora C. Sunstein, #Republic, cit., specie pp. 79-126; Sven Engesser et alii, Populism
and Social Media: How Politicians Spread a Fragmented Ideology, in «Information,
Communication & Society», 20/8, 2017, pp. 1109-1126; Damiano Palano, La democrazia alla
fine del «pubblico». Sfiducia, frammentazione, polarizzazione: verso una «bubble
democracy»?, in «Governare la paura», numero monografico sul populismo, aprile 2019, pp.
35-92.
72 Cfr. Jan H. Pierskalla, Florian M. Hollenbach, Technology and Collective Action: the
Effect of Cell-Phone Coverage on Political Violence in Africa, in «American Political Science
Review», 107/2, 3013, pp. 207-224.
73 Cfr., fra i tanti, Y. Mounk, Popolo vs democrazia, cit., specie pp. 130-140.
74 Che il populismo sia l’altra faccia della depoliticizzazione è sostenuto, per il caso italiano,
da M. Anselmi, F. de Nardis, Italian Politics between Multipopulism and Depoliticization, cit.
Come sempre, però, il caso italiano si presta a essere generalizzato.
Note al capitolo Dal populismo digitale si
guarisce? Tre possibili rimedi
1 Beninteso, nei termini dello schema evoluzionistico (post)darwiniano blind
variation/selective retention: cfr. almeno T. Pievani, Imperfezione, cit.
2 Cfr. ancora N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., p. 71 (I.4).
3 G. Orsina, La democrazia del narcisismo, cit.
4 Cfr. Christian Rocca, Chiudete internet. Una modesta proposta, Marsilio, Venezia 2019,
pp. 9-10: «L’intrattenimento è uno strumento di controllo sociale più efficiente della
coercizione».
5 È il potere con la minuscola, distinto dal Potere con la maiuscola e studiato
dall’ultimissimo Foucault: cfr. M. Brigaglia, Potere, cit. Che poi anche Potere e potere siano
sistemi di comunicazione interconnessi è noto: cfr. almeno Niklas Luhmann, Sistemi sociali.
Fondamenti di una teoria generale (1984), trad. it. il Mulino, Bologna 2001, e Manuel
Castells, Comunicazione e potere (2009), trad. it. Università Bocconi Editore, Milano 2009.
6 Cfr. Andrea Simoncini, Samir Suweis, Il cambio di paradigma nell’intelligenza artificiale
e il suo impatto sul diritto costituzionale, in «Rivista di filosofia del diritto», 8/1, 2019, pp. 87-
106, e soprattutto Andrea Simoncini, L’algoritmo incostituzionale, in «Bio-Law Journal-
Rivista di Bio-Diritto», 1, 2019, pp. 63-89.
7 Alludo a Jean Starobinski, Il rimedio nel male. Critica e legittimazione dell’artificio
nell’età dei lumi (1989), trad. it. Einaudi, Torino 1990, dedicato al nume tutelare della
democrazia diretta, Jean-Jacques Rousseau.
8 Cfr. G. Lakoff, Non pensare all’elefante!, cit., pp. 187 ss.; S. Levitsky, D. Ziblatt, Come
muoiono le democrazie, cit., pp. 201 ss.; Y. Mounk, Popolo vs democrazia, cit., pp. 167 ss.; J.
Brennan, Contro la democrazia, cit., in cui i rimedi «epistocratici» si concentrano verso la
fine.
9 Così ancora Y. Mounk, Popolo vs Democrazia, cit., p. 214.
10 Cfr. il classico Alexander Bickel, The Least Dangerous Branch: the Supreme Court at the
Bar of Politics, The Bobbs-Merrill Co. Inc., New York 1962, dedicato appunto a quella che
ormai tutti chiamano counter-majoritarian difficulty.
11 Nota Y. Mounk, Popolo vs. Democrazia, cit., p. 229: «La democrazia ateniese durò due
secoli circa. I romani si autogovernarono per quasi cinque secoli. La Repubblica di Venezia
rimase Serenissima per più di un millennio». E molte di queste non erano neppure
democrazie, ma aristocrazie.
12 Cfr. almeno Charles H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno (1947), trad. it. il
Mulino, Bologna 1990.
13 Cfr. almeno Li-Ann Thio, Constitutionalism in Illiberal Polities, in Michel Rosenfeld,
András Sajó (eds.), The Oxford Handbook of Comparative Constitutional Law, Oxford
University Press, Oxford 2012, pp. 133-152; Paul Blokker, Populist Constitutionalism, in C. de
la Torre (ed.), Routledge Handbook of Global Populism, cit., pp. 113-128; Gábor Halmay,
Dismantling Constitutional Review in Hungary, in «Rivista di diritti comparati», 2019/1, pp.
