Il 0% ha trovato utile questo documento (0 voti)
39 visualizzazioni212 pagine

Andrea Pazienza e L'arte Del Fuggiasco (Stefano CR - 250128 - 174242

Il documento presenta un'opera di Stefano Cristante che analizza l'arte di Andrea Pazienza, un importante fumettista del Novecento, attraverso una serie di capitoli che esplorano vari aspetti della sua produzione. La scelta di non includere immagini nel testo mira a incoraggiare i lettori a esplorare direttamente le opere di Pazienza, sottolineando l'importanza della documentazione personale. Il libro è parte della collana 'Il caffè dei filosofi' edita da Mimesis.
Copyright
© © All Rights Reserved
Per noi i diritti sui contenuti sono una cosa seria. Se sospetti che questo contenuto sia tuo, rivendicalo qui.
Formati disponibili
Scarica in formato PDF, TXT o leggi online su Scribd
Il 0% ha trovato utile questo documento (0 voti)
39 visualizzazioni212 pagine

Andrea Pazienza e L'arte Del Fuggiasco (Stefano CR - 250128 - 174242

Il documento presenta un'opera di Stefano Cristante che analizza l'arte di Andrea Pazienza, un importante fumettista del Novecento, attraverso una serie di capitoli che esplorano vari aspetti della sua produzione. La scelta di non includere immagini nel testo mira a incoraggiare i lettori a esplorare direttamente le opere di Pazienza, sottolineando l'importanza della documentazione personale. Il libro è parte della collana 'Il caffè dei filosofi' edita da Mimesis.
Copyright
© © All Rights Reserved
Per noi i diritti sui contenuti sono una cosa seria. Se sospetti che questo contenuto sia tuo, rivendicalo qui.
Formati disponibili
Scarica in formato PDF, TXT o leggi online su Scribd
Sei sulla pagina 1/ 212

MIMESIS / IL CAFFÈ DEI FILOSOFI

n.

Collana diretta da Claudio Bonvecchio, Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio

COMITATO SCIENTIFICO
Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese), Claudio Bonvecchio (Uni-
versità degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Matteo Giovanni Brega (IULM, Mila-
no), Antimo Cesaro (Università degli Studi di Napoli, Federico II), Pierre Dalla Vigna
(Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Giuseppe Di Giacomo (Università
di Roma La Sapienza), Giuliana Parotto (Università degli Studi di Trieste), Luca Taddio
(Università degli Studi di Udine), Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis),
Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)
STEFANO CRISTANTE

ANDREA PAZIENZA E
L’ARTE DEL FUGGIASCO
La sovversione della letteratura grafica
di un genio del Novecento

MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)
www.mimesisedizioni.it
[email protected]

Collana: Il caffè dei filosofi n.


Isbn:

© 2017 – MIM EDIZIONI SRL


Via Monfalcone, 17/19 – 20099
Sesto San Giovanni (MI)
Phone: +39 02 24861657 / 24416383
INDICE

PREFAZIONE
QUANDO DENTRO AL LETTORE DI FUMETTI
C’È UNA PICCOLA MOLTITUDINE 11

CAPITOLO I
IN PRINCIPIO ERA IL CAOS. PENTOTHAL,
LA MANIPOLAZIONE DISNEYANA, L’ENIGMA FRANCESCO STELLA 27

CAPITOLO II
PERTINI E IL PARTIGIANO, O DELLA LEGGEREZZA 51

CAPITOLO III
ZANARDI O DELL’ESATTEZZA 65

CAPITOLO IV
POMPEO: UNA BALLATA DEL MARE DESOLATO 89

CAPITOLO V
CAMPOFAME, UNA ESTATE, GIORNO,
ASTARTE E ALTRE ILLUMINAZIONI 121

CAPITOLO VI
BUSSOLE, APPRENDISTATI, SODALIZI 149

CAPITOLO VII
ESSERE ANDREA PAZIENZA: L’ARTE DEL FUGGIASCO
E ALTRE DEFINIZIONI DI UN GENIO DEL ‘900 171
INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE 203

RINGRAZIAMENTI 207
AVVERTENZA

Il testo, pur analizzando le opere di un disegnatore di fumetti, non


presenta vignette, illustrazioni o altre immagini di accompagnamen-
to, salvo quella di copertina.
Si tratta di una scelta precisa, fondata sulla convinzione che solo
l’inserimento di un numero di immagini corrispondenti a quelle cita-
te nel testo sarebbe in grado di consentirne una reale utilità cogniti-
va. Di consueto, invece, avviene che un saggio che ha come oggetto
i fumetti sia accompagnato da qualche vignetta o da qualche detta-
glio a scopo adornativo più che dimostrativo o di studio.
La decisione di eliminare completamente le immagini cerca in-
vece di spingere i lettori alla documentazione personale diretta, in
questo caso su Pazienza e le sue opere, come già fatto nel precedente
volume su Hugo Pratt, Corto Maltese e la poetica dello straniero
(Mimesis 2016).
Ritornare alle storie di Pratt e di Pazienza è oggi possibile in mol-
ti modi, giacché si possiedono delle ottime “opere omnie” accanto
alle edizioni storiche, spesso rieditate. L’auspicio dell’autore è che
la letteratura sociologica critica sui fenomeni artistici possa rivelarsi
di qualche utilità anche nello stabilire ponti tra lettori e narrazioni
grafiche di estremo valore.
a Marina
PREFAZIONE
QUANDO DENTRO AL LETTORE DI FUMETTI
C’È UNA PICCOLA MOLTITUDINE

Diario di un consumatore (e di un cugino)

Ancora oggi, quando incontro mio cugino Andrea dopo qualche


mese di silenzio (viviamo in città distanti), ripetiamo una scenetta
di Asterix e i Britanni che ci è sempre piaciuta moltissimo: “Toh” –
dice lui – “ecco Beltorax, il mio germanico cugino”. “Scuotiamoci le
mani” – replico io. Si tratta di una citazione quasi letterale, e dentro
ci sono alcuni sotto-script che servono a ritornare indietro nel tempo.
Andrea e io siamo in effetti figli di madri tra loro sorelle, e siamo
quindi cugini “germani” o “cugini primi”. Da qui l’ilarità scoprendo
che Asterix e il suo britannico cugino erano anch’essi “germani”,
anche se il genio del traduttore (Marcello Marchesi) aveva ulterior-
mente scherzato con “germano” e “germanico” (cioè britannico).
“Scuotiamoci le mani” era inoltre la traduzione letterale di “Let’s
shake hands”, altro equivoco linguistico evocato dalla traduzione di
Marchesi che traduceva letteralmente l’espressione del britannico
Beltorax.
Mio cugino e io abbiamo solo dodici giorni di differenza, e la
nostra primissima infanzia è stata da fratelli più che da cugini. Poi la
mia famiglia è rimasta a Venezia, mentre la sua è andata in terrafer-
ma, a Mestre. Ci si vedeva un po’ meno di frequente, ma poi c’era
l’estate. E i fumetti.
Durante le nostre estati al mare divoravamo fumetti. Avevamo co-
minciato entrambi con «Topolino», poi lui era passato a «Capitan
Miki» e io al «Grande Blek», lui a «Tex» e io a «Zagor». Entrambi
però adoravamo «il Corriere dei piccoli», poi diventato “dei ragaz-
zi”. Asterix rappresentava un’eterna rilettura, ancora oggi quando
torno a Venezia trovo una piccola collezione nello scaffale della
12 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

stanza degli ospiti della casa dei miei: sono gli stessi albi che io
e Andrea sapevamo a memoria e le cui citazioni letterali facevano
parte del nostro linguaggio quotidiano.
Gli interessi di Andrea, assecondati da una famiglia più aperta
della mia, si indirizzarono poi verso un tipo diverso di fumetto. Ri-
cordo Una ballata del mare salato e poi tanti numeri di «Linus» e
anche i volumi degli Oscar Mondadori con i Peanuts e persino Pogo.
Io restavo fedele a Zagor, e gravitavo sempre intorno alla casa edi-
trice di Bonelli, che allora si chiamava Cepim: c’era «il Piccolo Ran-
ger», il «Comandante Mark», e poi, a metà degli anni ’70, lo strano
fumetto su un avventuriero americano trapiantato in Brasile, «Mister
No». Un fumetto più smaliziato della media Bonelli, con dialoghi e
monologhi scritti da Sergio Bonelli stesso (che si firmava Guido No-
litta per un garbato pudore), punteggiati da imprecazioni brasiliane.
La mia propensione andava anche ai supereroi americani, che in
quegli anni giungevano a grappoli nelle edicole: Uomo Ragno, De-
vil, Fantastici 4, Thor. La pre-adolescenza diventava un tempo di
vita sacro, assimilato all’esplosione di poteri che non impedivano
ai personaggi fragilità e condotte irregolari. Ricordo anche la prima
attenzione psicologica alle dinamiche sentimentali: quando la rossa
Mary Jane Watson chiedeva a Peter Parker di uscire la sera, io spe-
ravo che capitasse anche a me una cosa del genere, e seguivo scru-
poloso l’evolversi del loro corteggiamento in cerca di indicazioni
comportamentali. Trovavo divertente anche la logorrea dell’Uomo
Ragno durante i combattimenti, la mitragliata di epiteti sul singolo
supervillan (“Gallinaccio” detto al temibile Avvoltoio, e così via),
le variazioni dei corpi delle parole nei balloon, l’uso dei neretti nel
lettering. Le immagini delle metropoli americane, assenti dai reper-
tori fumettistici di cui mi ero nutrito assieme al cugino Andrea, si
stampavano nella mia memoria visiva con la velocità e la definitività
che tutte le cose hanno prima che si diventi adulti.
Un altro capitolo della mia formazione di lettore furono gli ac-
quisti di mio padre. Era epoca di ristampe economiche dei grandi
fumetti degli anni ’30-’40, vale a dire «Mandrake», «l’Uomo Ma-
scherato» e «Flash Gordon». Mio padre era contento di trasmettermi
questo pezzetto della sua infanzia: la qualità grafica di quei fumetti
era un’ottima garanzia per il mio interesse, e la stimolazione creativa
Prefazione 13

della fantasia che ne derivava era un fatto certo. Mondi extraterrestri


come in Gordon, mondi illusori come in Mandrake, mondi esotici
come nell’Ombra-che-cammina.
Papà portava a casa anche quelli che tutti chiamavano i giornalet-
ti, «l’Intrepido» e «il Monello», rotocalchi a larghissima diffusione
che parlavano di calcio e di spettacolo nella parte giornalistica e che
ogni settimana pubblicavano 4-5 storie complete a fumetti. Erano
western o gialli, per lo più. Nella maggior parte dei casi i protagoni-
sti avevano volti rubati al cinema: Pierre Duval, direttore di fantasia
della verosimile testata «Paris Jour», era il sosia di Paul Newman,
mentre Sorrow, malinconico investigatore privato, quello di Hum-
phrey Bogart.
Ero già al liceo e mio padre continuava a portare a casa settima-
nalmente i giornaletti. Ora provavo a resistere alla lettura, perché
mi sembrava uno spreco di tempo e perché avevo maturato gusti
letterari più elaborati. Gironzolavo per la casa con in mano un libro
di Kafka, ma poi finivo per trasportare «l’Intrepido» in camera mia,
e passarci insieme un’oretta. Qualche volta compravo «Linus», ma
non avendo amici intimi particolarmente interessati al fumetto, le
mie smanie di comics erano di breve durata.
Quando mi trasferii da Venezia a Roma, dopo la maturità, mi im-
battei in un nuovo ciclo di letture a fumetti. Era l’epoca di «Frigidai-
re» e Andrea Pazienza era in auge, ma uscivano tante altre riviste e
nelle edicole facevano bella mostra di sé albi di grande formato, al
90% frutto di traduzioni di opere dei maestri del fumetto contempo-
raneo, soprattutto francesi. Però l’Italia sfornava e confermava ta-
lenti: Pratt, Jacovitti, Toppi, Battaglia, Giardino, Manara, Buzzelli,
Magnus, Micheluzzi, Altan, Panebarco e tanti altri. Mi immersi con
avidità in questa mia seconda vita di lettore di fumetti. Cominciai
anche a recuperare letture del passato, come la magnifica serie di Un
uomo, un’avventura edita da Bonelli e gli albi dei visionari francesi
di «Metal Hurlant», guidati dal genio eclettico di Jean Giraud, au-
tore sia delle strepitose avventure del politicamente corretto tenente
Blueberry (firmate Gir) sia delle diavolerie postmoderne del mag-
giore Grubert e del suo garage ermetique (firmate Moebius).
Ma un altro sublime eclettico prendeva il timone dei miei gusti e
della mia ammirazione. Ricordo che un giorno, in autobus, non mi
14 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

accorsi della solita fermata e proseguii fino al capolinea, ipnotizzato:


colpa di Giallo scolastico di Andrea Pazienza, la prima allucinante
storia di Zanardi, Petrilli e Colasanti, da cui non riuscivo a staccare
gli occhi nonostante gli sballottamenti del bus.
Bonelli prese a investire sui cambiamenti: alla metà degli anni ’80
aveva sfornato Martin Mystere, archeologo per casi impossibili in-
ventato da Alfredo Castelli, e Dylan Dog, acchiappa-fantasmi londi-
nese di Tiziano Sclavi. Due prodotti innovativi che avvicinarono alle
edicole generazioni più giovani di appassionati, raggiungendo con
Dylan Dog cifre di vendita che sembravano riservate al solo Tex.
Poi quel periodo di letture compulsive finì, e divenni un consu-
matore aggiornato solo in parte. In edicola intercettavo spesso le
uscite di Bonelli, mentre nelle librerie facevano capolino veri e pro-
pri romanzi a fumetti, storie lunghe denominate sempre più frequen-
temente graphic novel. Grazie alla partecipazione a qualche giuria,
venivo qualche volta irrorato da nuovi prodotti, che mi hanno con-
sentito di conoscere e di apprezzare anche la nuova leva degli autori
italiani, a cominciare da Gipi. Ma non sono mai stato un collezioni-
sta né un fan sfegatato.

Diario di un giornalista

Avevo cominciato a scrivere per «il Manifesto» all’ultimo anno di


liceo: ero una specie di corrispondente da Venezia, scrivevo un po’
di tutto ciò che succedeva nell’ambiente giovanile e culturale in pro-
vincia e nel centro storico, allora meno cosmopolita ma più vivace.
Delle cose più gravi, che già allora succedevano più nella terraferma
che in laguna, si occupava il più esperto Alberto Ferrigolo. Quando
andai a vivere a Roma, dopo la maturità, cambiare aria fu esaltante
per le mie energie di ragazzo. Era tutto nuovo per me, anche le riu-
nioni di redazione del Manifesto con tanti giovani giornalisti iper-
politicizzati e lo sguardo sorvegliante di Rossanda, Pintor e Valen-
tino Parlato. Ero molto irrequieto e impegnativo, e per me un’intera
giornata in redazione in via Tomacelli era difficile da gestire. Se ne
accorsero Roberto Silvestri e Mariuccia Ciotta, i responsabili della
redazione spettacoli che mi avevano “adottato” nel mese di volonta-
Prefazione 15

riato che spesi a Roma durante le vacanze estive della seconda liceo
classico. Di cosa vuoi occuparti? – mi chiesero quando annunciai
che mi sarei trasferito a Roma. Non sapevo che rispondere: non ero
abbastanza preparato né sul cinema né sulla musica né tantomeno
sul teatro, e in tutti quei campi c’erano già ottimi collaboratori. Beh,
risposi, ho sempre letto tanti fumetti. Poteva essere un’idea: c’era
già Thomas Martinelli che scriveva per loro, ma se fossi riuscito a
individuare un mio percorso avrei potuto pubblicare con una certa
regolarità.
Dopo qualche tempo mi ritrovai in viaggio verso la periferia mi-
lanese di Cinisello Balsamo per intervistare il direttore de «l’Intrepi-
do» e di altri giornaletti. Ero riuscito a convincere Roberto e Mariuc-
cia che un’inchiesta sui fumetti di massa (all’epoca ognuna di quelle
testate vendeva centinaia di migliaia di copie ogni settimana) sareb-
be stata un buon colpo per un giornale che cercava di interpretare le
tendenze del consumo popolare. Al giornale mi aiutarono a trovare
un letto a Milano a casa di militanti ospitali e io pagai il viaggio, un
piccolo investimento che mi diede una sensazione avventurosa. Sul
Manifesto uscirono varie interviste a puntate e la mia inchiesta ebbe
un certo spazio. Ricordo che il responsabile generale della redazione
cultura, all’epoca un accigliato Severino Cesari, mi rimproverò per
il tono troppo ideologico del mio pezzo introduttivo, tutto spostato
sull’elogio pop della cultura di massa. Ma le interviste sono interes-
santi, aggiunse benevolo.
A trovare i recapiti di alcuni direttori di quei giornaletti mi ave-
vano aiutato i ragazzi dell’Urlo, un gruppo romano di espertissimi
critici di fumetti intorno ai 20-25 anni. Ero un po’ più giovane e
decisamente meno sapiente e informato di loro, ma andammo subito
d’accordo. Prese forma un sodalizio che con uno di loro, Luca Raf-
faelli, dura anche oggi. Fui adottato una seconda volta: ora le mie
famiglie erano due, «il Manifesto» e «l’Urlo». La mia conoscenza
del mondo dei fumetti si allargò enormemente in quel periodo, presi
a frequentare gli ambienti dei fumettari e i loro festival, conobbi
tantissimi autori ed editori, e venni più volte in contatto con Oreste
Del Buono, il personaggio che più di ogni altro aveva significato
una comprensione intellettuale del medium fumetto, aggiungendo
un tassello importante alla comprensione della macchina dell’indu-
16 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

stria culturale. Ebbi così la fortuna di poter ascoltare direttamente


dalle voci di Del Buono, di Sergio Bonelli, di Hugo Pratt, di Alfredo
Castelli, di Andrea Pazienza, di Tiziano Sclavi, di Renato Queirolo,
di Milo Manara, delle sorelle Giussani e di tanti altri la loro idea di
fumetto, i loro riferimenti culturali e letterari, la loro educazione ar-
tistica. Spesso i dialoghi si trasformavano in interviste che uscivano
su «il Manifesto» o su «Rinascita», il settimanale del Pci con cui ero
entrato in contatto grazie a Giorgio Fabre, un giovane caporedattore
protettivo ma esigente. Giorgio mi spingeva a non accontentarmi di
scrivere sui fumetti, ma di investigarli, di trovare i nessi con gli altri
segmenti dell’industria culturale, di inquadrarli nel frame dei consu-
mi di massa e di élite.
Ebbi dunque rapidi ma ottimi insegnanti. Il mio gioco era quel-
lo di immergermi nello specialismo (ogni settimana uscivano nuovi
fumetti, e le novità editoriali in quegli anni fruttuosi erano molte)
senza perdere di vista le letture generali dei fenomeni culturali e anzi
appassionandomi sempre più al senso che assumevano i personaggi
dei fumetti e le tendenze narrative di cui erano espressione nell’im-
maginario collettivo.
Scrissi, nei primi anni ’80, per quotidiani, settimanali e mensili
(specializzati e no). Trattavo i fumetti con lo stesso atteggiamento
che avevo scoperto negli articoli del Manifesto sul cinema e sulla
musica: cercavo informazioni sulla realizzazione tecnica dei fumetti
e sullo stato degli editori che li pubblicavano, studiavo i legami con
le fonti delle storie e i collegamenti interni all’arte dei comics, il
contatto tra lavorazioni e autori, la loro influenza reciproca.
Nel corso del tempo «l’Urlo» divenne una redazione a tutti gli
effetti: curavamo gli scritti dell’edizione italiana di «Métal Hurlant»
grazie a un accordo con l’editore Roberto Rocca e inondavamo un
numero crescente di testate di nostri articoli, da «il Messaggero»
a «Vanity Fair». Dopo un biennio di lavoro costante e organizzato
ricevevamo gratis le principali riviste e gli albi, per cui il materiale
su cui scrivere era assicurato. Pensammo fosse venuto il momen-
to di creare un’azienda specializzata: diventammo una cooperativa
proprio quando però a me venne chiesto dall’Arci nazionale di diri-
gere un nuovo settore dedicato alla creatività giovanile (Arcikids).
Accettai, e il rapporto con i miei compagni dell’Urlo inevitabilmente
Prefazione 17

ne risentì, fino a diradarsi. Si diradarono anche i miei articoli sui fu-


metti, anche se ogni tanto, sia per «il Manifesto» sia per altre testate,
mi è capitato e mi capita di scrivere qualche recensione di graphic
novel e di nuovi personaggi che mi colpiscono.

Diario di un operatore culturale

Leggere-scrivere-organizzare. All’inizio degli anni ’80 non sa-


pevo ancora che le tre azioni si sarebbero combinate. Mi accon-
tentavo di leggere il più possibile e di scrivere appena possibile.
Invece, appena arrivato a Roma nell’autunno del 1980 e indaffa-
rato ad ambientarmi nel mio nuovo mondo giornalistico e fumet-
taro, ci fu un devastante terremoto, che si avvertì fortissimo anche
a Roma. Napoli, gran parte della Campania e altre zone del Sud
furono scosse e violentate dal sisma. Si organizzarono immediate
e sorprendenti iniziative di solidarietà, e mezza Italia giovane e
militante si trovò coinvolta nei soccorsi. Io fui destinato alla città
di Avellino: il capoluogo irpino era pieno di macerie ma i giovani
soccorritori avevano già preso in mano la situazione, che era gestita
e coordinata da Comitati misti, istituzionali, sindacali e associativi.
Mi trovavo, per una situazione casuale, in un gruppo di dirigenti
dell’Arci nazionale. L’associazione viveva in quel periodo una fase
molto vivace: il suo trentenne presidente, Enrico Menduni, aveva
avviato un rapido processo di svecchiamento che sembrava funzio-
nare. Molti giovani, delusi dalle organizzazioni giovanili di partito
e dai gruppi extra-parlamentari, si avvicinarono all’associazione,
portando in dote un agitato attivismo e un interesse verso tutto ciò
che rappresentava l’espressione culturale, dal cinema al teatro alla
musica. Un paio di mesi prima del terremoto, a Siena, l’Arci aveva
organizzato un’assemblea delle aggregazioni culturali giovanili, il
primo meeting nazionale dei giovani di sinistra dopo le ferite del-
la stagione del ’77. Fu un successo, e a me capitò di scrivere un
paio di articoli sul Manifesto che testimoniavano la buona riuscita
dell’evento e l’ottima qualità del dibattito, attento a rivendicare un
nuovo protagonismo generazionale a partire dalla cultura e dalla
comunicazione di base.
18 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Nel pieno dell’opera di soccorso in Irpinia, l’Arci propose di cre-


are un circuito delle radio libere che si stavano occupando giornali-
sticamente delle iniziative di solidarietà e io mi ritrovai a lavorare in
quel gruppo. Furono giorni molto frenetici, tra discussioni sui ponti-
radio e sui programmi da condurre e da distribuire con le scarse ri-
sorse telefoniche di cui si disponeva. La sensazione di contribuire a
qualcosa di utile e di inedito era esaltante: passai dei giorni in un’at-
mosfera da soviet, si stava sempre insieme e si dormiva in roulotte
o in tenda, si mangiava quando capitava e si tenevano assemblee
operative infuocate. Questa dimensione pragmatica mi era nuova, e
mi piaceva molto. Mantenni i contatti con Menduni e con i suoi più
stretti collaboratori, e cominciai una piccola consulenza con l’Arci
nazionale sulle questioni giovanili. Nell’estate successiva l’Arci or-
ganizzò un meeting a Bologna, “Stop terror now”, a un anno esatto
dalla strage della stazione. Al termine del meeting Carmelo Bene
infuocò la città leggendo Dante dalla Torre degli Asinelli.
Mi era stato affidato il compito di organizzare un centro-giovani
per accogliere, fra gli altri, ecologisti tedeschi e occupatori di case
di Amsterdam: il Comune aveva fatto la scelta coraggiosa di aprire
la città alle esperienze politiche giovanili più radicali e innovative
delle metropoli europee, e Open (il centro-giovani che coordinavo
con Luca Mortara, un iper-attivo dirigente Arci di Milano) era una
sorta di vetrina di prodotti italiani (film, video, mostre, dibattiti) per
contribuire all’integrazione con gli smaliziati coetanei europei.
Mentre mi accadevano queste nuove cose i fumetti erano però un
interesse sempre meno episodico – anzi, rappresentavano anche una
fonte d’entrata, e a vent’anni i soldi equivalgono all’indipendenza
dalla famiglia – e così fu per me naturale cominciare a parlare con
i miei amici dell’Urlo di come mischiare le carte dei nostri progetti
alla luce del mio impegno nell’Arci. L’idea che ci venne si chia-
mò Arcicomics, nella nostra mente un’associazione per 500-1000
persone disposte a pagare un’iscrizione più alta dei normali iscritti
all’Arci perché avrebbero usufruito di maggiori servizi. Chiedem-
mo a Gianni Berti, il libraio delle Nuvole Parlanti di Milano – una
delle maggiori librerie specializzate italiane –, se fosse interessato a
mettere a disposizione il suo favoloso catalogo di arretrati a prezzi
di favore. Facemmo il giro delle riviste dell’epoca, e da tutte otte-
Prefazione 19

nemmo degli ottimi sconti per i nostri potenziali soci. Presentammo


il progetto di Arcicomics a Menduni e alla segreteria dell’Arci: Luca
Boschi, all’epoca uno dei più attivi animatori dell’Urlo e dotato di
un’ottima matita, disegnò il marchio, un pupazzo che aveva le ca-
ratteristiche di tutti i personaggi dei fumetti che amavamo (il becco
di Paperino, l’orecchino di Corto Maltese, la coperta di Linus, ec-
cetera). Presentammo la nuova iniziativa in un cinema dell’Aventi-
no, facendo seguire ai discorsi ufficiali (uno dei quali fu tenuto da
uno dei due nostri neo-presidenti, Milo Manara; l’altro era Oreste
Del Buono) la proiezione in anteprima nazionale de Les maitres du
temps, il lungometraggio a cartoni animati diretto da René Laloux e
disegnato da Moebius. Andò tutto bene, il cinema si riempì e l’Arci-
comics nacque sotto buoni auspici.
Il ciclo di un’iniziativa cominciava ad essermi chiaro: per quan-
to un’idea potesse essere suggestiva, occorreva pensare immediata-
mente a come sostenerla, a come reperire le risorse, a come intavo-
lare i rapporti con le istituzioni e con gli artisti. Solo una volta che la
sensazione di solidità si era imposta alle nostre molteplici incertez-
ze, solo allora ci si poteva sbizzarrire su ciò che ci veniva sin troppo
facile: la preparazione della comunicazione grafica, i comunicati, le
inserzioni sui giornali, i manifesti.
L’Arci a quel punto mi chiese se volevo impegnarmi di più nell’or-
ganizzazione di eventi, e io accettai di creare un settore giovanile, a
suo modo “politico”, ma niente a che vedere con le organizzazioni
giovanili di partito. Prima di separarmi dall’Arcicomics (e dall’Ur-
lo) partii per l’organizzazione di un festival della creatività con base
a Barcellona: si chiamava Tendencias ed era il preludio a una vera
e propria Biennale dei giovani artisti del Mediterraneo, che ancora
oggi si tiene in capitali culturali dell’Europa del Sud; il manifesto
di convocazione era di Stefano Tamburini. Poco dopo, il gruppo di
Arcicomics di Roma organizzò una mostra intitolata “Matite per la
pace”, che coordinò la brava Carla Recchi. Collaborarono gratuita-
mente decine di nomi noti del fumetto italiano, e la mostra fu invitata
a fare tappa in tante città. Da allora ogni volta che ho organizzato un
evento artistico ho sempre dedicato uno spazio apposito ai fumetti.
Tanto per fare due esempi, al Mattatoio di Roma durante un’edizione
dell’estate romana (1983) invitai Filippo Scòzzari a disegnare in di-
20 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

retta su una lavagna luminosa e durante Tendencias esponemmo una


decina di sagome di Zanardi in compensato disegnate direttamente
da Andrea Pazienza. Ho sempre pensato che il miglior fumetto fosse
arte contemporanea allo stato puro, da far conoscere il più possibile.

Diario di un sociologo

Cosa si prova a diventare un esperto di qualcosa che si è sem-


plicemente consumato? Forse, una sensazione piacevole di stima
generazionale, riconoscendo ai media di aver facilitato i processi
mentali di chi era nato durante il boom economico, estendendo le
nostre memorie e il nostro istinto cognitivo rispetto alle genera-
zioni meno audiovisive. Quelli nati tra la metà degli anni ’50 e la
metà degli anni ’60 rappresentano una generazione sottoposta per la
prima volta nella storia a una possente mutazione mediatica a base
televisiva. Ne ha parlato diffusamente McLuhan nel suo libro più
popolare, Understanding Media (1964), mettendo in evidenza che
la tecnologia elettrica avrebbe generato una scossa comunitarista e
neo-tribale, a centralità orale/audiovisiva, accompagnata da un’im-
portanza crescente delle immagini rispetto alla scrittura. Non so se
avesse completamente ragione McLuhan o se avesse solo intuito
una tra le tante tendenze delle società di massa occidentali: fatto
sta che la sveltezza con cui quelli della mia età si impadronivano
delle diverse grammatiche mediali era fuori discussione. I tempi di
addestramento critico-giornalistico erano ridotti all’osso e si poteva
subito cominciare a pubblicare o a progettare eventi (o entrambi).
Anche nel campo fumettistico.
C’era tuttavia una differenza non da poco tra ragazzi che avevano
letto quasi tutti i fumetti disponibili su piazza e chi, come me, aveva
solo un background da discreto lettore. Come potevo colmare il gap?
La verità è che non potevo. Il modo in cui si diventa tutt’uno con un
medium è inscritto nei percorsi psicologici di ognuno, nelle relazio-
ni interne alla famiglia, nelle interazioni con il gruppo dei pari, nei
maestri che si incontrano durante la formazione. A un certo livello
di esercizio di queste variabili sul singolo individuo, può derivarne
un’antropologia da fan, da iper-appassionato. Nel corso del tempo,
Prefazione 21

questa antropologia può costituire il sostegno a un’attività profes-


sionale coerente. In alcuni casi può trattarsi di una ipertrofia della
memoria, che si è esercitata fin da piccolissimi leggendo e rileggen-
do le storie a fumetti, e allargando le proprie collezioni. Il profilo del
collezionista e del raccoglitore risulta decisivo per spiegare questo
tipo di antropologia. Tra i miei amici dell’Urlo ero l’unico privo di
un passato di questo genere, motivo che mi obbligava a recuperare
informazioni su un determinato tema dedicandomici intensamente
per un breve periodo, per poi passare ad altro. Fu il caso per esempio
di una full immersion nel fumetto dedicato agli eroi dello sport per
poter scrivere un reportage con Luca Raffaelli commissionato da un
mensile sportivo; una volta scritto l’articolo dimenticai tutto. Era
una condizione che mi procurava instabilità e in più contrastava con
la scelta di studiare sociologia, iscrivendomi alla Sapienza.
Società e media erano i miei veri interessi, e la loro maniera di in-
teragire significava non solo disporre di molte informazioni, ma so-
prattutto cercare il legame tra un medium e gli altri e tra un medium
e la società. Cosa significava concretamente? Innanzitutto che era
puerile isolare il fumetto dagli altri media: occorreva anzi, al contra-
rio, dare la massima visibilità a come il fumetto era influenzato dagli
altri mezzi e a come il cinema, la tv e la letteratura fossero influenza-
te dai fumetti. Ciò di cui c’era bisogno andava al di là del semplice
specialismo e convergeva verso una sociologia dell’intera industria
culturale. Chi poteva essere d’aiuto? All’interno del mondo fumet-
tistico trovavo personalità complesse, a volte eccezionali (Pratt, Del
Buono, Bonelli), ciascuna con la propria individualità e con il pro-
prio vissuto, spesso rivelatorio di segnalazioni indirette sull’intera
macchina dell’industria culturale. Ma la singolarità di queste vite
– emozionanti nel racconto diretto dei protagonisti – non organiz-
zava un pensiero in senso “strutturale”. Le letture sociologiche che
andavo facendo per tenermi al passo con gli esami universitari mi
parlavano di universi metropolitani e di incursioni nelle pieghe delle
sottoculture giovanili. Il piccolo e prezioso saggio di Simmel su Me-
tropoli e vita dello spirito (1901) mi diede la sensazione di avvici-
narmi a qualcosa di speciale, uno sguardo sulla personalità di massa
colpita dai mille stimoli del paesaggio urbano che produce rigidità
comportamentale, indifferenza, cinismo, uso esasperato della razio-
22 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

nalità, il preludio di ciò che decenni dopo Bauman avrebbe chiamato


modernità liquida. Ma fu soprattutto la quantità di lavori sociologici
realizzata dalla cosiddetta Scuola di Chicago ad aprirmi gli occhi su
come si sarebbe potuto guardare alla metropoli. Dalle pionieristiche
ricerche di Zorbaugh e Thrasher sulle bande giovanili degli anni ’30
allo splendido racconto di William Foote Whyte Street Corner So-
ciety sui giovani dello slum italo-americano di Boston negli anni ’40,
questo filone aveva il pregio di scandagliare le zone pericolose della
metropoli, impegnando il ricercatore in un’attività che ne metteva in
discussione i pregiudizi, gli stereotipi e le credenze obbligandolo a
un confronto vivo con l’oggetto della ricerca. I rituali del consumo
erano una parte consistente dell’identificazione delle tendenze: di
nuovo i media si ripresentavano nella comprensione della persona-
lità moderna con un ruolo del tutto speciale, che andava indagato
nella ricerca con un proprio potenziale autonomo. Ecco perché le
discussioni sul fumetto mi erano più semplici con Tamburini e con
Pazienza (e poi con gli autori della scuola bolognese di Valvoline)
invece che con i mostri sacri del fumetto italiano: perché negli au-
tori più giovani leggevo il legame tra fumetto e vissuto metropolita-
no, tra corpo dell’artista e dinamiche sociali. Tamburini e Pazienza
(ma anche Igort e Carpinteri) attraverso il fumetto dicevano come
il proprio immaginario interpretava lo spirito dei tempi, giudicava-
no il mondo giovanile e quello adulto, la politica e i movimenti,
le avanguardie e l’arte mainstream. Tutti tasselli che s’insinuavano
promettenti nell’idea di uno studio sempre più “etnografico” dei co-
mics come pratica culturale. C’era naturalmente anche la pressione
per recuperare un’interpretazione semiotica del fumetto, ed è inutile
dire che le pagine di Umberto Eco su Steve Canyon e sui Peanuts e
Superman furono compulsate e sottolineate più volte. Nelle pagine
di Apocalittici e integrati c’erano gli attrezzi per leggere nella sua
complessità anche una sola tavola a fumetti, e anche l’eleganza per
un’incursione tipologica in vari altri campi, senza più corteggiamen-
ti della cultura alta contro le slabbrature della cultura bassa. Anche
Antonio Faeti si faceva leggere e studiare con passione, per via di
un’erudizione morbida e non esibita connessa a tutto il mondo delle
immagini, un approccio che è anche nelle corde di un altro bravissi-
mo studioso, Daniele Barbieri.
Prefazione 23

Fu però soprattutto la lettura di un libro di Alberto Abruzzese de-


dicato ai fumetti porno (Pornograffiti, con Laura Barbiani, 1982)
che aprì un capitolo nuovo nella mia idea di studiare i fumetti.
Abruzzese proponeva una lettura del cosiddetto “fumetto per adulti”
(come tutti i consumi proibiti, in realtà comprato da adolescenti)
prepotentemente metaforica, disinteressandosi dell’aspetto prurigi-
noso delle storie di Jacula o di Cappuccetto Rotto e concentrandosi
sul materiale immaginativo da cui prendevano forma le atmosfere
e le narrazioni. Il prodotto seriale era così sviscerato nella sua an-
golazione di racconto-macchina, che accompagnava il consumatore
in una sua personale appartenenza ai ritmi dell’esistenza metropo-
litana, dove lo spazio urbano si ricreava anche negli oggetti spogli
della grafica a fumetti, nel suo disturbato mirare all’essenziale dei
nudi corpi, riproducendo una miriade di suggestioni rubate all’in-
conscio collettivo. Il fumetto come medium di massa diventava così
un “attrezzo metropolitano”, qualcosa che viaggiava nella tasca di
un consumatore che assomigliava al flaneur di Benjamin e all’uomo
della folla del racconto di Poe. In quel modo, inevitabilmente, il
fumetto stesso perdeva di centralità come oggetto sacro e autoriale
e diventava uno dei terminali nervosi della modernità, in un conti-
nuum che dalla pagina scivolava negli schermi televisivi e da questi
alla pubblicità e alla moda.
In poche parole il salto in una voragine, perché dal fumetto si
cadeva in quell’incubatore di complessità che è l’immaginario col-
lettivo. Qualcosa che poteva anche, a un certo punto, incontrare la
comunicazione politica e lo studio dell’opinione pubblica, cosa che
poi effettivamente avvenne negli anni del mio dottorato di ricerca e
del successivo insegnamento universitario. Ma all’origine di questo
tragitto di ricerche c’è il fumetto, l’attrezzo più semplice del mondo
per racchiudere l’immaginazione in una cassaforte invisibile.

Diario di un amico

Ho trattato di cugini, giornalismo, organizzazione di eventi e


studio dei fumetti. Mi resta da concludere questa prefazione con
un ritorno ellittico all’esordio. I consumi giovanili, e prima anco-
24 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

ra adolescenziali e infantili, caratterizzano la costruzione sociale di


una categoria (i giovani) che non può essere saturata dalla semplice
identificazione anagrafica. I frammenti di immaginario costruiscono
giochi ad incastro di immagini e suoni nella mente di ciascuno, ma
alcuni collegamenti fondamentali restano comuni, aprendo passaggi
verso zone inesplorate – quando si avvia un ribollire di istanze e
movimenti – oppure consolidando l’interesse verso il minimalismo
della vita quotidiana – come avviene nelle epoche in cui un nuovo
orizzonte valoriale si percepisce ma è ancora avvolto dall’opacità.
Il consumo – è perfettamente inutile aggiungere l’aggettivo “cri-
tico”, termine che dovrebbe essere incluso mentalmente in ogni atto
vitale di appropriazione e rielaborazione – ha consentito alle adole-
scenze audiovisive (nate storicamente vicino alla fine della seconda
guerra mondiale ma culturalmente lontanissime da quel periodo)
di ritrovarsi in mezzo a perturbazioni sistemiche come il passaggio
dal post-fordismo alla globalizzazione neo-liberista, e prima ancora
dalla penuria a dominante rurale all’abbondanza urbana indotta dal
boom economico.
Le immagini con i balloon – le vignette – sono state l’unità di mi-
sura più piccola del nostro immaginario giovanile (prevalentemente
maschile), il frame che ci consentiva di partecipare ad avventure, ris-
se, intrighi, cospirazioni, super-poteri, complicazioni psicologiche e
sentimentali. Il frame che, soprattutto, ci permetteva di ridere molto.
Quando anche la vignetta fu fatta deflagrare in tante direzioni di-
verse dai protagonisti della rivoluzione grafica degli anni ’70 (zona
Moebius, per intenderci), in Italia ci fu un’avanguardia fumettistica
che, prima amplificando la condizione giovanile all’ombra del ’77
e poi aspirandone la risacca attraverso storie estreme e sofisticate,
inventò un nuovo immaginario.
Il saggio che leggerete si dedica a un’interpretazione dell’opera
di Andrea Pazienza, ma implica una scena più ampia, sottesa sia
alla produzione e al consumo di fumetti, sia ai rumori di fondo del-
la contrattazione permanente tra rivoluzione culturale (espressiva e
grafica) e riproduzione della società. Ho potuto entrare in questo
mood grazie ad alcune persone, che hanno fatto da tramite fra la mia
immaginazione e l’arte fumettistica: Andrea (il cugino) è stato il mio
primo amico, e mi ha insegnato sostanzialmente a leggere i comics,
Prefazione 25

ad aprirmi al loro consumo immediato. Diversi anni dopo, Luca Raf-


faelli mi ha fatto entrare nel suo antro di raccoglitore di albi di ogni
tipo, e mi ha insegnato che è molto facile recuperare i tesori nascosti,
specie se si sanno usare credenziali e telefono. Una volta andammo
a Genova, ci facemmo aprire la «Cineteca Griffith» con un paio di
sue telefonate preventive e una carta intestata e passammo otto ore a
vedere cartoni della Warner Bros ridendo come ebeti nel buio di una
deserta saletta di proiezione.
Sergio Bonelli è venuto subito dopo: dovevo intervistarlo per
«Rinascita» ma aveva un mal di denti micidiale. Misteriosamente,
durante l’intervista il dolore si attenuò e Sergio fu prodigo di infor-
mazioni e di racconti. Vicino a lui c’era Decio Canzio, il suo braccio
destro, che si incuriosì quando sentì che raccontavo a Sergio della
mia collaborazione con «il Manifesto». Aveva una devozione verso
Rossanda, e sperava di farci due chiacchiere, un giorno. Si aggirava
per le stanze anche un ragazzone dall’andatura un po’ goffa. Vidi che
aveva le Clarks e i lacci rossi. Me lo presentarono, ma Dylan Dog
non era ancora uscito dalla sua macchina da scrivere, e mi colpì più
per i lacci che per il cognome. L’amicizia per Bonelli la condivisi a
più riprese con Luca Raffaelli e Sergio Brancato, un sociologo dei
media napoletano allievo di Abruzzese con cui ero entrato in sintonia
per la comune passione verso i fumetti e per bagaglio generazionale,
e che da tempo è un mio grande amico oltre che un ottimo collega.
Roberto Rocca fu invece un amico-meteora: calò a Roma e ci
assunse tutti in un istante per impacchettare l’edizione italiana di
«Métal Hurlant», ma dopo qualche mese era già finito tutto. Gli anni
’80, nel fumetto e non solo, erano anche così.
Il gruppo di «Frigidaire» era avvicinabile, ma noi eravamo più gio-
vani, e li guardavamo come dei cugini più grandi, con cui non com-
mettere passi falsi. Ci furono interviste, e qualche evento organizzato
insieme. Amavamo molto Pazienza, e io personalmente amavo mol-
tissimo anche Tamburini. Mi capitò di passare del tempo con loro, sia
insieme sia separatamente. In un paio di occasioni li intervistai, e con
Stefano discussi di un manifesto che divenne in effetti il biglietto da
visita murale della manifestazione Tendencias a Barcellona 1984.
I nomi Andrea e Stefano, quasi sempre pronunciati insieme
(“Dove sono Andreaestefano?”, si chiedevano mia madre e mia zia
26 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

quando io e mio cugini, piccolissimi, sparivamo dai loro radar), mi


sono familiari da sempre. Ho scritto un libro su Andrea, ma è dedica-
to anche a Stefano. E a tanti altri, che nomino telepaticamente, per-
ché le generazioni non lasciano elenchi di nomi, ma amicizie furtive
e intermittenti, la cui immagine ancestrale è semplice e nitidissima:
due bambini coetanei assorti nella lettura dei loro fumetti.