31-47.
14 Cfr. almeno Mark Tushnet, Taking the Constitution Away from the Courts, Princeton
University Press, Princeton 2000; Larry D. Kramer, The People Themselves: Popular
Constitutionalism and Judicial Review, Oxford University Press, Oxford 2004 e, per una
ricostruzione, Lucia Corso, Populismi, limiti al potere e giudici costituzionali. Una lezione
americana, in «Ragion pratica», 52, 2019, pp. 211-232.
15 Sull’antipolitica cfr. ancora G. Orsina, La democrazia del narcisismo, cit., e soprattutto
Mark Lilla, L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica, Marsilio, Venezia 2018, specie pp.
31-63.
16 Cit. in Sabino Cassese, Ma Di Maio non lo sa, in «Corriere della Sera», 11 ottobre 2018, p.
1.
17 Cfr. Michael Walzer, Sfere di giustizia (1983), trad. it. Feltrinelli, Milano 1987, p. 15:
«Ogni ordinamento politico impone, e ogni ideologia giustifica, una diversa distribuzione
dell’appartenenza, del potere, dell’onore, dell’eminenza rituale, della grazia divina, della
parentela e dell’amore, della conoscenza, della ricchezza, della sicurezza personale, del lavoro
e del tempo libero, delle ricompense e delle punizioni».
18 Cfr. J. Diamond, Collasso, cit., pp. 85-130.
19 Cfr. Giandomenico Majone, Europe as a Would-be World Power. The Eu at Fifty,
Cambridge University Press, Cambridge 2009, p. 167: «La delega di poteri a istituzioni che
non sono responsabili nei confronti degli elettori o dei loro rappresentanti eletti, come le
banche centrali indipendenti e le autorità di regolazione, è un aspetto significativo della
governance […] di tutte le democrazie contemporanee».
20 Così J. Brennan, Contro la democrazia, cit.: per il quale la democrazia, intesa come mera
regola di maggioranza, funziona peggio della tecnocrazia, da lui chiamata epistocrazia.
21 Cfr. D. Acemoglu, J.A. Robinson, Perché le nazioni falliscono, cit., pp. 195 ss.
22 D. Acemoglu, J.A. Robinson, Perché le nazioni falliscono, cit., pp. 448 ss., applicando la
loro teoria della dipendenza delle istituzioni economiche da quelle politiche, ritengono che la
crescita della Cina e della Russia finirà, se i cinesi e i russi non si daranno istituzioni
democratiche. Né l’una né l’altra, però, hanno mai avuto istituzioni di questo tipo.
23 Andrew Moravcsik, The Myth of Europe’s «Democratic Deficit», in «Intereconomics:
Journal of European Public Policy», 2008, pp. 331-340.
24 Qui il riferimento obbligato è Antonio La Spina, Giandomenico Majone, Lo Stato
regolatore, il Mulino, Bologna 2000.
25 A. Moravcsik, The Myth of Europe’s «Democratic Deficit», cit., p. 336: «Even if Eu
institutions are open, democratic, and procedurally fair, they [gli euroscettici] protest,
Europe is widely perceived as being democratically illegitimate».
26 Cfr. Thomas Piketty et alii, Changer l’Europe, c’est possible!, Points, Paris 2019, e T.
Piketty, De l’inégalité en Europe, in Id. et alii, Une certaine idée de l’Europe, cit., pp. 81-122.
27 Cfr. Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi
tredicimila anni (1997), trad. it. Einaudi, Torino 1998, pp. 48 ss., e D. Acemoglu, R.J.
Robinson, Perché le nazioni falliscono, cit.
28 Riccardo Luna, Obama ora batte anche la popstar. Twitter ha un nuovo re, in «la
Repubblica», 7 agosto 2019, p. 15.
29 Così M. Lilla, L’identità non è di sinistra, cit., pp. 24-25, che a p. 19 (trad. it. modificata)
cita questa frase di Lincoln: «Il sentimento pubblico è tutto. Con il suo favore, niente può
fallire; contro il suo favore, niente può riuscire. Chi plasma il sentimento pubblico agisce più
in profondità di chi applica le leggi o scrive le sentenze».
30 Cfr. Gilberto Corbellini, Nel paese della pseudoscienza. Perché i pregiudizi minano la
nostra libertà, Feltrinelli, Milano 2019, p. 151: «Le procedure di fact-checking sono in gran
parte inefficaci».
31 Sulla teoria di Polibio del ciclo politico demokratia – tirannide – aristocrazia, destinato a
ricominciare sempre da capo, cfr. M. Bovero, Contro il governo dei peggiori, cit., pp. 131 ss.