Lecce, primo giorno di primavera 2017


CAPITOLO I
IN PRINCIPIO ERA IL CAOS. PENTOTHAL,
LA MANIPOLAZIONE DISNEYANA,
L’ENIGMA FRANCESCO STELLA

L’immagine che ho in mente è quella di un’energia compressa


da lungo tempo. Il giovanotto ha solo vent’anni, ma il suo appren-
distato con i pennelli e gli altri attrezzi del mestiere data dalla sua
nascita, avvenuta nel maggio del 1956. Il padre acquarellista, una fa-
miglia piccolo-borghese meridionale accogliente nella sua normale
e provinciale intimità, economicamente benestante grazie al lavoro
d’insegnante di entrambi i genitori. A tredici anni il trasferimento in
collegio a Pescara per studiare arte, a diciassette anni la prima espo-
sizione personale, poco più tardi la maturità al liceo artistico, infine
il trasferimento a Bologna, iscritto al Dams.
Andrea Pazienza nel 1977 è una specie di bomba H dell’arte con-
temporanea pronta ad esplodere portandosi dietro un talento certo,
grazie al quale immette nella carta segni rimasticati in ogni dove,
accompagnandoli con una scrittura infantile e fascinosa, ebete e pro-
fonda. La bomba viene innescata grazie al fiuto della redazione di
«Linus», che sbatte all’istante su «Alter Alter» le tavole della pri-
ma storia di Pazienza, Pentothal (aprile 1977), mentre prende for-
ma nelle università e nei quartieri un movimento giovanile inedito
e duro, che lacera le connessioni troppo facilmente ritenute scontate
tra chi si ribella e la sinistra istituzionale.
Pentothal è un evento, perché, come il farmaco da cui prende
nome, costringe a dire la verità. Anche se la verità è più d’una.
Pentothal non è un graphic novel. L’unità stilistica prescelta da
Andrea è il caos, l’assoluto anarchico, il tutto-ciò-che-mi-è-possi-
bile-rappresentare. Le tavole escono inizialmente copiose su «Alter
Alter», poi vengono sempre più centellinate. Ci vogliono circa quat-
tro anni perché il lavoro sia portato a termine, ma l’espressione è im-
precisa, perché nella tavola conclusiva troviamo la scritta “Le straor-
dinarie avventure di Pentothal” inserita in un tabellone ferroviario,
28 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

come annunciasse un treno in partenza. Ma il treno era già partito


da un pezzo, e non a caso la fine del viaggio coincide in realtà con
la spiegazione magica del talento di Pazienza. La Natura, raffigurata
in forma di albero antropomorfo, suona il campanello e consegna al
ragazzo Andrea Pazienza una scatola contenente il “regalo del dise-
gno”. Quindi in realtà la storia ha termine con un inizio. Una trovata
narrativa piacevole per interrompere una creatività ininterrotta.
Quali sono le verità nel flusso di Pentothal?
Dire il vero non è necessariamente parresia, sempre intinta
nell’inchiostro del pedagogo. Dire il vero è “situazione”, cioè ve-
dere il mondo nell’interstizio di due esplosioni: quella della pagi-
na fumettistica, che risente della volontà dell’artista di giocare con
tutte le tradizioni, immettendone le deformazioni personalizzate
nel flusso di coscienza disegnato, e quella della realtà storica, che
nel ’77 e dintorni presenta il conto dei nodi irrisolti con l’urgen-
za dell’evento irreparabile, rappresentato dalla morte del militante
bolognese di Lotta Continua Francesco Lorusso l’11 marzo, ucciso
dalla pallottola di un carabiniere. Nessuno sembra in grado di capi-
re cosa stia succedendo, mentre i blindati del ministro degli Inter-
ni Francesco Cossiga entrano nella città dove il Partito Comunista
governava dal dopoguerra. Il Pci aveva dissentito con forza in più
occasioni dalle scelte del Patto di Varsavia, a partire dall’invasione
sovietica della Cecoslovacchia nel 1968. Ma nemmeno Enrico Ber-
linguer, il segretario di quel Partito Comunista, andava al di là del
monito “Diciannovisti!” rivolto ai militanti del nascente movimento
giovanile. Apostrofarli come “diciannovisti” allude a un’identifica-
zione anarco-fascistoide degli attivisti del ’77, presentata come il
risultato dell’inquietudine estremista dei figli della piccola borghesia
parcheggiati nell’università de-qualificata e di massa: una chiave di
lettura assolutamente sbagliata, che aveva geometricamente condot-
to alla cacciata del capo della Cgil Luciano Lama dalla Sapienza di
Roma (17 febbraio 1977).
La “definizione della situazione” di Pazienza attraverso Pentothal
(che è un doppio dell’artista su carta) è quella del partecipe-isolato.
È dentro le cose dei suoi giorni – fino a sfiorare le catenate di una
coppia di giovani fascisti a caccia di compagni – e simultaneamen-
te buttato sul suo tavolo da disegno, vinto dal sonno. Allora sogna.
In principio era il Caos 29

Ha incubi. Si sveglia tardi, spesso abbrutito. Legge, cita a memoria


i dadaisti, soffre per amore, inventa efferati cinismi onirici, spiega
come si possa star dentro a un flusso senza appartenervi. Descrive
come la mente di un artista faccia i conti a ogni istante con il baga-
glio di conoscenze che è riuscito ad associare al talento naturale. Il
processo editoriale della rivista su cui pubblica lo spinge non tanto
alla serialità narrativa (e dunque a puntate consequenziali e organiz-
zate diacronicamente) quanto all’esemplarità di ogni apparizione. Si
tratta di tavole che devono la loro fama al connubio tra equilibri-
smo grafico ed eclettismo stilistico, passando nello spazio di una
pagina dalla linea chiara a quella scura, dimostrando che lo stile di
Pazienza può essere simile alle proprie fonti d’ispirazione e insie-
me già inconfondibilmente unico, portatore sano di una semiotica
che trasforma la riproducibilità dei segni in un’inattesa operazione
matematica di moltiplicazione. L’arte di Moebius per (moltiplicato)
l’arte di Pazienza, l’arte di Jacovitti per l’arte di Pazienza, l’arte di
Walt Disney per l’arte di Pazienza e così via, passando per i Freak
Brothers di Gilbert Shelton, per Alack Sinner di Muñoz e Sampayo
e per sprazzi di citazioni pittoriche rinascimentali.
La singola tavola è un universo a sé stante, spesso autosufficiente
perché si esprime nel mood della visione, della lacerazione della re-
altà con il coltello della scontentezza di sé, della propria insufficien-
za, della propria mediocrità, inserendo scontentezze, insufficienze e
mediocrità nella carne del racconto, assorbendo l’artista nel flusso
delle immagini e mantenendo per miracolo la mano sul timone della
narrazione. Quel miracolo è il rapporto tra l’artista e ciò che egli
reputa meritevole di entrare nelle sue tavole, la sua agenda setting
personalizzata.
Non si può non pensare allo studente del Dams di origine pugliese
come parte in causa di quel periodo storico: la vita da studente fuori
sede è fatta di immense code per arrivare a un cibo di mensa semi-
gratuito, pochi soldi in tasca, inserimenti nel tessuto culturale riusci-
ti a metà, amicizie che invitano a una fuga, reale o semplicemente
psichica o psicotropa. Ne esce la polaroid a fumetti di un proletariato
giovanile in cui rientra uno dei profili di Andrea Pazienza, di San Se-
vero di Foggia, diplomato al liceo artistico di Pescara. Il ragazzo non
comprime questa identità socio-culturale con lo snobismo dell’en-
30 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

fant prodige: la ripresenta sotto forma di sfida, producendo una


neo-lingua fattona-terrona che esibirà poi su «il Male» e in storielle
pubblicate successivamente, ma concepite durante la lavorazione
quadriennale di Pentothal. “Cuanto spazio sprecheto!”, dice il per-
sonaggio nella tav. 107 esprimendosi in slang foggiano modificato
mentre indossa abiti di principio Novecento. Nella tav. 78 troviamo
Pentothal al telefono con la famiglia, cui non riesce a comunicare il
proprio bisogno di denaro perché l’interlocutore cambia di continuo
(dalla sorella alla madre, dal fratello al padre) impedendogli di sta-
bilizzare la richiesta. Nella tavola successiva lo troviamo al tavolino
mentre concepisce, tra una folla di cancellature, la seguente lettera:

Carissimi, per quanto vi possa sembrare di no, invece vi penso. Come


state? Spero bene, io, male. Non mangio e dimagro. Speditemi subito
un vaglia teleg. di lire 60.000 in biglietti di piccoli taglio usati o non
mi riavrete vivo. f.to Vs. figlio Andrea che vi bacia. 1 ps: no, davvero,
i soldi. 2 ps: saluti a Mariella e M. 3 ps: speditemi la giacca, la Vespa e
l’impermeabile. f.to x.

Questo piano esistenziale così frequentemente autobiografico e


pauperistico marca la differenza tra lo stile narrativo e grafico di Pa-
zienza e quello di Moebius: l’artista francese è citato in ogni anfratto
di Pentothal, ma ogni segno finisce per rielaborare il postmoderni-
smo futurologico di Moebius in un presente stralunato. Automobili
già in origine meticciate dal genio francese (tra Jules Verne e Philip
Dick, mettendo insieme il XIX e il XXI secolo) vengono riprodot-
te da Pazienza e ulteriormente perfezionate negli ingranaggi: ma la
macchina non serve per un qualche viaggio interplanetario, ma per
un più modesto approdo a Napoli, che è in realtà un crepaccio in un
deserto, dove si aggirano Pentothal e il suo amico Luigi lamentando
che lì intorno è “tutto piatto cemento”. I due indossano tute e ca-
schetti che ricordano quelli dei personaggi del Garage Hermétique
di Jerry Cornelius di Moebius, che era stato pubblicato nel 1976 su
«Metal Hurlant» a mini-episodi da due o quattro tavole, più o meno
la stessa tipologia scelta da Pazienza. Ma, come già detto, mentre i
personaggi di Moebius si muovono leggerissimi e inconsistenti sul
tellurico panorama di un futuro misticheggiante, quelli di Pazien-
In principio era il Caos 31

za corteggiano il fantastico solo per rientrare con l’equilibrismo dei


surfisti in una terra presente, dove i dialoghi possono avere riferi-
menti alla realtà quotidiana o possono prendere le forme di un mo-
nologo interiore improvvisamente durissimo oppure, al contrario,
audacemente lirico.

Pentothal è lo Zibaldone di Pazienza, non è solo la sua opera


prima. Lo stesso concetto di opera prima si rivela inadatto a defi-
nire questo lavoro, il cui incipit (le prime 18 tavole) è sufficiente
a farne circolare il nome e a stupire il mondo fumettistico italiano,
mentre le ultime pagine sono portate a termine e pubblicate quan-
do Pazienza è già noto. Certamente Pentothal è stato il suo primo
lavoro dato alle stampe in una testata nazionale; solo nel 1981 sono
però pubblicate le tavole finali, quando numerosi suoi altri lavori
erano già conosciuti. Quindi il concetto di “opera prima” travali-
ca con Pentothal gli abituali confini cronologici, mutandosi in un
ventaglio di possibilità sperimentali messe a punto mentre l’artista
attendeva ad altre opere.
Il primo episodio è un’immersione asimmetrica nella quotidiani-
tà bolognese artistico-universitaria: le piccole disgrazie degli amori
giovanili e delle abitudini alimentari sub-proletarie sono spazzate
via, per un attimo, dalla folata del marzo ’77. L’evento irrompe nel-
la vita, e Pentothal non teme di dire la verità maniaco-depressiva
del momento: è “un’inizio” (con l’apostrofo, fanteria dei rimaneg-
giamenti operati da Pazienza sulla lingua italiana), il principio di
una primavera collettiva esaltante, ma l’autoritratto dell’artista da
giovane raffigura un ventenne attorcigliato a una radiolina che tra-
smette Radio Alice. “Compagni! Questa sera, alla fine delle varie
assemblee, non disperdiamoci!”. Pentothal si sente “tagliato fuori”
dal frenetico attivismo movimentista, e la pupilla dilatata ne dice le
tentazioni cui non ha opposto resistenza. Come reagisce alla propria
stessa confessione di bipolarità situazionale? Con il primo di una se-
rie di frequenti scarti laterali. In questo caso la scena che si presenta
è dovuta alla prima rielaborazione di uno dei miti dell’immaginario
occidentale, quello western. La tavola di Pazienza, serializzata ad
ogni puntata con la testata “Le straordinarie avventure di Pentothal”,
riprende nella già consueta dimensione del sogno. Avverte:
32 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Beh, sono cambiate molte cose dall’ultima volta, per cominciare il


ragazzo si è inserito ed ora è più dentro che mai ai fatti della vita e al
movimento degli studenti. Conosce diciassette slogans!

La battuta finale marca in realtà la distanza dall’ambiente dato


per acquisito, e l’artista se ne allontana attraverso tavole bipartite
che riescono a ospitare contemporaneamente situazioni incongue e
sghembe, come la mesta decisione di assumere un trip dopo una
foratura di Vespa durante una gita e il generale Custer che si manife-
sta all’improvviso, per sostituire il quale, spiega il testo, si starebbe
pensando al giovane Pazienza. Nel sogno/delirio compaiono alcune
prove di potente arte grafica, in particolare una mezza tavola dove,
crivellati dai colpi di una mitragliatrice, due indiani volano all’indie-
tro crivellati dai colpi. È un altro esempio delle direzioni d’interesse
tecnico per l’artista: in questo caso, ciò che è messo in evidenza è
l’evocazione del movimento, la carica animata del disegno nono-
stante la stabilizzazione dei segni. I tratti di Pazienza non dimostra-
no incertezza nell’uso di linee capaci di simbolizzare il movimento
nelle sue incessanti varianti (progressivo, velocizzato, diagonalizza-
to, attorcigliato, sbilenco, verticale, schiacciato, eccetera), come se
il disegnatore avesse completamente acquisito il linguaggio tecnico
dei fumetti allo scopo di forzarne costantemente le regole. Pento-
thal congiunge le sue febbricitanti avventure attraverso il sogno e lo
sbalzo narrativo, ma in ogni situazione grafica si esprime fornendo
un modello che – se solo l’artista avesse voluto approfondirne lo
sviluppo – potrebbe assumere lo spessore di uno stile e indurre una
specifica narrazione.
Pentothal è uno Zibaldone, cioè un testo dove si depositano in-
numerevoli spunti, e dove la precisione maniacale di Pazienza si
applica a disegni molto diversi tra loro, come l’incredibile marcia
solitaria di Pentothal per guadagnare l’immensa coda della mensa
universitaria, che interrompe la spazialità grafica delle illustrazioni.
La marcia è infatti rappresentata in forma curva, come se avvenisse
sulla superficie di una sfera di vetro, mentre le torri di Bologna si flet-
tono molli e metafisiche sullo sfondo dell’incedere del personaggio.
Ogni ciottolo della piazza ha una sua perfetta definizione: la bellezza
del disegno è nella sua ardita concezione e nella sua realizzazio-
In principio era il Caos 33

ne minuziosa, che sembra non pesare all’artista, pur costringendolo


probabilmente a decelerare dall’esecuzione complessiva dell’opera.

Nelle tavole di Pentothal si incontrano molti personaggi della fu-


tura poetica di Pazienza: c’è l’indecifrabile e squinternato Investi-
gatore Senza Nome, apertura di un interesse verso il giallo che si
inabissa nelle diramazioni demenziali del personaggio, incerto nar-
rativamente fino alla sparizione. Ci sono alcuni frammenti di animi-
smo jacovittiano rivisitato, dove gli arnesi del mestiere – per esempio
dei pennarelli – divengono antropomorfi e muoiono per aver perso
il tappo. C’è il trattamento cinematografico (dal piano americano al
primissimo piano) dell’esplosione indotta di un foruncolo, omaggio
a una spettacolarità scioccante e underground. C’è un omaggio a The
Spirit di Will Eisner, nascosto nelle ombre del volto e del cappello
dello stesso Pentothal. C’è l’apparizione dei Freak Brothers di Gil-
bert Shelton affiancati a Pentothal che decide di recarsi in mensa, e
quella di una serie di comparse che alludono ai pupazzi iper-espres-
sivi di Magnus, periodo Alan Ford. Ci sono effetti grafici procurati
dall’uso della fotografia e da un dettagliatissimo e sontuoso progetto
di ritrarre la natura e gli animali a partire da un primo sguardo di-
sneyano, a volte – specie nel caso di alberi e di felini – velocemente
mutati in figure complesse e maestose (King Kong compreso). In
Pentothal fa capolino in un paio di tavole anche il futuro divo Zanar-
di: nella prima è di tre quarti, nella seconda ha il casco e gli occhiali
da pilota d’aereo. E in Pentothal c’è naturalmente tutta la gamma
delle situazioni collegate alle droghe, e in particolare all’eroina. Il
set è allestito per finalità diverse dalla semplice confessione d’uso:
dire la verità è in questo caso presentare situazioni dove l’alterazione
è condizione normale, e dove i rischi di epatite si mescolano a serate
così pesantemente alcoliche da indurre l’artista a disegnare tavole
dove l’elemento verticale che si impone graficamente è la catena
della toletta, da tirare dopo lo svuotamento di sé.
L’uso di droghe non impedisce di passare con disinvoltura da un
piano miniaturistico, dove la singola parola di un singolo poster sul-
la camera di Pentothal è riprodotta fedelmente e maniacalmente in
mezzo a tante altri piccoli oggetti, a un piano urbanistico, dove (ad
esempio nella tav. 112) il lieve dislivello di una strada bolognese
34 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

consente a Pazienza di arredare il selciato con la mappa di un’a-


mena, microscopica valle bagnata da un lago. Sono colpi narrativi
senza parole, che completano la stagione di una poetica straniata,
dove il tratto grafico impone leggi diverse da quelle della prospetti-
va rinascimentale, elevando il trompe l’oeil a mondo plausibile, in
competizione con lo spazio-tempo della realtà, a sua volta manipo-
labile in qualsiasi istante. L’insegnamento di antropologia culturale
sulle pratiche di circoncisione (tavv. 13-14) diventa descrizione let-
teraria della pratica, con tanto di citazione biblica (Genesi XVII):
ma si tratta ancora una volta di un sogno, che presto vira in incubo,
quando a Pentothal viene chiesto dagli officianti come mai lui stesso
non sia stato iniziato e circonciso.

Pentothal funziona come una serie di illuminazioni ininterrotte,


che si saldano l’una all’altra principalmente per la presenza dell’ar-
tista nei singoli frammenti, dentro cui brilla un narcisismo disposto
all’autoironia più feroce: è un personaggio che non prende neppure
in considerazione l’atto eroico, perché l’atmosfera onirica e altera-
ta non lo consente. Usa l’effetto straniante dei metodi di Moebius,
scrive riassunti delle puntate precedenti persino più assurdi di quel-
li dell’artista francese, risolve l’inammissibile sovrapposizione di
molteplici piani narrativi con citazioni ardite (Tristan Tzara, Ronald
D. Laing) e reinterpretando con malizia dialoghi e vignette e visio-
ni che colgono il punto di saturazione dell’immaginario proposto
dai talenti di «Métal Hurlant». Dopo un paio di tavole moebiusiane
(tavv. 72-73), Pentothal cade (forse da un albero) nel vuoto di un
balloon che, nella tavola successiva, lo porta a precipitare in una
realtà dove lo attendono Filippo Scòzzari – ritratto con il pennino
appoggiato all’orecchio, in primo piano rispetto a due suoi tipici per-
sonaggi – e Stefano Tamburini, quest’ultimo con la maglietta del-
la rivista «Cannibale» e l’ammissione di essere appena arrivato da
Roma e di essere “sconvorto”. Quando la tensione narrativa sembra
scemare, Pazienza si tira in piedi da solo attraverso il delirio demen-
ziale: Le straordinarie avventure di Pentothal diventano allora Pen-
tokan, la tigre della malora, un Sandokan che spara con mille armi
difendendosi da attacchi totali, ma nella stessa tavola (tav. 118, a
poche pagine dalla fine della narrazione) l’artista avvisa che torna a
In principio era il Caos 35

casa, “e nella mia casa tutto risponde ad un ordine preciso, ad un mio


desiderio, è soddisfazione del mio desiderio. Qui sono al sicuro.”
Poco oltre aggiunge di amare “i miei pomeriggi di sole e di pittura!”

“Ma a volte – prosegue –, di notte, si riaffaccia alla memoria l’im-


magine di quel giovane drogato1 e penso: E se, nonostante tutto, fosse
un eroe? Non esiste questa possibilità. E allora cerco di immaginare la
sua vita, quali possano essere le sue abitudini. Come fa, quando va a
qualche festa, se non ha un paio di calze pulite? Scherzo, ma, a ripen-
sarci, come fa?”

“L’immagine del giovane drogato” annuncia narrazioni più ordina-


te e popolari – è proprio del 1981 la prima sconcertante avventura di
Zanardi, Giallo scolastico, pubblicata da «Frigidaire» – ma il marchio
del molteplice, la sua lieve e ancora non centrale architettura scritta, lo
stesso lettering fantasioso e infantile e la precisione miniaturistica di
tante inserzioni infilate nelle tavole, fanno di Pentothal un archivio visi-
vo impareggiabile nella dimensione del “volontariamente incompiuto”.

Decostruzione di Pippo e icone incompiute

Per la seconda uscita di «Cannibale» (inverno del 1977) Stefano


Tamburini usò un sistema di impaginazione che gli consentì di di-
sporre di ben quattro copertine, a seconda di come si fosse aperta e
maneggiata la rivista. Una di queste copertine era di Andrea Pazien-
za: si tratta di un’immagine tonda con due volti in primo piano e con
dietro tre piccole sagome nere che sventolano il cappello, e sotto cui
è sistemato il fregio “Paris 1922”. Segue il testo, nel consueto stam-
patello maiuscolo dell’autore: “Questo ingrandimento, particolare di
una foto ritraente trecento dadaisti riunitisi in congresso a Parigi,
nel ’22, riveste un eccezionale carattere di documento! Infatti si era
sempre pensato che i tre puntini tra le teste di Arp e Grozs fossero
cacchette di mosca. Da questo ingrandimento risultano invece essere
gli artisti Tamburini, Scozzari e Pazienza! Mattioli era al bar…”

1 Cfr. tav. 119, dove compare un irridente Zanardi.


36 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Il «Cannibale» ideato e voluto in primo luogo da Stefano Tambu-


rini gioca con le avanguardie, sin dal nome rubato a Picabia. Francis
Picabia nel 1920 aveva pubblicato il Manifesto cannibale nell’oscu-
rità, una poesia che contiene passaggi come questo:

Il culo, il culo rappresenta la vita,


rappresenta la vita come le patatine fritte,
e voi tutti persone serie, voi puzzate più della merda di vacca.
Dada invece non ha odore, non è nulla, nulla, nulla.
È come le vostre speranze: nulla
come i vostri paradisi: nulla
come i vostri idoli: nulla
come i vostri uomini politici: nulla
come i vostri eroi: nulla
come i vostri artisti: nulla
come le vostre religioni: nulla
Fischiate, gridate, spaccatemi la faccia e poi e poi?
Io continuerò a ripetervi che siete tutti degli imbecilli.
Fra tre mesi, i miei amici ed io
vi venderemo i nostri quadri per qualche franco.

È tempo di nichilismi aggressivi, e l’estro spettacolare di Picabia ben


si presta a trascinare il gruppo dei dadaisti nell’avventura effimera di una
rivista leggendaria su cui scriveranno in tanti: Breton, Eluard, Soupault,
Ribemont-Dessaignes, Tzara. Da allora, dagli anni ’20, le avanguardie
storiche seguitano a essere fonte di ispirazione, sia nella creazione
di estetiche sia nelle pratiche di gruppo: le generazioni successive le
riscopriranno incessantemente. Nel 1977 italiano, mentre nelle scuole e
nelle università si manifesta con caratteri propri un nuovo movimento
giovanile autonomo e in contrasto con la sinistra istituzionale, si agitano
riferimenti all’epoca eroica delle avanguardie (soprattutto la più estrema
di esse, dada) proprio nel mondo emergente del fumetto.
I Cannibali italiani che accettano la proposta di Tamburini, giova-
ne grafico romano dal talento rivoluzionario, sono Massimo Mattioli,
Filippo Scòzzari e Andrea Pazienza. Nel terzo numero (giugno 1978)
si aggiungerà al gruppo anche Tanino Liberatore. Gli scambi, i con-
fronti e le divergenze tra loro sono strategici per capire le evoluzioni
del fumetto italiano di quegli anni. Nell’inverno del ’77 Pazienza era
In principio era il Caos 37

entrato nella Traumfabrik, il laboratorio artistico nato in una casa oc-


cupata bolognese. Lì viveva e disegnava Filippo Scòzzari, fumettista
incazzato e dagli ottimi fondamentali grafici e narrativi, grazie al qua-
le Pazienza aveva conosciuto Stefano Tamburini, grafico e fumettista
romano molto attento alla scena underground internazionale. La pro-
spettiva di un ambito creativo comune era diffusa in quel periodo tur-
bolento: la diversificazione delle attività avveniva in seno a un magma
collettivo, all’interno di un’energia di gruppo. La spinta collettiva en-
trava in sintonia con ciò che ognuno sapeva, e che tendeva ad essere
socializzato. Ecco perciò che Pazienza comincia a firmare le proprie
storie con il proprio nome seguito dal marchio Traumfabrik, emblema
di una factory artistica sbucata inaspettatamente dalle viscere di una
casa occupata del centro di Bologna, inevitabilmente invasa da una
popolazione giovanile squinternata e fattona.
Visto dal lato del movimento e dei suoi attivisti e simpatizzanti, il
circuito dell’informazione autoprodotta era pressoché autosufficien-
te nell’alimentare un immaginario collettivo condiviso: c’erano un
foglio quotidiano (Lotta Continua), un settimanale satirico (il Male),
vari giornali/riviste dell’Autonomia e dintorni (Rosso, Autonomia,
A/traverso), radio libere (Alice – la più celebre – a Bologna, Radio
Onda Rossa a Roma, Radio Sherwood a Padova). Nei paraggi del
movimento si agitavano piccole intraprese editoriali (Savelli, Stam-
pa Alternativa). Gli approcci erano spesso diversi ma convergeva-
no nella creazione di una nuova espressività, minoritaria ma fluida
e pervasiva, capace di inserirsi con fragore nella plumbea stagione
culturale delle istituzioni italiane. Il movimento era un medium a tut-
ti gli effetti, un’estensione di personalità individuali in figure sociali
collettive, amplificate dalle piattaforme comunicative ed espressive
che ne raccontavano le vicende senza richiedere interpreti e tradut-
tori culturali. Una delle piattaforme più promettenti e prolifiche era
il fumetto, e Bologna era la città dove il fumetto stava producen-
do i migliori risultati, mentre a Roma stava esplodendo il caso del
settimanale satirico «il Male», diffuso in modo massiccio anche tra
lettori goliardici e non solo tra militanti di estrema sinistra.
Esistono diversi racconti su quella stagione bolognese e anche sui
rapporti di gruppo durante l’esistenza di «Cannibale», e li ripren-
deremo nella parte finale di questo volume. Lo spostamento verso
38 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Roma di Pazienza e Scòzzari fu facilitato dalla collaborazione con


«Il Male», la cui redazione offrì ospitalità al gruppo di Cannibale.
«Il Male» aveva ritmi produttivi vincolati alla rigidità della scaden-
za settimanale, pur nell’atmosfera edonista della redazione, dovuta
ai sold out di alcuni numeri memorabili (soprattutto le false prime
pagine delle grandi testate dell’informazione nazionale,2) e alla in-
consueta fama di testata più sequestrata e perseguitata d’Italia.
Tuttavia «Cannibale» rimaneva l’oggetto proprio del gruppo dei
fumettisti. Pazienza entrò in scena nel numero “delle quattro coper-
tine” con una storia che è diventata celebre: il protagonista è Pip-
po, uno dei personaggi a fumetti più conosciuti al mondo. Pazienza
lo traveste da fricchettone e gli aggiunge occhiali neri e peluria sul
muso. Il tratto grafico cita disinvoltamente uno dei maestri dell’un-
derground americano, Robert Crumb.
Il Pippo sballato di Pazienza rifiuta il lavoro, in linea con l’im-
postazione ideologica dominante tra i teorici del Movimento. Lo fa
immergendosi in un ambiente degradato, una specie di avamposto
fricchettone in mezzo al deserto. Raggiunto da un ennesimo tele-
gramma della Disney, che lo supplica di tornare al lavoro nei cartoni
animati, Pippo lo sballato reagisce come una furia, esprimendosi in
una lingua simil-terrona con echi foggiani che lo allontana abissal-
mente dall’ortodossia disneyana:

Primo baloon: “Leggiám: Te diamo 50.000 dolari! Stop! Te preghiam!


Acetta de fa ‘sto ultimo film! Stop! Acetta! Acetta!! Stop.”
Secondo baloon: “Ma tu guard ‘sti stronzs! E insistons! Ma guard’ che
STRONZS!”
Terzo baloon: “Ma no lo hanno capit ca ho chius’ chi films? No lo ca-
pisciòns! Che stronzs!”3

2 «Il Male» fu fondato nel 1977. Per i primi tre numeri il direttore fu il disegna-
tore satirico Pino Zac (1930-1985); al suo abbandono lo sostituì Vincino fino
al 1982, quando il settimanale cessò le pubblicazioni. Il “falso” più clamoroso
fu realizzato nel 1979 con la collaborazione di Ugo Tognazzi, che si prestò alla
farsa apparendo come il capo delle Brigate Rosse in una serie di foto in manette
impaginate nelle false (ma credibili) cornici delle testate Paese Sera, La Stampa
e il Giorno.
3 La vignetta si trova nella seconda tavola del racconto Perché Pippo sembra uno
sballato?, di cui occupa lo spazio centrale. Cfr. Pazienza A., Tutto Pazienza. Al-
legro con fuoco. Storie 1977-1979, vol. 6, Repubblica- L’Espresso, 2016, p. 33.
In principio era il Caos 39

La natura anarcoide di Pippo era già stata notata. Ad esempio tro-


viamo scritto quanto segue nella prefazione del volume I pensieri di
Pippo (sottotitolo: ovvero le disavventure di uno svitato) contenente
quattro storie memorabili degli anni ’40 e ’50:

È indubbio (…) che, tra tutti i personaggi disneyani, resta quello più
moderno, quello che ancora oggi appare più probabile e plausibile. Il suo
linguaggio alogico e spesso ellittico non è poi tanto dissimile da quello
dei giovani fuggiaschi di Easy Rider, così lontani da ogni preoccupazione
sintattica e dialettica, almeno in senso tradizionale. Certo, Pippo non ha
la disperazione di fondo dei giovani drop-outs di oggi. È un gradino più
sotto: ignora ovviamente Rousseau e Thoreau, come con tutta probabilità
li ignorava il suo creatore. Ma, nello stesso tempo, è anche un gradino
più su, un paradossale punto d’arrivo ideale. Cosa sarebbe un giovane
sradicato di oggi, liberato dall’angoscia, dalle droghe, dalla paura di
vivere? Un giovane dopo la sua personale rivoluzione culturale? Sarebbe,
forse, il sereno, lapalissiano Pippo, minimo filosofo stoico con qualche
lieve tendenza all’epicureismo. Forse.4

Andrea Pazienza rovescia la prospettiva di queste osservazioni.


Cosa sarebbe Pippo se trovasse la forza di uscire dal frame disneya-
no della propria esistenza di carta e pellicola? Sarebbe – senza incer-
tezze e senza “forse” – un fricchettone, ben contento di condividere
una giornata di sole accecante con spinellatori e contemplatori nul-
lafacenti, fuori dai congegni della società dello spettacolo. Pippo, a
differenza di quanto ipotizzato nel testo citato, non è un “minimo
filosofo stoico”, ma solo un personaggio costretto in un ruolo spetta-
colare che non gli piace, da cui rifugge.
È allora Topolino a scendere in campo: lo raggiunge tra i
fricchettoni del deserto dove Pippo si è rifugiato e lo invita a
rientrare nei ranghi. Topolino parla un italiano standard, che stride
con il gramelot di Pippo:

4 Cfr. Carano R., «Prefazione», in I pensieri di Pippo, Mondadori, Milano, 1970,


p. 8. In questo volume è presente anche la storia Pippo a Hollywood (1951),
dove si racconta una bizzarra epopea cinematografica del personaggio Disney.
La storiella di Pazienza appare come una sorta di prosecuzione alterata di
quell’antico racconto disneyano.
40 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Topolino: “Aye Pippo. Mi dicono che pianti grane… Che non vuoi fare
il film…”
Pippo: “Hey. Dice ca io pianta grane! Oh, dice ca io p…”
Topolino: “Cristo, che posto!”
Pippo: “… Dice ca io pianta grande! Ma pe la porca! Ho dett’ca no fac-
cio più film? Eh? L’ho dett’o no? L’ho dett’? Com’? L’ho dett’? Ah,
l’ho dett’! E ilora se l’ho dett’ pecché no vedete de andà affanculo?”
Topolino: “Schizofrenico! Ho un partner schizofrenico!”

Pippo sembra intenzionato a resistere alle insistenze dell’ex compagno.


Topolino, per averne ragione, fa leva sui suoi amici fricchettoni:

Topolino: “Vediamo cosa ne pensano i tuoi amici, allora. Ragazzi, Pip-


po dice no a 50.000 dollari!
Un fricchettone: 50.000 dollari?!?”
Topolino: “… Inoltre, se è vero che vi vuol bene, Pippo farebbe bene
ad accettare la mia offerta… Altrimenti porto qui l’esercito e la pula
a spazzare la porcilaia!”
Un fricchettone: “Uhei! Capace di farlo!”
Topolino: “Peh! Io odio i drogati!”

In un ultimo scatto d’orgoglio prima di cedere, Pippo urla che “Quei


films rincretineno i bimbi!”, ma dietro di lui due fricchettoni lo avvi-
sano: “Ascolta fratello… Ho paura che tu debba fare ciò che dice…”
E infine Pippo parte in macchina con Topolino: “Adieu fratel!
Partiscio por vous!”
In sole tre vignette Pippo, sbarbato e ripulito, ritorna – ritratto
da Pazienza con aria mesta – quello di sempre. Ma, insinua ancora
l’autore, “ogni tanto, prima del ciak, egli spinella e ricorda di quan-
do era fricchettone…” Siamo dunque così all’immagine capovolta
del giovane hippie che conserverebbe un fondo di buon selvaggio
rousseauiano: è quest’ultimo – nella declinazione disneyana del ca-
rattere di Pippo – a contenere invece la potenziale degenerazione
fricchettona. Ecco infine svelato con questo rovesciamento il mi-
stero dell’irregolarità di Pippo: nell’ultima vignetta appare chiaro
“perché Pippo sembra sballato…”
“Sembra sballato perché È sballato!”
In sole sei pagine Pazienza ha risolto l’enigma della simpatia ri-
servata a Pippo dall’immaginario underground di tutto il mondo e,
In principio era il Caos 41

specularmente, anche quello dell’antipatia per Topolino, dietro il cui


attivismo efficientista si nasconde un’esistenza votata al dispositivo
spettacolare e disciplinare della cultura di massa.

Sull’onda dello sballo di Pippo, nello stesso numero di «Canni-


bale» Pazienza squaderna un’altra storiella di ambiente freak, Prixi-
cel!!. Nella comunità fattona del deserto che abbiamo già incontrato
(o a essa molto simile) giunge uno spacciatore di acidi. Fugato qual-
che sospetto del gruppo, l’acquisto di trip è stabilito; la contrattazio-
ne avviene nel gramelot ormai abituale:

Acquirente: “Give me five.”


Spacciatore: “Ma sieto cinx! Piglione dix! Orpo! Dos ciaschedeuno!”
Acquirente: “Dos ciaschedos?”
Spacciatore: “Minimo!”
Acquirente: “Ok.”

Purtroppo per i fricchettoni gli acidi sono tagliati con la nitrogli-


cerina, che li fa esplodere a ogni minimo movimento. Il finale di
questa breve follia (7 tavole) è inaspettatamente extraterrestre.
Nel successivo numero di «Cannibale» Pazienza pubblica E per
me un Anco Marzio, il cui protagonista è un fattone alterato nel lin-
guaggio e nei consumi: “Owe! Es difisilo imaginar como se pote star
ben nel diserto liggend’ giurnalett!”
Il tratto underground non impedisce a Pazienza esuberanze minia-
turistiche e mise en abyme: il personaggio esibisce un fumetto che
rappresenta la stessa scena ritratta in primo piano, dunque la prima
pagina dello stesso E per me un Anco Marzio. Il tipo sta appunto
leggendo il suo amato giornaletto stravolgendosi di musica quando
appare, a cavallo di un chopper, un altro spacciatore. “No compro
nisba. Habeo già el mi fornitor abitual” replica il tipo. Ma lo spaccia-
tore è una specie di Hell’s Angel, e dunque l’acquisto viene forzato.
Alla fine il tipo avrà comprato:

(…) Dos scatols di mescalin, mezz’ett di eroin, nucocktel di libanes,


marroccio, pacchistan’ e puglies’ todo amescheado e inoltr’ benzedrin,
valium, betel, peiote, psilocibina, oppio… Todo claramiento taliat co
42 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

strcnin’, paraffin’, enné, arsenich’, varechin’, yogurt, farin e lamett’ da


barb! In todo, 507 dollari, che redondo a 1000.

Una volta rimasto solo e senza un soldo, il tipo ingurgiterà tutte


le sostanze (“Wow! Tuto! Me soi magnà tuto! Gosh. En un quarto
d’or! Yuk! Es en record!”). L’effetto è strabiliante: ogni parte del suo
corpo si esprime autonomamente, e in questo modo il comportamen-
to sociale del tipo cambia: da mite sfigato si trasforma in temibile
picchiatore, felice di amministrare il gruppo di individui che si è
manifestato in lui.
La storiella potrebbe persino essere presa per la satira della situa-
zione psicologica interna a «Cannibale»: messi insieme dalle circo-
stanze e dalle alterazioni, i singoli artisti agitano la vita della rivista
ciascuno a proprio modo, come esemplificato dalle quattro copertine
di Tamburini, una per ciascuno di loro e tutte ugualmente rappresen-
tative della testata e della sua filosofia, incentrata sulla poetica della
marginalità (come dimostrano i personaggi folclorici di Pazienza e
quelli “politici” di Tamburini, identificati nella definizione scòzza-
riana di “studelinquenti”). Tale poetica diverge in un ulteriore ramo
doppio: la ricerca della deformità e del mostruoso (Scòzzari e Li-
beratore) e la pratica di un’infantilizzazione formale dell’immagine
caricandola di contenuti horror (come nelle storie di Mattioli).
Nei numeri successivi di «Cannibale» Pazienza ritorna sul per-
sonaggio fricchettone. In Ma cosa succede? (1978) e in Agnus Dei
(1979) il linguaggio è sempre tarato sul gramelot foggiano-terro-
ne, con alcuni vertici compositivi demenziali raggiunti nella prima
storia, dove un improbabile umanoide, in cambio di 17 grammi di
eroina purissima, racconta a due suoi adepti la seguente perla de-
menziale:

C’era na vota, no sbarbo sinsa casa e gninta a magnéer, ca steve


pe murì de strista! Poi, como pe un’ispiration, elo presa el biblio dei
strippé, et dise co vox ca tonava: “Alafregnadimammetachellazoccola-
bocchina!” Scies’ alors l’angiulett dei strippé dal ciel e ci dié en tosso
de pan e na fanta! Eix!
In principio era il Caos 43

L’aulico scarabocchio verbale, protratto per l’intera sequenza


delle storielle fricchettone, asseconda il tocco grafico underground
usato da Pazienza nelle Sturiellet, sempre alle prese con ambienti
sporchi e polverosi rappresentati però con un segno nitido e che non
impedisce spettacolari miniaturizzazioni e citazioni inaspettate (ad
esempio le morbide montagne di alcune vignette richiamano quelle
del pannello del Paradiso Terrestre nel Trittico delle delizie di Bosch,
a loro volta molto richiamate nei paesaggi fantasy di Moebius).
Se in Ma che cosa succede? il fricchettone è vittima di un pesante
scherzo e fugge nel solito deserto, nella seconda storiella sta per
esplodere in una crisi nervosa perché nessuno dei fattoni cui si rivol-
ge sa dirgli se il posto dove si trova sia o no “la comune di Fichincu-
lo”, da lui ricercata con grande evidenza. Proprio nel momento in cui
sta per allontanarsi mandando tutti al diavolo, il tipo si rende conto
che tutti, lui compreso, sono strafatti di mescalina, principio attivo
di un fungo psicotropo gigantesco sorto nei loro paraggi. La scena
finale ricorda la conclusione delle avventure di Asterix, con l’intero
villaggio gallico radunato chiassosamente intorno al banchetto. Solo
che in questo caso non si condivide carne di cinghiale, ma “A’mme-
scalin’ chiù gross e bon chagghj vist! Giuro!”

Il deserto degli Aficionados e l’enigma Francesco Stella

Francesco Stella è un personaggio interstiziale di Andrea Pazien-


za. Compare in varie occasioni, a volte pura evocazione momen-
tanea – come nell’episodio dedicato a Pertini bambino5 – a volte
protagonista di racconti fatti di illustrazioni e didascalie – come nel-
la colorata biografia a lui dedicata in «Frigidaire»6. La sua raffigu-
razione principale è quella di un giovanotto baffuto e longilineo. La

5 Cfr. Pazienza A., Tutto Pazienza. Pertini e la prima Repubblica, vol. 4, Repub-
blica- l’Espresso, Roma, 2016, p. 86.
6 Mensile di fumetti, giornalismo d’inchiesta e consumi culturali fondato a Roma
nel 1980, diretto da Vincenzo Sparagna e impostato graficamente da Stefano
Tamburini. Pazienza, in particolare tra il 1981 e il 1983, fu tra i collaboratori
più assidui della rivista, di cui fu tra i fondatori. Sulla storia di «Frigidaire» cfr.
Scòzzari F., Prima pagare poi ricordare. Da «Cannibale» a «Frigidaire». Storia
di un manipolo di ragazzi geniali. Coniglio Editore, Roma, 2004 e Sparagna V.,
44 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

stabilizzazione grafica si realizza nel lungo racconto Aficionados (48


tavole), di cui Francesco Stella è protagonista. È una storia piuttosto
eccentrica nel pur conclamato eclettismo di Pazienza: l’unità di mi-
sura non è la vignetta con i balloon, ma l’illustrazione commentata
da una voce narrante, resa con il consueto e inconfondibile stampa-
tello, sotto cui si aprono talvolta dei dialoghi a fumetti.
L’incipit rivela una nuova disposizione nel lavoro di Pazienza: il
trattamento è da racconto storico, dove la definizione della situazio-
ne è scandita da rigorosi dettagli tecnico-militari:

Al momento dell’entrata in guerra (10 giugno 1940), la situazione


delle unità corazzate dell’Esercito italiano non era qualitativamente
delle migliori. Esistevano tre divisioni corazzate, ciascuna con un reg-
gimento carri (“Ariete”, “Centauro” e “Littorio”), ma che, tranne per
due battaglioni dell’”Ariete”, armati con i nuovi carri M11, erano anco-
ra equipaggiati con i leggerissimi L3, che come concezione risalivano a
quasi 10 anni prima, ed erano pertanto pressoché inservibili nelle nuove
circostanze. Esistevano inoltre numerosi battaglioni autonomi, nonché
tre gruppi carri veloci di Cavalleria, inquadrati nelle divisioni Celeri.
Anche queste unità erano equipaggiate con gli L3.
Cinque compagnie di frontiera avevano materiale ancor più antiqua-
to (Fiat 3000).
Erano stati recentemente adottati dei nuovi modelli, però, più ag-
giornati, tra cui un’ottima autoblinda, un moderno carro leggero ed un
nuovo tipo di carro medio derivato dall’M11: l’M13.
Ma, mentre quest’ultimo poté entrare in produzione quasi subito,
autoblinde e carri leggeri non poterono essere distribuiti prima della
seconda metà del 1941, e fino allora le grandi unità restarono prive dei
reparti esploranti.

Al tenente Francesco Stella, ex-maestro di tennis di Livorno, vie-


ne affidato il compito di perlustrare la zona algerina di Touggurt in
cerca di oasi, mentre il battaglione “Littorio” è costretto a rientrare
in Libia. Stella è posto a capo di una pattuglia che comprende il ca-
poralmaggiore “a nome D’Angelo Marcello” e due soldati semplici.
Hanno in affidamento un M13.

Frigidaire. L’incredibile storia e le sorprendenti avventure della più rivoluziona-


ria rivista d’arte del mondo, Rizzoli, Milano, 2008.
In principio era il Caos 45

Il caldo del deserto arroventa l’autoblinda: il tenente Stella tra-


disce fin dal principio una natura indolente, non lontana da quella
dei sottoposti. Indecisi se viaggiare di giorno o di notte, finiscono
per sonnecchiare per la maggior parte del tempo, perdendosi nel de-
serto senza strumenti di orientamento affidabili. La piccola ciurma
rumoreggia, e Stella sembra perdere di credibilità. Tuttavia il tenente
dimostra di avere fortuna e un carattere imprevedibile, capace di
subitaneo ardimento: l’autoblinda è capitata a poche dune da un ac-
campamento inglese polifunzionale (principalmente deposito d’armi
e campo di prigionia), e Stella, protetto dalla bandiera bianca del
messaggero, tenta il bluff con l’ufficiale britannico che lo accoglie
attonito.

Riferisca al suo comandante che la base è circondata da due divisio-


ni corazzate e quattro reggimenti di fanteria, che non vogliamo inutili
spargimenti di sangue, anche per tema di colpire i prigionieri o l’ospe-
dale, e che quindi vi chiediamo di arrendervi, senza condizioni. Attendo
una risposta.

Il generale di brigata Spillane, dopo essersi lambiccato ed aver


escluso la possibilità di un bluff da parte degli italiani, decide di
arrendersi, ordinando al proprio ufficiale di leggere come da proto-
collo a Stella “gli effettivi” e dando così modo a Pazienza di allestire
in un lungo balloon un altro dei suoi elenchi maniacali:

Ufficiale inglese: “Duemilasettecentoventitre’ soldati, centosettanta


sottufficiali, ottantasei ufficiali, trenta autoblindo Daimler, cinquan-
ta carri leggeri MK VI, tre carri Churchill III, sei carri incrociatori
A 10, tredici cacciacarri da 76, otto semoventi da 88 Bishop, quattro
officine, cinque cucine, mense, depositi frigoriferi, depositi carbu-
rante, depositi munizioni, sala ricreazioni, circolo ufficiali, impianti
sportivi, servizi igienici, cinematografo, serbatoio acqua potabile,
infermeria, ambulanze, macchine da scavo, ponte radio, etc. Poi il
campo d’aviazione, con otto aerei di cui tre in riparazione, torre di
controllo, etc, poi il campo prigionieri con annessi servizi, orto, etc;
i prigionieri sono tremiladuecentosei dei quali settantadue tedeschi,
il resto italiani, e poi spacci vari, dormitori, autocarri, installazioni
difensive fisse e mobili, etc etc. Prego, una firma qui.”
46 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Stella: “Cos’è?”
Ufficiale inglese: “La ricevuta.”

Allontanatasi l’autoblinda di una quarantina di chilometri, “a tutti


gli acchiappa un convulso di risa tale, che sono costretti a fermarsi”;
del campo inglese resta solo una grande immagine con il generale di
brigata Spillane e i suoi due principali ufficiali visti di spalle, mentre
i loro soldati sono schierati sull’attenti. “Quest’attesa mi snerva” –
proferisce Spillane, la cui pipa disegnata lateralmente fa venire in
mente il vecchio Pertini.
Poi, protetti dalla sabbia che li ha sepolti durante una tempesta, i
soldati italiani hanno il colpo di fortuna e la freddezza di sorprendere
una pattuglia inglese che era stata mandata a rintracciarli, emergendo
letteralmente dalla sabbia e bombardando due carrarmati, prima che
l’aereo Churchill III si schianti nel tentativo di colpirli dall’alto. Ora
Stella e il suo manipolo sono pronti per l’ultima parte della storia,
in un crescendo letterario demenziale. Lo scivolamento narrativo e
lessicale realizza una nuova rapida intrusione nel gramelot foggiano,
questa volta imposto da Pazienza agli abitanti di un villaggio berbe-
ro dove approdano, fuggiaschi e solitari, Stella e i suoi. Rifocillato,
il tenente chiede cosa siano le alte montagne che circondano il vil-
laggio. Questa è la risposta del suo interlocutore, sistemato nel suo
avvolgente tabarro:

Chell’è a muntagn’amort apprress arrét stann’eppuzz da mort, da


eppuzz nasci’o fium da mort, ca se ne va ‘ncopp’a vall da a mort, e
ss’iovér o ninneobver unnossaccio, sacc’io solamente che pure solo uno
le nomina, pe’ doje journe s’adda rattà eppalle. Capitonò? Magn.

L’epilogo della vicenda è improvviso e inaspettato: infilatisi pro-


prio nelle montagne della catena del Grande Atlante, i quattro soldati
emergono in una “terra promessa ricca di boschi e d’acque”, dove
cresce rigogliosa la cannabis. Ospitati in una piccola fattoria nell’al-
to Atlante marocchino, in quel luogo ameno Stella e i suoi soldati
“si stazzano, lontani dalle schegge d’una guerra immonda, a fumare
come dii, riveriti come pascià.” La storia finisce così, anche se poi
Pazienza ci avverte, con due rapide pagine in cui campeggia un’im-
In principio era il Caos 47

magine del tenente Stella in abiti civili e fulminato dalle canne, degli
sviluppi ulteriori delle vite di Stella (morirà giovane) e del caporal-
maggiore D’Angelo (si darà ai traffici internazionali di droga).
Il lungo racconto è una specie di docufiction a fumetti, congegnata
in forma di microscopico episodio bellico. La voce narrante è iden-
tificata dai testi in stampatello maiuscolo, mentre gli sketch si susse-
guono attraverso illustrazioni, eventualmente completate da balloon
scritti, a volte assai pieni (come nell’elencazione degli effettivi del
campo inglese), che danno voce ai personaggi. Pazienza si sposta
con grande disinvoltura dalle didascalie testuali – collocate sempre
sopra l’illustrazione, in modo da anticipare la successiva visione
disegnata – alle immagini a fumetti, sfoderando un linguaggio che
consente di presentare al lettore tutte le sfumature delle sue intenzio-
ni predominanti: esattezza nelle descrizioni, frasi rapsodiche ma non
mielose, applicazione puntigliosa del ragionamento logico elemen-
tare, allusioni antropologiche generali, guizzi demenziali inaspettati.
Ecco un esempio:

Al tramonto, si rimettono in marcia. Ma il sonno, che la notte è solita


propiziare, e soprattutto l’abitudine a fruire del buio in termini spenti e
orizzontali, fa sì che Stella, dopo prudente consultazione, e trovati i suoi
uomini molto più che d’accordo, alle dieci e un quarto dia l’ordine di
accamparsi e montare i giacigli. Stella si addormenta con la sensazione
di doversi trovare, al risveglio, un qualche problema.

La compostezza di questo fraseggio non va disgiunta dal graffito


sottostante, la piccola scritta “To yeah” che si inserisce tra le stelle
sovrastanti il sacco a pelo di Stella sdraiato sul terreno desertico.
Una specie di ricorrente “Ecco qua!” nell’inglese strapazzato da Pa-
zienza, un empito giovanilista-demenziale che finisce per prendersi
gioco delle frasi appena uscite dalla didascalia. Una volta trovata la
chiave giusta per condensare in parole pertinenti e comprensibili al
lettore contemporaneo il clima del momento storico (correva l’an-
no 1942), Pazienza strizza l’occhio a chi può cogliere un passag-
gio ulteriore: è una storiella anche questa, l’atmosfera bellica è solo
escamotage di appoggio alla vecchia idea che, nello stato di estrema
necessità, emergono i veri caratteri della personalità umana.
48 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Ma quali sono i caratteri autentici del tenente Stella? L’indagine


psicologica di Pazienza punta al comico e non è quindi troppo det-
tagliata: nei sogni il tenente ritorna sui campi da tennis, ma nella
veglia non appare turbato né insoddisfatto per la propria condizio-
ne di soldato. Nella prima parte della storia il carattere di Stella è
indolente e poco acuto. Non vi è socializzazione con l’equipag-
gio, che rumoreggia. Quando l’autorità del tenente sta per essere
messa in discussione, egli elabora fulmineamente e senza alcuna
consultazione un piano temerario a danno di soverchianti forze
inglesi. Recita la sua parte di assalitore in modo del tutto convin-
cente, dimostrando nervi saldi. Questo aspetto della sua personali-
tà si rivela decisivo anche nel successivo episodio dell’emersione
dell’autoblinda italiana dalle sabbie del deserto, dopo un’attesa
lunghissima nel calore insopportabile del carrarmato sepolto. La
conclusione dell’indagine psicologica su Stella porta a un terzo
risultato: il tenente è ora un pacifico contemplatore di panorami
montani, totalmente disinteressato alla guerra (che la didascalia
apposita definisce “immonda”), molto sensibile al torpore indotto
dall’uso protratto e continuo di cannabis.
Enigmatico nei tratti caratteriali, dal punto di vista grafico Stella
potrebbe essere visto come una declinazione caricaturale del perso-
naggio di Pentothal, di cui porta i baffi, il viso allungato e un naso
piuttosto vistoso. Assomiglia anche al professore del liceo di Verde
Matematico (“Sandro”), a sua volta modellato sulla fisionomia di
Sandro Visca, docente di Figura Disegnata al liceo artistico di Pesca-
ra frequentato dal giovanissimo Andrea Pazienza. Francesco Stella
non è però Pentothal né Pazienza né Sandro Visca: è una sorta di
antenato italico comune, dai tratti meridionali, socialmente goffo e
fortemente individualista, un po’ fesso ma improvvisamente capace
di azioni temerarie, che hanno a loro volta il solo scopo di procurarsi
la più ampia e completa evasione dal suo tempo. La multiformi-
tà caratteriale di Stella è il presagio della sua risoluzione rarefatta:
cullandosi in un edonismo semplice e ancestrale, il tenente arrossa
le proprie pupille con le canne, allontanando ogni sintonia con lo
stato delle cose esistenti. Ogni cosa è uguale, ogni movimento inuti-
le: l’ambizione di Francesco Stella è sostare nell’indifferenza, a sua
volta fondata su ciò che Oscar Glioti definisce “il desiderio di fuga
In principio era il Caos 49

di una generazione assediata, logorata, esausta di tutto e di tutti”7 .


Tutto il contrario della traduzione letterale del racconto di Pazienza:
Aficionados, cioè “appassionati”.

Tutto il contrario, anche, di quanto promettevano le apparizioni


di (altri) Francesco Stella in altre storie di Pazienza. La prima av-
ventura di Stella fu pubblicata nel 1979, nel numero 12 di «Can-
nibale»: un autentico delirio narrativo in otto tavole, pretesto per
complessi dipinti a pennarello con colori vividi e soluzioni grafiche
funamboliche, alla ricerca di una regia della luce che in alcune
tavole ha l’impatto di un capolavoro impressionista. In questo caso
Stella, che Luca Raffaelli definisce come una sorta di “uno, nessuno
e centomila” di Pazienza8, è un napoletano che lavora in una fabbrica
di salsa ed è ossessionato da un sogno di gloria: introdurre il pelato
italiano negli Stati Uniti. La trama è folle e non riassumibile: la sto-
ria di Stella, che comincia nel 1936 con l’emigrazione in America,
finisce per premiarne la dedizione alla produzione di pomodori. Due
anni dopo, nel febbraio del 1981, Stella ricompare su «Frigidaire»
nel racconto Vita e gite: questa volta la sua ossessione è la musica
rock, e l’ambientazione è fantascientifica. Si tratta di un futuro con
evidenti citazioni del presente: pur nato nel 1998, Stella si accom-
pagnerà al leggendario bassista Betty Curtis, molto somigliante a
John Lennon. Inoltre sotto la finestra di questo leggendario bassista
si accalcano i fan per ascoltarne la musica, come era successo a Chet
Baker quando fu imprigionato per droga nel carcere di Lucca nel
1960 e piccole folle di appassionati si spingevano nella via del car-
cere per sentire la sua tromba.
Il linguaggio di Vita e gite è iperbolico nei contenuti ma sommi-
nistrato con un ritmo inedito per le storie a fumetti, rubando lo stile
e il formato alle didascalie delle foto storiche nei grandi periodici
d’informazione, come in questo esempio:

7 Glioti O., Fumetti d’evasione. Vita artistica di Andrea Pazienza, Fandango,


Roma, 2009, p. 148.
8 Raffaelli Luca, Il segno gettato di un performer imprevedibile, in Pazienza A.,
Tutto Pazienza. Amore mio. Storie 1981-1983, vol. 8, Repubblica- l’Espresso,
Roma, 2016, p. 9.
50 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Stella ha pubblicato 2 LP, più un greatest hits doppio. Zeb Mecchei,


il primo, è datato 2025. Resta in vetta alle classifche di tutto il mondo
per ventinove anni. Vende 660 milioni di copie. Il secondo esce a tren-
tadue anni dal primo, si chiama Secondo a Nessuno. A questo album
collaborano: Axsé alle tastiere, Betty Curtis al basso. Sound ingegnere
trissa il successo del primo.

Le otto tavole di Vita e gite sono un’apertura goliardica sull’ec-


cesso spettacolare, con montagne russe impressionanti nella biogra-
fia di Stella e negli snodi narrativi. Il racconto è organizzato come
sequenza di fotografie scelte da un critico musicale affranto per la
notizia della sua scomparsa, e che dichiara di non voler scrivere più
nulla dopo la morte di Stella.
Come sappiamo, la presunta morte di Francesco Stella, idolo mu-
sicale del XXI secolo, non impedisce a Pazienza di allestire – sem-
pre nel 1981 – la commedia del deserto dell’omonimo maestro di
tennis. D’altronde il tenente Stella appartiene probabilmente a un
altro ramo della famiglia, perché nel 1936 non era lui a emigrare in
America per diffondere la pummarola. L’altro Stella, l’imperatore
del pomodoro, fu invece il bisnonno della rockstar del futuro.
Nel 1983, al principio della lunga storia dedicata a Pertini nell’al-
bo omonimo della Primo Carnera, casa editrice di «Frigidaire», vi è
un’altra apparizione di Stella. Questa volta, informa la demenziale
didascalia di Pazienza, “Pertini nasce a Stella nell’800, non a caso,
conosce F. Stella, cugino di Paz, il tipo di irriducibile babbeo sogna-
tore. Pert e Stella fanno complemento”.
Anche questa potrebbe essere una pista per la ricostruzione di una
genealogia degli Stella, personaggi che meriterebbero il prestigio di
una saga e che invece, nelle more di altre urgenze narrative ingorde e
subitanee del loro creatore, vengono usati come ingredienti di un’e-
popea irrealistica di cui restano solo frammenti. Di questo percorso
irregolare Aficionados rappresenta un vertice di compattezza grafi-
ca e di tenuta letteraria, efficacemente assecondato da una struttura
morfologica (didascalie + illustrazioni) che consente a Pazienza di
esprimere al meglio il suo talento di storyteller e di inventore grafi-
co, cioè di commediografo di un teatro di carta.
CAPITOLO II
PERTINI E IL PARTIGIANO,
O DELLA LEGGEREZZA

La semi-leggenda è stata raccontata varie volte. Il Presidente della


Repubblica Sandro Pertini (1896-1990) avrebbe visto una copertina
de «Il Male» del settembre 1979 che lo ritraeva in forma di fumetto.
La cosa lo divertì e invitò a colazione al Quirinale il direttore re-
sponsabile del settimanale satirico Forattini con Vincino e Sparagna.
Portarono in regalo a Pertini una pipa gigante fatta da un artigiano
e l’originale della vignetta. Andrea Pazienza, che pure aveva dise-
gnato la copertina che era piaciuta al Presidente, non era presente
all’incontro. Gli altri dissero che Andrea si trovava fuori Roma e che
l’avevano cercato per telefono senza successo. Forse andò proprio
così, o forse i più anziani redattori preferirono che Pazienza non ci
fosse, temendo qualche esuberanza. Lui se la prese a male, come non
mancò di far notare in alcune storielle successive.
Nonostante questo piccolo (non) avvenimento, Pazienza continuò
di tanto in tanto a disegnare Pertini, fino a che, nel 1983, Vincenzo
Sparagna (nel frattempo diventato direttore di «Frigidaire») gli lan-
ciò l’idea di fare un albo interamente dedicato al presidente-partigia-
no, seguendo il proprio impulso cabarettistico nelle tavole a fumetti.
Ne uscirono tanti piccoli sketch di una pagina, preceduti da un titolo
dedicato al Presidente (Pertini partigiano nella Val Camonica, Per-
tini alle grandi manovre, Pertini partigiano della notte, eccetera).
Italo Calvino così definiva il suo rapporto con la leggerezza:

Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie stra-
de e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una de-
finizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia ope-
razione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di
togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città;
52 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al


linguaggio.1

È ciò che Pazienza è riuscito a fare in gran parte della sua


produzione, e certamente in quella caratterizzata dalla comicità, di
cui le vignette di Pertini sono uno spicchio significativo.
In che modo l’artista riesce a operare una “sottrazione di peso” al
proprio lavoro? Nel caso degli sketch su Pertini, Pazienza si trova di
fronte il problema di “serializzare” il Presidente, cioè di rendere un
esponente politico – dal grande passato ed eletto alla massima carica
dello Stato – un personaggio comico, capace di far ridere il lettore
senza smentire il rispetto collettivo nei suoi confronti. Questo senti-
mento si era nel frattempo trasformato in plateale simpatia e affetto
per l’anziano Presidente, per via dei popolari e inediti comportamenti
da lui tenuti nel corso del suo mandato. Solo alcuni esempi: nel 1981
gli italiani lo videro in piedi per ore di fronte al dramma di Alfredo
Rampi, un bambino caduto in un pozzo artesiano di un terreno agri-
colo di Vermicino (vicino a Frascati) rivelatosi profondissimo. Quella
notte, tramite la diretta televisiva, mezza Italia partecipò alla tragedia,
e la presenza instancabile di Pertini sembrò a tutti la testimonianza
più autorevole dell’estremo impegno delle istituzioni nel tentativo di
salvare il bambino e la sincera manifestazione di un dolore e di una
compassione personale da parte del vecchio partigiano. Nel 1983,
Pertini assistette alla finale della Coppa del Mondo di calcio tra Italia
e Germania, e le telecamere ne inquadrarono le scene di frenetico en-
tusiasmo e di giubilo per la prestazione degli azzurri. Il settennato di
Pertini (1978-1985) ebbe inizio pochi mesi dopo l’omicidio di Aldo
Moro da parte delle Brigate Rosse e si chiuse circa un anno dopo la
morte di Enrico Berlinguer, scomparsa che rappresentò un vero e pro-
prio lutto personale per il Presidente, che aveva sempre apprezzato il
coraggio politico e il carattere riservato del segretario del Pci. Ulte-
riore popolarità si riversò su Pertini allorché si rivolse pubblicamente
ai deputati e ai senatori, sferzandoli per l’inefficienza istituzionale
successiva al terremoto dell’Irpinia, nell’autunno del 1980.

1 Calvino I. (1993), Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio,


Mondadori, Milano, 2015, p. 7.
Pertini e il Partigiano, o della Leggerezza 53

Alla fine degli anni ’70 Andrea Pazienza apparteneva al rutilante


crogiolo del “Movimento”: non è mai stato un classico militante, ma
certamente le sue amicizie e il suo humus politico-culturale non pos-
sono che essere rintracciati nella galassia dell’estrema sinistra, che
stava abbandonando le forme e le pratiche dei gruppi partitici “alla
sinistra del Pci” a favore di nuove aggregazioni. La parola-chiave fu
“autonomia”, un’espressione che fa sentire immediatamente l’estra-
neità (o il suo allontanamento) dalla tradizione classica del movi-
mento operaio. La sinistra storica – in primo luogo il Pci – divenne il
principale bersaglio polemico del movimento del ’77 e dell’Autono-
mia Operaia. Pazienza non era lontano da questo sentire, che partiva
dalla centralità di un nuovo segmento di classe (il proletariato gio-
vanile), secondo l’equazione “società uguale fabbrica” e “operaio
fordista uguale operaio sociale”. Come si spiega allora l’attenzione
vignettistica e narrativa dedicata dall’artista a Pertini, figura politica
che certamente era parte della tradizione contestata?
La prima apparizione pubblica di Pertini tra i pennarelli di Pazien-
za risale al 1979, nella famosa vignetta che piacque al Presidente.
La cronaca di quei giorni si occupava diffusamente del rapimento di
Fabrizio Dé André in Sardegna. Pazienza ritrae Pertini solitario su
sfondo celestino con occhiali da sole, bastone da passeggio, coppo-
la bianca, improbabile maglione da montagna, pantaloni alla zuava.
Con l’immancabile pipa stretta tra i denti dichiara in balloon suc-
cessivi: “Sono addolorato per De André, quel bravo canzonettista.
Di lui mi piacevano in particolare «Re Carlo torna dalla battaglia
di Poitiers», la famosa «Marinella» e «Stasera mi butto»”. Per poi
aggiungere nell’ultimo baloon: “Mi butto con te!”

Andrea Pazienza ritrae Pertini – scrive Giancarlo De Cataldo – in


formato mignon, alludendo alla sua bassa statura, burbero, come ap-
pariva quasi sempre, e gli attribuisce uno svarione anch’esso allusivo:
poiché Stasera mi butto non è certo di De André, soavemente si sottoli-
nea l’ormai certificato rincoglionimento senile del Presidente.2

2 De Cataldo G., Pertini e Paz, due ragazzi irrequieti, in Pazienza A., Tutto Pa-
zienza. Pertini e la Prima Repubblica, vol. 4, Repubblica- L’Espresso, Roma,
2016, p. 11.
54 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Pertini divenne Presidente a 82 anni, un’età in cui le sovrapposi-


zioni dei ricordi non sono infrequenti. La virata di Pazienza va al di
là di un’ipotetica confusione senile, e getta il personaggio di Pertini
nella veste di commentatore demenziale di un drammatico fatto di
cronaca. Il demenziale ha a che fare con lo spiazzamento degli ele-
menti discorsivi e con la tensione iperbolica, entrambi presenti nella
vignetta de «il Male». Dopo aver citato un pezzo particolare del re-
pertorio di De André3 e poi una delle sue canzoni più note, Pazienza
fa sbagliare Pertini in modo clamoroso, attribuendo a De André una
canzone-tormentone del 1968, quintessenza di un pop commerciale
agli antipodi della produzione del poeta genovese. D’altronde tutti,
in Italia, conoscevano all’epoca il successo del cantante afro-ameri-
cano Rocky Roberts e ne sapevano a memoria il testo o, come mini-
mo, il refrain. Perciò quando Pertini pronuncia il titolo intruso (“Sta-
sera mi butto”) c’è un primo effetto comico (per spiazzamento, per
plateale incongruità), bissato e rafforzato dalle parole con cui Pertini
dimostra, come tutti i cittadini italiani, di conoscerne il tormentone
(“Mi butto con te!”), deragliando inesorabilmente dal tracciato iden-
tificativo della produzione di De André.
Demenziale è anche un’altra vignetta, pubblicata nel corso della
storica visita di Pertini nella Repubblica Popolare Cinese: si trattò
della prima visita di un capo di stato italiano in Cina, e dunque di
un evento storico. La caricatura di Pertini si affianca a quella di un
leader del Partito Comunista Cinese (non c’era il Presidente Mao,
morto nel 1976). Nell’abbigliamento che già conosciamo grazie alla
precedente e più celebre vignetta, Pertini sibila all’orecchio del suo
ospite: “E De André? Dove l’avete? Tiratelo fuori, musi di scim-
mia!” Il viaggio in Cina (settembre 1980) si svolse un anno dopo il
rapimento di De André, che fu rilasciato dai sequestratori nel dicem-
bre 1979. Quindi non solo c’è l’effetto di spiazzamento dovuto in
questo caso al tono inquisitorio e offensivo di Pertini nei confronti
del suo interlocutore cinese (investito di un’accusa talmente inve-
rosimile da far scattare la prima risata), ma c’è un nuovo raddoppio
comico perché Pertini sembra del tutto inconsapevole della ormai

3 Re Carlo torna dalla battaglia di Poitiers, testi di Fabrizio De André e Paolo


Villaggio, 1962.
Pertini e il Partigiano, o della Leggerezza 55

lontana liberazione del cantautore rapito. Il già citato “rincoglioni-


mento senile” apre così le porte a una percezione divertita del modo
di funzionare di Pertini: una volta che ha imboccato la sua erronea
deriva va avanti come un treno, con una schiettezza abrasiva. E Pa-
zienza lo incoraggia, proponendone una fisionomia pupazzesca con
elementi di realismo spiccato, quasi fotografico, nel mentre ne ac-
corcia vistosamente la figura.
Negli sketch dell’albo interamente dedicato a Pertini il realismo
viene accantonato: l’atmosfera è quella di una striscia vignettistica
che ha bisogno di figure cui togliere segni e peso grafico. Pertini vie-
ne alleggerito iconograficamente e potenziato caratterialmente: non
è solo, e non tanto, un anziano con la memoria difettosa e verbal-
mente schietto fino alla ruvidezza. È un collerico, un decisionista, un
fustigatore, un donnaiolo, un capo intransigente fino alla spietatezza.
La strategia narrativa di Pazienza per evidenziare questi caratteri
e spingerli verso il risultato comico è la creazione di un altro perso-
naggio, con caratteri contrapposti. Fisicamente è alto e dinoccolato,
psicologicamente instabile e ingenuo fino alla demenza, pasticcione,
codardo, debole di fronte a ogni minaccia. Questo partigiano si chia-
ma Paz: è il pupazzo con cui si autoritrae l’autore, e che compare
fin dalla prima tavola di Pertini. Il ruolo di Pazienza è quello del
“luogosergente” di Pertini: un ruolo inesistente e surreale, su cui si
addensano le apposite costruzioni del demenziale, fatte di incongrui-
tà spazio-temporali, missioni sabotate dall’incompetenza di Paz ed
esplosioni di collera di Pertini. Dunque ora il cabaret fumettistico
può contare su un duo comico – Pert e Paz – come da tradizione
d’avanspettacolo.
Su questo canovaccio di base si innesta la scrittura di Pazienza,
che fa tutt’uno con il disegno utilizzando uno stampatello maiusco-
lo particolarmente elementare e che, linguisticamente, raduna tutti
i divertissements di Pazienza: svarioni ortografici abnormi e pie-
namente consapevoli (“io e la mia scuadra”), abbreviazioni forzate
(“Ti deferirò al Trib. Pop:”), giochi di parole e rimestii in rima (“Su
Cesera cala la sena”), dialettismi verosimili e non (“Chi m’ha fre-
gato il pallùn!?”; “Quant’è bell sta viduvell!”; “A Belva, nciavemo
na lira!”), anglismi improponibili (“Aiém ammerikans giùrnalist”;
“Faiv minitz”), uso di “k” al posto di “c” e di “x” al posto di “per”,
56 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

come in un’anticipazione del linguaggio adolescenziale negli odier-


ni sms (“Tralikki” per “tralicci”; “3 ore se si è mangiato e 1 ora x la
comunione”).
Paz è vittima dei capricci e della lunaticità del partigiano Pertini,
anche se in ogni avventura (rigorosamente racchiusa in una singola
pagina e ciascuna con un proprio titolo altisonante) è quasi sempre
Paz a istigare il cattivo carattere di Pert. Dimentica a casa le bombe
per un attentato, confonde dinamo di bicicletta con dinamite, non ha
la benché minima resistenza alla tortura, spara nel momento sbaglia-
to e attira sui partigiani nugoli di pallottole, si reca a trovare Pertini
in carcere portandogli aggeggi sbagliati per evadere, eccetera. È un
inguaribile pasticcione e cerca ogni occasione per svicolare dai com-
piti di partigiano.
Pertini, rispetto a lui, è una roccia. Sempre molto deciso e pro-
attivo, si attende da Pazienza capacità organizzative impossibili. In
realtà Pert si diverte sadicamente con Paz: nonostante i ripetuti fal-
limenti, lo rimette continuamente alla prova per poi punirlo, sia con
sonori schiaffoni sia con iterati insulti. Nello sketch “Pertini par-
tigiano a Porretta Terme” Paz deve mettere su una “scuadra” per
catturare generali tedeschi che si servono dei benefici fanghi delle
terme, ma confessa a Pert di non avere alcun uomo per formarla.
Pertini lo guarda severo e gli comunica: “Allora ci andrai: Tu, Quel
fesso che sei, La parte migliore di te, Quel cretino che sei, Quel ba-
lengo che sei. A quanto stiamo?” “A 4” – risponde Paz. “Porta pure
Quel babbione che sei. Buona fort!”
Pertini dà raccomandazioni continue a Paz (“Paz. Aspetta qui, mi
raccomando di non fumare. Se fumi ti vedono”), ma il luogosergente
le disattende ogni volta. A volte il rapporto tra i due prende la piega
di una relazione tra esperto e inesperto, come in “Pertini partigiano
a Cesena”, dove Pert, sinceratosi dell’interesse di Paz per il sesso,
gli promette una notte indimenticabile con delle sue amiche. Questo
il dialogo:

Pert: “A proposito Paz, ma tu, hem, a fighe… Sì insomma… Come sei


messo? Dì. Hm?”
Paz (eccitatissimo): “A me, Pert, la figha me fa ‘mpazzì!”
Pert: “Bravo Paz, allora… Stanotte si scopa!”
Pertini e il Partigiano, o della Leggerezza 57

Paz: “Fussamadònn.”
Pert: “Non ti fare seghe fino a stasera!”

Sorpresi dai “tedeski” mentre si stanno recando dalle amiche di


Pertini, i due hanno reazioni opposte: Pert, visto il numero dei sol-
dati nemici, vorrebbe arrendersi, mentre Paz è colto da un impeto di
ardimento a sfondo sessuale (“E rinunciare alla figa? Mai!”) e si get-
ta contro i nazisti con forza sovrumana. L’ultima vignetta consegna
a Pertini la sadica conclusione. All’appuntamento si presenta solo
una delle due amiche, che si è portata invece dietro un amichetto
(“Senti Sandro, un’amica non l’ho poi trovata, ho portato Filiberto,
non è che al tuo amico dispiace, no?”). “A lui? Macché!” – risponde
un irridente Pertini.
D’altronde il capo-partigiano a fumetti mantiene alcuni caratteri
del Pertini reale, raccontato dai testimoni storici. In due sketch acco-
stati dal titolo “Gli interrogatori di Pertini Alessandro”, il futuro Pre-
sidente si prende gioco di un giudice fascista che non riesce a scal-
firne in alcun modo la caustica fierezza. L’ultima vignetta presenta lo
stressato inquisitore incapace di prendere sonno. “Pazienza, ci vuole
pazienza, prima o poi lo piegherò!” Sono le sue ultime parole, dove
il gioco ulteriore è sul cognome dell’autore. In fondo, è vero che
per proseguire sulla falsariga della linea slapstick che Pazienza ha
scelto per raccontare il suo Pertini il solo Pert non basta. Ed è anche
vero che il “Pazienza luogosergente” è lo stratagemma principale
attraverso cui l’artista toglie peso alle cornici storiche e alle narra-
zioni tradizionali, facendo entrare nella Resistenza personaggi come
Guccini o giochi moderni come il Risiko. Quindi l’affermazione “Ci
vuole Pazienza” va intesa nella leggerezza strategica di questo lavo-
ro a fumetti, mentre le improbabili vicende dei due partigiani con-
sentono al disegnatore di recuperare lo sgarbo ricevuto dai respon-
sabili de «Il Male» che non lo convocarono a conoscere di persona
il Presidente. Tutto Pertini, anzi, può essere letto come una sorta di
contrappunto, se non di ludica ripicca, al mancato invito. Visto che
alla fine Pazienza non aveva potuto conoscere di persona Pertini,
l’autore lo fa diventare addirittura il suo compagno di avventure.
L’albo di sketch si conclude con un inatteso racconto, diverso dal-
le vignette fino a qui trattate. Si intitola semplicemente Pertini, ed
58 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

è inaugurato da una tavola sovrastata da fregi, come spesso accade


nelle storie di Pazienza, cui piace valorizzare le titolazioni, come in
un incipit medievale modernizzato. In questo caso il nome dell’auto-
re compare in alto al centro, mentre alla sinistra del lettore un tondo
ricorda il brillante punteggio di Andrea agli esami di maturità del
liceo artistico nel 1973 (60/60) e a sinistra un altro tondo ricorda, in
controcanto, che era ormai passato un decennio (1973-1983) dall’i-
scrizione dell’autore, fuoricorso pluriennale, al Dams di Bologna.
Al centro della tavola d’inizio c’è un bambino in giacca e cravatta,
che gli vanno abbondantissime. È Pertini da infante, e fa tenerezza
nonostante le prime pagine del racconto siano demenziali: Pazienza
lo fa incontrare con “F. Stella” (presentato come “cugino di Paz”) e
gli fa predire il futuro dalla “nonna di Enzo Bearzot” (!). Poi però la
storia cambia: in grandi tavole dal disegno unico, ingrandendo vi-
gnette singole e associandole a un lettering chiarissimo e piacevole
in stampatello maiuscolo, il piccolissimo Pertini sogna il proprio fu-
turo e tutti i personaggi che dovrà conoscere come politico. Pazien-
za ne seleziona alcuni (Craxi, Andreotti, Pietro Longo, Almirante e
Pannella) tratteggiandoli acidamente (con l’eccezione di Pannella),
aumentando i giri del racconto e spingendosi a un riassunto della sto-
ria italiana contemporanea che assume il tono di una condanna defi-
nitiva della classe politica, e dove prendono posto anche personaggi
ancora oggi noti all’opinione pubblica, come Maurizio Costanzo,
cui Pazienza riserva un trattamento particolarmente duro (“(…) il
ciccione fustigatore di costumi, anche lui piduista”). L’autore si por-
ta a spasso il lettore fino al possibile incontro dal sapore complot-
tistico con un “misterioso tramatore”: il bambino Pertini vedrà sé
stesso nel futuro, cioè come il Presidente Pertini, che viene definito
“l’ultimo esemplare d’una razza d’uomini duri ma puri come bam-
bini”. Invece dell’incontro con “il misterioso personaggio al centro
di tutto”, ecco però un’altra sterzata narrativa: il grande colpevole è
“lui, lui che ci disegna, il ragno maledetto. E se non vuole, né Pert né
alcun altro lo troverà mai!”. Il colpevole di ogni messinscena, come
sempre, è chi inventa le storie. Ma la tavola successiva svia, per l’en-
nesima volta, l’attenzione del lettore. Come in una notazione di dia-
rio ingigantita, l’autore scrive: “Paz, e quelli come lui, indifferenti a
tutto indifferenti a tutto indifferenti a tutto a tutto a tutto”. Le ultime
Pertini e il Partigiano, o della Leggerezza 59

righe sono graffiate da una particolare cancellatura curvilinea, cui


seguono le lettere della parola “FINE” in grandi e massicci caratteri.
La “E” finale è rappresentata con le dita dell’autore che danno gli
ultimi ritocchi di pennarello alla base della lettera.
“Indifferenti a tutto”: è una frase che colpisce, posta paradossal-
mente al termine di una narrazione in cui Pazienza era sembrato
partecipare con particolare empito alle vicende raccontate, non solo
prendendo le difese di Pertini, ma aggredendo il sistema del potere
politico italiano con durezza e senza esitazioni. Invece, alla fine la
temperatura si raffredda: la scelta di Pazienza è di guardare al di
là del gioco momentaneo della critica e della satira e di ammettere
un disinteresse sostanziale. È un tempo, sembra dire l’artista, in cui
tutto sembra uguale, in cui il potere è pervasivo e insieme lontano,
in cui le passioni scemano. Non c’è più differenza tra le cose. Invece
no. Proprio nell’ultima tavola la modalità narrativa cambia di nuovo:
Pazienza scrive una letterina in corsivo minuscolo che, mimando gli
errori ortografici infantili, dice così:

Caro Pres, se anche alcune di queste paginette t’hanno fatto arrabia-


re, seppure non te ne è piaciuta manco una, se mai abbi a pensare che mi
sono approfittato di te, oppure, peggio di tutto, non ti sei riconosciuto
nel mio pupazzetto, sapi che comunque, anche qui dai sobborghi della
giovane Italia, ti si vuole un gran bene. Tuo Paz.