32 Cfr. S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, cit., ma anche B.-C. Han, Psicopolitica,
cit.
33 Cfr. A. Fabris, Etica della comunicazione, cit., pp. 106-117, sulla netiquette, sorta di
galateo digitale: i populisti ignorano spesso anche le leggi, figurarsi il galateo.
34 Il riferimento è a due dei contributi migliori, rispettivamente Ch. Rocca, Chiudete
internet, cit., e Giovanni Ziccardi, La soluzione c’è: si chiama censura, in «il Mulino», 2017/2,
pp. 226-234.
35 Così Andrea Simoncini, Sovranità e potere nell’era digitale, in Tommaso E. Frosini et alii
(a cura di), Diritti e libertà in internet, Le Monnier, Firenze 2017, pp. 19-38.
36 Cfr. ad esempio Julian Assange, Internet è il nemico. Conversazione con Jacob
Appelbaum, Andy Müller-Maguhn e Jérémie Zimmermann (2012), trad. it. Feltrinelli,
Milano 2013, p. 87.
37 Cfr. Press Association, Mark Zuckerberg calls for stronger regulation of internet, in
«The Guardian», 30 marzo 2019. Sulle ragioni che lo hanno spinto a compiere questa mossa,
cfr. L. Ciarrocca, L’affaire Soros, cit., pp. 220-232.
38 Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, Regolamento generale sulla protezione
dei dati, n. 679/2016.
39 Primo emendamento: «Il Congresso non potrà fare alcuna legge che stabilisca una
religione di Stato o che proibisca il libero esercizio di una religione; o che limiti la libertà di
parola o di stampa […]». Art. 10 Cedu: «Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale
diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee
senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.
Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le
imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive».
40 Questa formulazione in termini di pre-condizioni liberali della democrazia, anche intesa
come regola di maggioranza, si deve a N. Bobbio, Teoria generale della politica, cit., pp. 370
ss., ma credo che Sunstein e molti altri sarebbero ampiamente disposti ad accettarla.
41 Per uno schema dei rapporti fra le tre grandi famiglie del liberalismo odierno –
libertariansm, (neo-)liberismo e liberalism – mi permetto di rinviare a Mauro Barberis, Etica
per giuristi, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 88-93.
42 Cfr. Richard Sennett, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, trad. it. il
Mulino, Bologna 2004, pp. 125-126: «Il popolo deve avere fiducia nei suoi governanti; se ha
fiducia, accorda loro una libertà di azione senza sentire bisogno di consultazioni, monitoraggi
o supervisioni».
43 John Perry Barlow, Declaration of Independence of Cyberspace (1996),
http://www.erf.org/...
44 Su Snowden, cfr. almeno Glenn Greenwald, No Place to Hide. Sotto controllo (2014),
trad. it., Rizzoli, Milano 2016. Su Assange, cfr. lo stesso J. Assange, Internet è il nemico, cit.
Manca un lavoro di riferimento sull’eroina meno discutibile, la Manning nata Bradley.
45 Cfr. già Karl Polanyi, La grande trasformazione. Le origini politiche ed economiche della
nostra epoca (1944), trad. it. Einaudi, Torino 2000.
46 Cfr. Internet Regulation (2006), voce di «Encyclopedia.com»,
https://www.encyclopedia.com/...
47 Così Amartya Sen, Povertà e carestie (1981), trad. it. Comunità, Milano 1997.
48 Le due cose sono collegate. L’Ucraina commemora l’Holomodor come un autentico
genocidio, mentre russi, filo-russi e neo-nazisti minimizzano. All’Holomodor è dedicato un
film proiettato anche in Italia, Raccolto amaro (2017), del regista canadese di origine ucraina
George Mendeluk.
49 Sulla frequenza, si direbbe la normalità del genocidio nella storia umana, impressionante
è Jared Diamond, Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo Sapiens (1991), trad.
it. Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 341-375: specie le due ultime pagine, con le citazioni
dei presidenti statunitensi tranquillamente favorevoli al genocidio dei nativi americani.
50 Sulle diverse modalità di intervento, cfr. G. Ziccardi, L’odio online, cit., specie pp. 87 ss.,
che peraltro non ha potuto tener conto dei recenti interventi di Facebook, ad esempio per
chiudere i siti di gruppi neonazisti italiani come Forza Nuova e CasaPound. Intervento
opportuno ma che, avendo ormai Facebook tre miliardi di profili, non dovrebbe essere preso
da un’azienda privata bensì dal giudice, a tutela della libertà di espressione.