Paz si ricongiunge a Pert in uno slancio affettivo che bypassa il


clima indifferente e freddo dell’epoca. Ma è bastata quella pagina
intinta nell’indifferenza a generare inquietudine.

Individualismo partigiano

Un’atmosfera resistente, anch’essa del tutto speciale, si respira in


un’altra storia di Pazienza, uscita per la prima volta su «Il Male» nel
1979. Si intitola Il Partigiano, e il suo incipit è sorprendente:

Quando i comunisti arrivarono a San Severo, decisi che non li avrei


retti e che andavo a fare la resistenza sul Gargano, montagna vicina e
intimamente nota. Chiesi a Marcello se veniva, ma si era bruciato la
60 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

faccia a Roccaraso mentre sciava il giorno prima, così mi disse di no.


Siccome il mio vespino porta uno solo, e le strade sarebbero state tutte
in salita, la cosa mi dispiacque ma fino a un certo punto. (nota)

Chi parla si esprime con efficacia, con un paio di giovanilismi


che ne rivelano l’età (“decisi che non li avrei retti”; “il mio vespi-
no”) e alcune espressioni ricercate (“montagna vicina e intimamente
nota”). Come scriverà Pazienza in uno dei riassunti delle puntate
successive, il suo Partigiano è “uno che non accetta questo fatto”,
e cioè che i comunisti abbiano preso il potere e invaso San Severo
“tipo Praga”. La sagoma del sedicente Partigiano non corrisponde
interamente a quella del suo autore, ma i punti di contatto sono più
d’uno, dall’iscrizione all’università di Bologna alla passione per i
fucili subacquei. Anche se vestito in jeans e maglia per tutta la sto-
ria, il Partigiano porta con sé gli indumenti che avrebbe scelto il suo
autore per un’escursione: da una delle primissime pagine escono,
nitidi e riconoscibili,

2 Lacoste, una maglia intima manica lunga, 3 paia di calzine, 1 paio


di calzettone, Levis, scarpe da tennis, 2 slips, un maglione pesante, pan-
taloni corti, una cinta, berretto passamonte, speedo, occhiali da sole.

Tutti questi elementi, disegnati in modo elegantemente elementa-


re, convivono con oggetti da persona previdente, come

acqua ossigenata, binocolo, candela di ricambio passo lungo, una


tanica di litri 10 di miscela per la vespa, cavatappi & apribottiglie, siero
antivipera, martello e chiodi, aspirina e nisidina, 1 l. di olio buono, bor-
raccia, cerotti, mentini, crema per le emorroidi.

Non mancano gli oggetti di genere voluttuario (“tocco di fumo”,


“cartine”) né le armi (“doppietta cal. 16”, “cartucce con piombo
5 cal. 16”, “opinel”, “pistola SUB”, “asta e fiocina di ricambio”,
“pompa pistola SUB”). In tutto, Paz disegna e denomina una sessan-
tina di elementi. La sua smania di precisione è tale che aggiunge a
piè di pagina con scrittura ancora più piccola di quella che ha usato
per gli oggetti la seguente avvertenza: “Dal che si deduce che vuole
farsi crescere la barba”, con ciò giustificando l’assenza di rasoio e
Pertini e il Partigiano, o della Leggerezza 61

schiuma dalla tavola. La storia non è ancora partita e già l’autore ci


assale con un elenco maniacale, dando un senso di ordine apparente
a una vicenda che ancora ci sfugge.
Come e perché i comunisti arrivarono a San Severo? Di quali co-
munisti si tratta? Solo nel riassunto che apre la quarta puntata ci
viene detto qualcosa:

Guerra! Il polipo comunista ha invaso l’Europa! Gran Bretagna, Ger-


mania, Lazio, Umbria, Francia sono state invase dal polipo con i suoi
tentacoli! Ma da San Severo (Fg) parte il fuoco della rivolta, che spinge
uno a resistere sul Gargano, a San Menaio.

In realtà il fuoco della rivolta latita, sostituito da una serie di sce-


nette in cui il Partigiano si dimostra poco credibile. Già nella seconda
puntata Pazienza fa sparire la vespa (rubata da ignoti) al Partigiano,
che si ritrova così menomato nella sua fuga resistenziale. Il ragazzo si
muove goffamente in un ambiente peraltro a lui ben noto, dove si trova
anche la casa al mare dei genitori. Ma la sua nuova base è subito violata
dai parenti, in arrivo per il weekend. La vicenda sembra un pretesto
per le trovate demenziali di Pazienza, che fioriscono di pagina in pagi-
na, mentre l’autore domina la tavola pur con vignette molto piccole, e
tuttavia precisissime. Alcuni scambi sono esilaranti, come quello che
riporto nelle prossime righe, in cui l’effetto comico non è dovuto unica-
mente alla sequela di insulti che si scambiano il Partigiano e un autista
di autobus piuttosto villano, ma soprattutto al finale, in cui – magia del
demenziale – i due recuperano un saluto sobrio ed educato.

Partigiano: “Tiè vafanculo!”


Autista: “A sorét!”
Partigiano: “A mamm’t!”
Autista: “Acchì t’è mmurt”
Partigiano: “Acchì t’è stramurt!”
Autista: “Buonasera.”
Partigiano: “Buonasera.”
Partigiano: “Alé!”

Il binario narrativo subisce un primo scossone quando, in un po-


meriggio sonnolento, il Partigiano vede una donna che si sorregge
62 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

con le stampelle, e ricorda la sua vicenda tristissima, dovuta a un


incidente di macchina. Il tragico ricordo fa da campanello d’allar-
me per il successivo sviluppo narrativo. Rimasto solo nella casa dei
genitori, finalmente ripartiti dopo il weekend, il Partigiano riceve la
prima visita dalla Polizia Militare. Un carabiniere con falce e mar-
tello sulla spilletta e due agenti in borghese scoprono la doppiet-
ta calibro 16 in un armadio e, nonostante il Partigiano dichiari che
appartiene al padre cacciatore, gliela sequestrano. Rimasto solo e
ormai convinto che, senza armi, la sua avventura sia finita, il Parti-
giano attacca a fumare il suo pezzo di fumo. Ma i poliziotti tornano
a bussare. Sono i due agenti in borghese, e vogliono violentare il gio-
vanotto. Uno si è già calato i pantaloni, quando il Partigiano riesce a
caricare la pistola sub e a sparargli una fiocinata nel ventre. La svolta
narrativa non impedisce a Pazienza di sciorinare un nuovo pezzo di
precisione, questa volta dedicato alle armi subacquee. Così scrive
l’autore mentre il disegno rappresenta il Partigiano concentratissimo
nel caricare l’arma:

Qualche nozioncina: fucili (nel caso, un Vicojet della Mares) e pisto-


le (è un Medisten, sempre Mares, e come il Vicojet, senza regolatore di
potenza) subacquei sono capaci di sfondare una porta ad una distanza
di un metro e mezzo. Sono silenziosi, leggerissimi, mortali come e più
di un’arma di grosso calibro. Si vendono senza porto d’armi, non hanno
contrassegni, non rispondono a prove tipo guanto di paraffina o perizie
balistiche. Senza il sostegno dato dall’acqua in immersione, sono fati-
cosissimi da caricare.

Il resto della storia è un crescendo furibondo e omicida, attutito


dallo stile grafico che passa come una freccia dal dettaglio jacovit-
tiano al pupazzo sheltoniano, senza mai perdere in esattezza. Il Par-
tigiano si rifiuta di andare a cercare un dottore per il ferito, si eclissa
per la paura di essere arrestato, si rifugia come il Barone rampante
sui rami di un albero, dove medita di espatriare in Sud America.
Sembra deciso: troverà una cabina telefonica e chiamerà la madre
per avere da lei il denaro sufficiente per la fuga. Ma nella cabina si è
trascinato il fiocinato rantolante, che cerca di chiamare aiuto. Il Par-
tigiano lo finisce a colpi di pietra e ne occulta il cadavere: conosce
bene il suo territorio. Fortificato dall’omicidio appena commesso,
Pertini e il Partigiano, o della Leggerezza 63

rintraccia il secondo agente in borghese e lo affronta: quello cerca


di blaterare che ha chiamato la milizia e che questa è in arrivo. “E
invece no!”, ribatte il Partigiano sfoderando imprevedibili capacità
dialettiche. Il poliziotto non ha chiamato nessuno e non andrà da
nessuna parte, perché altrimenti dovrebbe spiegare cosa ci faceva
a casa del Partigiano con il collega e come mai non è intervenuto a
soccorrerlo ed è anzi scappato nonostante il ragazzo avesse l’arma
scarica. Anzi: che si sbrighi ad aiutarlo a ripulire la scena del delitto.
Così avviene.
Infine il Partigiano rientra in una San Severo di Foggia ribattez-
zata dai comunisti Cafograd per annunciare alla madre che sta per
partire per Bologna a sostenere un esame. Le ultime quattro vignette,
minuscole, vedono il personaggio posare i piedi nella città scenden-
do da un autobus. Anche in una manciata di millimetri Pazienza rie-
sce a dare l’idea dello spaesamento del ragazzo nello spazio urbano:
tante insegne di bar, caffè e hotel lo attendono. Una didascalia arriva
nello sguardo del lettore e nella mente del Partigiano:

“Esprimi un desiderio, dimmi cosa vorresti…”.


“Ah! Ah! Vorrei… Ecco… Avere qualcosa da fare, qualcuno da
aspettare… Vorrei aspettare…un vento, un vento forte, sì, un vento.
Qualcosa che non sia… la solita puttanata.”

Dunque l’ostinata resistenza del Partigiano è infine vinta. Non


dall’odiato Partito Comunista, contro cui vale l’antipatia profonda
del movimento del ’77. La resistenza è la risposta alla solitudine, ma
è una risposta perdente, portatrice di nuove sventure, inserite come
di consueto in una cornice demenziale, che non impedisce e anzi
finisce per assecondare la credibilità di una storia inaspettatamente
noir. Il Partigiano vorrebbe qualcuno da aspettare, e insieme un ven-
to, qualcosa in grado di dare senso alle cose.
Il Partigiano è il transito tra Pentothal e Zanardi. La traboccante
fantasia onirica di Pentothal si innesta sulla suggestione resisten-
ziale abbandonando il tratto moebiusiano, preferendogli un eclet-
tico miniaturismo che gioca con le trasformazioni del Partigiano,
inseguendolo nella sua evoluzione da goffo improvvisatore a killer
lucido e consapevole. Pentothal sogna e delira, il Partigiano gestisce
64 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

il proprio delirio e Zanardi agisce esclusivamente in modo lucido e


premeditato: la zona narrativa dove Pazienza decide di avventurarsi
va maneggiata con cura e consapevolezza sempre maggiori. Non si
scherza col male.
CAPITOLO III
ZANARDI O DELL’ESATTEZZA

Nell’iperbole creata dallo stesso artista (“Perché la pazienza ha


un limite, Pazienza no”), l’attenzione si sposta sul connubio talento/
grandiosità/ironia. La frase di Pazienza è una divertente sbruffonata
giocata sull’effetto sempre sorprendente delle sue storie e dei suoi
disegni sui lettori. Ciò che consente ad Andrea di risultare simpati-
co nonostante le sue intemerate narcisistiche (“Pazienza è proprio il
massimo ... Pratikamente una rockstar”, fa dire al personaggio Co-
lasanti in Giallo scolastico) è proprio il suo legame speciale con chi
ama e legge le sue storie. Evocato di continuo con battute apparente-
mente sgangherate che riguardano direttamente una parte del mon-
do giovanile reale, il lettore è convocato per accompagnare l’artista
nel suo andare fumettistico, testimoniandone le imprese grafiche e
narrative. Mentre Pazienza dispiega il suo mondo e le sue storie, il
lettore è chiamato a sederglisi accanto, a vedere come lavora An-
drea. La multiformità del suo estro gli dà agio di aggredire l’avven-
tura con la comicità, variando il segno a piacimento e disponendo di
una libertà espressiva che gli consente di non sentirsi mai stretto nei
vincoli della tradizione pur senza mai rinunciare ad essa come fonte
d’ispirazione, manipolandola liberamente. Eppure, sia la simpatia di
un pubblico storicamente determinato (quello degli anni ‘70 e ‘80)
che riconosce nei suoi personaggi atmosfere e situazioni proprie e
personali, sia il grande e versatile talento dell’artista non bastano a
farci capire perché l’arte di Pazienza non sembri invecchiare e conti-
nui a piacere a distanza di ormai tanti decenni dalla sua produzione.
Per entrare nel merito occorre avvicinarsi all’ “esattezza” di cui parla
Italo Calvino nelle Lezioni americane. Considerata creativa e disor-
dinata, l’arte di Pazienza deve essere invece capita come tensione,
sia grafica sia narrativa, verso l’esattezza.
66 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

“Esattezza – scrive Calvino – vuol dire per me soprattutto tre


cose: 1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2) l’evo-
cazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano
abbiamo un aggettivo che non esiste in inglese, ‘icastico’, dal greco
eikastikós; 3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e
come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione.”1
Proviamo a verificare quanto questa definizione possa compren-
dere l’arte di Pazienza e per quali motivi, cercando di riconfezio-
nare il concetto di esattezza alla luce del lavoro dell’artista. Pren-
diamo il racconto breve probabilmente più celebre di Pazienza, il
già citato Giallo scolastico (1981), la prima apparizione di Zanar-
di (“Zanna per gli amici”) e dei suoi sodali Colasanti (“Colas”) e
Petrilli (“Pietra”). La storia è assai più rispettosa di altre del lin-
guaggio convenzionale dei fumetti. L’unità di misura generale resta
la tavola (con il colpo d’occhio olistico irresistibile per il lettore),
ma è la componente più piccola – la vignetta – che si fa invadere
dalla precisione, componente decisiva dell’esattezza. Mi riferisco a
una precisione grafica che consente a Pazienza di addomesticare i
suoi pupazzi, a volte rendendoli parte di un mondo coerentemente
morbido e infantile, a volte completando nei dettagli la loro fisio-
nomia realistica e inserendoli in un mondo altrettanto realistico. Il
racconto è composto da quattordici tavole, a loro volta lavorate a
partire da un alto numero di vignette per tavola (dodici, anche se
in alcune pagine ne compaiono di più o di meno). Le vignette sono
poco meno di 160, anche se alcune sono in qualche modo doppie,
perché, senza confini grafici netti tra loro e mettendo insieme due
situazioni contemporanee ma diversamente dislocate, ne enfatizzano
la portata (ad esempio mentre Petrilli esamina con disappunto dei
documenti alla luce di una lampada da scrivania, nell’altra mezza
vignetta Colasanti amoreggia con una signorina nel sordido “club-
bino”: la fluida giustapposizione spiega eloquentemente la diversi-
tà non solo delle situazioni ma delle personalità dei due ragazzi).
Naturalmente c’è spazio per l’esplosione episodica della vignetta,
come a segnalare l’impossibilità di Pazienza di stare unicamen-

1 Calvino I. (1993), Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio,


Mondadori, Milano, 2015, pp. 59-60.
Zanardi o dell’Esattezza 67

te nei contorni rettangolari consolidati; per meglio dire, Pazienza


riesce a evadere dalla vignetta pur rispettando il fondamento del-
la tradizione. Ad esempio, alla notizia che la figlia adolescen-
te dell’odiato bidello Rocco (di cui Zanardi vuole vendicarsi) si
trova nello stesso locale notturno dove il giovanotto e Colasan-
ti stanno scambiandosi informazioni, Pazienza crea intorno a uno
Zanardi trasfigurato in pupazzo malefico un arabesco di segni gra-
fici che rappresentano la rabbia e la determinazione alla vendet-
ta, e che sfondano il lato basso della vignetta (come a colpire l’i-
gnara figlia del bidello, collocata in altra vignetta, poco più sotto).
Ma la direttrice che Pazienza si dà in questo suo fulminante gioiel-
lo narrativo è piuttosto la lavorazione impeccabile del montaggio,
puntando su una brillante essenzialità della sequenza di immagini. È
il caso del furto da parte di Zanardi di una macchina fotografica Po-
laroid in un sorvegliatissimo negozio bolognese: furto e fuga pren-
dono complessivamente nove vignette (compresi tutti i movimenti
da cartoon compiuti dal giovanotto in fuga per attraversare come
un pazzo mezza città), inclusa quella dell’uscita di scatto di Zanna
dal negozio con la refurtiva in mano, vignetta che da sola occupa
un terzo di tavola. La sequenza arriva dopo che Zanardi aveva chie-
sto a Colasanti, quindici vignette prima, se possedesse una Polaroid
(risposta negativa). Poi Zanardi si era dedicato alla seduzione del-
la figlia del bidello Rocco: tentativo andato a buon fine, come sarà
costretto ad apprendere lo stesso Rocco, avvertito da una perfida
telefonata di Zanna.
“Pronto Rocco? Sono Zanardi! ... Hai una figlia niente male, me
la sono appena scopata, allarga le cosce che è un piacere! Allegro!
Se tutto va bene, ti faccio nonno! È così difficile stare attenti. Ciao
Rocco, omaggi alla signora!”

Infine Colasanti (quando la vicenda, senza vignette di transizione,


era migrata nell’aula della classe liceale) passa un misterioso bigliet-
tino al secchione Infante. Zanardi ricompare solitario nella vignetta
successiva: il lettore è avvertito dai suoi pensieri che ci sono tele-
camere ovunque nel negozio di macchine fotografiche, poi una se-
conda vignetta mostra le sole mani di Zanna che si impadroniscono
di una scatola Polaroid mentre nei suoi pensieri si compone il verbo
68 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

“arraffare” e una terza inquadra solo la scarpa e la gamba destra del


giovane ladro mentre un piccolo e basso balloon proveniente dalla
sua sinistra urla: “Hey, fermo!” e il verbo “telare” (scappare) risuona
mentalmente imperativo per l’arraffatore.
Poi Zanna riesce a scappare dal negozio sfuggendo a un inserviente
(una vignetta di dimensioni triple rispetto alle altre), correndo come
Speedy Gonzales per mezza città (quattro vignette diverse) e infine
lo troviamo ansimante e vincitore nella nona vignetta della sequen-
za, mentre sullo sfondo l’insegna di un cinema pubblicizza il film
“Vestito per soffriggere” del regista Brian De Eno, crasi delirante e
demenziale di Brian De Palma e Brian Eno, mescolati da Pazienza
per deformare il titolo italiano del film di De Palma “Vestito per ucci-
dere” (un cult del 1980). Le scritte sono minuscole, ma perfettamen-
te leggibili, a testimonianza di un’eccentrica e inesorabile esattezza.
Di nuovo un caos di natura quasi jacovittiana si accoppia alla pre-
cisione di un narratore modernamente cinematografico. Un volto,
due mani, una gamba, un furto, una fuga: uno snodo narrativo fon-
damentale annunciato da una sola domanda di Zanardi a Colasan-
ti (“Hai una Polaroid?”), ripreso quindici vignette dopo senza una
spiegazione e svolto attraverso la più essenziale delle sequenze: que-
sto percorso esemplifica l’esattezza di Pazienza scrutata dall’interno
di uno dei momenti della storia. Ma è la storia nel suo complesso a
rivelarsi “esatta”: per dirla con Calvino, vi è “un disegno dell’opera
ben definito e ben calcolato”. Giallo scolastico è senz’altro un’opera
che contiene un preciso progetto narrativo: attraverso Zanardi, un
ragazzo molto scaltro, molto cinico e privo di scrupoli, accompagnato
da due coetanei, Colasanti (bello e senza pietas) e Petrilli (anello
appositamente debole del gruppo, brevilineo e tendenzialmente
sfigato), Pazienza racconta storie di adolescenze sorprendenti
costruite sul lato freddo della giovinezza, quello emerso dopo gli
anni dell’agitazione politica e culturale, quando i nodi collettivi si
sciolsero per lasciare posto a mille derive individuali. In Giallo sco-
lastico e nelle altre storie di Zanardi i coetanei sono l’unica realtà
che conta; gli adulti sono pure figure di contorno dai comportamenti
ipocriti e spesso squallidi. Le droghe sono ben presenti, ma sono
affrontate come un consumo piacevole e tendenzialmente esclusivo
e non come un simbolo (tantomeno generazionale). La vita di questi
Zanardi o dell’Esattezza 69

ragazzi non chiede un significato, perché le loro storie sono struttu-


rate come avventure autoreferenziali, momentanee e impegnative.
Quasi tutte hanno a che fare con incroci di piani rapidi e di azioni
fulminee – finalizzati a un desiderio breve, come una vendetta o una
beffa – in uno stato di sospensione identitaria che rende i tre ragazzi
solo formalmente degli studenti all’ultimo anno di liceo scientifico
“Enrico Fermi”. In realtà, Zanardi è la mente di un gruppo provvi-
sorio di Neet (Not in Education, Employment or Training) che non
studia e non lavora. Ha già appreso le grammatiche del mondo adul-
to, e sa come gli adulti pensano, agiscono e come possono essere
incastrati.
Giallo scolastico è un inizio di serialità in grande stile: la prima
apparizione strutturata di Zanardi, Petrilli e Colasanti racconta una
storia nera e improbabile, ma tesa ed emozionante. I tre crocifiggono
nottetempo il gatto dell’odiata preside, ma Zanardi “forse” dimentica
sul luogo del delitto la sua agendina: l’incertezza deriva dal fatto che
Zanardi accusa il bidello Rocco di avergli sottratto l’agendina dal
cappotto e di averla fatta avere alla preside. La preside sporge de-
nuncia, anche se un ufficiale di polizia l’avverte in modo disincanta-
to che sarà inutile. Ma c’è una questione è più seria: Zanardi avvisa
Colasanti e Petrilli del problema:

Zanardi: “Allora, avete capito il casino dov’è?”


Colasanti (non inquadrato): “Perché, quanti casini ci sono?”
Zanardi: “Il casino è che avevo messo la polvere sotto la fodera dell’a-
genda. Questo è il casino.”

L’agendina, custodita ora dalla preside, va quindi recuperata a


ogni costo. Zanardi mette in mezzo l’insospettabile secchione In-
fante. Non si tratta del ragazzo iper-diligente e sgobbone rappresen-
tato dalla letteratura scolastica tradizionale, come lo Stardi deami-
cisiano2. Infante è “il più bravo della classe” più similmente a una

2 Si legge a questo proposito in Cuore (1889) da pagina di diario intitolata “La


libreria di Stardi”: “Sono andato da Stardi, che sta di casa in faccia alla scuola,
e ho provato invidia davvero a veder la sua libreria. Non è mica ricco, non può
comprar molti libri; ma egli conserva con gran cura i suoi libri di scuola, e
quelli che gli regalano i parenti, e tutti i soldi che gli danno, li mette da parte e li
spende dal libraio: in questo modo s’è già messo insieme una piccola biblioteca,
70 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

versione nerd, crepuscolare e postmoderna del bravissimo Derossi


raccontato sempre da De Amicis in Cuore:

Ma il più bello di tutti, quello che ha più ingegno, che sarà il primo
di sicuro anche quest’anno, è Derossi; e il maestro, che l’ha già capito
lo interroga sempre.3

Il personaggio di Pazienza non è affatto bello, ha una corporatura


pesante e la cura per il vestiario di un nerd qualunque. Tuttavia nel
mondo cognitivamente desertificato dell’inizio degli anni ’80 Infante
è senz’altro lo studente più preparato della classe di Zanardi. Lo è in
un modo nuovo, da liceale pre-damsiano, dal linguaggio ricercatis-
simo. Gli chiede il docente a commento di una “relazione”: “Come
mai parli di «mediazioni» tra rapporto infrapsichico e rapporto in-
terpersonale?». La risposta dello studente viene prima anticipata da
un punto interrogativo (sotto-testo: “Ma che banalità mi sta chieden-
do?”) per poi trasformarsi in una complessa contro-domanda:

Infante: “Sandro, la mediazione non è «pericolo di» ma «esigenza di».


Il problema è: dato un tipo di mediazione, possiamo stabilire i rap-
porti competenti?”
Docente: “Ah. E possiamo?”
Infante: “No.”

Pazienza riesce a muovere i fili delle sue marionette d’inchiostro


fino a realizzare un ribaltamento dei ruoli tradizionali, senza per

e quando suo padre s’è accorto che aveva quella passione, gli ha comperato
un bello scaffale di noce con la tendina verde, e gli ha fatto legare quasi tutti i
volumi coi colori che piacevano a lui. Così ora egli tira un cordoncino, la tenda
verde scorre via e si vedono tre file di libri d’ogni colore, tutti in ordine, lucidi,
coi titoli dorati sulle coste; dei libri di racconti, di viaggi e di poesie; e anche
illustrati. (…) S’è fatto il suo catalogo. È come un bibliotecario. Sempre sta
attorno ai suoi libri, a spolverarli, a sfogliarli, a esaminare le legature; bisogna
vedere con che cura gli apre, con quelle sue mani corte e grosse, soffiando tra le
pagine: paiono ancora tutti nuovi. Per lui, a ogni nuovo libro che compera, è una
festa a lisciarlo, a metterlo a posto e a riprenderlo per guardarlo per tutti i versi
e a covarselo come un tesoro. Non m’ha fatto veder altro in un’ora. Aveva male
agli occhi dal gran leggere.” Cfr. De Amicis E. (1889), Cuore, ed. on line http://
www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_9/t241.pdf, p. 86.
3 Cfr. De Amicis E. (1889), op. cit., p. 12.
Zanardi o dell’Esattezza 71

questo che il paesaggio studentesco si sovverta o esiga un cambia-


mento. Infante è l’unico studente che manifesta un interesse verso la
misteriosa materia impartita dall’insegnante, e l’unico con il quale
egli interloquisca.
Zanardi inoltre conosce i gusti sessuali di Infante, perché orga-
nizza e mette in atto un ricatto, sostenuto da una polaroid in posa
sodomita passiva scattata a Infante con il concorso di Colasanti, di
cui lo studente è invaghito e pronto a pagare la prestazione attiva. In-
fante si vede quindi costretto a introdursi di notte a casa della preside
a caccia dell’agendina, ma viene sorpreso dall’anziana signora. Ne
nasce una colluttazione, nella quale la preside viene inaspettatamen-
te uccisa. Nel frattempo Zanardi e Colasanti si fanno notare in una
discoteca ballando smodatamente, in modo da procurarsi un alibi
sicuro. Il giorno dopo le lezioni sono sospese per la morte della pre-
side (si parla di un anonimo maniaco). Zanardi, Colasanti e Petrilli
se la ridono per l’epilogo inusitatamente drammatico della vicenda.
Zanardi propone di festeggiare con una botta di roba. “Quale roba?”
– chiede incredulo Colasanti. “Hey Colas – risponde Zanardi ritratto
in primo piano da Pazienza – ma davvero mi fai così scemo da met-
tere la polvere sotto la fodera di un’agenda? Andiamo...”
Si tratta evidentemente di un giallo assai particolare: l’assassinio
arriva solo alla fine, e con ogni probabilità resterà insoluto. Dell’al-
tro crimine – il terribile felinicidio d’esordio – è ben noto chi siano
gli autori, ma i tre giovani balordi non sono perseguibili per mancan-
za di prove. Tuttavia la storia ha un impianto ben strutturato: a ogni
evento ne seguono altri, inaspettati ma pertinenti (cioè emozionanti)
e lo scioglimento autentico della vicenda giunge solo nell’ultimissi-
ma vignetta. Infatti la sequenza degli eventi si presenta così:
uccisione del gatto/ accuse della preside a Zanardi, Colasanti e
Petrilli/ rinvenimento dell’agendina di Zanardi sul luogo del felinici-
dio/ confessione di Zanardi ai complici sull’eroina contenuta nell’a-
gendina/ vendetta nei confronti del bidello/ manovra riuscita per in-
castrare il secchione Infante e costringerlo a introdursi in casa della
preside alla ricerca dell’agenda/ Zanardi e Colasanti si fanno notare
in discoteca per crearsi un alibi/ colluttazione tra Infante e la preside
con conseguente morte della preside/ rivelazione di Zanardi a Cola-
santi e Petrilli: l’eroina non è mai stata nella foderina dell’agenda.
72 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Dalla sequenza descritta restano fuori alcune sub-storie, che han-


no un carattere di osservazione antropologica da parte di Pazienza:
l’oggetto di attenzione principale sono i nuovi tipi giovanili, quelli
che frequentano una stanza disadorna dove incontrarsi e fare sesso
(“clubbino”), quelli che sanno come farsi notare in una discoteca,
quelli che leggono “Frigidaire”, la rivista dove compare, in un inso-
lito gioco di specchi, lo stesso Giallo scolastico. Pazienza li indaga
da una distanza complice: sa che si tratta delle nuove avanguardie
dei suoi lettori. Insieme a lui, i suoi lettori consolidati hanno visto
un altro decennio farsi avanti dopo gli anni ’70. È un’epoca nuova,
dove le convinzioni sembrano rientrare in giochi di sopraffazione,
dove la spunta il più lucido a perseguire il proprio scopo nel caos
della città, ripresa come una metropoli dai pennarelli di Pazienza.
Il sesso non ha molto a che vedere con la liberazione sessuale
degli anni ’60 e ’70: persino le scene di esplorazione adolescenziale
dei corpi nel clubbino tra Zanardi e Colasanti e due ragazze, quasi
tenere nel gioco di toccamenti e misurazioni, hanno un retrogusto
amaro e maschilista (infatti una delle due si lamenterà con Petrilli:
“Anzi, sai che ti dico? Non mi è piaciuto per niente”). Con grande
disinvoltura, Colasanti (il bello e palestrato del gruppetto) passa dal
clubbino alle marchette con insegnanti liceali maschi e accetta di
fare da esca sessuale per il ricatto fotografico ai danni di Infante.
Scrive Luca Raffaelli:

Colas è la proiezione del fascino di Andrea. E questa versione estre-


ma Colasanti la usa per fare marchette, perché il proprio corpo è uno
strumento di cui non avere alcuna inibizione, come se tutto fosse estra-
neo a sé stesso, perfino la soddisfazione, la gioia, l’amore figuriamoci.4

Si direbbe che Pazienza prenda atto di questo raffreddamento pul-


sionale, che utilizza il corpo come un attrezzo seduttivo, da convertire
in denaro e in altri obiettivi. Il sesso, in sé, non è niente, non interrompe
nemmeno il flusso della quotidianità. Dopo la sveltina in macchina col
professore e senza soluzione di continuità, Colasanti lo colpisce con
un violento pugno (“T’ho detto di non telefonarmi mai a casa. Mai”).

4 Raffaelli Luca, Il cattivo, il bello e lo sfigato, in Tutto Pazienza. Zanardi 1981-


1984, vol. 2, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016, p. 6.
Zanardi o dell’Esattezza 73

In questo primo episodio della saga di Zanardi i rappor-


ti psicologici e affettivi interni al gruppetto sono facilmen-
te individuabili ed estremi: chiusi in un gabinetto della
scuola per ragionare sul che fare in seguito all’esibizione dell’a-
gendina da parte della preside, Zanardi dichiara con amaro sorriso:

Vedete, noi tre siamo fatti così. Se non sapeste che vi tirerei dentro
fareste finta di non conoscermi. Non siamo mica vecchi amici.

In una storia successiva, Verde matematico (1982), un punto in-


terrogativo basta a Pazienza per sottolineare la distanza siderale tra
l’amicizia e la semplice complicità, ovvero l’impossibilità stessa di
capire cosa sia l’amicizia. Il professore di storia chiede a Zanna:

“Ah, Zanardi… Che fine ha fatto Colasanti? Perché non viene più?”
Zanardi: “È in ospedale con l’epatite virale.”
Professore: “Beh, sarete andati a trovarlo.”
Zanardi: “? No…”

Il “No” di Zanardi è preceduto da un punto interrogativo, che con-


tiene ogni sparizione di elementare solidarietà amicale. Vuole dire:
“E perché mai saremmo dovuti andare a trovarlo?” Nel mondo di
Zanardi l’amico malato è solo un complice momentaneamente fuori
uso. Stop.

Il principio è molto noto e teoricamente semplice – scrive Danie-


le Barbieri – : si chiama effetto di straniamento (in tedesco Verfrem-
dungseffekt, in russo Ostranenie). Si tratta di mostrare qualcosa attra-
verso procedimenti diversi dal solito, creando in questo modo un effetto
come di alienazione, attraverso il quale è possibile vedere di nuovo
quello che l’abitudine impediva ormai di vedere. Lo teorizzavano i for-
malisti russi; lo metteva in pratica Bertolt Brecht nel suo teatro. (…)
Andrea Pazienza lo conosceva bene questo principio.5

5 Barbieri D., Lo straniamento e il Dams, in Pazienza A., Tutto Pazienza. Pompeo,


vol. 5, Repubblica- l’Espresso, Roma, 2016, p. 133.
74 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Il punto interrogativo che si forma nella testa di Zanardi è la ma-


terializzazione dello straniamento conseguente alla constatazione
che l’amicizia non rappresenta più lo stesso valore per generazioni
diverse. Da un lato si registra lo straniamento di Zanna, che diven-
ta graficamente estremo stupore. Dall’altro il professore, dando per
scontato che il ragazzo sia andato a trovare l’amico, risulta “strania-
to” dal rovesciamento di valori delle nuove generazioni, in realtà
per nulla inspiegabile al principio degli anni ’80. “Perché il freddo,
quello vero, sa essere qui, in fondo al mio cuore di sbarbo”, aveva
scritto Pazienza a esergo di Giallo scolastico.
Petrilli, in questo e nei successivi racconti, è il soccombente:
interessato a Mirella, viene a sapere che lei ha passato del tempo
nel clubbino con Zanna e Colas. In una vignetta che ne evidenzia le
somiglianze con il Bob Rock della serie «Alan Ford» (un altro celebre
sfigato dei fumetti, creato da Magnus6), Petrilli digrignando i denti
pensa funereamente: “Zanardi Zanardi Dio che odio”. Eppure Petril-
li accetta le scorrettezze di Zanardi pur di stare nel gruppo, perché
nel gruppo si fa sul serio. Che cosa esattamente? È proprio l’assenza
di traguardi positivi o di obiettivi sensati a rendere le vicende di Za-
nardi paradossali, e avvitate in una spirale di eroismo alla rovescia.
L’eroe è il giovane deviante, ma dalle sue azioni non traspare nulla
di eroico. Eppure le anti-avventure del terzetto propongono, con le
parole di Calvino, “l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive,
memorabili”. Tra le tante presenti in Giallo scolastico, penso alla
vignetta in cui un disperato Infante in lacrime supplica la preside
di non chiamare la polizia, disegnata da Pazienza come una parodia
della già parodistica scena del finto pentimento di Jake Blues (John
Belushi) verso una donna abbandonata sull’altare (Carrie Fisher),
conclusa con la celebre lista delle catastrofi giustificative del manca-
to matrimonio7. La vignetta di Pazienza è una sorta di meta-parodia,
e s’insedia comodamente nell’immaginario del lettore dell’epoca,
certamente in grado di cogliere il riferimento a The Blues Brothers

6 Pseudonimo del grande fumettista Roberto Raviola (1939-1996).


7 Questa la frase recitata da John Belushi: “Ero rimasto senza benzina, avevo una
gomma a terra, non avevo i soldi per prendere il taxi, la tintoria non mi aveva
portato il tight, c’era il funerale di mia madre, era crollata la casa, c’è stato un
terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette!”
Zanardi o dell’Esattezza 75

di John Landis così come alla già citata insegna del film di “Brian
De Eno”, visivamente marginale ma penetrante. Attraverso questi
dettagli, Pazienza rafforza il legame fumetto-cinema (e/o musica), e
spinge le proprie immagini a incastonarsi nella memoria del lettore.
Un’immagine particolare, a suo modo assai incisiva, è quella of-
ferta dalle vignette in cui compare uno degli insegnanti del liceo
scientifico, che gli studenti chiamano “Sandro”. Magro e con i baf-
fi, “Sandro” assomiglia vistosamente al professor Sandro Visca,
docente di Andrea Pazienza durante gli anni in cui frequentava il
liceo artistico di Pescara e con il quale intratteneva un rapporto
piacevole, in cui la presa in giro (testimoniata da decine di carica-
ture disegnate dal giovanissimo Andrea) si mescolava alla stima.
In Giallo scolastico il docente è progressista ma disincantato, di-
silluso sulle possibilità di trasmettere conoscenza ai suoi studenti:

A parte la relazione di Infante, tutte le altre fanno schifo. A Infante


metto ... mi viene da ridere ... otto, anzi nove. Tutte le altre le strappo.
Non so che dirvi. È solo mortificante.

Questo tipo di adulto del disincanto è l’unico che non appare tra i
persecutori della gelida devianza di Zanardi, pur non essendone un
estimatore. In Verde matematico, il prof cui si dà del tu rimette al suo
posto una studentessa che si rivolge a lui chiedendogli un’improba-
bile giustificazione per evitare il rimprovero dei genitori: “Ma tu stai
scherzando piccolina, non sai quello che dici! Anzi qui c’è bisogno
di darci tutti una calmata, altroché!” La ragazza passa a un balbettan-
te “lei”. “... Mi... mi scusi”. L’invito alla calma da parte del docente
è in fondo il suggerimento di aprire gli occhi davanti alla realtà e ai
ruoli sociali. Zanardi lo sa. Infatti non ribatte quando “Sandro” av-
verte che sarà costretto, per la prima volta in vita sua, a bocciare (lui
e i suoi due compari).
L’ingresso di Zanardi nella produzione di Pazienza è un fatto
artisticamente rilevante. Zanardi è il personaggio che più di ogni
altro ha avvicinato la propria notorietà a quella del suo autore. Il
suo inconfondibile profilo con naso a becco e pizzetto ha sorpre-
so e cupamente affascinato almeno due generazioni di lettori. Ciò
è probabilmente spiegabile con le capacità narrative squadernate da
76 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Pazienza dopo il caos postmoderno di Pentothal e le tante visioni


sprigionatesi nelle storielle di «Cannibale» e de «il Male». Il noir
è la cornice della sua operazione affabulatoria. Il protagonista della
serie, come scrive Emanuele Trevi, ha una testa che “nasconde un
prodigio: essa infatti non contiene nulla. Il perno intorno al quale
ruota questo straordinario personaggio è un vuoto centrale, un’in-
violabile assenza o latenza”8.
In Giallo scolastico il talento di Zanardi sta nella superiore capa-
cità strategica: egli non subisce gli eventi, ma si muove come co-
struttore di trame, fino all’inversione esplicativa finale. Il recupero
dell’agendina è stato un pretesto per mettere in scena non un’im-
presa contro terzi ma una beffa ai danni dei suoi stessi complici,
convinti di dover recuperare una prova decisiva a loro carico che
in realtà non esisteva. Tuttavia, la beffa non annulla la complici-
tà, cementata dalla passione per la roba (che infatti sarà condivisa).
Tanto lavoro per nulla? Non proprio. La beffa è un oggetto barocco
a uso dell’epifania carismatica di Zanardi. Mosso, come nota Tre-
vi, da una prospettiva geometrizzante, il contro-eroe di Pazienza
spazia dall’inganno all’omicidio, ma è il primo reato a interessargli
maggiormente. Nell’applicazione del raggiro, Zanardi si dimostra
notevolmente scaltro e adattabile ai contesti e alle situazioni. È un
personaggio che passa nel giro di due vignette da divo cinematogra-
fico ballerino a pupazzo schizoide, deformato come un cartoon della
Warner Bros. Nel corso della sua bizzarra evoluzione, Zanardi dimo-
strerà di reggere l’ambiente narrativo di Pazienza anche da solo, sen-
za l’ausilio di Colasanti e di Petrilli, come nella trucida storia Pacco,
dove una breve vacanza in tenda diviene lo sfondo di un’ennesima
storia di roba. Qui è in azione uno Zanardi che gioca solitario la sua
partita: la sua aria di uno-che-non-viene- sfiorato-da-nulla attrae una
ragazza già fidanzata, Zanardi ne profitta, il fidanzato “professore”
si dispera e parte in lacrime con la fidanzata a sua volta in lacrime
(per colpa di Zanna, si intuisce). Per il resto, Zanardi sta in tenda.
Sta riflettendo, di tradimenti e abbandoni. Partirà in un paio di gior-
ni. Intanto un gruppo di ragazzotti del campeggio si organizza per

8 Trevi E. (2008), Nel vuoto di Zanardi, in Pazienza A., Tutto Pazienza. Zanardi
1981-1984, vol. 2, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016, p. 122.
Zanardi o dell’Esattezza 77

comprare un po’ di eroina da un tipo sospettissimo (“l’Impiccato”),


che andrà a prenderla a San Severo (patria di Pazienza, en passant).
Zanna partecipa alla colletta, e sta al gioco pur presagendo il ful-
mineo occultarsi dell’Impiccato. I suoi sospetti si rivelano esatti.
Zanardi costringe i ragazzotti a prendere atto del pacco subìto e dà
loro dei cretini. Il giorno seguente, con calma e senza una parola,
Zanardi arriva a San Severo, individua l’Impiccato e, senza farsi
scorgere, gli arriva alle spalle e gli spacca la testa con un mattone.
Non siamo in presenza di una semplice vendetta: in realtà Zanardi
sembra disinteressato emotivamente alla faccenda. Sa già come an-
dranno le cose, e tutto sommato non è dispiaciuto per la piega degli
eventi. Qualcuno, un mero agente del destino, ha voluto testare il
suo equilibrio, prendendolo per fesso, nel più classico dei pacchi
da droga. Qualcuno allora pagherà, senza alcun bisogno di lasciare
firme sul luogo dell’agguato, senza che la vittima sappia alcunché.
L’assenza di significato nella vita di Zanardi non impedisce l’espe-
rienza esistenziale: serve come molla per realizzare raggiri o per
non cadervi. Quando il pacco avviene, è come se Zanardi giocasse
al gatto col topo: sacrifica 30 sacchi per della roba che sa già che
non arriverà mai, e in cambio punirà duramente l’Impiccato. Fine.
Più complicato si presenta il gioco di Verde matematico, dove Zanar-
di riacquisterà il ruolo di stratega e raggiratore. Il punto di partenza
è una studentessa, Lisa, scaricata dal suo ragazzo, Fernando Pelle-
rano, detto Artiglio per il suo passato di portiere. Lisa è figlia di un
farmacista, professione che consente di vendere e conservare fiale
di morfina, oppiaceo nella playlist della cricca di Zanardi. Il quale,
sfoderando doti protettive, sembra volersi prendere cura di Lisa, nel
frattempo fuori casa perché teme di dover affrontare il padre che
l’avrebbe vista in motorino durante l’orario scolastico e perché di-
sperata per l’abbandono di Artiglio Pellerano. Dimostrando un vero
talento nel farsi rilasciare informazioni, Zanna riesce a sapere che il
dottor Lorenzini, padre della ragazza e farmacista, ha un’amante e
che Lisa ha con sé la chiave del deposito dei medicinali. Messala al
sicuro al clubbino con Petrilli, Zanardi le sottrae la chiave dal giub-
botto e si mette alla ricerca di Pellerano. Lo trova a una festa e gli
racconta di Lisa e delle chiavi, proponendogli di entrare nel gioco
con un ruolo preciso: tranquillizzare la ragazza. In aggiunta, Pel-
78 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

lerano suggerisce anche un compratore per le fiale di morfina, con


cui farà da tramite la comune conoscenza Genchi. Mentre Artiglio
acquieta e trattiene Lisa nel clubbino, Zanardi spiega a Petrilli le
sue mosse e si fa aiutare a ripulire il deposito dalla morfina. Poi, di
notte, si reca con Pellerano dal misterioso acquirente, non prima di
aver rimesso le chiavi nella tasca di Lisa e aver fatto una telefonata
risolutiva al padre farmacista:

Dottor Lorenzini, sua figlia sta tornando a casa. Non sia duro con
lei, anzi, anzi, sia molto comprensivo ... Voglio essere chiaro con lei,
dottore. Se non sarà più che comprensivo, noi diremo a sua moglie del-
la signorina Melloni Gisella, via Lombardia 23 int. 8. Immagino non
possa farmi le domande che vorrebbe, comunque sappia che non è un
ricatto, e che per la sua coglionaggine ha già pagato – come, lo scoprirà.
Quindi: comprensione e nessuna, dico nessuna, domanda e ... Dottore,
le è andata bene!

Zanna e Pellerano hanno gli scatoloni di morfina in auto, ma


si fanno convincere da Genchi a scendere e ad attendere in un vi-
colo. Mentre aspettano, Zanardi intuisce l’inganno e si getta con
Artiglio verso la propria macchina, che qualcuno sta tentando
di rubare con l’oppiaceo carico. Zanna si getta sul guidatore e lo
blocca, ma la sua aggressività si placa ben presto. Il finto compra-
tore è Colasanti, che all’inizio della storia era ospedalizzato (per
epatite virale). Ora si tratta di vendere sul serio la morfina, cosa
che si rivelerà fattibile, in una specie di bislacco happy ending.
Anche in questa vicenda Zanardi cambia spesso fisionomia, ac-
compagnando le necessità psicologiche e performative del perso-
naggio. A illustrazione della presenza di Zanardi alla festa dove
cerca Pellerano interviene anche il disegnatore Nicola Corona
con una propria vignetta di considerevoli dimensioni: Zanna ap-
pare più squadrato del solito e in possesso di uno sguardo duro e
assente. Lo spazio ceduto da Pazienza a Corona è la testimonian-
za che l’autore riteneva il suo personaggio ormai pubblico, inter-
pretabile anche da altri, sotto forma di omaggio. Poco più avanti,
dopo che si è conclusa la trattativa con Pellerano, Pazienza raffi-
gura Zanardi in tre vignette allineate, ciascuna diversa per stile:
nella prima la faccia del personaggio è esageratamente gonfia e
Zanardi o dell’Esattezza 79

sorridente (mentre Pellerano appare di spalle in versione realisti-


ca), nella seconda si trasforma in una figura espressionista da fu-
metto underground, nella terza è una lontana figuretta a linea chia-
ra che scherza con Pellerano sullo sfondo di una periferia urbana.
Torna in mente il terzo punto della definizione di esattezza da parte
di Calvino: “un linguaggio il più preciso possibile come lessico e
come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”. Nei
fumetti, il linguaggio è l’insieme di testi e immagini. Tra queste ulti-
me, le fisionomie di Zanardi realizzate da Pazienza appaiono capaci
di rendere le sfumature del pensiero del personaggio, i cui tratti sono
soggetti a trasformazione proprio come gli stati d’animo. In Giallo
scolastico abbiamo un saggio della duttilità della maschera di Zanar-
di già nella seconda tavola, quando i tre compari sono convocati dal-
la preside; alla presenza del poliziotto, costei esibisce l’agendina. Il
volto di Zanna si trasfigura all’istante, sprizzando furia e fiele contro
il bidello (“Sei stato tu, faccia di merda, a fregarmi l’agenda dal cap-
potto, lurido servo schifoso ammaestrato! Beh, giuro, GIURO che
me la paghi!”). La furibonda esibizione dura due vignette, facendo
assomigliare il secco profilo col naso a becco quello della caricatura
di un infuriato criminale catturato da Tex Willer ripreso nel momen-
to di giurare vendetta al ranger. Una sola vignetta dopo, sulla stessa
riga delle altre due, Zanardi ha già ripreso il controllo della situazio-
ne. Con fare annoiato recita una litania di commiato dalla preside
mentre i suoi lineamenti sembrano quelli di Totò intento a preparare
una battuta, o in procinto di gonfiare le guance per sbuffare (il testo:
“E ora lei faccia quello che vuole. Parlerà con i miei legali. Ora se
non ha altri motivi per trattenerci noi torneremmo in classe”). La
vignetta (seconda tavola) è speculare a un’altra, che si trova nella
pagina giustapposta (terza tavola); in quella già descritta il volto (e il
naso) di Zanardi è ripreso di trequarti, e si trova alla sinistra del let-
tore, nell’altra a destra. La situazione è mutata: i tre ragazzi sono nel
bagno della scuola a raccogliere le idee e a organizzarsi. Qui Zan-
na recupera i propri tratti realistici, che anzi ricordano quelli di un
qualche idolo musicale mentre proferisce una frase con fare ieratico,
rappresentazione che si allunga alle vignette delle pagine successi-
ve, fino a quando, saputo della presenza della figlia del bidello nello
stesso locale dove si trova lui, l’esplosione vendicatrice lo rende ma-
80 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

rionetta malvagia e sproporzionata. L’aspetto pupazzesco è confer-


mato – meno esageratamente – nelle fasi finali della storia, dal furto
della Polaroid fino all’omicidio della preside. Anche nell’ultima pa-
gina Zanardi è un pupazzo nasuto composto da poche linee che ne
tratteggiano la scarna fisionomia, eccetto nell’ultima vignetta, quella
che conclude il racconto, quando recupera un aspetto curato e reali-
stico, dotato di sorrisetto ironico ed esperto (meglio: “saputo”), sve-
lando a Colasanti e Petrilli il suo scherzo sulla foderina dell’agenda.
Anche in Pacco e in Verde matematico sono molteplici le trasforma-
zioni dei lineamenti di Zanardi, e appaiono tutte variazioni sul tema
del pupazzo malizioso e della figura ieratica. Ad esse Pazienza riesce
in ogni occasione ad accompagnare testi credibili ed efficaci, come
nel caso del subdolo interrogatorio alla figlia del farmacista.

Zanardi: “Quindi aiuti tuo padre in farmacia?”


Lisa: “Sì, cioè, quando ha bisogno mi manda al deposito a prendere
della roba, oppure altri servizi. Zanardi: Quindi tu hai le chiavi di
questo deposito...”
Lisa: “Sì.”
Zanardi: “E non ti dà quelle di casa!”
Lisa: “No.”
Zanardi: “Bello stronzo!”
Zanardi: “Senti, ma tutte le volte togli l’antifurto, poi lo rimetti, non è
una palla?”
Lisa: “No, ma al deposito non c’è antifurto, è un vecchio garage...”
Zanardi: “Ah...”

A questi testi si accompagnano diversi atteggiamenti ed espres-


sioni di Zanardi, che riescono a convivere sia con una cartooniz-
zazione estrema degli ambienti e degli altri personaggi (Zanardi
pupazzo in un mondo di pupazzi), sia con un improvviso realismo
di tutto e di tutti eccetto Zanardi (che resta quindi pupazzo in un
mondo realistico), sia infine con una regolarizzazione generale del
registro verosimigliante (Zanardi e ciò che lo circonda sono ritratti
in modo realistico; caso comunque piuttosto raro, di cui è testimo-
nianza una vignetta in cui compaiono Zanna, Colasanti e un dispe-
rato Infante dopo la polaroid del ricatto, nell’undicesima tavola).
I tratti di Zanardi sono perciò mobili e attivi nella continua riela-
Zanardi o dell’Esattezza 81

borazione del personaggio quanto i suoi pensieri e le sue parole,


registrati in balloon a volte testualmente molto densi, con un uso
dell’italiano contenente slang giovanile (in particolare bologne-
se, come in “pilla” per intendere “soldi” o “telare” per scappare)
ma sostanzialmente pulito. Nelle storie di Zanardi non compaio-
no gli errori ortografici e sintattici voluti da Pazienza in altri rac-
conti. I dialoghi e le rimuginazioni personali sono generalmente
corretti e viaggiano spediti, senza determinare varianti narrative.
Certo, il lettore deve stare al passo, perché i raccordi dei fumetti
della tradizione – le didascalie – sono da tempo saltati e occorre
stare ben dentro la storia per non perdere i passaggi e i non-detti.
Il rispetto dell’esattezza consente a Pazienza di manipolare in ul-
teriori direzioni il suo più celebre personaggio. L’approdo finale è
addirittura uno Zanardi medievale (1988), fumetto mai completa-
to dall’autore, dove Petrilli è lo scudiero e Colasanti (secondo le
bozze di sceneggiatura ritrovate dopo la scomparsa di Pazienza)
avrebbe dovuto impersonare un misterioso cavaliere da torneo.
Con la storia Zanardi at the War (1987) Pazienza aveva già co-
minciato un lavoro di delocalizzazione temporale di Zanardi dalla
contemporaneità metropolitana degli anni ’80, dove il personaggio
è trasportato nella seconda guerra mondiale, sergente dell’eser-
cito italiano sul fronte russo. In questa storia delirante (che si ri-
velerà un sogno) Zanardi perde la sua flemma a causa di un sol-
dato russo chiuso in un bunker, che mitraglia incessantemente la
trincea italiana. Il suo è un comportamento isterico, che può di-
spiegarsi per la complicità del capitano, stanco e disilluso, simile
al personaggio interpretato da Aldo Giuffré nella pellicola di Ser-
gio Leone Il buono, il brutto e il cattivo (1966). Sono accostabili
a questa incursione di Zanardi in mondi che non sono il suo anche
le illustrazioni del Ten Zanardi’s Pictures Project, gruppo di im-
magini in cui il personaggio subisce mutazioni stupefacenti, dalla
statua greca semi-discobola al modello per sfilata punk (eseguito
con Nicola Corona), dal Davide con fionda in mano e piede sul-
la testa spiccata di Golia allo “Zanna-treno”, veicolo futurista che
vola sulle rotaie con locomotiva dall’inconfondibile punta a becco.
Lo Zanardi medievale rappresenta una dislocazione misteriosa, non
si sa se onirica o magica. Zanna è un cavaliere in armatura, ma si
82 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

comporta come uno che deve ancora abituarsi al mondo in cui si


trova. Come d’altronde Petrilli, chierica e saio da fraticello ma oc-
chiali da sole anni ’80. Zanardi da principio non sembra più lo stesso
personaggio sicurissimo di sé cui siamo abituati: non sa cavalcare e
l’armatura ne ostacola i movimenti. Per la prima volta, appare goffo.
L’adattamento dura comunque assai poco: minacciato di furto da un
gruppo di armigeri, reagisce con furia disumana. Ammazzare gli pia-
ce, confesserà a un turbato Petrilli. L’ultima parte della storia che ci
ha lasciato Pazienza trasporta il lettore nella guerra tra gli improba-
bili Eraldo l’Impapito e Guglielmo il Mezzo, sospesa per un torneo
cavalleresco. I dialoghi ricordano il linguaggio di “Brancaleone alle
crociate”; lo stile del disegno e la cura quasi pittorica dell’atmosfera
medievale rappresentano per Pazienza l’assaggio di un nuovo tipo di
storia a fumetti, ciò che sarà messo in luce con chiarezza nell’ultima
storia dell’autore, Astarte, di cui avremo modo di parlare.
Nel frattempo Zanardi ha consumato a gran velocità altre tappe
narrative: c’è un grappolo di storie dove il raggiro entra in una di-
mensione ostentatamente pruriginosa, come nell’episodio Cuore di
mamma della mini-serie “I modi” (1987), dove i tre ricattano una
bella signora amica dei genitori di Petrilli minacciando di divulgare
foto hard-sex della figlia. Per non farlo, chiedono in cambio alla
signora un’ora di sesso di gruppo. Un grado di crudeltà ulteriore
viene toccato nel secondo episodio de “I modi”, Cenerentola ’87,
apice di atrocità zanardesca. È ancora una volta una storia di ven-
detta ottenuta attraverso una beffa: un nemico di Zanna (tale Gatto-
ni) cadrà in una trappola sessuale, accettando di abusare di un corpo
che solo dopo l’atto gli si rivelerà come quello di sua sorella. L’im-
presa è talmente infame che le ultime due tavole non contengono né
Zanardi né Colasanti (ancora una volta esca per l’inganno), ma solo
la fine di Gattoni (volato contro un muro in macchina mentre urla
per l’orrore di quanto ha fatto: “Piangeva e ululava a più non posso.
Aveva posseduto sua sorella, presenti numerosi spettatori. Era stato
vittima di un atroce scherzo di sapore mitologico”) e il devastan-
te rientro a casa della sorella Ramira (“Ramira! Cristo, cos’hai, ti
senti male, che ti è successo! Parla! E l’ombrello, il cappotto…?”).
Spietatissima è anche l’impresa di Lupi, di qualche anno preceden-
te (1984), dove il trio studentesco si trasforma in un manipolo di
Zanardi o dell’Esattezza 83

assassini in trasferta. Zanardi e gli altri vogliono colpire un tipo,


Ricardo, che non si sa cosa abbia fatto loro. Si immagina una storia
di droga, ma non ci sono informazioni precise. I tre si spingono fino
a Como, dove giungono con un carico di tagliole per lupi. Saranno
approntate, pronte a scattare, lungo i gradini delle scale di Ricardo,
poi si indurrà con urla e fragori quest’ultimo a uscire dalla porta
di casa. Ricardo, con in mano una pistola, comparirà sulla soglia
e l’unica parola che avrà tempo di pronunciare sarà il nome di Za-
nardi. Poi, fatalmente, il suo stivale Campero entrerà nella prima
trappola, che scatterà mordendogli la carne, seguita dalle altre, con-
tro cui il corpo di Ricardo andrà a sbattere nella rovinosa caduta.
Colas chiede: “È morto?”. Zanardi risponde con domanda retorica:
“Tu che dici?” Seguirà la distruzione del cadavere attraverso rogo
della macchina di Ricardo. Due giorni dopo la classe del liceo dei
tre apprenderà che è in programma una gita scolastica a Venezia,
“cosicché Ricardo e la sua straordinaria morte – scrive Pazienza
concludendo il racconto – già sul finire della mattinata erano defi-
nitivamente dimenticati”.
La vendetta e la beffa atroce non sono d’altronde l’unico motore
del dispositivo Zanardi. In una storia comparsa nel 1982, Notte di
Carnevale, sembra delinearsi l’ennesimo scherzaccio, perché – dopo
aver partecipato a una festa in maschera che “bah, s’è bell’ecapito
che storia è”, i tre penetrano nottetempo in un collegio femminile e
gettano alcol sul pavimento. Il loro intento è far uscire dalle stanze
le ragazze per smanacciarle e profittare di loro. Il piccolo incendio
doloso funziona, ma la dinamica degli avvenimenti sfugge di mano
ai tre complici, perché il fuoco cresce e divora l’edificio. I tre si
mettono in salvo e anzi tornano sui propri passi per assistere alla
drammatica scena. Ma una ragazza è rimasta intrappolata, e – per la
prima volta dall’inizio della saga – nel gregario Petrilli prende forma
un’azione del tutto autonoma. Si getta da solo nell’edificio infuocato
e salva la collegiale, tuttavia muore lui stesso tra le fiamme. Petrilli
morto è un imprevedibile lutto per i lettori delle storie di Zanardi,
uno choc che suscita persino commozione. Si è forse trattato di un
sogno? A leggere l’incipit di una storia creata successivamente da
Andrea sembrerebbe di sì: per fare da raccordo con i racconti della
prima fase (Giallo scolastico, Pacco, Verde matematico e Notte di
84 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Carnevale), pubblicati insieme in un unico albo9, Pazienza disegna


La proprietà transitiva dell’uguaglianza. La prima parte, posizio-
nata come prologo a tutte le altre storie, vede il trio riunito in una
noiosa giornata di pioggia a casa di Colas. La soluzione alla noia è
l’assunzione di eroina, sotto il cui effetto comincia una lunghissima
partita a Risiko. Petrilli è fattissimo e non regge il gioco, addormen-
tandosi. La storia viene a questo punto interrotta e sono presentati,
uno dietro l’altro, i racconti già citati, compreso quello in cui Pe-
trilli muore nell’incendio del collegio. Mentre il lettore è ancora in
ambasce per la morte del personaggio, Pazienza rimette in moto la
partita di Risiko che era stata sospesa. Dunque Petrilli è vivo, pensa
il lettore. Sì, ma per poco, perché dopo un litigio con Zanna e Colas
lo sfortunato “Pietra” viene investito da un Tir non appena uscito
di casa. “Si vede che era destino” – chiosa laconicamente Zanardi.
Tuttavia Pazienza non ha alcuna intenzione di rinunciare al suo acro-
batico gioco narrativo: anche la morte di un personaggio fisso si può
sovvertire, in un’esibizione di fatti impossibili che diventano reali
sotto la spinta di una continua stupefazione, sentimento del lettore
che a Pazienza interessa provocare in modo estremo. Ecco perciò
Petrilli ripresentarsi in Lupi a far scattare tagliole, come se nulla
fosse successo. Il lettore può immaginare che l’episodio in cui il
personaggio ricompare sia avvenuto prima della citata Notte di Car-
nevale. Oppure può disporsi a un altro genere di sensazione, quella
di chi si trova di fronte un mondo narrativo dove tutto è possibile,
e dove la funambolica arbitrarietà dell’autore interviene a violare
persino la legge basica delle serie a fumetti, e cioè che i personaggi
principali (“fissi”) siano sempre presenti o convocabili. La morte di
Petrilli è fumettisticamente scorretta. C’è solo una cosa più scorret-
ta: far ricomparire il personaggio senza dare spiegazioni di sorta. Il
lavoro di connessione e di giustificazione è scaricato interamente
sul lettore, mentre Pietra riprende il suo ruolo di sfigato necessario,
finanche nell’episodio medievale della saga.
La più lunga delle storie di Zanardi esce a inizio 1985 su “Alter Al-
ter”. Oltre alla copiosa foliazione (40 tavole), la particolarità di La pri-
ma delle tre è la comparsa dello stesso Andrea Pazienza nelle vignette

9 Cfr. Pazienza A., Zanardi, Primo Carnera editore, Roma, 1983.


Zanardi o dell’Esattezza 85

del racconto. Non si tratta di una semplice citazione, come in Giallo


scolastico: qui Pazienza si autoritrae in un cinema fuori Firenze, dove
anche Zanardi e compagni, in escursione toscana, sono seduti a guar-
dare un film. Zanardi mastica rumorosamente patatine e pop-corn,
disturbando uno spettatore alto che lo apostrofa intimandogli di smet-
tere. È Pazienza. Zanardi ha un piccolo sobbalzo di sorpresa; anche
Petrilli e Colasanti riconoscono il disegnatore. Ma Zanardi è Zanardi,
e, dopo l’attimo di sbigottimento, continua a sgranocchiare come nul-
la fosse. All’uscita del cinema, Pazienza aspetta Zanardi e lo schiaf-
feggia. Ne segue una rissa, in cui Zanna le suona al proprio autore.
“Non è il mio autore preferito” – è l’epitaffio di un Colasanti piuttosto
schifato dalla facilità con cui Zanardi ha immobilizzato Pazienza. E
aggiunge: “... Non da adesso...”. Il gioco autobiografico al massacro
non si ferma qui: disegnandosi come un guascone che non dà impor-
tanza alle risse, Pazienza si rappacifica con Zanardi e lo investe con
un fiume di parole, da cui lo spigoloso giovanotto coglie l’essenziale,
cioè che Pazienza è alla ricerca di roba. Zanardi va dritto al punto:
“Hai una macchina?” “Eccome” – risponde eccitato Pazienza. A que-
sto punto la storia sembrerebbe prendere una direzione abituale, verso
gli ambienti del piccolo spaccio, invece l’autore ha in serbo un piatto
più forte. Mentre il Pazienza-personaggio cerca a suo modo di fare
amicizia con Zanardi (che per la verità ascolta abbastanza annoiato
il suo eloquio sovrabbondante), il Pazienza-autore ha già predisposto
la sterzata da molte pagine, inframmezzando al racconto principale
scene di vita domestica toscana e poi un dialogo tra due cinquantenni
(sempre toscani), uno dei quali si vanta delle proprie imprese erotiche
mentre l’altro non vede l’ora di sganciarsi da lui. Arrivati in macchina
in un tranquillo boschetto di Scandicci, Zanardi e Pazienza vorrebbero
appartarsi per consumare quanto nel frattempo acquistato, ma Zanna
nota qualcuno nello specchietto. Con la più clamorosa delle iperboli,
i due hanno attirato su di sé il mostro di Scandicci, all’epoca della
pubblicazione della storia ancora a piede libero.10 Incredibilmente (e

10 L’ultimo duplice omicidio del cosiddetto “mostro di Firenze”, di cui rimasero


vittime Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, fu commesso nella campa-
gna di San Casciano Val di Pesa, frazione Scopeti, tra il 7 e l’8 settembre 1985,
quando il racconto di Pazienza era già stato pubblicato. In precedenza erano stati
commessi, a partire dal 1968, altri 7 omicidi di coppie.
86 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

grazie alla freddezza e al rapido pensiero di Zanardi) i due catturano


il mostro. Alle loro spalle, però, qualcuno fa fuoco uccidendo il killer
seriale: è il personaggio misterioso che prima era in macchina con l’a-
mico arrapato. E il killer appena ucciso è l’amico arrapato. Pazienza
vuole saperne di più, ma Zanardi, saggiamente, consiglia di lasciare
il campo al misterioso alleato e suggerisce a Pazienza di dimenticare
tutto (“se sei intelligente come dici”). “Intanto il merito se lo cuc-
ca lui” – risponde Pazienza accendendo nervosamente una sigaretta.
“Che cima!” – è il pensiero di Zanna nella vignetta successiva, quella
in cui prende commiato con aria delusa dal proprio autore. Cinque vi-
gnette dopo, ricongiuntosi con Colas e Pietra, Zanardi consulta l’ora-
rio dei treni per tornare da Firenze a Bologna. Non ha detto una parola
a Colasanti e Petrilli: certe cose è meglio tenerle per sé, non si sa mai.
In questa storia il carattere di Zanardi impone una forma di raziona-
lità accorta, dove il raggiro lascia il posto all’azione coraggiosa e la
vendetta a una reazione d’orgoglio (è stato Pazienza a schiaffeggiarlo,
provocando una risposta automatica). La psicologia e il comporta-
mento di Zanardi e Pazienza sono trattati come opposti: tanto il perso-
naggio di Pazienza è spaccone e logorroico, tanto Zanna è acuto ed
essenziale. Tanto quello è ansioso e teso nell’azione, tanto l’altro è
freddo e determinato (c’è anzi una certa simmetria tra questi due ca-
ratteri e la coppia formata dal mostro e dal suo uccisore, corrispon-
denza che si deposita nel cervello del lettore per aumentare il pathos
della vicenda). Stupisce la severità con cui Pazienza si rappresenta,
a cominciare dall’abbigliamento tamarro che sfoggia al cinema (in-
dossa una blusa senza maniche completamente aperta sul petto, su
cui ciondola un medaglione, forse a forma di bomba a mano), per
proseguire nella scazzottata perdente con Zanardi. Le sue chiacchie-
re sono vanagloriose, e la cattura del mostro di Scandicci è possibi-
le solo perché Zanna dirige le operazioni. Insomma Pazienza non
esce bene dal racconto autobiografico. Tuttavia ciò è molto meno
importante del raffinato gioco barocco che Pazienza scatena in que-
sta storia. Pazienza riesce a trattarsi come personaggio secondario;
come ogni altro personaggio di questo genere, viene rappresentato
in caratteri caricaturali, quelli che consentono una più rapida defi-
nizione da parte del lettore. Il raggiro barocco è che l’autore vero,
Andrea Pazienza, governa i fili di questa e di tutte le sue storie man-
Zanardi o dell’Esattezza 87

tenendone saldamente in mano il timone narrativo, producendo noir


impazziti e tuttavia rigorosi, sia nel linguaggio testuale sia in quello
iconografico. Egli è dunque libero non solo di creare mondi fantasti-
ci, ma di prevedere lo spazio per un creatore-personaggio facendolo
interagire con i personaggi di fantasia. Questo racconto – e tutti gli
altri organizzati da Pazienza in questa chiave – ci dice che il genere
autobiografico non è l’unico in cui il soggetto scrivente possa avere
un ruolo centrale. Esiste anche, inventato da Pazienza, un racconto
sull’io che non è di derivazione diaristica, come era stato per Pento-
thal. L’io narrante rappresenta un io agente. Di lui l’autore parla in
terza persona, anche se è entrambe le persone (o personaggi). Prende
forma così un’eccentrica volontà di potenza, che consente all’au-
tore un ritratto auto-denigratorio mettendo in chiaro – con la sola
continuazione della storia a fumetti fino al freddo epilogo consueto
– che solo un controllo totale della situazione creativa può spingere
la macchina del racconto dentro un labirinto di specchi (che include
anche la cronaca nera, genere che implica un’ulteriore forma di par-
tecipazione storica agli eventi narrati) e uscirne indenne. L’autorap-
presentazione di Pazienza è una forma di narcisismo narrativamente
rivoluzionario, che regge grazie alla capacità di proporre soluzioni
narrativamente folli (se si preferisce: estreme) dentro un ingranaggio
fumettistico nitido e inesorabilmente esatto.
E Zanardi? Giganteggia e gigioneggia tra i personaggi creati da
Pazienza. Poteva limitarsi a esprimere un momento di osservazione
etnografica del nuovo mondo giovanile all’interno di un congegno
noir, ma è invece diventato il personaggio-chiave di una serie mo-
dellata su un triangolo psicologico. Poi nemmeno il triangolo è stato
più indispensabile, e Zanardi si è trasformato in una declinazione di
stati d’animo estremi, mettendo la sua estrema razionalità al servizio
di imprese scaltre e buie, cui lui stesso presta una passione momen-
tanea e che poi dimentica, preda di un pervasivo senso di indifferen-
za per le cose. A questo punto può viaggiare nel tempo, diventare
un’icona a sé stante, brand di una devianza che si erge sopra ogni
normalità, facendo intravvedere la materia di cui sono fatti i miti.
Statua, treno, aereo: amplificazioni e reificazioni di un soggetto la
cui anima è sconosciuta a tutti, lui compreso.
CAPITOLO IV
POMPEO: UNA BALLATA DEL MARE
DESOLATO

Il terzo scimpanzé, splendido saggio dello scienziato americano


Jared Diamond (1991), è dedicato all’evoluzione di “un semplice
mammifero di grossa taglia”, cioè dell’Homo sapiens. L’undicesi-
mo capitolo si apre con una domanda particolarmente interessante:
“Perché fumiamo, beviamo e facciamo uso di droghe?”.
Diamond si chiede quale possa essere la funzione rivestita da que-
sti comportamenti autodistruttivi nell’evoluzione umana, posto che

(…) le prove degli effetti dannosi o letali dell’alcol, della cocaina e


del tabacco sono oggi incontestabili. Solo un qualche forte motivo con-
trario potrebbe spiegare perché ci siano persone che consumano questi
veleni volontariamente, e addirittura con tanta bramosia: è come se un
programma inconscio ci spingesse a fare qualcosa di cui riconosciamo
la pericolosità. Ma quale “programma”?1

Una risposta convincente si trova secondo Diamond nei lavori del


biologo Amotz Zahavi, in particolare sul ruolo dei segnali dispen-
diosi o autodistruttivi nel comportamento animale2. Questi segna-
li – come ad esempio la coda del pavone o le piume di un uccello
del paradiso o ancora i colori dei maschi di molte specie, talmente
vivaci da attrarre i predatori, e dunque potenzialmente autodistrutti-
vi – costituirebbero “validi indicatori del fatto che l’animale che le

1 Cfr. Diamond J. (1991), Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo
sapiens, Bollati-Boringhieri, 2015, p. 243.
2 Jared Diamond cita espressamente Zahavi A., Mate Selection – A Selection for
a Handicap, in «Journal of Theoretical Biology», n. 53, 1975, pp. 205-214 e
Zahavi A., The Cost of Honesty (Further Remarks on the Handicap Principle),
in «Journal of Theoretical Biology», n. 67, 1977, pp. 603-605.
90 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

sfoggia è sincero nella sua asserzione di superiorità, proprio perché


quegli stessi tratti comportano degli handicap”3. Esibendo il proprio
(vistoso) handicap, alcune specie animali sembrano esprimere una
forma di corteggiamento fondata sul fatto che “ogni maschio che
sia riuscito a sopravvivere trascinandosi dietro una grande coda o
cantando a squarciagola deve avere geni molto buoni sotto ogni altro
aspetto.” 4

La teoria di Zahavi – prosegue Diamond – può essere estesa anche


al consumo umano di sostanze tossiche. Specialmente nell’adolescenza
e all’inizio dell’età adulta, quando è più probabile iniziare a far uso di
droghe, noi dedichiamo molte energie ad affermare il nostro status. For-
se condividiamo lo stesso istinto inconscio che conduce gli uccelli alle
loro esibizioni pericolose. Diecimila anni fa ci “esibivamo” sfidando un
leone o un nemico di un’altra tribù: oggi, magari, corriamo come pazzi
in automobile o consumiamo sostanze pericolose. 5

In sostanza questo genere di comportamenti autodistruttivi avreb-


be fornito alla specie Homo sapiens un repertorio di rappresenta-
zioni di forza e superiorità, seppure espresse in modo controintuiti-
vo. Nell’evoluzione umana, tuttavia, questo tipo di istinto animale
avrebbe perso nel tempo la sua funzione evolutiva: secondo Dia-
mond il consumo di droghe è “un esempio classico di un istinto un
tempo utile – l’affidarsi a segnali svantaggiosi – che ha perso per noi
la sua validità”6. Ciò che resta dell’originaria predisposizione alla
pericolosità comportamentale quale indicatore di forza e superiorità
nell’odierno consumo di sostanze tossiche è “un modo per superare
inibizioni, per affogare dispiaceri o anche solo per gustare una be-
vanda dal sapore gradevole”7, senza contare che “tossicodipendenti
e alcolisti non solo vivono di meno, ma perdono (e non acquistano)
attrattive agli occhi dei partner potenziali, oltre alla capacità di prov-
vedere alla prole”8. Inoltre, il consumo di massa di droghe pesanti

3 Diamond J. (1991), op. cit., p. 248.


4 Ivi, p. 249.
5 Ivi, p. 250.
6 Ivi, p. 251.
7 Diamond J., op. cit., p. 255.
8 Ivi, p. 256.
Pompeo: una ballata del mare desolato 91

è dovuto alla dipendenza che le sostanze determinano e non al fatto


che il comportamento autodistruttivo comporti dei vantaggi strate-
gici.

Su quest’ultimo passaggio dell’analisi di Diamond può comincia-


re l’indagine su Gli ultimi giorni di Pompeo, macabro (e divertente)
gioco di parole di Pazienza basato sull’assonanza con il titolo del
romanzo storico ottocentesco di Bulwer-Lytton (The Last Days of
Pompeii, 1834), da cui furono tratte numerose pellicole cinemato-
grafiche fin dal 1908.
Anche Pompeo è un’entità in disfacimento, ma – a differenza del-
la città vesuviana sepolta sotto le ceneri dell’esplosione vulcanica
– la sua fine non è improvvisa e inattesa, perché il personaggio di
Pazienza è un tossicodipendente ritratto nel giorno di un collasso per
overdose consapevolmente auto-procurato. Sarà soccorso e salvato,
ma si darà una morte straziante, tutt’altro che inattesa, solo poche
ore dopo.
Pompeo è oggi considerato uno dei capolavori di Pazienza, forse
il maggiore. Il suo linguaggio letterario riesce a ricavarsi uno spazio
di prestigio nella difficilissima disciplina della prosa poetica. Prima
ancora dello stile letterario colpisce però l’esibizione calligrafica re-
alizzata con il pennarello, creando un lettering multiforme e attra-
ente: dominante è lo stampatello maiuscolo, ma a tratti interviene
con effetti di drammatizzazione un corsivo spigoloso e, quando è
il momento di una lunga citazione poetica, si associano stampatel-
lo maiuscolo e minuscolo, oltre a un corsivo costruito su lettere di
spessore diverso, a comporre una visione di parole graficamente tre-
molanti e oscure.
Persino il supporto materiale del disegno, il foglio di carta, non
è scontato né rassicurante: da tavola 34 a 52, e poi ancora da tavo-
la 94 a 107, Pazienza scarica il suo inchiostro funambolico su fo-
glietti quadrettati, i cui segni sono ben visibili nella stampa finale9.

9 Racconta a questo proposito Marina Comandini: “Poco dopo che l’ho conosciuto
ha disegnato la tavola con dedica «alla Pusi», che è il soprannome di mia sorella
Daniela. I fogli sui quali ha disegnato quella parte di storia, quelli con la finestra
in alto con il titolo ripetuto a ogni tavola (Gli ultimi giorni di Pompeo) prove-
nivano da un album di mia sorella con l’intestazione verdemela.” Cfr. Farina
92 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

L’opzione di mantenere il proprio segno ugualmente sofisticato pur


in presenza di una superficie graficamente plebea come il foglio a
quadretti amplifica le qualità del disegno stesso, e trasmette una mi-
steriosa intimità al lettore, di nuovo messo a fianco del disegnatore
a osservarne l’azione, mentre l’artista sceglie i suoi materiali e fa
scelte impreviste, miscelando la guida sapiente del segno con risorse
all’apparenza arrangiate e frettolose, figlie di un’urgenza.
La storia editoriale di Pompeo fu tormentata. Prese il via su «Al-
ter», con supporto di copertina,
nell’aprile del 1985: lì furono ospitate le successive quattro pun-
tate, fino a che, nel gennaio 1986, il mensile divenne trimestrale, ma
senza più ospitare Pompeo. La redazione di «Alter» aveva deciso
di interromperne la pubblicazione, assecondando un certo dissenso
di una parte dei lettori dovuto alla crudezza espressiva di Pazienza
e al tema, rischioso e repulsivo, della tossicodipendenza ai tempi
dell’Aids, sindrome esplosa mediaticamente sotto forma di moderna
e terrorizzante pestilenza proprio negli anni in cui il narratore atten-
deva a Pompeo.
Ricorda puntualmente Oscar Glioti che la casa editrice aveva già
pagato Pazienza in anticipo, e che quindi la soppressione di Pompeo
non rappresentò un danno economico per l’artista, anche perché gli
furono restituiti i diritti per la stampa in volume10. Ciò gli consentì
di scegliersi un nuovo editore, il Grifo dell’amico Mauro Paganel-
li – ispiratore dello spostamento esistenziale di Pazienza da Bolo-
gna a Montepulciano – che fece uscire Pompeo in libreria nel 1987.
Nel colophon “si ringraziano la redazione di Alter e la Milano Libri
Edizioni per la gentile collaborazione”. Il percorso di Pazienza con
il gruppo di Linus – nel frattempo ormai privo della guida di Ore-
ste Del Buono, allontanatosi in polemica con i vertici della Rizzoli,
coinvolti nello scandalo della loggia massonica P2 – si interrom-
peva provvisoriamente, dopo il sontuoso esordio di Pentothal e la
lussuosa rinuncia a Pompeo. Più avanti, con i demenziali resoconti
di viaggio tropicale consegnati dal 1986 ad «Avaj», (supplemento di

R. (2005), I dolori del giovane Paz. Biografia a più voci di Andrea Pazienza,
Milieu Edizioni, Milano, 2016, p. 162.
10 Glioti O., Fumetti di evasione.Vita artistica di Andrea Pazienza, Fandango,
Roma, 2009, p. 186.
Pompeo: una ballata del mare desolato 93

«Linus»), Pazienza avrà modo di reinserirsi tra gli autori di quell’a-


rea editoriale. Nel frattempo moltiplicò le collaborazioni in più dire-
zioni. L’ultimo ricongiungimento alle smanie vulcaniche di Vincen-
zo Sparagna, direttore di «Frigidaire», si consumò nell’esperimento
di «Frizzer», un Frigidaire un po’ trasandato e volutamente acerbo,
di cui Pazienza fu l’incasinato “imprinter”, ruolo che serviva a defi-
nire la sua eccentrica supervisione dei materiali grafici della rivista.
Prese a collaborare anche con «Comic Art» di Rinaldo Traini, un
habitat di inconsueta normalità fumettistica dove l’artista decise di
sfoggiare alcune delle storie più perfide ed esagerate di Zanardi11. Al
cuore di questo periodo di grandi cambiamenti, anche personali (nel
1985 Pazienza conobbe la disegnatrice Marina Comandini, che spo-
sò un anno dopo, stabilendosi con lei a Montepulciano), è comunque
il corpo a corpo grafico e letterario con Pompeo, da giocare “fino
all’estremo”, come recita il sottotitolo dell’opera, e cioè in direzione
di una catarsi e di un gioco di liberazione mentale.
Che cos’è Gli ultimi giorni di Pompeo? Maneggiando il volume
degli Editori del Grifo del 1987 si ha in mano un graphic novel:
Pompeo è un romanzo a fumetti, e ad esso si adatta anche la defini-
zione di “letteratura disegnata” cara a Hugo Pratt. Certo, è letteratura
che Pratt avrebbe frequentato a fatica, come può accadere a narra-
zioni che rappresentano (anche) un vissuto generazionale, e con esso
una possibile frattura tra generazioni. Qualcuno potrebbe obiettare
che l’eroina non è però una prerogativa della generazione di Andrea
Pazienza, e che idoli planetari della musica giovanile come Janis
Joplin, Jimi Hendrix e Jim Morrison – per citare solo i più celebri
– erano morti, in anni precedenti e in un differente momento cultu-
rale, della stessa sostanza che porta alla morte Pompeo, prefigurando
funestamente la morte dello stesso Pazienza. Tuttavia le biografie
degli artisti morti prematuri (Joplin e Hendrix nel 1970, Morrison
nel 1971) posseggono, al di là della dinamica singola del decesso,
un’aura di orgiastica e febbrile condivisione esistenziale di massa,
inevitabilmente legata all’ascesa culturale e sociale di una gioventù
occidentale in risveglio e piena di energie vitali. Le morti citate sono

11 Mi riferisco alla mini-serie I modi (1987), composta di due storie che Pazienza
chiama “capitoli”. La prima è Cuore di mamma, la seconda Cenerentola 1987.
94 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

morti “per eccesso”, distintive di una mania artistica che si costrui-


sce in mezzo alla folla coetanea. Pompeo invece è solo, disinteressa-
to ai rapporti con gli altri, unicamente proiettato nell’inabissamento
del mondo. L’eroina degli anni ’60 e primi ’70 non è culturalmente
la stessa droga per cui si sbatte Pompeo nel suo ultimo giorno di vita.