51 Cfr. J. Assange, Internet è il nemico, cit., p. 75: «I pretesti che usano ogni giorno i politici
attraverso i media. “Moriremo tutti a causa del terrorismo? Allora ci serve un Patriot Act.” “I
pedofili e la pornografia infantile sono ovunque.” “Internet pullula di pedonazi, perciò ci serve
la censura”».
52 Che la trasparenza sia il mito più equivoco dell’era digitale è sostenuto sin dal titolo da B.-
C. Han, La società della trasparenza, cit.
53 Cfr. Axel Gelfert, Fake News: a Definition, in «Informal Logic», 38/1, 2018, pp. 84-117, e
Alessio Sardo, Freedom of Expression, Balancing, and Fake news in the Jurisprudence of the
European Court of Human Rights, inedito.
54 Da questo equivoco è viziato in particolare G. Ziccardi, L’odio online, cit., che per
difendere la neutralità prescrittiva si sente in dovere di difendere anche quella descrittiva,
smentita da tutte le 256 pagine del suo libro.
55 Cfr. Tim Wu, Network Neutrality, Broadband Discrimination, in «Journal of
Telecommunications and High Technology Law», 2, 2003, pp. 141-180.
56 Per questi due esempi, cfr. G. da Empoli, Gli ingegneri del caos, cit., pp. 68-69. Le stragi
dei Rohingya hanno motivato la richiesta di togliere a Aung San Suu Kyi, responsabile di aver
coperto gli eccidi, il Nobel per la pace conferitole nel 2012.
57 Così Jonathan Franzen, Purity (2015), trad. it. Einaudi, Torino 2016, p. 508.
58 Cfr. B.-C. Han, La società della trasparenza, cit., p.83: «L’intero globo evolve oggi in un
panottico. Non c’è alcun esterno rispetto al panottico, che diventa totale. Nessun muro separa
l’interno dall’esterno».
59 J. Franzen, Purity, cit., p. 557.
60 J. Assange, Internet è il nemico, cit., pp. 133-138.
61 È l’ideologia del cypherpunk, che fornisce crittografie per difendere i propri dati
personali. Ma Assange è perfettamente consapevole che «sarà libera soltanto un’élite di ribelli
hi-tech, gli astuti topi che scorrazzeranno dentro il teatro d’opera» (Id., Internet è il nemico,
cit., p. 149). Neppure l’élite, in realtà, se è vero che il topo-in-chief sta per essere schiacciato
dal potere.
Note al capitolo Conclusione. Apologo dello
scimmione digitale
1 La storia dell’antropologo che visitò Tikopia nel 1928-1929, Raymond Firth, è riportata da
J. Diamond, Collasso, cit., pp. 302-303.
2 Riprendo qui la narrazione di Y.N. Harari, Sapiens, cit. Su questo approccio macrostorico
alla storia profonda della specie cfr. A. Shyrock, Daniel Lord Smail, Timothy Earle, Deep
History: The Architecture of Past and Present, University of California Press, Berkeley 2012.
3 Così Y.N. Harari, Sapiens, cit., p. 13.
4 Cfr. Benedict Anderson, Comunità immaginate (1983), trad. it. Manifesto libri, Roma
2009, a proposito delle nazioni. Ma cfr. già M. Douglas, Come pensano le istituzioni, cit., p.
81, e ora Y.N. Harari, Sapiens, cit., p. 40: «Grandi numeri di estranei riescono a cooperare con
successo se credono in miti comuni».
5 Cfr. ancora Y.N. Harari, Sapiens, cit., p. 70: la scrittura «ha cambiato gradualmente il
modo in cui gli umani pensano e vedono il mondo», il che vale per tutti i medi succedutisi
nella storia del mondo.
6 Cfr. J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, cit.
7 Così L. Floridi, La quarta rivoluzione, cit., pp. 98 ss., sulle rivoluzioni – in realtà,
altrettante sottofasi della rivoluzione scientifica – da lui chiamate copernicana, darwiniana e
freudiana.
8 Rubo quest’espressione a B.-C. Han, La società della trasparenza, cit., p. 82.
9 Cfr. Yinghui Huang, Guanyu Li, Descriptive Models for Internet of Things,
https://ieeexplore.ieee.org/...
10 Allusione all’utopia di Henri de Saint-Simon, l’amministrazione delle cose che sostituisce
il governo delle persone. Utopia ancora viva, a giudicare da feuilleton come L. Alexandre, J.-F.
Copé, L’intelligence artificielle va-t-elle aussi tuer la démocratie?, cit., che con il libro qui
concluso condivide a malapena il (sotto)titolo.
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