Prima di indagare oltre su questo oggetto cruciale della narrazione


di Pazienza soffermiamoci ancora sulla questione della forma edi-
toriale: all’epoca di Pompeo (seconda metà anni ’80) le riviste di
fumetti erano in crisi. Cercavano di opporsi al declino pubblicando
storie originali d’autore suddivise in episodi, in genere con cadenza
mensile12. La mente di ogni disegnatore professionista era organiz-
zata secondo una logica seriale. Pompeo nacque dunque a puntate, e
ciò ne spiega almeno in parte la difficile accoglienza presso il pub-
blico di «Alter»: mentre nella sua interezza l’opera assume un ritmo
che può essere facilmente amministrato dal lettore, nelle singole pun-
tate il linguaggio ricercato e particolare di Pazienza e le illustrazioni
implacabilmente penetranti e persino feroci operano in un regime a
tratti discontinuo, dovuto anche alle pause irregolari tra un episodio
e l’altro. La programmazione seriale di artisti come Pazienza non è
assimilabile alla pratica organizzativa comune nel fumetto popolare
di massa, e la lavorazione ne risente, nel bene (polifonia narrativa e
totale libertà espressiva) e nel male (scarti narrativi talvolta repen-
tini). D’altronde Pazienza fa di tutto per rendere memorabili le sin-
gole puntate, a cominciare dal titolo a stemma (“Gli ultimi giorni di
Pompeo”) riprodotto con grafie sempre diverse, a presidiare l’inizio
di ciascun episodio e anche una ventina di pagine singole consecuti-
ve, dentro le quali è collocato l’episodio che racconta l’esperienza di
Pompeo insegnante in una scuola di fumetto.
La serialità insita in questa produzione letteraria disegnata si pre-
sta a intensificazioni momentanee d’interesse che passano davanti al

12 Tra le riviste più importanti circolanti in Italia nel 1987 vi erano «Corto Malte-
se» (fondata nel 1983, cesserà le pubblicazioni nel 1993), «Comic Art» (fondata
nel 1984, attiva fino al 1995; sopravvivrà per qualche stagione con altro nome)
e «Frigidaire» (nata nel 1980 ma nel 1987 già parecchio esausta). «Alter Alter»
(1977) aveva chiuso i battenti nel dicembre 1986, «Orient Express» (1982) nel
1985, «Totem» (1980) nell’84, «Metal Hurlant» (1981) nell’83.
Pompeo: una ballata del mare desolato 95

pennarello di Pazienza e che l’autore quasi sempre intercetta, asse-


condando la propria predisposizione anarchica e funambolica attra-
verso un’esecuzione rapidissima e sapiente, tanto nel testo quanto
nel disegno.
Ciononostante, Pazienza accetta la sfida e finisce per darsi una di-
sciplina, costruendola però sull’esplosione dei contrasti e sull’assen-
za di pudore, esibendo situazioni visivamente estreme e portandole
in un mondo narrativo e grafico dove il lirismo sperimentale delle
grandi voci del Novecento si congiunge alle discariche relazionali
del piccolo spaccio, immerse in un grottesco iperrealismo.
Cos’è dunque Pompeo? Una storia a fumetti in bianco e nero di
116 tavole (il classico Tex mensile ne ha 109, Corte sconta detta
arcana di Hugo Pratt 98, tanto per avere dei riferimenti), con un
soggetto difficile e narrativamente rischioso, concepita e realizzata
tra il 1984 e il 1986, come ricorda l’ultima tavola dell’opera.
L’ingresso nella storia, scaltramente depistante, è offerto da una
copertina sontuosa e rinascimentale: Pompeo13 è ritratto in primo
piano come un santo dalla piccola bocca chiusa, collocato in un ras-
sicurante sfondo celeste dove si arrotonda una brillante aureola bi-
zantina, dentro cui Pazienza articola, in senso antiorario, una specie
di via crucis disegnata nello stile di Keith Haring. Il volto di Pompeo
è lungo e magro, il naso è imponente senza togliere fascino all’e-
spressione, valorizzata da uno sguardo nocciola a suo modo placido,
diretto verso gli occhi del lettore. La distribuzione delle luci attra-
verso la resa del colore accende il ritratto e lo rende vivo: persino i
capelli di Pompeo emanano luce e movimento. Il ritratto non è quel-
lo di un vinto dalla vita, quanto piuttosto di un reticente, di uno che
non vuole dire. Oppure di uno che ha già parlato, che ha già detto
tutto il dicibile, e che ora esiste in forma di icona, immagine impres-

13 “Conobbi Andrea più o meno quando stava per cimentarsi con l’ultima parte di
Pompeo” – racconta Moreno Miorelli, amico di Pazienza e suo interlocutore in-
tellettuale. “Il personaggio era quindi già definito, tuttavia Andrea rimase colpito
dalla somiglianza del personaggio di Pompeo con il mio viso e la mia fisiono-
mia. Quando consegnò Pompeo all’editore, mi chiamò per dirmi che mi aveva
messo in copertina del libro, anzi, che ero io la copertina. «Con tanto di aureola
bizantina, come piace a te», aggiunse scherzando sui miei studi di bizantinistica”
(Conversazione privata con Moreno Miorelli, 2 marzo 2017).
96 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

sionante e insieme lontanissima, santificata in un pensiero concreto e


perentorio: le cose, sembra dire il ritratto, sono andate proprio così14.

Per indicarci la direzione narrativa, Pazienza allestisce nella pri-


ma tavola una scenetta di lettura notturna. Pompeo quasi non asso-
miglia al santo della copertina: il naso da imponente si fa enorme,
i capelli sono disordinati e spenti, la barba da radere, una maglietta
a v lascia intravedere un ciuffo di peli sul petto. Pompeo ha una
sigaretta tra le labbra e un libro tra le mani. Un balloon lunghissi-
mo offre al lettore il brano che il personaggio sta leggendo silenzio-
samente. Si tratta di un passaggio dell’introduzione di The Waste
Land di Thomas S. Eliot, scritta dall’anglista/semiologo Alessandro
Serpieri (1935-2017). Il libro che maneggia Pompeo probabilmente
non è mai esistito: in copertina troneggia il nome di Serpieri, seguito
dal titolo originale dell’opera di Eliot. Nelle diverse edizioni italiane
dell’opera il titolo è invece nella nostra lingua (La terra desolata), e
il nome del curatore/traduttore è nella parte inferiore della copertina,
sovrastato, com’è ovvio, dal nome dell’autore dell’opera. Inoltre,
nell’autentica introduzione di Serpieri (1982) non vi è il passaggio
citato da Pazienza. Il testo letto da Pompeo (in italiano), è una pro-
babile rielaborazione da T.S. Eliot: le strutture profonde, una mono-
grafia critica di Serpieri sull’insieme del lavoro poetico di Eliot15.
Il fake di The Waste Land da parte di Pazienza è dunque un atto di
personalizzazione editoriale e un probabile divertissement per ad-
detti ai lavori. Cose da tesina dell’esame biennalizzato di Semiotica
al Dams, con tanto di depistaggio iniziatico. Questo il contenuto del
balloon prodotto dalla lettura silenziosa di Pompeo:

… con il metodo mitico, che anche Eliot adottò con successo, all’in-
circa tra il 1916 e il 1922, come metodo di organizzazione di un im-
menso materiale culturale, senza però accettarne infine la visione del
mondo che lo sottende; una visione paradigmatica più che sintagmati-
ca, assolutamente non teleologica, votata ad una paralisi semantica che

14 In Fumetti d’evasione. Vita artistica di Andrea Pazienza, Oscar Glioti dedica


pagine suggestive (pp. 204-213) alle possibili fonti storico-artistiche della coper-
tina di Pompeo.
15 Serpieri A., T.S. Eliot: le strutture profonde, il Mulino, Bologna, 1973.
Pompeo: una ballata del mare desolato 97

può essere esorcizzata solo dall’uso sincronico di modelli culturali e di


schemi mitici, di un linguaggio ad un tempo unico e multiplo, attuale e
storico – dunque essenzialmente metalinguistico – tramite cui il moder-
no artista mitopoietico celebra senza alcuna illusione finalistica, l’infi-
nità dell’uomo in quanto infinita possibilità di nominazione del mondo.

Il periodo è un monoblocco sintattico piuttosto contorto, interrotto


solo parzialmente da un punto e virgola e contenente un inciso tra
linee. L’ermeticità del contenuto esplode in faccia al lettore perché
i suoi occhi sono puntati sulla prima pagina di un romanzo a fumet-
ti, quella che garantisce l’attenzione di tutti. L’effetto che ottiene
Pazienza con questa citazione di Serpieri sul capolavoro di Eliot è
di ingigantire simbolicamente le parole, che risuonano sinistre nel-
la mente del lettore non specializzato. Pazienza chiosa il senso di
impervia complessità del denso testo con un commento di una sola
parola: “… Bastardo…”.
Tuttavia non si tratta solo di una battuta giocata sul registro “in-
tellettualismo/ermeticità”: Pazienza non sfoggia un qualunquismo
anti-intellettuale, che suonerebbe come un paradosso vista la parti-
colarità della citazione, la cui scelta è già indicativa di un’apparte-
nenza letteraria e culturale assai esclusiva.
La terra desolata di Eliot è più di un riferimento letterario adatto a
un’apertura a sorpresa del nuovo racconto e anche più di una sugge-
stione espressiva utilizzabile per varcare la soglia degli ultimi giorni
di Pompeo. The Waste Land è uno dei luoghi letterari più potenti
del Novecento, e chi lo menziona – come fa Pazienza – ne rimarca
l’importanza strategica.
Le traduzioni italiane dell’opera ebbero inizio nel 1963, con il
lavoro di Mario Praz per Einaudi16; nello stesso anno uscì T.S. Eliot
tradotto da Eugenio Montale17. Nel 1972 fu pubblicata una nuova
edizione de La terra desolata, tradotta da Elio Chinol18. La prima
edizione del lavoro di introduzione e cura di Alessandro Serpieri è

16 Eliot T. S., (1922) La terra desolata. Frammento di un agone. Marcia trionfale,


prefazione e traduzione di Mario Praz, Einaudi, Torino, 1963; 1970; 1985.
17 Eliot T.S., (1922) T. S. Eliot tradotto da Eugenio Montale, Edizioni All’insegna
del pesce d’oro, Milano, 1963.
18 Eliot T. S., (1922) La terra desolata, trad. di Elio Chinol, con 11 disegni di Erne-
sto Treccani, Loperfido, Ravenna, 1972.
98 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

del 198219, ed è assai probabile che anche attraverso questo volume


Pazienza sia venuto a conoscenza del complesso lavoro di elabora-
zione del poema di Eliot.
Nell’introduzione di Serpieri del 1982 ci sono due indicazioni
che consentono di stabilire altrettante analogie tra l’opera di Eliot e
quella di Pazienza. Serpieri ricorda come la gestazione di The Waste
Land sia avvenuta in un periodo di crollo nervoso del poeta, dovuto
all’affaticamento per il lavoro presso la Lloyds Bank di Londra (dal
1917) e la sua contemporanea attività di scrittore e conferenziere,
mentre la moglie Vivien versava in un grave stato di malattia. Nel
1921 gli furono prescritti tre mesi di riposo assoluto, che egli passò
tra Margate (città marinara del Kent) e Losanna, dove prese forma il
poema. “Composto in un periodo di grave crisi psicologica – scrive
Serpieri – il poemetto ebbe anche, indubbiamente, un effetto tauma-
turgico” 20. Pazienza era andato via da Bologna come un fuggiasco,
e la lavorazione di Pompeo era proseguita nel “confino” del primo
periodo di Montepulciano e poi a Roma, attraversando stati psicolo-
gici assai diversi. Cionondimeno, anche per Pazienza immergersi in
Pompeo ebbe un effetto salutare e catartico.
La seconda indicazione rilasciata da Serpieri evidenzia che

(…) la terra desolata (…) collega immediatamente la crisi dell’e-


poca presente all’antica interpretazione simbolica della desolazione
nei riti della fertilità. La terra desolata è la terra invernale, che sembra
chiudere definitivamente il ciclo della vita e che deve essere esorcizzata
ritualmente perché torni la primavera arrecando la fioritura delle messi.
(…) Ogni epoca è diversa, ma tutte le epoche «si tengono» dentro un
medesimo schema, di morte e rinascita, aridità e pioggia, radici secche
e verdi foglie. Così la terra desolata ingloba l’inferno dantesco come
l’alienata città baudelairiana, il deserto biblico come la terra devastata
del Re Pescatore della leggenda del Graal, il gelido squallore invernale
come l’arsura estiva.21

19 Eliot T.S., (1922) La terra desolata, introduzione e traduzione di Alessandro


Serpieri, Rizzoli, Milano, 1982; 1985.
20 Serpieri A. (1982), Introduzione, in Eliot T.S. (1922), La terra desolata, Rizzoli,
Milano, p. 15.
21 Ivi, p. 23.
Pompeo: una ballata del mare desolato 99

Sulla taumaturgia di Pompeo è lo stesso Pazienza a esprimersi


nelle ultime due tavole della storia, intitolate Postilla dell’autore a
“Gli ultimi giorni di Pompeo”:

Cari voi che mi avete seguito sin qui. Così finisce l’ultima puntata
di Pompeo e, presumo, anche un lungo capitolo della mia vita. Questi
s’era aperto «fumettisticamente» nel Settantasette con Pentothal (del
quale Pompeo è, forse, l’alter-ego invecchiato), e, tra alti e bassi, chiude
adesso, nove anni dopo.

Segue l’elencazione delle scoperte psicologiche di Pazienza in


anni “che sono volati”, tra cui una dichiarazione di modestia (“ho
scoperto di non essere un genio”) e una serie di scuse per comporta-
menti discutibili e per inattendibilità. Il tono è giocoso, una confes-
sione piena di mezze verità espresse in un linguaggio epistolare dove
trovano posto anche i consueti errori d’autore nell’italiano scritto:
“Ora che vivo in campagna non sono più depresso e quindi saluto
volentieri gli amici che mi rimastono qua e là nelle città. Le amiche
soprattutto”.
Al di là dei giochi linguistici, un ritratto della giovane moglie Ma-
rina Comandini conclude l’auto-indagine sull’inverno psichico di
un artista di un certo calibro e tossicodipendente, di nome Pompeo.
Pazienza era andato via da Bologna anche per cercare di spezzare
una quotidianità che si era fatta pesante, e pesantemente scandita
dall’uso dell’eroina, consumo che era stato per del tempo episodico,
e poi si era trasformato in una dispendiosa dipendenza. Scrivere e
disegnare Pompeo voleva dire agire sulla necessità di tornare all’in-
verno dell’anima, fissarne le movenze nel disagio di ogni giorno,
estrofletterne le pulsioni di morte: come scriveva Serpieri, “la terra
desolata deve essere esorcizzata ritualmente perché torni la prima-
vera arrecando la fioritura delle messi”. Per meritarsi questo change
de vie Pazienza deve ritornare sui propri passi, e non risparmiarsi la
consapevolezza e la memoria dei fatti.

Siamo dunque entrati nella prima pagina di quest’opera, una pa-


gina metaletteraria (si cita un passo letterario all’interno di un’opera
letteraria) e insieme cross-mediale (si cita il medium letteratura nel
100 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

medium fumetto): certamente una pagina d’impatto che apre infinite


possibilità di sviluppo. Tuttavia, anche volendo attribuire alla “pagina
di Serpieri” il valore di un principio di speculazione teorica, dal punto
di vista della narrazione non è ancora successo niente. C’è solo un
giovanotto dall’aria trascurata che legge un saggio complicato.
Già nella seconda tavola veniamo però a sapere l’essenziale: il
titolo (Gli ultimi giorni di Pompeo, assente nella pagina di Serpieri),
che campeggia a caratteri cubitali sopra un occhio a spillo altrettanto
imperioso, e questo testo:

Il corriere era arrivato da Milano con la roba: 5 grammi. Pompeo


rimase con lui a chiacchierare per un po’. Non aveva fretta. Aldo, così
si chiamava, stupiva della disponibilità del suo nuovo cliente, un arti-
sta pieno di pilla, abituato com’era ad essere licenziato, con una scusa
qualsiasi, non appena effettuata la consegna. Ne approfittava alla ma-
niera dei tossici da due e passa al giorno, farneticando, compiacendo e
menandola. Clandestinamente, il vuoto intellettuale di Aldo confortava
Pompeo nella sua ultima ora di vita, aiutandolo a credere in un mondo,
come il pusher, del tutto esaurito.

L’ingresso della storia non ha ambiguità: in poche righe Pazien-


za ci ha introdotto in un mondo doppio, quello di Pompeo e quello
del piccolo spaccio. Pompeo è un tossicodipendente ma non è un
tossico qualsiasi. È un tossico che osserva con distacco quel mondo
degradato di cui ha bisogno, ma che non è il suo. Lui è un artista
“pieno di pilla” (soldi in slang emiliano), e si concede il lusso di uno
sguardo antropologico sul tossicomane che ha di fronte (Aldo), il
cui comportamento viene liquidato con tre gerundi: “farneticando,
compiacendo e menandola”. L’osservazione si affina poi in chiave
filosofica, grazie a un avverbio – “clandestinamente” – che non si
limita a intendere l’ipocrisia di Pompeo verso il corriere, ma indi-
ca un sotto-testo psicologico ambiguo e rischioso, poi confermato
dall’informazione che Pompeo sta entrando nella sua ultima ora di
vita, notizia che spedisce sullo sfondo la sensazione di conforto da
lui stesso provata grazie all’inanità esistenziale dello spacciatore. Se
si prende come campione rappresentativo dell’umanità chi vive nel-
la tossicodipendenza fine a sé stessa, andarsene per sempre non può
fare così male. Questo pensiero, duro e gelido, viene spiegato con il
Pompeo: una ballata del mare desolato 101

testo successivo (tav. 3), dove Pazienza, allontanandosi per qualche


rigo dall’annuncio della morte di Pompeo, approfondisce la pochez-
za comportamentale di Aldo:

Il corriere dei piccoli girava per casa farfugliando approvazioni, tutto


toccando e inclinando, forse rubacchiando, finché durante un trasbordo
infilò per sbaglio la porta d’ingresso e sparì.

Uscito fulmineamente di scena il personaggio rappresentante lo


stato di alienazione della dipendenza massiccia (“da due e passa al
giorno”, sottinteso grammi) grazie a un espediente dal sapore gogo-
liano (“infilò per sbaglio la porta d’ingresso e sparì”), ora Pompeo
è solo nella propria riflessione, che si infila nell’aforistico-attonito:

Pompeo pensò, allora: “La vita è breve, l’uomo è cacciatore, e sare-


mo per troppo tempo morti”, rimanendo sull’ultimo concetto in forzosa
meditazione, per la durata di diverse eco.

La riflessione non è esattamente lineare: le tre affermazioni giac-


ciono su piani sghembi, senza toccarsi, anche se poi risuona nel-
la mente di Pompeo soprattutto il presagio della durata abnorme
dell’essere morti. La sua risposta allo spettro del non-essere è il pro-
seguimento di un rituale, che si sovrappone, date le premesse espli-
citate dalla voce narrante, al perseguimento di un piano:

Da una busta trasse quindi due siringhe sterili da cinque cc. In due
cucchiai disciolse tre grammi di polvere bianca e due di brown, abbon-
dando in quest’ultima di limone giacché gli interessava sciogliere il
taglio, per un totale di oltre quattro grammi milanesi.

Ora noi sappiamo già che, essendo il corriere Aldo decisamen-


te malridotto dato che rappresenta “uno da due e passa al giorno”,
sciogliere cinque grammi di eroina e iniettarseli equivale a una dose
esagerata, probabilmente mortale. Nella successiva tav. 4, Pazienza
descrive con estrema precisione le azioni e i pensieri di Pompeo:

Infilò entrambi gli aghi nella grossa vena del braccio destro, con i
gesti alternati di chi svita i bulloni di una ruota, e tirò a sé gli stantuffi
102 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

provocando l’apparizione di due rosse meduse nelle grosse siringhe.


Immaginò di non riuscire a premere fino in fondo i due stantuffi e pa-
ventò l’idea d’un sistema di iniezione che ovviasse la sciagura di per-
dere conoscenza immediatamente dopo i primi due grammi. Pensò che
aveva usato troppa acqua. Cercò la paura, ma non la trovò.

La prosa di Pazienza ha una sua percepibile eleganza stilistica


(“due rosse meduse nelle grosse siringhe”; “ovviasse la sciagura”)
pur immersa nella crudezza della rappresentazione auto-sommini-
strativa. La sentenza finale (“Cercò la paura, ma non la trovò”) ar-
riva come l’ultimo diniego davanti all’irreparabile. La paura è la
più violenta delle emozioni, ma esse non sembrano albergare nello
spirito di Pompeo. Le immagini disegnate da Pazienza sono primi
piani del personaggio intento alla preparazione della sostanza, con
teschio a chiusura di tavola, osservato dal dettaglio dei soli occhi di
Pompeo, indifferenti e stanchi.

L’ultima tavola di questa sequenza è la quinta, occupata per intero


dalla gigantografia di un soldato americano che urla “Why?”, non da
un balloon ma da un lettering cubitale che invade la scena dal basso.
All’interno della stessa parola “Why?” Pazienza pratica un funam-
bolismo calligrafico, inserendo questa frase: “Le siringhe pendevano
trattenute dalla leva degli aghi, come banderillas dalla schiena di una
carcassa, e non smettevano un’aria familiare”. Immagine e metafora
sono scabrose ma senza dubbio efficaci, e l’intera tavola ci trasmette
l’idea di un atto in pieno compimento, prossimo all’esplosione.
Dopo questa tavola prende invece forma un lunghissimo flash-
back, che si concluderà solo nella novantaduesima tavola, dove
Pompeo vivrà gli estremi effetti della pera letale. Non ancora la fine,
ma quasi; il lettore però tutto questo verrà a saperlo dopo la retro-
marcia narrativa di Pazienza, che costituisce i quattro quinti dell’in-
tero romanzo grafico.
Il flash-back che parte dalla sesta tavola descrive e analizza la vita
quotidiana di un forte consumatore di eroina che può permettersi di
pagare la propria dipendenza senza patemi d’animo, continuando a
svolgere un lavoro creativo di buon reddito e tuttavia non in grado di
evitare il “mondo di sotto” del piccolo spaccio. L’esordio del flash-
Pompeo: una ballata del mare desolato 103

back è dominato dalla scrittura, che invade nitida le prime tavole: la


descrizione del mondo di Pompeo è precisa come al solito, quasi ma-
niacale. Dettagliate sono le informazioni su come il giovanotto disin-
neschi le suonerie del telefono “per tema d’esser disturbato”, adottan-
do un italiano inizialmente normalizzato e puntuale (a volte persino
arcaico, come nella scelta del termine “tema” al posto di “timore”), ca-
pace di comunicare le azioni più semplici con esattezza documentaria:

Tornò a letto, accese una sigaretta, ripiegò il cuscino dietro la nuca,


allungò un braccio a raccogliere il libro che stava leggendo dal tappeto
della moquette, e lo sistemò, aperto sul petto col dorso in alto. (tavv. 6-7)

Le singole puntate de Gli ultimi giorni di Pompeo sono organiz-


zate intorno a una tematizzazione a episodi, che esprime una sorta di
via crucis del tossico, pur artista e benestante. Accidenti da automo-
bilista nervoso e indisciplinato si susseguono in una città spopolata
di passanti e avara di parcheggi, mentre si snoda la ricerca di eroina
(il corriere Aldo arriverà solo il giorno seguente).
Le terre desolate di Pompeo prendono le forme irregolari e me-
scolate di ricordi e rimpianti, ritagliando frammenti antropologici
con precisione chirurgica, consentendosi un’indelebile rappresenta-
zione della crisi d’astinenza, equamente distribuita tra annichilimen-
to degli “sfaccendati” (hanno “occhi da calo-calo”, come quelli di
tale Mallardo, archetipo del tossico a rota, tavv. 13-15) e tentativi
personali di uscire dalla propria dipendenza (“Quella notte Pompi
desiderò tornare sano. Avrebbe sopportato quest’ennesima rota, ma
si sarebbe rimesso presto a fare esercizi”, tav. 21).
Lo stato di Pompeo è quello di un eroinomane dal consumo tal-
mente abituale da averne ritualizzato l’assunzione sin dal risveglio:

Ventisette ore prima, Pompeo s’era svegliato nel suo letto e prepara-
va con soddisfazione la prima pera della giornata, nel modo che prefe-
riva, cioè senza levarsi dal letto, avendo l’occorrente, compresa acqua e
limone, apparecchiato a portata di mano prima di coricarsi.

Obiettivo di Pompeo è permanere nello stato oppiato in modo


continuativo, e ciò spiega il suo peregrinare per le vie di Bologna a
104 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

ogni ora della giornata. Perché Pompeo agisce così? È dipendente, e


quindi vuole evitare il down dovuto all’astinenza. Ma questa spiega-
zione non basta: Pazienza entra nel merito degli effetti dell’eroina in
tutte le sue gradazioni. L’eroina è una droga non sostituibile da altre:
i principali personaggi dell’autore – Pentothal, Pompeo, Zanardi e
compagni – fanno capire che “la svelta” (la coca) non è particolar-
mente amata, e che tutte le attenzioni vanno alla “lenta” (la roba),
mentre le canne popolano le sue storie come elemento fisso e so-
stanzialmente innocuo-relazionale. Pompeo fornisce segnali molto
espliciti della sua predilezione per gli oppiacei: dopo un “richiami-
no” (di roba) “si sdraia sul letto, con gli occhi chiusi, la sigaretta
accesa, il cervello che va a mille sotto diversi strati di isolante” (tav.
23). A differenza di altre droghe, l’eroina consente l’attività mentale
e intellettuale ma colloca il consumatore in un luogo anestetizzato
e morbido, dove l’orrore della vita quotidiana si placa e le pulsioni
sensoriali si dilatano fino all’esplosione.
Franco Berardi legge la narrativa di Pazienza sull’eroina delinean-
do una prospettiva sociologica applicata all’ambiente movimentista:

Pazienza è l’interprete più perfetto del passaggio dell’eroina: Scòz-


zari è al di qua del problema, nel senso che non lo ha mai toccato perso-
nalmente e che le sue storie si occupano d’altro, nel mondo di Ranxerox
di Tamburini tutto è già avvenuto. In Pazienza invece hai tutto il passag-
gio mentre il fenomeno avviene. In Pentothal c’è il passaggio dell’indi-
viduo isolato alla comunità reso con partecipazione erotica, il passaggio
al corpo collettivo dei corpi desideranti. Il passaggio del movimento
all’eroina, ma senza complottismo. Pazienza lo rappresenta bene come
spostamento dell’energia desiderante.22

L’eroina riempie l’assenza di significato di tutte le cose, soprattut-


to se – come scrive Pazienza in un altro prodotto della sua fenome-
nologia elencatoria –

22 Testimonianza pubblicata in Giubilei F. (2005), Vita da Paz. Storia e storie di


Andrea Pazienza, Odoya, Città di Castello (PG), 2016, p. 110.
Pompeo: una ballata del mare desolato 105

L’alternativa è la birreria, il lavoro, il risparmio, il normale sfaldarsi


del corpo, lo studio, l’amor(osa ri)23cerca, lo scemo naturale, il simpati-
co, l’antipatica, due + due fa quattro, sveglia alle otto, viaggi, incidenti
in pullman, Milano, cene d’affari, e non valgono quei personaggi più
di quell’altri, mutuati della felicità. Palle anche lì, palle peggio di qua.

E conclude la tavola (63) con questo mantra:

Vuoi mettere risorgere, risorgere, risorgere, risorgere… Vuoi mettere


risorgere, risorgere, risorgere, risorgere, risorgere…

Nell’originale le ultime versioni del verbo sono vistosamente più


grandi, a raccontare un’espansione sonora nella mente.
Ma cosa vuol dire “risorgere”? Una volta negato ogni fascino alla
normalità – ci ha detto qualche riga sopra Pazienza – ne resta la re-
altà ammalata, cui l’eroina fa da lenitivo e da propellente contrario:

Vivo sulla lama, mi com/muovo nei bassifondi, parlo coi ricercati


dallo Stato, brigo, mi procuro e dilapido milioni, poi, rischio, mi strug-
go, mi umilio, mi arrendo, poi mi faccio, e tutto torna bello, più splen-
dente di prima!! (tav. 63)

Lo stato oppiato permette tuttavia pensieri più sofisticati, che met-


tono Pompeo in condizione di riconnettersi alla sua esistenza più
autentica, quella letteraria. Pazienza fa agire i pensieri drogati di
Pompeo attraverso numerose citazioni disseminate nel corso dell’o-
pera. Dopo aver denunciato al lettore la grande stanchezza del suo
personaggio, prima ritrae Pompeo con i pantaloni calati e l’aria stiz-
zita e poi ne avvolge il volto in un brano della scrittrice britannica
Daphne Du Maurier, autrice di Rebecca, la prima moglie (1938), ro-
manzo da cui fu tratta l’omonima pellicola di Hitchcock (1940), così
come accadde per il racconto Uccelli (1963). La lunga frase della
Du Maurier riportata da Pazienza si conclude con le parole seguenti:
“(…) perché solo odiando ci si può purificare dall’amore, solo con
la spada, con il fuoco” (tav. 65).

23 Le lettere tra parentesi non compaiono nell’elenco, cancellate dai bordi del bal-
loon, e sono dunque una semplice ipotesi interpretativa.
106 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Tuttavia, mentre Pompeo è fermo in macchina avvolto in questi


pensieri spigolosi, nella storia irrompe un danno collaterale del con-
sumo di prodotti illegali, la vigilanza repressiva. In una sequenza
che dura cinque tavole, Pompeo viene fermato, perquisito e insultato
sotto minaccia di una pistola da un palestrato agente in borghese.
Reagisce a sua volta con un insulto, ma riceve un ceffone umiliante.
Dalla verifica dei poliziotti non emerge però nulla a carico di Pom-
peo. “Ripigliati la patente” – sibila lo schiaffeggiatore. E aggiunge:
“E ingrassa un po’… Che fai schifo. Buonanotte”.
La fulminea e violenta indagine su un cittadino forse equivoco ma
con la fedina penale pulita lascia Pompeo straziato e infuriato: nella
sua mente si formano immagini di vendetta e di violenza, il prelu-
dio a un epilogo guerriero che, nondimeno, si svolgerà solo nella
sua immaginazione (e, ovviamente, nelle straordinarie illustrazioni
di Pazienza, tavv. 72-75). Pompeo ha invece un attacco di vomito e
si dispera, infastidito da uno dei feticci del suo creatore, un Mickey
Mouse oblungo che gli fa da momentanea voce della coscienza e
gli ricorda che lo aspetta ancora un futuro, se solo Pompeo lo vorrà.
La risposta è un’altra sentenza nichilista, una variante letteraria del
no-future belief del punk inglese: “Un futuro… Puah, mi affatica il
solo pensiero”.
Perciò non resta che recuperare l’ultima dose della giornata e far-
sela in fretta, attendendo il risultato ipnotico-letterario “sotto diversi
strati di isolante”, prima in un mondo grafico di aghi di ghiaccio e
poi nella dilatazione di uno spazio inviolato di libertà, che Pazien-
za riesce a trasmettere con una tavola memorabile (tav. 83), dove
un soggetto antropomorfo si libra, sull’onda di alcuni versi di Boris
Pasternak, sopra la curvatura della terra, con uno slancio empatico
che la vita reale non contempla, e tutto sembra voler abbracciare,
cosmicamente.
D’altronde l’eroina non è solo estasi fisica, è anche perdita di sé e
pesante alterazione percettiva: Pazienza la disegna sotto forma di una
scura tromba d’aria che avvolge i ricordi e gli oggetti del quotidiano e
che agita fino al delirio la permanenza del nudo Pompeo nel suo diva-
no, fino a che il cervello sembra incapace di fronteggiare l’immagine
di un intero mondo di voci che irrompono in una spaccatura della sua
mente, dove prendono alloggio in un attimo folle di frasi e di suoni
Pompeo: una ballata del mare desolato 107

rimasticati dalla letteratura, dalla radio, dal chiacchiericcio dei bar,


fino alla confusione massima e definitiva (tavv. 27-30).
Ancora più drammatica è la sequenza dell’iniezione che porterà
al collasso Pompeo, e che egli ha progettato per suicidarsi. La dose
esagerata giunge come un fiume in piena nel corpo di Pompeo, che
si contrae spasmodico e disarticolato, simile a un ritratto di Egon
Schiele scosso da scariche elettriche pre-collasso, che si riformano
nei versi di Boris Pasternak In morte di Majakovskij, riportati da Pa-
zienza utilizzando un lettering differenziato e cangiante e decapitan-
do alcuni versi dell’epilogo. Riporto qui la suddivisione rigo per rigo
della versione ritmica di Pazienza, senza riprodurne i mutevoli corpi
(da grandi a piccoli), i mutevoli caratteri (maiuscolo stampatello tre-
mulo, maiuscolo tradizionale, lo stesso per il minuscolo stampatello
e il maiuscoletto) e i mutevoli stili (tondo, corsivo, dritto, inclinato).

Non ci credevano, pensavano:


fandonie,
ma lo apprendevano da due, da tre,
da tutti.
si mettevano a fianco nella riga
del suo tempo fermatosi di botto
case di mogli di impiegati e di mercanti.

Era un giorno, un innocuo giorno, più innocuo


D’una decina di precedenti giorni tuoi.
Si affollavano, allineandosi nell’anticamera
Come allineati dal tuo sparo…
Tu dormivi, spianato il letto sulla maldicenza,
dormivi e
cessato ogni palpito eri placido,
bello, ventiduenne,
come aveva predetto il tuo tetrattico.
Tu dormivi, stringendo al cuscino la guancia,
dormivi a piene gambe, a pieni malleoli,
inserendoti ancora una volta di colpo
nella schiera delle leggende giovani
tu ti inseristi in esse con più forza
perché le avevi raggiunte con
un balzo
108 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

il tuo sparo fu simile a un Etna


in un pianoro di vigliacchi
e di vigliacche!

Le variazioni di Pazienza rispetto al testo originale sono due: scri-


ve nella quarta strofa “del suo tempo fermatosi di botto” invece che
“del tuo tempo” (probabilmente una distrazione), e preferisce chiu-
dere con “un pianoro di vigliacchi/ e di vigliacche” invece che con
“un pianoro di codardi/ e di codarde” – come nella versione corrente
e utilizzata da Carmelo Bene.
L’epilogo decapitato, cioè gli ultimi versi della poesia di Paster-
nak (“Ma la vecchiezza è una Roma/ senza burle e senza ciance/
che non prove esige dall’attore/ ma una completa, autentica rovina”)
erano già stati esibiti autonomamente (tav. 85), al termine di una
sequenza di beatitudine da fattanza che prende però avvio dai versi
di un’altra poesia di Pasternak, Marburgo, sovrastata dal profilo sor-
ridente di Pompeo

Quel giorno tutta, dai pettini ai piedi


come un attore tragico un dramma di Shakespeare in provincia,
ti portavo con me, ti sapevo a memoria,
e girellando per la città ti ripassavo.
Quando caddi davanti a te,
abbracciando questa nebbia,
questo ghiaccio, questo spazio
(…) Come sei bella, questo turbine d’afa!
Ma di che parli stupido? È finita.

I versi delle tavv. 81-85 sono dunque tratti dal corpo centrale della
poesia Marburgo, ma hanno il loro epilogo nei versi finali di un’al-
tra poesia, In morte di Majakovskij, la quale viene in seguito pre-
sentata autonomamente, ma senza epilogo: Pazienza dimostra una
notevole disinvoltura letteraria, adattando i versi del poeta russo alla
propria immaginazione grafica, e servendosi di loro come tessere
di un proprio mosaico descrittivo e interpretativo. Al narratore non
è d’altronde richiesta perfetta aderenza a canoni filologici: l’artista
usa i versi spargendo i significanti anche in luoghi erronei, come
quando, nell’ultimissima tavola di Pompeo (tav. 116), attribuisce a
Pompeo: una ballata del mare desolato 109

Majakovskij alcuni versi che appartengono invece alla poesia di Pa-


sternak Le onde:

… dove io non ricevo alcun resto in vita spicciola dell’esistenza


ma segno solo ciò che spendo,
e spendo tutto quello che conosco.

Stessa cosa accade alla tavola 110, dove la firma dei versi (“…
imparentati con tutto ciò che esiste, convincendosi/ frequentando il
futuro nella vita di ogni giorno,/ non si può non incorrere alla fine
come in una eresia, /in una incredibile semplicità”) è “Majak.”, ma
sarebbe dovuta essere “Pastern.”, nuovamente inteso come il poeta
della lirica Le onde.
Il citazionismo caotico e scanzonato di Pazienza si insinua anche
nella riproduzione delle pratiche gergali della tossicomania, dove al
telefono, per sapere se è arrivata l’eroina, si parla così:

“Sono Pompeo, c’è Teresa per favore?”


“Sì, è appena arrivata, sbrigati. Click.” (tav. 51)

L’ambiente che accoglie Pompeo è malsano, come l’alito del pa-


drone di casa, un pusher

di una lentezza estrema, e trema. Terrificante. Beccheggia, s’acquie-


ta, s’affloscia e dorme, ma come inizia a russare, si sveglia, inizia una
frase, e alé, s’addormenta di nuovo. È un tipetto fumino però, e bisogna
tenerselo buono. (tav. 56)

La scena si completa con l’iperrealistica rappresentazione di una


tossica alla ricerca di una vena buona (“Il culo di lei gli balla davanti
al naso. Ottimo culo. Peccato per i denti marci…”). Per una rifles-
sione inevitabilmente amara su questo sottobosco di rovine vale il
pensiero che Pazienza mette nel balloon dove appare un Pompeo
serpentiforme, seduto in attesa della consegna della roba su un lercio
divano di casa-pusher (tav. 54):

Sono in balìa della feccia del pianeta, della peggior gente, e passo
tra di loro la maggior parte del mio tempo, dò relazione alle merde,
110 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

permetto a chiunque di importunarmi, basta che abbia la roba… E un


tempo ero così schizzinoso…

Il continuo riferirsi a sé stesso e alla propria condizione indivi-


duale non impedisce a Pompeo di rilevare una compiuta galleria
sociologica di tipi umani alla deriva, rallentati e sgangherati come
i pusher di cui si serve Pompeo, oppure freddissimi, silenziosi e di-
stanti come le ragazze con cui il personaggio trascorre brevi momenti
di intimità e di alterazione. Un’autentica sensazione di benessere da
parte del protagonista, eccettuata quella della droga appena assunta,
non è rintracciabile nel romanzo a fumetti. La sfera sentimentale è
bloccata in immagini di scarsa condivisione e anzi riecheggianti sen-
sazioni di oscuro malessere, che in alcuni casi alludono, attraverso
l’esplicita citazione di figure elementari ed infantili (tav. 17), allo
stile di Marcello Jori, un pittore dalle incursioni fumettistiche firma-
te J (Minus su «Linus»), dove il tratto bambinesco veicola un (muto)
linguaggio grafico feroce e tetro, in una direzione simile ai ben più
tardi cartoon di South Park.
Le cose si complicano perché Jori, molto amico di Pazienza, era
diventato il nuovo fidanzato di Elisabetta (Betta) Pellerano, ragazza
storica dello stesso Pazienza, il quale restò tramortito dalla notizia
nonostante la coppia si fosse sciolta già da qualche tempo. A Bet-
ta dedicherà due tavole di Pompeo (35-36), ripetendo per tre volte
l’enigmatica frase “è dolcissimo non appartenerti più”, dopo aver
ammesso di non ricordare “quando mi hai rifiutato”. La tav. 17, ri-
prodotta in stile Jori, presenta due personaggi (si direbbero un ma-
schio e una femmina) che si nascondono dietro a una tapparella dallo
sguardo di Pompeo, che osserva dal basso, da una piazza bolognese
pomeridiana grigia e deserta, dopo aver suonato un campanello “a un
portoncino, (…) e come chi s’attende una risposta alza gli occhi al
cielo…”. La tavola s’intitola, proseguendo la frase di Pompeo lascia-
ta sospesa, “Quel cielo così bianco”, frase che era già comparsa poco
addietro (tav. 10), associata a un volto femminile che si disegna so-
vrastante e improvviso nella disabitata foschia di una giornata livida,
evidenza di un ricordo doloroso. In questo modo la tavola assume un
significato biografico difficile da cogliere per il lettore occasionale.
D’altronde in Pompeo è presente più di un riferimento spiccatamente
Pompeo: una ballata del mare desolato 111

personale a Pazienza, come il nome del padre (Enrico), il sopran-


nome della sorella Mariella e la fisionomia del fratello Michele in
una delle ultime tavole, così come la menzione del disegnatore Igort
(“Perché Igort ha lasciato qui la sua valigetta?”, tav. 23). Lo stesso
Marcello Jori è citato più volte, con il soprannome di Marci.
Pazienza non esita a scaraventare il proprio vissuto nelle peripezie
di Pompeo, ma non occorre aver conosciuto l’autore per apprezzare
testi e disegni ordinati nel caos freddo della storia. Ogni vissuto di-
rettamente esperienziale è ristrutturato da Pazienza in visioni e nar-
razioni che ne accentuano i caratteri di “universalità alterata”. Così
l’episodio della lezione di Pompeo a una scuola di fumetto ricalca
certamente l’esperienza di insegnante di Pazienza (presso la scuo-
la “Zio Feininger” promossa dall’Arci di Bologna e dal gruppo di
Valvoline24), ma galoppa nevrotica sui dossi della prestazione pro-
fessionale sotto l’effetto di oppiacei, con effetto insieme particola-
ristico (la prestazione di un insegnante nella nicchia dei fumetti) e
universalizzante (le strategie messe in atto da una persona in stato di
alterazione per resistere alle divagazioni mentali di fronte a un pub-
blico che si aspetta da lui una prestazione professionale).
In questo episodio la compresenza di immagini e testi diviene
compenetrazione. Una bellissima tavola in stile Crumb-futurista
(tav. 41) raffigura Pompeo freneticamente ricercante la propria aula,
ma “il corso di fumetto è nella Nuova Zelanda del complesso. Pom-
pi non si recuerda mai dove deve andà”. Il linguaggio di Pazienza
fatica a stare nei binari sobri e ricercati dell’esordio della storia, e
la sua libertà espressiva prende il sopravvento, mantenendosi però a
distanza dall’ostentata eversione della lingua italiana messa in atto
in diverse opere precedenti. Lo sfondo-supporto dell’episodio è il
plebeo foglio quadrettato cui accennavamo nella prima parte del ca-
pitolo, un perfetto campo di battaglia per la svogliata didattica di
un uomo che a un certo punto deve chiudersi in bagno per farsi una
pera (“la sesta dalla mattina”, sottolinea con maniacale precisione
la voce narrante) e che ricorda il nome di un solo studente, perché
si chiama come suo padre e fuma sigarette a lui (Pompeo) gradite.

24 Del gruppo facevano parte gli artisti Lorenzo Mattotti, Igort (Igor Tuveri), Da-
niele Brolli, Giogio Carpinteri, Marcello Jori e Jerry Kramsky (Fabrizio Ostani).
112 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Per il resto tratta la classe come un insieme di “bacche secche” (non


fertilizzabili) e propina sventagliate di eccentriche osservazioni este-
tologiche per quanto gli consente la secchezza delle fauci e il desi-
derio di ridurre al minimo lo sforzo di valutazione dei lavori degli
studenti, operazione cui si dedica controvoglia, senza rinunciare a
uscite sadiche (“Stronzi! I vostri disegni fanno cagare, cosa vi ha
portato qui?”, tav. 46).

In Pompeo non mancano i marchi di fabbrica consueti di Pazien-


za, come la maniacalità elencativa, che viene somministrata, come
già segnalato, quando Pompeo fa la lista delle alternative alla tossi-
codipendenza (“la birreria”, eccetera, tav. 63) e, prima ancora (tav.
23), quando punta la sua attenzione sul disordine del tavolo da dise-
gno, su cui sono sparsi i seguenti oggetti:

Permanent, gomme, trincetti, cucitrice, forbici, cicche, filtri, colle,


stick, ritagli, matite, pastelli, pantone, pennelli, inchiostri, rapidograph,
gessetti, piattini, bicchieri, posacenere, cucchiai, accendini, mascheri-
ne, album, ciccioli di gomma, spiraline di legno temperate, briciole, bu-
ste di cellophane, occhiali, lampade, righe, righelli, squadre, compasso
e la valigetta di Igort. Un olio di Ivo, un acquarello di Marci. Perché
Igort ha lasciato qui la sua valigetta?

Non mancano nemmeno le descrizioni particolareggiate degli usi


e costumi delle persone con gli stessi vizi di Pompeo, informazioni
che Pazienza è portato a rappresentare in una chiave grottesca ma
precisa, come nelle tavole in cui illustra sintomi e conseguenze di
una fame chimica, che il narratore dipinge “come una fame isterica”
(tavv. 87-89): di fronte allo squallore “verdeggiante” del frigorifero,
Pompeo si nutrirà con “(…) i sassi dolci che sono nella boccia in ca-
mera da letto! To mò” (tav. 88). I rumori del furibondo sgranocchia-
re di pietra zuccherina, resi da un lettering irresistibile e pervasivo
intorno al primo piano di uno spiritato Pompeo, occuperanno più di
metà della tavola successiva.

Anche le letture di Pazienza entrano in Pompeo, come nel caso


della pagina di Serpieri, poi seguita dalla menzione del romanzo
Pompeo: una ballata del mare desolato 113

di Marguerite Yourcenar Il colpo di grazia (di cui, scrive Pazienza,


Pompeo “sta leggendo pag. 32”, tav. 24), dei Quarantanove racconti
di Hemingway (tav. 30), di un brano di Daphne Du Maurier (tav. 65)
e dalla ennesima rilettura de I tre moschettieri, libro molto amato
dall’artista (“Pompeo stacca tutti i telefoni e si corica. Legge e legge
I tre moschettieri. Ha voglia e di finirlo e di prolungarlo”, tav. 90).

Le citazioni poetiche di cui è intrisa la seconda parte di Pompeo –


racconta Marina Comandini – provengono dai testi d’un disco di Car-
melo Bene25, che gli fece conoscere Moreno Miorelli. Questo disco, con
le poesie di Esenin, Pasternak e Majakovskij, Andrea lo ascoltava di
continuo. Se ne imbeveva. È la colonna sonora di Pompeo26.

È una testimonianza molto importante, che fa luce su una fonte


letteraria non letta, ma ascoltata.
Moreno Miorelli, il cui volto Pazienza ha ritratto nella copertina
di Pompeo (con aureola bizantina), conferma l’influenza del disco di
Carmelo Bene sulla realizzazione della parte finale di Pompeo:

Tornavamo da una delle nostre lunghe passeggiate nei boschi della


Val d’Orcia. Gli dissi che avevo una registrazione su disco di Carme-
lo Bene che poteva interessarlo. Dopo pochi secondi dall’inizio delle
parole di Bene, Andrea ebbe una delle sue manifestazioni più eclatanti
di empatia. Era come in estasi, e continuava a ripetere che era un mira-
colo, che aveva trovato la chiave. Nei giorni seguenti disegnò Pompeo
come una furia, pregandomi di rimettere la puntina del disco sui solchi
che lo interessavano di più, e che stava trasferendo nel testo e nelle
immagini di Pompeo.27

25 Si tratta di Carmelo Bene - Majakovskij, dedicato a Sandro Pertini, nel cin-


quantenario della morte di Majakovskij e nel centenario della nascita di Blok,
concerto per voce recitante e percussioni; testi di Blok, Majakovskij, Esenin,
Pasternak; traduzioni di: R. Poggioli, A. M. Ripellino, B. Carnevali; riduzione,
adattamento, regia e voce recitante C.B.; musiche di G. Giani Luporini; musicisti
solisti: M. Ilie, (violino), S. Verzari (tromba), V. De Vita (pianoforte); direttore
della registrazione P. Chiesa; fonico R. Citterio; produzione a cura di R. Maenza;
registrazione live effettuata il 10/10/1980 – Roma – Teatro dell’Opera doppio LP
Fonit Cetra.
26 Cfr. Farina R., op. cit., p. 162.
27 Conversazione privata con Moreno Miorelli, 2 marzo 2017.
114 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Nell’opera, Carmelo Bene mette in atto un’impressionante po-


lifonia capace di modificare l’emissione di suono in pochi attimi,
consentendo alla phoné di esaltare ogni sfumatura di pensiero e di
passione, con scarti, evasioni, abissi, emersioni, rumori, eruzioni,
derisioni, urla lancinanti, lacrime, calma perfetta e carica di bea-
titudine, secondo uno studio e una prospettiva di integrale e fisica
adesione ai suoni dei versi, usandoli come armi sonore e mentali
e reinventando completamente il testo pur rispettandolo parola per
parola, fonema per fonema.
A Pazienza non sfuggì l’insegnamento magistrale di Carmelo
Bene. Si sottopose a varie trascrizioni nate sotto dettatura del disco,
salvando alla fine versi del solo Pasternak: alcuni di essi escono dal
pennarello in equilibratura emotiva con la voce di Bene, seguendo
ogni minima variazione di tono nella costruzione dei righi calligra-
fici. Si provi ad ascoltare l’azione fonetica di Bene a contatto con la
lirica di Pasternak In morte di Majakovskij, e poi a confrontare i suo-
ni con la grafia della tavola 94 di Pompeo. Vi è una corrispondenza
emblematica tra suoni e scrittura: Pazienza usa il pennarello per di-
pingere parole che assumono la forma dei suoni di Bene. Come in un
paradiso di studi mcluhaniani, l’occhio (che guida la mano) è usato
in modalità audio28. Il fatto che Pazienza attendesse a Pompeo inca-
merando la rivoluzione culturale proveniente dall’arte di Carmelo
Bene è carico di conseguenze: è ipotizzabile che la voce di Bene
abbia fatto da guida nella titanica operazione di Pazienza di ricreare
tutte le variazioni espressive di una figura o di un ambiente, differen-
ziandole significativamente anche a distanza di una sola illustrazio-
ne, o addirittura dentro una stessa illustrazione. Il volto di Pompeo,
il soggetto più rappresentato nell’opera, è investigato in ogni espres-
sione possibile e mai stabilizzato, né normalizzato. È in questo caso
evidente che la definizione dell’arte di Pazienza come “eclettica”
non è sufficiente a contenere un’energia creativa che tenta un’azione
ben più ambiziosa (e necessaria) del riferirsi a molteplici fonti d’i-
spirazione. Qui non si tratta di appropriazioni momentanee. Qui si
tratta di riconoscere una capacità metamorfica inestinguibile, che ri-

28 Mi riferisco a McLuhan M., Dall’occhio all’orecchio, Armando Editore, Roma,


1982.
Pompeo: una ballata del mare desolato 115

chiama la malleabilità radicale della voce di Bene, entrambe fondate


su una perfezione tecno-miniaturistica in perenne aggiornamento.
Ogni singolo tratto grafico di Pazienza ha una propria esattezza, così
come ogni singola parola e fonema pronunciati da Carmelo Bene.
La corrispondenza tra opere pur così diverse emerge anche dalla ri-
frazione che giunge a Pazienza da molti dei versi incendiari riela-
borati da Bene, il cui centro è la morte traumatica di Majakosvij e
l’atmosfera è satura di segni e presagi; tutto materiale che interviene
a piene mani nella vicenda tragica di Pompeo.
Carmelo Bene è anche l’indiretto protagonista della copertina in-
terna del penultimo episodio di Pompeo29, che si apre con un verso
del Manfred di Byron (1817) tradotto e messo in scena da Carmelo
Bene nel maggio 1978 alla Scala. Il verso dice: “Ma io so fare quel
che più aborro”30 e, anche se Pazienza sostituisce “quel” con “ciò” e
aggiunge un punto esclamativo finale che nel testo non c’è (piccola
ma ulteriore evidenza del suo uso personalizzato delle fonti), ben si
inserisce in un contesto narrativo che sta per raggiungere l’epilogo
tragico che è stato pazientemente preparato per tutte le stazioni della
via crucis di Pompeo. Questi ha deciso di saper fare ciò che più lo
disgusta: è appena stato salvato dal collasso seguito alla mostruosa
doppia iniezione da quattro e passa grammi ma non ha intenzione di
sottrarsi al suicidio. Il disegno di un Manfred corrucciato e intabar-
rato sovrasta il titolo Gli ultimi giorni di Pompeo, ripetuto per l’ul-
tima volta nel romanzo grafico come fosse un trailer interno. Anche
Manfred, va ricordato, è un personaggio morituro.

Quando Pompeo, dopo i maltrattamenti subiti dai due poliziotti,


sogna una vendetta violenta e definitiva (“Ora vi spalmo sulle pa-
reti”, prorompe a piena pagina una versione horror di Pompeo che
sembra uscita dal mondo di Freddy Kruger, tav. 75), l’immaginaria
pulsione stragistica è interrotta da una vignetta che fa da transizione
allo stato di astinenza, in cui il personaggio sarà accompagnato dal
Topolino oblungo con funzioni di grillo parlante. La vignetta di tran-

29 La tav. 95, dove compare la citazione del Manfred, è introdotta dalla dedica “A
Moreno”, indirizzata all’amico Moreno Miorelli, che gli fece conoscere l’opera.
30 Cfr. Bene C. (1995), Opere, Bompiani, Milano, 2004, p. 939.
116 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

sizione riporta una frase di Pazienza che spezza l’enfasi guerriera


con queste parole enigmatiche:

Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di po-


ter barattare una intera via crucis con una semplice stretta di mano, o
una visita a un museo, e che si approfittano della vostra confusione per
passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole
d’amore… (tav. 76)

Dunque il piano psicologico si sposta dall’odio generalizzato a


una richiesta di attenzione, che alcune persone non sono in grado di
dare. Ogni tragedia personale, per quanto immane, può essere can-
cellata in un attimo, cambiando discorso o proponendo un diversivo,
mettendo a tacere le storie, i racconti. A cosa si riferisce esattamente
Pazienza? La frase sembra concepita per complicare il concetto di
disattenzione civile di Erving Goffman: il sociologo attribuisce alle
relazioni umane tra sconosciuti la tenuta di un regime consapevol-
mente distaccato, utile a comunicare il fatto che non deve esserci
timore dell’interazione momentanea. Scrive Goffman:

Quando due passanti si incrociano, la disattenzione civile può assu-


mere la forma particolare del guardarsi l’un l’altro fino a una distanza
di circa due metri – tempo in cui si stabilisce a cenni il lato della stra-
da che ciascuno vuol seguire – e poi abbassare gli occhi al momento
dell’incontro, come se si abbassassero reciprocamente i fari. Si assiste
in questi casi a quello che è forse il più insignificante rituale interper-
sonale – tale tuttavia da regolare costantemente i rapporti sociali tra
individui nella nostra società. Accordando la disattenzione civile, l’in-
dividuo implica che egli non ha ragione di sospettare delle intenzioni
degli altri presenti nella situazione, né di temerli o di avere ostilità nei
loro confronti o di desiderare di evitarli. (Allo stesso tempo, estendendo
questo atteggiamento, egli automaticamente si apre a un trattamento
analogo da parte degli altri presenti). Ciò dimostra che egli non ha nien-
te da temere o da evitare di farsi vedere anche mentre guarda, e che non
si vergogna di sé stesso, del luogo e della compagnia in cui si trova.31

31 Cfr. Goffman E. (1963), Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei


luoghi di riunione, Einaudi, Torino, 2006, pp. 85-86.
Pompeo: una ballata del mare desolato 117

Pazienza descrive un atteggiamento inverso, dove lo sconosciuto


è sostituito dal conoscente (forse dall’amico) e dove l’interazione è
vuota perché si accorda la disattenzione civile non all’individuo con
cui si entra in relazione ma al suo discorso, che viene bandito e can-
cellato da iniziative di distrazione (“una visita a un museo”), quasi a
voler rimuovere l’urgenza di un racconto sentimentale, indicandone
la natura di imbarazzo sociale (“per passare un colpo di spugna su un
milione di frasi, e miliardi di parole d’amore”). A custodire questo
pensiero, Pazienza schiera un kendoka in armatura da combattimen-
to, con la spada di legno (bokutō) sguainata. Sappiamo dell’interesse
di Pazienza per il kendo e le arti marziali giapponesi, presente fin
dall’esordio di Pompeo (tav. 6):

Fu allora che il telefono squillò, vi aveva ancora sopra la mano, il filo


si sciolse e lui disse “Pronto”. Era Enea, contento di trovarlo sveglio, e
in casa, gli annunciava la scoperta di una “stupenda armatura da samu-
rai” in quel di Urbino, tratta in Italia come souvenir da un carabiniere
di stanza a Shangai sul finire del secolo scorso, solo seicentomila, se lo
interessava avrebbe fatto un salto da lui in mattinata. Se ti sbrighi, disse
Pompeo.

La rappresentazione del kendoka sembra volerci indirizzare ver-


so la difesa psicologica nei confronti di un atteggiamento di distra-
zione sentimentale. Nel sotto-testo di Pazienza c’è una protesta
verso il disporsi elusivo delle interazioni umane, verso la man-
canza di interesse strategico per l’altro, che implica l’assenza di
amore.
La reazione a questa indifferenza paludosa è la conferma dell’a-
more ancestrale, quello materno. Pazienza riesce nel prodigio
grafico-narrativo di un’ultima telefonata tra Pompeo e la madre
che non affonda nell’usurato e tragicissimo topos sentimenta-
le del commiato definitivo, giacché trasmette autenticità e una
strana forma di audacia. Pompeo è immerso nella confusione dei
pensieri che segue il collasso e il breve ricovero in ospedale. È a
casa, squilla il telefono e lui si alza con qualche vertigine dalla
poltrona. La mamma ha un tono caldo e piacevole, dà qualche
informazione sulla salute del padre, ricorda a Pompeo l’imminenza
118 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

del matrimonio di una cugina, assicura che gli sta facendo un


maglione “bellissimo”, ma poi finisce per avvertire il disagio che
si nasconde dietro i monosillabi del figlio; gli chiede allora di
andare a riposarsi a San Menaio (“Non posso mà, devo finire una
cosa”), dispensa una benedizione e ha un ultimo sentore di pericolo
quando Pompeo, inaspettatamente, le chiede di dare un bacio al
padre e alla sorella. La madre si accorge che Pompeo piange e
allora chiede: “Ma, cosa c’è, perché piangi?”. Pompeo assicura il
proprio amore, ma poi chiude, con immane sforzo psicologico, la
telefonata. “Ma io so fare quel che più aborro”, aveva sentenziato
Lord Byron attraverso Manfred.

Dunque nemmeno il richiamo ancestrale dell’amore materno


intercetta la rigida determinazione di Pompeo. Ormai dilaniato
da una nuova crisi di astinenza, si getta ai piedi di un farmacista
aperto di notte mendicando Dividol, un “antidolorifico mestruale a
desinenza codeinica per un po’ di sollievo”, precisa Pazienza con
l’abituale esattezza. Alla guida della sua auto giunge in “Toscana
meridionale. Provincia di Siena. Uscita Chiusi-Chianciano Terme.
Albeggia. Una serena provinciale della Toscana, tra crete e boschi
e campi ondulati, in una mattina dura e frizzante, insultante, spie-
tata” (tav. 111).
Il tratto di Pazienza ora evita, nelle illustrazioni, l’infittirsi dei se-
gni. I contorni sono ben definiti, come di consueto, ma i bianchi
sono nitidi e lisci. Pompeo ha preso delle catene dal bagagliaio. Ha
buttato via le chiavi della macchina e

si guarda intorno terrorizzato. Inorridito suo malgrado e da ciò che


sta per fare, e perché lo farà. Lo farà! Giù per il pendio, senza far caso
al circostante. L’albero della posta al cinghiale, con l’arco, di notte,
il capodanno precedente. Suo fratello che si avvicina divertito. Ma
c’è un posto nel bosco, un salto, una betulla inclinata e flessibile. Era
lì seduto e pensava. Pensava che erano i suoi ultimi pensieri. E a chi
poteva o doveva dedicarli. Sentiva la sua faccia e il vento e la terra.
Sorrise. Uno sbuffo dalle sue labbra spazzò via un minuscolo insetto
dalle catene… Ecco, le catene gli facevano paura. Qualche lacrima,
per prendere un po’ di tempo? Si buttò come fosse stato, all’improv-
viso, spintonato. (tavv. 113-114)
Pompeo: una ballata del mare desolato 119

In queste ultime frasi, accompagnate da illustrazioni luminose e


poetiche, l’eroina non c’entra più niente. Qui c’è in ballo solo l’i-
nevitabilità insostenibile di un suicidio. L’ultima immagine è scu-
ra, e rappresenta Pompeo accovacciato sull’erba di un dirupo con
le catene al collo e già assicurate al ramo della betulla “inclinata
e flessibile”. La morte, presenza abbondantemente evocata in tutto
il romanzo grafico, può attendere per l’eternità il suo compimento
visivo, mentre il testo registra lo scatto finale del suicida nel vuoto
(“come se fosse stato, all’improvviso, spintonato”), garantendo alla
morte l’esazione del bottino dovuto.
Le due tavole successive e conclusive (115-116) servono a spaz-
zare via l’aria malsana accumulatasi nel romanzo e a elaborare il
lutto parlando direttamente al lettore, come Pazienza si è abituato
a fare fin dagli esordi. Rimembrando, ammettendo, rimarcando e
sbeffeggiando, Pazienza ritorna l’adorato Paz, la rockstar del fu-
metto italico che sfoggia un discorsetto sulla maturità acquisita e
acquisibile. C’è ancora spazio per un piccolo paradosso finale, vi-
sto che le ultimissime parole prima della firma conclusiva dell’ar-
tista sono queste:

Ora che vivo in campagna i ragazzi di qui mi chiamano “vecchio


Paz” e, faccio per dire, ho ventinove anni.

PS: i lettori più accaniti di Pazienza avranno notato che non men-
ziono né commento il passaggio di Pompeo che riguarda la discussa
questione dell’“ordine della pizza bianca”. Lo fa benissimo Daniele
Barbieri in un testo apparso per la prima volta in Fumettologica, e
gli cedo, riconoscente, la parola:

C’è un episodio in cui Pompeo delira, e viene travolto in una specie


di vortice, in una sorta di crescendo drammatico, che culmina dopo
qualche pagina nella parola «ordine», ripresa subito dopo con un sen-
so diverso nell’espressione «l’ordine della pizza bianca”, espressione
seguita da un disegno, in registro parodistico, di un Pompeo giovanile
che mangia, con evidente gusto. Il contrasto con il registro drammatico
dei segni immediatamente precedenti (quelli del lettering compresi) è
talmente forte e improvviso che non si può non ridere, ma è una risata
inquietante quella che viene fuori: è l’emergere del nulla, del vuoto,
120 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

dell’inutilità del vivere, sotto la specie dell’ottimismo. Quella figurina


con gli occhioni che ci guardano mentre la bocca addenta la pizza bian-
ca è ancora più agghiacciante degli scarabocchi che ritraggono il corpo
di Pompeo in agonia”32.

32 Cfr. Barbieri D., Lo straniamento e il Dams, Pompeo e Andrea, in Pazienza A.


(1987), Tutto Pazienza. Pompeo, vol. 5, Repubblica-L’Espresso, Roma, 2016, p.
136.
CAPITOLO V
CAMPOFAME, UNA ESTATE, GIORNO,
ASTARTE E ALTRE ILLUMINAZIONI

Con un funambolico e spinoso omaggio a Waste Land di T.S. Eliot


(1922) si apre Gli ultimi giorni di Pompeo (1987). Il poema di Eliot,
come è noto, è stato notevolmente influenzato da Ezra Pound, il quale
non solo consigliò all’amico una nutrita eliminazione di versi, ma so-
vrintese la tenuta dell’intero poema1. Nel 1925 nacque a Bressanone
Mary2, figlia del poeta dei Cantos e della violinista americana Olga
Rudge. La figlia, in un primo momento non riconosciuta dal padre,
sviluppò nel tempo una sensibilità poetica ben accolta da Pound, che
finì per affidarle traduzioni in italiano di propri lavori, culminati –
nel 1985, tredici anni dopo la morte del poeta statunitense – nella
traduzione integrale dei Cantos3. Oltre alle opere del padre, tradusse
un certo numero di altri poeti americani, tra cui Robinson Jeffers.
Dell’autore del poema Cawdor, Mary de Rachewiltz tradusse The
double axe and other poems4, in cui compariva anche la prosa poetica
di Hungerfield, poi ripubblicato separatamente come Campofame, in
un’edizione con disegni di Renato Guttuso5. Grazie a Moreno Mio-
relli, amico e sodale intellettuale di Pazienza, il fumettista entrò in
possesso della versione fotocopiata6 del secondo testo, Campofame.

1 Le testimonianze del sodalizio tra Pound e Eliot nella lavorazione di The Waste
Land sono innumerevoli, a cominciare dalla dedica del poema, “A Ezra Pound, il
miglior fabbro”.
2 Nel 1946 Mary sposò l’egittologo Boris de Rachewiltz, di cui assunse il
cognome.
3 Pound E. (1917-1962), I Cantos, Mondadori, Milano, 1985.
4 Jeffers R. (1948), La bipenne e altre poesie, a cura di Mary de Rachewiltz,
Guanda, Parma, 1969.
5 Jeffers R. (1954), Campofame, a cura di Mary de Rachewiltz, con disegni di
Renato Guttuso, Edizioni del Segnacolo, Bologna, 1962.
6 Scrive Pazienza nella prima tavola di Campofame (così presentata nell’intesta-
zione: Robinson Jeffers, Campofame, disegni di Andrea Pazienza): “Dell’opera
di questo grande poeta americano del ‘900 sono stati editi in Italia solo Cawdor e
122 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Da Waste Land di Eliot a Hungerfield di Jeffers, attraverso Pound


e stirpe di Pound: un percorso speciale, e in linea con le arabesca-
te relazioni tra esponenti di avanguardie e neo-avanguardie. Il par-
ticolare del testo fotocopiato aggiunge un tocco underground alla
curiosa e circolare vicenda. L’appropriazione creativa di Campofa-
me da parte di Pazienza avviene nel contesto della vita in Val d’Or-
cia, periodo che gli consente di approfondire storia dell’arte e della
letteratura in modo pressoché ludico, tra passeggiate nei boschi ed
esercitazioni di caccia con la balestra, continuando a progettare e a
realizzare storie per le riviste.
Campofame uscì su Comic Art nel 1987, in tre puntate. Pazienza
fu colpito dal racconto orale del poema di Jeffers prima ancora di
poter maneggiare le fotocopie: fu colpito anche dalla biografia del
poeta, come si evince da ciò che scrive nella prima tavola:

Figlio di un pastore protestante, Jeffers consegue tre lauree (in mate-


matica, teologia e fisica)7 prima di trasferirsi in un punto molto selvag-
gio della California, la costa del Carmelo dove, vivendo con la famiglia
in modo primitivo, si dedicherà alla poesia.

Di Jeffers, il saggista James Karman scrive: “No study of Ameri-


can history on literature is complete without him.”8 A Pazienza piac-
quero le dedizioni naturalistiche del poeta e il fatto che i suoi ver-
si fossero poggiati su una solida base scientifica e filosofica. A suo
modo, anche Pazienza era un tuttologo, interessatissimo alla natura,

Campofame. Quest’ultimo risulta però da tempo introvabile. Ringrazio perciò il


mio amico Moreno Miorelli che me ne ha inviate delle fotocopie. Nelle due ta-
vole che seguono Jeffers dedica il suo lavoro alla moglie morta di cancro. (…)”.
Moreno Miorelli, a questo proposito, ricorda che le fotocopie che fece avere a
Pazienza provenivano dall’edizione del 1969 di Campofame, contenuta in Jeffers
R. (1954), La bipenne e altre poesie, Guanda, Parma, 1969.
7 Nella nota finale dell’edizione di Campofame del 1962 (Notizia, p. 59) si legge
più precisamente: “Nacque a Pittsburg il 10 gennaio 1887 e sotto la guida del
padre, professore di letteratura antica al western Theological Seminary, iniziò
lo studio del greco. Viaggiò a lungo in Europa e frequentò scuole in Germania
e Svizzera. A diciotto anni si laureò in letteratura biblica all’Occidental College
in California. Frequentò per tre anni corsi di medicina e infine un anno di scuola
forestale all’Università di Washington.”
8 Karman J., Robinson Jeffers. Poet and prophet, Stanford University Press, Stan-
ford (CA), 2015, p. 225.
Campofame, Una estate, Giorno, Astarte e altre illuminazioni 123

all’arte e alle tecniche. La sua permanenza in luoghi isolati della To-


scana gli dava modo di valutare con ammirazione le scelte estreme
di Jeffers, un poeta anti-moderno che si costruì la casa con le proprie
mani, nell’allora selvaggia California degli anni ‘30.
Tuttavia è soprattutto la vicissitudine che racconta Robinson Jef-
fers in Hungerfield ad attrarre magneticamente Pazienza. Jeffers
perse la moglie per cancro, e con l’opera cercò di elaborarne il lut-
to affidandosi a una leggenda inaudita: un uomo, Hawl Hungerfield
(Campofame), al capezzale della madre morente, decide di attendere
la Morte e di affrontarla. Così avviene, e Campofame riesce nella
stupefacente impresa di uccidere la Morte. Ne segue una sospensio-
ne cosmica che prolunga le agonie, senza più falciare vite. Anche la
madre di Campofame si risveglia, e finisce, nell’ultima tavola della
storia, per rimproverare aspramente il figlio per averla

(…) trascinata indietro, a strabuzzare sulla mia miseria. Oh, sei mol-
to coraggioso, con le tue mani da strangolatore: quelle mani assassine
che han lacerato l’angelo santo di Dio – Dio ti punirà per questo.

Prima che l’irrefrenabile vecchia signora prosegua ed estenda la


sua lamentazione, Campofame ha modo di inserirsi con una battuta
di risposta: “Dio, se un Dio c’è – è neutrale. A lui non importa. Lui
ha le stelle.”
Il poema in prosa ha una sua inevitabile cupezza. La dedica alla
moglie è piena di straziante autenticità, e Pazienza la interpreta con i
due volti della moglie e di Jeffers in atteggiamento diverso, pur acco-
munati dallo stesso sfondo blu, lei sorridente e radiosa, lui con il volto
proteso verso l’alto, invaso dalla notte. Le parole di Jeffers diventano
bigliettini inseriti nei due grandi primi piani delle tavv. 2 e 3.
La prima parte di Campofame è potente: una scena mesta si svol-
ge dentro un’isolata casa di legno nei pressi di un dirupo bagnato
dall’acqua di un fiume, che si vede solo nella prima tavola e poi
scompare, lasciando nel lettore una sensazione mentale terrosa e ari-
da. Un uomo a torso nudo, con indosso solo un paio di pantaloni e
con lineamenti duri e capelli corti e ispidi, veglia la madre (“Campo-
santo le sedeva accanto, le spalle larghe gobbe come d’avvoltoio”).
L’anziana donna sta esalando gli ultimi respiri, la bocca sdentata
124 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

aperta come una fornace per catturare ossigeno. Campofame aspet-


ta il nemico con il volto tirato, le rughe a formarsi appena sopra i
muscoli serrati della mascella. Campofame aspetta la Morte, e la
Morte arriva. “Il mostro stava nella stanza. Campofame sentì i peli
rizzarglisi come a un cane”. L’istinto di Campofame lo fa scattare
alla gola della Morte, ma il corpo dell’entità è fatto di sangue e di
cadaveri dell’ultima ecatombe, e Campofame deve farsi largo tra
resti di umanità in putrefazione, come in una scena dantesca. Infine,
quando il nemico lo ha afferrato e stretto in un abbraccio soffocante,
Campofame ha un guizzo improvviso e riesce a far cadere la Morte:
conficcandole le dita nel collo, “le lacerava la gola”, fino ad uccider-
la. Il duello tra Campofame e la Morte occupa quattro tavole di una
rara potenza pittorica, curate con scrupolo e molto lavorate, ispirate
a una visione pop dell’arte della Controriforma estese fino a Goya,
cupe e brillanti nello stesso tempo. Nelle tavole successive, quelle
che mostrano lo stato della sospensione seguito all’omicidio della
Morte e che usciranno nel numero di luglio della rivista «Comic
Art», i disegni sono più semplificati e meno aspri. Le ultime sette
tavole sono letteralmente tirate via, accompagnando la sconcertan-
te vicenda narrata da Jeffers con disegni di sbrigativa fattura, dal-
la linea incerta e tremula, come fossero bozzetti semi-lavorati (ma
già colorati). Narrativamente, il finale della storia non coincide con
quello del poema di Jeffers, ed è più affrettato.
Pazienza ha molte consegne in quel periodo9, e forse la sugge-
stione del combattimento con la Morte lo ha attratto ma lo ha an-
che stancato, non per l’esaurirsi delle atmosfere tragiche e liriche
nelle sue opere, ma per l’impegno profuso nelle rappresentazioni e
nell’immedesimazione.

9 Mi scrive Moreno Miorelli: “La discontinuità è dovuta alla fretta di consegnare


e al troppo lavoro di quel periodo. Mi telefonò prima ancora che uscisse l’ultimo
o il penultimo episodio di Campofame per scusarsi con me, dicendomi «non in-
cazzarti, so che non ti piacerà» e mi spiegò che per molti motivi non aveva avuto
il tempo per fare meglio. Più d’una volta lo accompagnai a Chiusi alla stazione
ferroviaria, dove consegnava le tavole per i settimanali o bisettimanali per i quali
lavorava… partivamo da casa con il foglio ancora bianco sulle sue ginocchia e
lungo la strada si inventava le storie che poi venivano pubblicate. Insomma, un
vero e proprio last minute!” (e-mail privata, 3 marzo 2017).
Campofame, Una estate, Giorno, Astarte e altre illuminazioni 125

In compenso, nel mese di agosto dello stesso anno (1987) uscì su


«Tango Estate» (settimanale satirico diretto da Sergio Staino, nn. 72-
76), una deliziosa storia nello stile formale di Aficionados e Pompeo,
cioè un testo narrativo che ha momenti di intensa prosa poetica, con
illustrazioni che reinterpretano le parole aggiungendo visione e bel-
lezza. La storia si intitola Una estate e si stende su tredici tavole in
bianco e nero. Questo è il testo completo.

Quell’estate… Era iniziata per me coi primi gran caldi di giugno.


Papà ci portava la domenica a caccia con lui, me e mio fratello Mik.
S’andava a tordi dove i giganteschi ulivi del Gargano s’inframmez-
zano alla pineta e, più verso il mare, alla macchia odorosa. In un
crescente, ossessivo frinire di cicale, l’aumentato calore del giorno
sprigionava gli aromi più intensi. La rossa bauxite delle cave sca-
vate nella montagna ammantata di verde ricordava l’orrendo morso
dell’orca sul dorso della grande balena. Dall’alto di un colle, guar-
davamo l’azzurra distesa del mare e le Tremiti apparire vicinissime.
Papà s’accendeva allora una sigaretta e diceva la solita frase: “Uh-
Oh, non le ho mai viste così”. E c’era da credergli, perché papà vive-
va ogni nuovo giorno dimentico dei precedenti. Era tale il suo amore
per la natura che spesso accadeva piangesse. Mai però dei tordi che
andava uccidendo e dei loro famigli. Questo perché papà era un cac-
ciatore serio. Io e Mik fungevamo da cani da riporto. Papà aveva
una mira infallibile e, dopo ogni sparo, io e Mik lanciavamo un urlo
e correvamo a recuperare la selvaggina. Alle volte l’uccello era solo
ferito e, nel prenderlo tra le mani unite a coppa ci sporcavamo di
sangue appiccicoso. L’uccello era tiepido e tremava, noi lo annusa-
vamo, inebriati dal suo afrore gentile e silvano, guardavamo la nostra
immagine riflessa nei suoi occhi terrorizzati. Io allora pensavo che
quegli occhi così vivi entro cinque secondi non avrebbero visto più.
Contavo fino a tre, poi lo sbattevo per terra. Quando lo raccattavo
aveva subito una profonda metamorfosi. Era morto. Le piume non
aderivano più al corpicino, le zampe e le ali, spezzate, ne confon-
devano il contorno, sugli occhi chiudevano le minuscole palpebre.
Ma, qualche volta, la delicata macchina volante tratteneva, chissà
come, ancora un poco di vita, e l’uccello restava, il becco aperto e
lo sguardo pazzo di paura, fuso al terreno e vibrante di orrore per
126 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

quella morte innaturale. Papà, per la ragione che si stupiva sempre e


di tutto, ci trascinava di meraviglia in meraviglia passando da quelle
di carattere più generale, per la magnificenza del panorama, le blan-
dizie dei laghi o la vertigine degli orridi, a quelle in cui, con sommo
grado di partecipazione, considerava l’incolonnarsi delle processio-
narie, ragionava dei peli delle stesse, della natura di questi e del loro
colore. E siccome poco o nulla sapeva o gli interessava sapere dei
perché forniti dalla scienza al chiedere del pellegrino, si profondeva
in indagini sul territorio che arrivavano puntuali all’appuntamento
col metafisico. Per cui, alle domande circa il perché degli enormi
occhi dell’occhione, della capacità di torcere il collo del torcicollo, o
del se è vero che i succiacapre succiano le sise alle capre, non c’era
verso di ottenere da lui una risposta meno che stravagante. Quell’e-
state si confermò a giugno, quando nel Tavoliere matura il grano e io
mi cavavo via le calze e mamma mi comprava le pianelle col dito in
mezzo. Si intraprendeva il viaggio verso San Benedetto del Tronto
che, assenti le autostrade, al tempo, facilmente superava le sei-sette
ore. Mentre l’azzurro Gargano stingeva alle nostre spalle, papà si
abbandonava a tutta una serie di patriottiche considerazioni. Dopo-
diché, si attaccava a cantare azzurro il pomeriggio è troppo azzurro e
mamma mormora la bambina. Mio fratello raccontava una barzellet-
ta che era sempre la stessa e mancava di finale. Il Molise ci si parava
innanzi con il lucore delle sue marine e la sinistra Majella, per poi
cedere in colline ai ranghi stretti delle montagne abruzzesi. Noi si
rideva, si cantava, e ogni tanto volava uno scapaccione. Solo ora mi
rendo conto di quanto i miei genitori fossero, allora, dei semplici ra-
gazzi. Come in tutti i lunghi viaggi c’è sempre una metà, superata la
quale è tutta discesa. E come aiutati dall’abbrivio, accaldati e felici,
arrivammo anche quell’estate a strombazzare sotto le finestre della
casa dei nonni, una vecchia villa sul lungomare, molto ben tenuta
e con un giardino meraviglioso e pieno di luoghi segreti. S’era agli
inizi di giugno. Io e Mik eravamo continuamente alle prese con i
vermi che cercavamo sotto i mattoni e ci servivano per pescare. Tra-
scorrevamo la maggior parte del nostro tempo sugli scogli del molo,
curvi sulle nostre ingenue ma efficaci attrezzature. Sul molo c’era un
trabucco dove vendevano le pizzette. Usavamo a piacere le bici del
nonno, grande pedalatore da sempre, e ogni anno gliene perdevamo.
Campofame, Una estate, Giorno, Astarte e altre illuminazioni 127

Quando non andavamo sul molo eravamo in spiaggia a fare circuiti


di sabbia, scherzi alle ragazzine, a pescare cannolicchi alla secca e a
mangiare coppe del nonno. Il momento più bello della mattinata era
quando passava il tizio che vendeva giornaletti. Mamma mia, che
buon odore aveva la carta di quei giornalini! Il momento più nero
della giornata era invece il primo pomeriggio, ed è appunto in uno di
questi primi pomeriggi che inizia questa storia.
Nelle ore in cui il sole più arroventava le salse spiagge, e le palme
baluginavano ferme come giganteschi zulu ritti in faccia al mare,
tutta la costa pareva fermare il proprio battito. La casa dei miei nonni
non sfuggiva alla regola sicché, per l’appunto nelle prime ore del
pomeriggio, il parentado si sparpagliava nelle varie stanze per una
sacrosanta nonché epatica pennichella. Alché io e Mik venivamo
confinati in una camerona alle pareti della quale pendevano lugu-
bri i ritratti fotografici degli antenati, e qui ci era fatto obbligo di
rispettare il più claustrale dei silenzi. Noi resistevamo su quei letti
ruvidi non più di una decina di minuti, poi l’incontenibile prevaleva
ed allora evadevamo in cerca di qualcosa di meglio da fare. Come
dare la caccia alle lucertole in giardino. O spingerci a vicenda su un
vecchio go-kart a pedali tutt’intorno alla casa. Tutto ciò e altro anco-
ra rimanendo muti come pesci quasi che la consegna riguardasse il
solo parlare e non l’infinita varietà dei possibili altri rumori. Io per
l’appunto quel pomeriggio facevo rimbalzare una pallina contro la
serranda del garage menandola con una vecchia racchetta, provo-
cando una serie di tonfi che, sapevo, avrebbero trovato la strada del
risveglio nel cervello dei dormienti. Al primo nella casa che avesse
aperto gli occhi sarebbe toccato dissuadermi dandomi voce da una
finestra. In attesa di ciò, continuavo svogliato a far rimbalzare la
pallina. Fu allora.
Mentre seguivo con gli occhi la traiettoria di un ennesimo rim-
balzo, sentii ridere in alto sopra la mia testa. Da un balconcino
dell’albergo che confinava col muro della rimessa vidi affacciarsi
una donna e, subito alle sue spalle, un uomo. Erano entrambi nudi,
e ridevano della loro provocazione. Con un’ultima risata, come lot-
tando, rientrarono nella loro stanza. Io rimasi lì. Cosa avevo visto,
che mi aveva così turbato? Ricordo ancora le vampe che mi assali-
vano e le campane suonare nella testa mia. Cosa avevo visto mai,
128 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

che mi aveva così turbato? Non mi peritai a ritrovare la pallina, che


quell’ultimo rimbalzo aveva fatto rotolare chissà dove. Forse è anco-
ra lì, da qualche parte, da quel giorno fatale incastrata tra le maglie
d’una siepe di lauro.

Il racconto è composto da poco più di mille parole. Nel fumetto,


esse vengono organizzate in brevi frasi, distribuite negli spazi supe-
riori delle singole illustrazioni. Ad esempio, la prima tavola è compo-
sta da due illustrazioni paesaggistiche, la prima sovrastata dall’incipit
“Quell’estate…”, la seconda dalla frase “Era iniziata per me coi primi
grandi caldi di giugno. Papà ci portava la domenica a caccia con lui,
me e mio fratello Mik”. In totale le singole illustrazioni sono 57, com-
presa l’immagine del pino marittimo su sfondo marino della coperti-
na, e dunque sono 57 gli spezzettamenti del testo operati da Pazienza.
La storia scritta appare semplice e scorrevole come una levigatura
ben riuscita, con un linguaggio sorvegliato e affascinante, espres-
sioni composite e ricercatezza lessicale. Ma soprattutto Una estate
emana autenticità, e ha il dono di regalare una dimensione visiva
autonoma al lettore, cui i disegni di Pazienza si sovrappongono con
eleganti testimonianze botaniche e ornitologiche, e con la consueta
gamma di precisazioni miniaturistiche; a distanza di un centimetro,
entrano in scena pupazzetti sagomati con pochi tratti velocissimi e
tuttavia espressivi. Il disegno serve anche a disvelare i particolari
che la scrittura non dice, in particolare rendendo inequivocabile la
realtà di ciò che traumatizza ed eccita la pubertà del ragazzino nelle
ultime righe del racconto.
Questo short tale ricorda nelle atmosfere i grandi cult della lettura
adolescenziale, come il racconto The body di Steven King (1982), da
cui fu tratto il film di Rob Reiner Stand by me (1986).
Il racconto di Pazienza è in realtà un concentratissimo distillato
dove, al di là della forma poetica della sua prosa, si snocciola un’al-
tra serie di elementi interessanti, a cominciare dalla personalità del
padre, che viene dipinta come emotivamente empatica e affabula-
toria, seraficamente comica. Forse una parte di questo carattere di
Enrico Pazienza, acquarellista e insegnante, è trasmigrata in Andrea,
visto che l’amico Miorelli ancora ride di gusto raccontando le ester-
nazioni esagerate ed estreme del giovane artista (persino momenta-
Campofame, Una estate, Giorno, Astarte e altre illuminazioni 129

nei attacchi di pianto e di riso convulso) quando fu messa la puntina


nel solco del disco e partirono le vocalità di Carmelo Bene, che in-
fluenzarono in profondità l’epilogo di Pompeo.
Una estate descrive anche l’avvicinamento generazionale ex post
offerto da un viaggio familiare in macchina nell’Italia degli anni ’60.
“Solo ora mi rendo conto di quanto i miei genitori fossero, allora,
dei semplici ragazzi”. Questa breve riflessione ridimensiona l’istinto
aggressivo verso i genitori tenuto da più generazioni (’68 e ’77), e
per la prima volta li avvicina nel pensiero a persone coetanee, rivi-
sitandoli come “dei semplici ragazzi”, cioè una giovane coppia da
guardare con indulgenza e complicità, fotografata nel più classico
dei luoghi di massa del boom economico, l’automobile familiare
dove “si attaccava a cantare azzurro il pomeriggio è troppo azzurro
e mamma mormora la bambina”, anticipando di un bel po’ d’anni il
Nanni Moretti de La stanza del figlio (2001).
Pazienza descrive anche, per l’ennesima volta, la morte, e l’esta-
tico assecondare i costumi della caccia da parte del ragazzino prota-
gonista, che non si oppone alla morte dell’uccelletto, diventandone
anzi strumento, pur avendo stabilito in poche precise parole e in una
manciata di disegni una relazione molto attenta e commossa con “la
delicata macchina volante” abbattuta dal padre. In definitiva, è pro-
prio la delicatezza del tratto e della scrittura a stendere un particola-
re velo nostalgico su questa ricostruzione autobiografica di Andrea
Pazienza.

In una disposizione narrativa opposta – sia formale sia di contenu-


ti – è una storia del 1981, Giorno, pubblicata nel numero di gennaio
da «Frigidaire», che a quel tempo aveva il vento in poppa e un pub-
blico vasto, affezionato ed esigente. In tutto si tratta di nove tavo-
le, ma Pazienza si prende il lusso di intrecciare ben quattro diverse
storie nella stessa cornice urbana (Bologna ritratta in bianco e nero)
nell’arco di una giornata, dalle 6:10 del mattino a notte fonda. C’è
una sveglia nella seconda tavola a testimonianza dell’orario d’inizio,
mentre la copertina presenta titolo e sottotitolo (Giorno, un distillato
di angoscie di Andrea Pazienza, errore ortografico incluso) e ricorda
che la scena si svolge il 25 novembre, quando il sole sorge alle 7:36
e tramonta alla 16:45. Un asterisco sul nome dell’autore riporta alla
130 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

nota seguente: “Andrea Pazienza è una piccola azienda del Mezzo-


giorno terremotato” (il 23 novembre 1980 la Campania centrale e
la Basilicata centro-settentrionale furono devastate da un terribile
terremoto di magnitudo 6 ,5 della scala Richter).
La prima storia inizia con tre vignette nere in cui si muovono pic-
coli balloon fatti di brevi scambi di frasi all’interno di una coppia.
Il maschio sta andando al bagno, come Pazienza mostra con grande
evidenza nella quarta vignetta10. Poi porta un bicchiere d’acqua alla
compagna. Fuori piove a dirotto, nel buio. La terza tavola cambia
soggetto: è dedicata a un ragazzo (Sergio) che si sta umiliando da-
vanti alla porta di casa della fidanzata (Anna), scongiurandola di
mandare via il maschio che lei sta evidentemente ospitando. Non ci
saranno conseguenze, assicura tra le lacrime, basta che se ne vada.
Piegato davanti alla porta di casa, l’innamorato umiliato attende in
ginocchio pronunciando frasi disperate e mielose. Quando la por-
ta si apre, l’inquadratura di Pazienza consente di vedere l’ospite in
uscita solo dai piedi alle spalle, senza svelarne il volto: si vede che
ha un giaccone e un ombrello, un piccolo grumo di sporcizia sulla
scarpa sinistra. Dietro di lui, i piedi nudi della ragazza e i lembi della
sua veste da camera. L’accaduto appare inequivocabile. La vignetta
successiva inquadra i tetti di Bologna all’alba, mentre una figura
solitaria cammina tra le pozzanghere. Una monumentale macchinet-
ta Moka fumante chiude la pagina, affiancata da frasi radiofoniche
che riguardano uno dei più sofisticati gruppi di new wave dell’epoca
(siamo, come già segnalato, all’inizio degli anni ’80): “… Uno dei
40 pezzi da un minuto che compongono quest’ultimo album dei Re-
sidents. Quando sono le otto e quattordici minuti dai microfoni di
BBC…”. È il risveglio di Enrico Fiabeschi, il protagonista del terzo
intreccio, strappato da un sogno sul padre da una madre radical-chic
già abbigliata per uscire e con cui il rapporto è alquanto disinibito (il
giovanotto si presenta nudo a colazione; la madre non si scompone e
anzi raccomanda al figlio di non “sconvolgersi” prima dell’esame).
Ecco lo scoglio di Fiabeschi: l’esame di Semiotica del cinema, corso

10 Si tratta di una citazione del personaggio Alack Sinner di José Muñoz e di Carlos
Sampayo (1974), detective privato che, nella prima pagina della sua seconda sto-
ria, viene rappresentato nell’atto di orinare. Cfr. Muñoz J.- Sampayo C., Il caso
Fillmore, in «Alterlinus», febbraio 1975.
Campofame, Una estate, Giorno, Astarte e altre illuminazioni 131

di laurea Dams. Il giovanotto, in epoca di servizio militare obbliga-


torio, deve passare obbligatoriamente l’esame se non vuole ritrovar-
si arruolato. Ripete tra sé alcuni contenuti dei testi da studiare, infila
camperos e occhiali da sole e esce di casa, agitato e poco convinto
delle proprie nozioni.
L’ultima serie di vignette della quinta tavola è dedicata a un nuovo
soggetto (non ne sappiamo il nome), altro giovanotto con altro pro-
blema: il suo è che vuole mandare via di casa un terzetto di coetanei
(due maschi e una femmina) che avevano chiesto ospitalità per una
notte e che si sono invece insediati sine die nel suo appartamento.
Il personaggio, rientrando in casa dopo la spesa, così elenca mental-
mente il comportamento degli ospiti:

So già cosa troverò entrando, acqua fino in cucina se qualcuno ha


fatto la doccia, il mio accappatoio zuppo, buttato in qualche angolo,
la cucina che fa schifo, e loro tre nella mia camera, sul mio letto, che
fumano e leggono giornalini, usando le mie lenzuola per pulirsi i pie-
di, e dappertutto cicche, posacenere pieni, bicchieri pieni, e brace sul
cuscino, e la loro roba sporca da tutte le parti, e nel bagno rimasugli di
schiuma mista a peli, o pannolini sporchi a mollo nel lavandino…

Ripete nella mente le parole che intende pronunciare e alla fine


mette in atto il suo proponimento: Pazienza fotografa l’istante in cui
il giovanotto apre la porta, trovando i tre ospiti nell’oziosa posizione
prevista, e pronuncia queste parole quasi in un unico fiato:

Ragazzi, voi sapete come sono fatto, quindi mettetevi nei miei panni
e immaginate quanto mi possa pesare però ve lo devo dire e cioè che ve
ne dovete andare ma non lunedì o quando vi arrivano i soldi ma adesso.
Io sono di là, le chiavi le lasciate sul tavolo in cucina.

Poi il personaggio si ritira nella sua stanzetta, augurando-


si che gli altri se ne vadano, possibilmente senza rubargli nulla.
L’ultima vignetta della tavola riprende il racconto dell’umiliato Ser-
gio, mentre esce dall’appartamento della fidanzata Anna: i suoi ami-
ci lo avevano inutilmente atteso fino alle sette di mattina sotto l’abi-
tazione, e Sergio vuole spiegarsi con loro in piazzetta. Il suo rovello
di folle geloso è al massimo (“Non mi vuole dire niente la stronza.
132 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Non ci posso pensare. Non ci posso pensare!”). Mentre conversa


con due amici, il suo occhio cade su un paio di scarpe di passaggio:
la calzatura sinistra ha la stessa macchia di quella intravista tra le
lacrime all’alba, sulla soglia di Anna. Per Sergio è un’illuminazione:
si congeda dagli amici e si mette a pedinare il tipo, uno spilungone
che stringe ancora in mano l’ombrello, e che Sergio riconosce come
proprio (“È lui! È lui! La stronza gli ha dato pure il mio ombrello!”).
Due piccole vignette chiudono la tavola, rivelando un equivoco che
avrà risvolti drammatici. Dice Anna al telefono con un’amica:

Pronto? Amelia? Ciao, ascolta, devo raccontarti ma ho poco tempo.


Anzitutto senti questa: Sergio torna alle sette di mattina mentre da ieri
sera era rimasto a casa a parlarmi l’ex ragazzo della Giovanna, uno
tremendo, meridionale, che ha dei problemi, che è stato a piangere tutta
la notte, roba che ha scoperto che è omosessuale, etc, Sergio lo trova in
casa e crede chissà che, e io gliel’ho lasciato credere… E ora lo vedessi!
Si è preso una scaga bestiale, non sa che fare, è buffissimo!

Il balloon di quest’ultima frase invade la successiva vignetta dove


Sergio, certo della propria alternativa ricostruzione dei fatti e invaso
dal desiderio di vendetta, si procura una spranga.
La tavola otto è interamente dedicata all’esame di Semiotica del
cinema di Enrico Fiabeschi, diventata un vero e proprio cult della
poetica di Pazienza, proverbiale nel mondo dei lettori di Paz per inu-
sitato realismo e assoluta credibilità del dialogo, pur in una cornice
estrema, cucita su situazioni più che plausibili di atmosfera damsia-
na. La prima vignetta è dedicata all’esaminatrice, bionda e senza
trucco, una docente che dimostra puntiglio e che non largheggia nei
voti, come Pazienza illustra nelle prime vignette, occupate dalle do-
mande della docente al giovanotto discretamente preparato che pre-
cede Fiabeschi.

Docente: “Un’ultima domanda: Muzil: «I Fanatici» come antitesi alla


nouvelle vague dei Cahiers, di Truffaut, di Godard. Ma c’è qualcuno
che sfugge a questa equazione? Non sto parlando di Chabrol.”
Studente: “Rohmer? No, cioè, Carné!”
Docente: “Va bene, mi dia il libretto. Non ha letto molto bene quei
Communications che le avevo consigliato. Bene venticinque?”
Campofame, Una estate, Giorno, Astarte e altre illuminazioni 133

Studente: “Oh benissimo grazie!”

Fiabeschi è sui carboni ardenti: “Oi oi oiòiòi! Tocca a me. Tocca


a me. Vorrei sapere tutto e stracciarla, ‘sta stronza! E invece non so
una sega, mannaggia!”
L’esame parte in salita: Fiabeschi dice “Ciao” alla docente, che
mostra di non gradire replicando un formale “Buongiorno” e chie-
dendo l’argomento preparato dall’esaminando. “Apocalipsi nau” –
fa rispondere Pazienza a Enrico Fiabeschi con pronuncia mazzara.
L’esaminatrice, seccata, intima allo studente di togliersi gli occhiali
da sole.
A questo punto soltanto una prestazione superba potrebbe capo-
volgere il tragico esordio d’esame. Ma Fiabeschi annaspa, ripetendo
informazioni sul film prive di ogni approfondimento, e rivelando ra-
pidamente le sue incolmabili lacune:

Fiabeschi: “Apocalipsi nau, regia di Francis Ford Coppola. Musiche


dei Doors. Il film comincia con una giungla incendiata e degli eli-
cotteri e sotto la musica dei Doors.”
Docente: “Quanto è costato il film?”
Fiabeschi: “Tantissimo! Solo di elicotteri, sicuro più di un milione di
dollari!”
Docente: “Lei ha letto qualcosa di questo film?”
Fiabeschi: “Sì, certo! Marlon Brando è Kurtz, ed è praticamente il pro-
tagonista.”
Docente: “E come si chiama il vero protagonista?”
Fiabeschi: “Infatti, non me lo ricordo, vede? Perché è diciamo un pre-
testo, diciamo un tramite, per arrivare al vero protagonista, che è
Marlon Brando, che muore mentre uccidono un bue, fatto apposta,
notare bene.”
Docente: “Forse sarà meglio che le faccia qualche domanda: Apoca-
lipse Now configura la scena di una sfida: perché?”
Fiabeschi: “Beh, c’è la sfida dell’uomo con la natura.”
Docente: “E poi?”
Fiabeschi: “E poi che, scusi?”
Docente: “Poi c’è la sfida al sistema produttivo americano. Poi c’è la
sfida al grande rimosso dell’immaginario, il Vietnam, con la propo-
sta di un processo di vietnamizzazione individuale e collettiva. Che
altro.”
134 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Fiabeschi: “Hem… La sfida dell’uomo con la natu…”


Docente (il cui volto, schiacciato sotto balloon fittissimi, diventa quel-
lo di un serpente): “Parliamo di Conrad. Cuore di tenebra. Cosa rap-
presenta il fiume per Conrad/Coppola?”
Fiabeschi: “Il percorso del…”
Docente: “Il serpente! «Un fiume grande e possente, che somigliava
a un immenso serpente disteso, che descriveva lontano una curva
sopra una vasta regione, e la coda perduta nella profondità dell’in-
terno. Quel fiume mi affascinava come un serpente affascinerebbe
un uccello, un uccellino sventato».”

Le cose si mettono davvero male per l’esaminato, che ritiene ve-


nuto il momento di alzare la voce, passando al turpiloquio. La do-
cente, gelida, non gli offre alcuna chance, né si intimidisce:

Fiabeschi: “Va bene finiamola con questa farsa non so niente! Mi metta
diciotto che mi serve per il rinvio militare e bona l’è!”
Docente: “No.”
Fiabeschi: “Eh?! Come no! Perché no!”
Docente: “Perché non ha studiato.”
Fiabeschi: “Eh?! E lei mi punisce con un anno di militare perché non
so Apocalipsi nau? Che non me ne frega niente, tra l’altro?”
Docente: “Ho mandato via sei persone oggi. Gente che si era preoc-
cupata, comunque, senz’altro più di lei. Non posso promuoverla.”
Fiabeschi: “Questa non è una società meritocratica! Qui tutti diventano
qualcuno per merito di qualcun altro! Solo io che sono un povero
cristo devo fare i conti con la regola!”
Docente: “Ma sentilo, il proletario!”
Fiabeschi: “No… Io ti proletarizzo la figa porco dio, perché questo
è un esame del cazzo, e qui è il Dams, e tu sei una povera stronza
ubriaca di potere, come Hitler, ma io il serpente te lo ficco in culo,
bocchinara!”
Docente: “Esci fuori di qui, scemo.”

Fiabeschi esce effettivamente di scena, sostituito da una vignetta


dove ricompare l’anonimo ragazzo speranzoso di aver convinto gli
indesiderati ospiti a lasciare il suo appartamento. Una sola vignetta
descrive il risveglio pomeridiano del personaggio dopo una penni-
chella: “Oh! Mi sono addormentato. E il sole non c’è più. Chissà
Campofame, Una estate, Giorno, Astarte e altre illuminazioni 135

se se ne sono andati!”. Bisogna attendere un’interposizione di due


vignette per saperlo: sono entrambe invase dalla vendetta di Sergio,
che, brandendo la spranga, spiega sinistramente a un attonito e spa-
ventato giovanotto con l’ombrello stretto tra le mani cosa si prova ad
avere la testa spaccata.
La sequenza è interrotta da una seconda apparizione del perso-
naggio senza nome tiranneggiato dal terzetto di indesiderabili ospiti
il quale chiede inutilmente: “Non… Non ve andate?” No. Non se
ne vanno. Nella vignetta successiva la spranga di Sergio è sospesa
nel vuoto, trasversale, nell’attimo di sospensione precedente alla ca-
lata sulla testa del malcapitato. Non vi è null’altro nell’immagine.
Repentinamente, anche gli altri nodi vengono al pettine: l’anonimo
personaggio è disegnato nella vignetta successiva con la testa incli-
nata e lo sguardo succube, mentre un piedone maschile aderisce al
suo volto, infilandogli nella bocca l’alluce: “Su, non ti disperare! Tò
succhia, … apri la boccuccia… Aa’m!”
Subito dopo, Pazienza fotografa la vittima di Sergio raggomitola-
ta sul marciapiede in mezzo al sangue, la testa tra le mani. La sbarra,
inclinata esattamente come nella vignetta ad essa dedicata più sopra,
giace sul marciapiede. Ed ecco ora Fiabeschi: un’immagine inscrit-
ta in un piccolo rettangolo più lungo che alto, dove i lampioni ne
illuminano la persistente agitazione. Mentre accende una sigaretta
confessa a sé stesso: “Cazzo sto ancora tremando. Che giorno di
merda!”
Infine, i due amanti della seconda tavola. Non è cambiato granché
dall’esordio: è notte e il maschio è svestito davanti al balcone. Que-
sto è il suo pensiero:

“Oplà, è di nuovo notte. Fra poco inizierà a piovere, poi smetterà e ri-
prenderà e domattina smetterà di nuovo. Sono giornate stupide e fredde,
facciamo bene a non uscire di casa, a rimanere nel letto, al buio, io e te.”
Lei aggiunge: “Perché qui sotto è caldo, e io sono morbida e pulita.”

L’intreccio è così ricomposto.


Con Giorno Pazienza raggiunge uno dei propri apici grafici e
narrativi: nel disegno, per via dell’equilibrio brioso che impone al
suo metamorfico segno, che passa incessantemente dalla linea chia-
136 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

ra alla linea scura; nella sceneggiatura, per i dialoghi perfetti e per


il montaggio iperbolico dell’intreccio delle sequenze. In sole nove
tavole (otto senza la copertina) Pazienza si produce in un’autentica
saturazione jacovittiana, realizzando ben 81 vignette, alcune delle
quali irregolari, ma senza che mai venga meno una ferrea ed esperta
organizzazione visiva. Il montaggio è emozionante e temerario: a
volte, come segnalato, basta una singola vignetta per ritornare su un
personaggio e lasciarlo nuovamente, per poi riacciuffarlo a distanza
di due tavole, di nuovo con un solo fotogramma. Pazienza chiede al
lettore di stare dentro alla storia, senza concedere nulla al didascali-
smo, tessendo la sua tela con sottile ingegno strategico, obbligando
chi legge (e guarda) a saltare tutti i passaggi non strettamente indi-
spensabili alla comprensione.
Si osservi la sequenza delle vignette e le si suddivida nei quattro
plot incrociati: gli amanti notturni (A), il fidanzato tradito Sergio
(B), l’esaminando damsiano Enrico Fiabeschi (C), il ragazzo che
vuole sgomberare gli abusivi (D). Sommando tra loro le vignette
omogenee, si ottengono questi risultati: 10 vignette ad (A), 25 a (B),
32 a (C), 15 a (D).
Nell’ultima tavola l’alternanza tra le vignette rappresentative
delle diverse storie si fa incalzante, con questa scansione: D/BB/D/
B/D/B/C/A. Le ultime quattro vignette racchiudono tutti i percorsi
narrativi, che terminano ricorsivamente con la coppia di amanti che
richiama la vignetta d’esordio. Pazienza dimostra di saper dosare i
ritmi grafici e narrativi con un crescendo irresistibile, successivo a
un alternarsi più disteso delle varie storie nella fase iniziale e dello
sviluppo centrale. Grazie al montaggio audace ed estremo, la diffe-
renza di foliazione tra le vignette delle varie storie non viene perce-
pita e l’intreccio cattura il lettore, circondandolo di stimoli continui.
Passando all’analisi delle situazioni psicologiche presenti in Gior-
no, si tratta dell’emergere espressivo di predisposizioni comporta-
mentali profondamente diverse l’una dall’altra: l’ozio (varianti: ac-
cidia, lussuria) per i giovani amanti visti nel prologo e nell’epilogo;
la paranoia da gelosia e la vendetta sanguinaria per Sergio; la succes-
sione “umiliazione/riscatto/umiliazione” per l’anonimo ospite stan-
co di essere tale ma incapace di sottrarsi alle vessazioni; l’insuccesso
per l’impreparato e irascibile Fiabeschi, incatenato a una visione del
Campofame, Una estate, Giorno, Astarte e altre illuminazioni 137

Dams dove il 18 politico è garantito, mentre la rigidità dell’esame


indica chiaramente che il clima è cambiato, e che gli anni ’70 sono
finiti per sempre. Le forme espressive che Pazienza mette in scena
nella storia riescono a funzionare come un gioco ad incastri senza
sovrapposizioni, esaltando il ruolo della cornice temporale e spazia-
le che tutto ciò contiene, cioè la città, generatrice di infinite trame
ed epiloghi, dalla violenza insensata ai duelli dialettici universitari,
dal sostare placido degli amanti indifferenti al mondo alle piccole
sopraffazioni interpersonali dell’ambiente freak-universitario.
Siamo di nuovo in presenza di un distillato concentratissimo,
di una gemma narrativa scaturita da una perizia tecnica raggiunta
da Pazienza sia nell’architettura estetica delle storie sia nell’edifi-
cio testuale, e che consente di inserire Giorno tra i più sorprendenti
prodotti narrativi incentrati su una simultaneità di storie, secondo
un modello che, successivamente, l’importante pellicola di Robert
Altman Short Cuts (America oggi, 1993) provvederà a divulgare tra
il pubblico cinematografico di massa. Nei fumetti, ci aveva già pen-
sato Andrea Pazienza. Dodici anni prima.

Esiste poi un altro genere di racconti che rende peculiare la vena


fumettistica dell’artista di San Severo, e che potrebbero essere chia-
mati micro-narrazioni. L’intera produzione di Pazienza ne abbonda.
Mi riferisco a storie di una sola pagina, pubblicate soprattutto da
«Cannibale». Una delle più celebri è Rizzati rizzati («Cannibale»,
giugno 1978), un cult per tutti i maschi che, almeno una volta, han-
no avuto una defaillance sessuale (probabilmente tutti, quindi). In
questa tavola (cinque vignette in tutto) Pazienza ritrae una coppia
di giovani amanti snelli e attraenti, lei bionda ed eterea, lui riccio e
longilineo. Lui, nella prima vignetta, è ritratto mentre disegna con
una bomboletta qualcosa su un muro; lei lo guarda vigile. Sullo sfon-
do laterale, la città di notte. Nelle altre vignette i due sono a casa,
e cominciano a fare l’amore. Le loro azioni, nitide ed estetizzanti,
sono tuttavia scandite dal pensiero fisso di lui, che prima ordina al
proprio pene di funzionare (“Rizzati rizzati”, fino al il più seccato
“Rizzati perdio”) e poi finisce per rivolgergli una supplica (“Rizza-
ti oh rizzati”). In questo modo Pazienza lavora su figure stilistica-
mente interne al Movimento, abbigliate come era tipico all’epoca in
138 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

quell’ambiente, e che si producono in un’azione simbolico-comuni-


cativa rischiosa ma non troppo come un’uscita graffitistica. Tutto è
molto politicamente corretto, visto con gli occhi di un ragazzo o di
una ragazza del ’77 e dintorni. C’è però un tarlo maschile che mina
la rappresentazione del romanticismo movimentista: la mancata ere-
zione condiziona tutta la scena e rompe l’incantesimo. I due giovani
non mostrano mai il viso, Pazienza lo mantiene segreto: i corpi sono
magri e angolosi come in un dipinto di Schiele rivisitato da Manara
e le posizioni sono sexy, la libertà di movimento dei corpi sembra
anzi assoluta. Tutto è consentito tra i corpi dei giovani amanti. Ma
il sesso di lui non risponde. Qualcosa nel maschio, nonostante lo
spirito libertario di quella parte di società, sembra non funzionare.
Il micro-racconto non può indagare a fondo né spiegare dettaglia-
tamente, com’è nella sua natura tecnico-formale. Può però lasciare
la mente maschile a rimuginare sulle proprie fragilità, che Pazienza
trasferisce visivamente con effetto virale sul lettore.
Di tutt’altro tipo la micro-storia di SuperPazienza (“dei poteri fac-
cio senza!”, su «Cannibale», aprile 1979), annunciata da omonimo
titolo gonfiato tridimensionalmente e sovrastato da un’imitazione
della classica apparizione di Superman tra i grattacieli di Metropolis
(“Is it a bird? Is it a plane?” – si chiede la folla. “No, it’s Superman”
– si risponde). Nella versione di Pazienza si prende atto che l’essere
volante è precipitato: “È un uccello? È un aereo? Ah no, è SuperPa-
zienza!”
Nelle vignette successive, in un miniaturistico paesaggio di alti
grattacieli suona il campanello del super-eroe, che dorme solo, rigi-
do e immobile, il grosso naso appoggiato sul lenzuolo. In un paio di
vignette si tira su dal letto e si avvia, in vestaglia, alla porta. Sbircia
dallo spioncino e scorge un tipo poco raccomandabile: apre di scatto
la porta e lo sorprende con una bastonata in testa. Sembrerebbe solo
il primo colpo assestato dall’eroe, giacché egli si apre la vestaglia sul
petto rivelando il costume con lo stemma SP, SuperPazienza, minac-
ciando sfracelli. Invece il tipo poco raccomandabile rinviene e rea-
gisce, strapazzando il super-eroe in malo modo. Nell’ultima vignetta
un’ambulanza sfreccia sullo sfondo della metropoli. D’altronde, il
destino di un superuomo senza poteri è già preventivamente segnato.
Da notare che con questa scheggia si dilata lo spessore dell’auto-
Campofame, Una estate, Giorno, Astarte e altre illuminazioni 139

biografismo in una direzione sempre più smaccatamente comica e


quindi iper-ironica, un altro dei marchi di fabbrica di Pazienza.
Al genere demenziale appartiene una micro-storia dal titolo in-
comprensibile (in «Cannibale Science Fiction», giugno 1979), dove
un astronauta nasuto arriva sulla luna alla ricerca di tale Joe il Gros-
so. L’astronauta sgambetta sulla superficie lunare, trovando vari tipi
di impronta. Giunto sulla cima di un alto cratere contempla inutil-
mente l’orizzonte (“Lo vedi tu quel scemone? Io no”). Una scritta tra
parentesi (“A suivre”), parodia dei “continua” della bande dessineé
francofona, avverte dell’ultimo gioco della tavola, che ovviamente
non avrà alcun seguito. Racconta a questo proposito Luca Raffaelli:

Nella primavera del 1980 ho girato un servizio tv per la trasmissione


del sabato sera di Raitre La parola e l’immagine: Andrea Pazienza e
Filippo Scozzari erano intervistati nell’aula del Laboratorio del fumetto
che si teneva a Roma alla Libreria Vecchia Talpa. (…) Per l’occasione
sonorizzammo (insieme a Enrico Caria) la pagina del fumetto (la stessa
che sto analizzando sopra, nda). Unico strumento sonoro un campa-
nello da tavolo. Il fumetto non aveva un titolo e bisognava inventarlo.
Venne fuori così: «Andrea Pazienza presena (senza la t): viaggio sulla
luna di uno che ci è andato. Ma ci è piaciuto?» In quella pagina, in po-
che vignette, c’è l’invincibilità della creazione, la gioiosa ironia sulla
serialità e sui generi, in una complicità tra autore e lettore in cui tutto è
già stato detto, tutto già superato.11

In sostanza, Pazienza inventa un nuovo, rapidissimo genere: non è


“illustrazione” ma è di una sola tavola, non è “storia” pur raccontan-
do qualcosa, non è “serie” ma la simula. Fulminee e folli definizioni
della situazione, lampi di patafisica e neo-dadaismo, con qualche
briciola di psicanalisi implicita nel primo plot.
A una variante dello stesso genere appartiene una serie intitolata
La Prolisseide (“Tutti gli uomini importanti che mi hanno conosciu-
to”), dove la micro-narrazione (sempre di una sola tavola) avviene
alla luce di un autobiografismo a tal punto smaccato da proporre sto-
rielle sulle celebrities conosciute da Pazienza, invertendo l’ordine di

11 Raffaelli L., Il rifiuto del finale, in Pazienza A., Tutto Pazienza. Allegro con fuo-
co. Storie 1977-1979, vol. 6, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016, p. 6.
140 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

notorietà (prima Pazienza, poi Moravia, Pratt, Nicolini, Lucia Poli,


Fellini, Benigni). Le storielle sono amene, anche se per apprezzarle
è necessario conoscere bene la biografia dell’artista, che spesso rap-
presenta vicende e particolari privati.
Ugualmente super-compresse sono poi alcune tavole estempora-
nee dedicate a immaginarie serie enciclopediche, La storia d’Italia
in una sola pagina e Una lezione di storia dell’arte. Nella prima
micro-storia i testi funzionano così, accompagnati da disegni piccoli
e pupazzeschi:

Vignetta 1: All’inizio, c’era solo Bari. “Dove seo steto!” “Seno stete
alla benche.”
Vignetta 2: Poi, l’alba della storia, che durò un tottilione di anni. “Che
ora è?” “Uffa! Le sei! Le sei!”
Vignetta 3: Infine, la storia d’Italia! Romolo, Pompilio, Mario, Canni-
bale, Cesare Battisti, Mogol etc…
Vignetta 4: C’è il Risorgimento, nel quale produsse Michelangelo e
tanti altri.
Vignetta 5: A un certo punto Cristoforo Colombo scopre l’America tre
volte in tutto (circa).
Vignetta 6: Da Niuyork guardano all’Italia ancora oggi come ieri.
Vignetta 7: Ben due volte siamo primi a varie manifestazioni. Noi ita-
liani, sempre in trincea.
Vignetta 8: Siate fieri di essere italiani, o italiani! L’Italia è il paese
vostro!!!
Vignetta 9: Addirittura mi avanza una vignetta.

Fino a ora ho cercato di evidenziare più le capacità di Pazienza


nel concepire e trattare testi che nell’espressione grafica. Su que-
sto aspetto, infatti, l’opinione unanime degli esperti è che Pazienza
possedesse una gamma di abilità che lo innalza automaticamente
all’olimpo dei comics. Anche dando per acquisita questa opinione,
l’infinita serie di assimilazioni grafiche operata da Pazienza restitu-
isce opere che non finiscono di sorprendere. Ad esempio, dal 1983
al 1985 l’artista pubblicò otto puntate di una mirabolante Piccola
guida ragionata al (o del?) West sulla rivista «Corto Maltese» (Mi-
lano Libri). Inaugurata da una tavola con una grande illustrazione di
Zanardi in tenuta militare da guerra di secessione, la Piccola guida è
Campofame, Una estate, Giorno, Astarte e altre illuminazioni 141

introdotta dal discorsetto del curatore, che assomiglia molto al fisico


(operaista) Franco Piperno, conosciuto da Pazienza nel periodo de
«il Male». Piperno promette un West semplice-semplice, alla portata
di tutti. Pazienza esegue, dando vita a disegni che sembrano una
sintesi esplosiva di almeno tre stili: quello di Jacovitti – che ammor-
bidisce il tratto e rende possibile ogni paradosso –, quello di Magnus
– che rende plastica e dinamica l’espressione dei personaggi – e
quello di un certo disegno naturalistico su piante e animali, passato,
ad esempio, per le chine di Ernst Haeckel (1834-1919), il biologo-
artista autore de Le forme artistiche della natura (1899). Il West di
Pazienza è pazzo e agitato come un cartone animato Warner Bros,
ma le linee e i dettagli sono perfetti, e la sensazione del movimento è
magicamente trasmessa dall’eccezionale capacità di posizionamento
delle figure: attorno a un personaggio centrale, disegnato in formato
grande, ruotano scenette di piccole dimensioni, che velocizzano lo
sguardo del lettore. Pistole, cavalli, alberi e piante in genere, stiva-
li, fucili e bestie esotiche (c’è persino King Kong) sono disegnati
con assoluta maestria. Il tono è abbondantemente comico, le battute
sono demenziali e chiassose, il gramelot è sottratto all’egemonia del
meridionale-foggiano in favore di un italiano sbalestrato e finto-et-
nografico. I disegni sono stupefacenti.

Tra le illuminazioni di Pazienza è impossibile non citare un intero


mondo da lui evocato nel corso del tempo, quello delle “vighnet-
te”, tipica chiassosa storpiatura pazienziana. La vignetta rappresenta
una storia concentrata, la versione più concentrata possibile di una
narrazione completa. Narrazione e situazione spesso coincidono: si
tratta infatti di lampi grafico-testuali che appaiono appartenere a una
propria dimensione continua, a un proprio binario, dove corre un
intero e compiuto mondo. Pazienza ne intercetta un fotogramma e
lo rende rappresentazione olistica singolare. L’artista agisce in tutti i
settori della produzione di opinione: racconta il complicato rapporto
tra Movimento e forze dell’ordine, spesso sbertucciate. Fotografa i
tic e le tendenze dei giovani di estrema sinistra, disegna un’epopea
del mondo underground sulle pieghe di allucinati dialoghi tra fric-
chettoni. Compie incursioni leggendarie nell’immaginario religioso
cattolico: memorabile è una vignetta de «il Male» dove papa Wojty-
142 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

la viene raffigurato in bizzarra e moderna veste da camera con coc-


ktail in mano, a guardare solitario le stelle nei pressi di una piscina.
I pensieri del papa, in anticipo questa volta su The Young Pope di
Paolo Sorrentino (2016), sono i seguenti: “E se esistesse veramente?
Ih! … Mavvedi cosa vado a pensare…”.
Pazienza affronta inoltre di petto il mondo politico, rappresen-
tando i leader di partito come gangster; ne risparmia pochi, come
Pannella e Pertini. Prende in giro i suoi compagni di redazione de
«il Male» disegnandone le caricature in posa fotografica, oppure li
esalta al ruolo di navigatori stellari, come fa con i soci di «Canniba-
le». Gioca e riattualizza la maschera di Totò, manipola a piacimento
i personaggi Disney, coglie e parodizza gli aspetti salienti dei nuovi
comportamenti giovanili di massa, eccelle nell’istantanea situazio-
nale dal disegno impeccabile. Ad esempio un trucido esaminando
barbuto si produce in questa sommatoria di frasi sincopate, vero e
proprio contraltare dell’esame di Enrico Fiabeschi in Giorno:

Lavoro, sicuro! Chiaro! Al consorzio! Come quale? Al consorzio di


bonifica! Come dove? A Taranto! Come che voglio? Sono qui per l’e-
same. Sì che sono iscritto! Ué, sono al settimo ann… No che non ho
studiato! Lavoro! Al consorzio! Se ho letto qualcosa? No! Ah ora mi
metto a leggere Craig e Stanislavskji così ai miei figli ci pensa lei! Che
mi frega! E poi non riconosco. Come cosa? Non riconosco un cazzo!
Come perché voglio l’esame? Mi mancano solo Drammaturgia e Se-
miotica e sta a vedere che mollo! Come sarebbe qui danno Fisiologia?
Non è il Dams?

Pazienza sa osservare lo spicchio di società che capita sotto il suo


sguardo e metterlo in una vignetta; sa anche prodursi in un gioco di
specchi in cui gli stessi contorni della vignetta diventano vivi, strat-
tonati da un ributtante topo tossicomane, che ne esige di nuove per
coprire un’astinenza (“Vignette! Vignette! Vighnette!”). Le vighnet-
te sono anche esagerazione allo stato puro, non-sense inspiegabili
che, iterati (“Gino, salvami!”/ “Prima pagare, poi Gino salvami”,
gag in condominio con Scòzzari), danno vita a micro-serie deliran-
ti. Precisa Filippo Scòzzari riconoscendo l’originalità del vignettista
Pazienza all’epoca della comune esperienza presso «il Male»:
Campofame, Una estate, Giorno, Astarte e altre illuminazioni 143

Qualche volta commisi l’errore di riferirmi in modo troppo diretto


alla cronaca o alle scaramucce politiche, e rileggendo le mie vignette
dopo qualche mese già non mi dicevano più nulla. Andrea invece aveva
scelto di pestare sui comportamenti, e quindi mi insegnò (e lo avrebbero
dovuto imparare pure gli altri) che è quella la materia sulla quale eser-
citarsi, non l’esteriorità del nemico; è la boria del Reale che deve essere
illustrata, e tutto il resto non conta.12

Precisione e rapidità di esecuzione sono proverbiali in Pazienza, e


le vighnette sono quanto di più immediatamente spettacolare egli ab-
bia realizzato. La fama di Pazienza, prima nel pubblico giovanile e
poi anche in quello generalista, è costruita innanzitutto sull’impatto
della sua unità di misura più piccola ed esplosiva, la vignetta.
Scrive a questo proposito Antonio Faeti:

A rivisitarlo oggi, a rileggerlo, a ricercarne i pretesti, l’umorismo di


Pazienza non appare invecchiato e non ha perduto le connessioni con le
realtà sociali e ambientali a cui era riferito. Sembra, anzi, che con la sua
purezza di ragazzo, Andrea abbia parlato piuttosto a noi, a quanti di noi
oggi contemplano un composito paesaggio in cui non si vede il crollo
dell’Ideologia, ma piuttosto lo sfacciato riciclaggio delle ideologie più
logore, più vetuste, più violentemente retrive.13

Il penultimo dei venti volumi sull’opera di Pazienza pubblicati


nel 201614 è intitolato Incompiute. Si tratta di un bel numero di ta-
vole che l’artista ha lasciato nello stato del non-finito, compreso lo
storyboard di 35 pagine di un intero “kolossal rock”, Bacterio.
Anche Astarte, la storia su cui stava lavorando Pazienza prima di
morire, è un incompiuto. È tuttavia un incompiuto forzato, perché
l’artista non aveva alcuna intenzione di abbandonarlo, come era ca-
pitato per le altre opere contenute nel volume citato.

12 Intervista di Matteo Tonon a Filippo Scozzari, in Fumettolo-


gica del 18/3/2014, cfr. http://www.fumettologica.it/2014/03/
fumetto-intervista-filippo-scozzari-frigidaire-parte-1/
13 Faeti A. (1991), La logica del fast food, in Pazienza A., Tutto Pazienza. Vignette
vignette vighnette, vol. 18, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016, p. 188.
14 Pazienza A., Tutto Pazienza, voll. 1-20, Repubblica-L’Espresso, Roma, 2016.
144 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Di Astarte restano dieci tavole, per un totale di 85 vignette: ancora


una volta, un’altissima densità di inquadrature e di espressioni.
Così scriveva di Astarte Beniamino Placido a fine agosto del
1988, con tono come di consueto leggero ed elegante, non privo di
sincerità intellettuale:

La cosa più bella che mi sia capitata di leggere quest’estate è un fu-


metto di Andrea Pazienza. Si intitola Storia di Astarte. L’ho trovata sfo-
gliando il numero di luglio di «Comic Art», una rivista di comics che
qualcuno cortesemente mi manda, ma che abitualmente non leggo. Non
so più leggere i fumetti. Anche se ho letto appassionatamente a suo tempo
«Mandrake», «Cino e Franco», «L’Uomo Mascherato». Credo che ognu-
no sappia leggere bene i fumetti della propria giovinezza. E si è giovani
una volta sola. Sono stato giovane solo una volta, ma son o fermamen-
te deciso a non esserlo mai più: troppo faticoso. Comunque un giorno,
sfogliando questa rivista, mi è come venuta addosso la faccia enorme
e minacciosa di un cane nero orbo, “così brutto che mi svegliai”: dice
la didascalia. (…) E mi sono trovato in un altro mondo. Nelle retrovie
dell’esercito di Annibale, che sta per saltare al collo di Roma, dopo aver
attraversato le Alpi. Qui, tra scimmie cavalli cammelli elefanti, c’è an-
che una poderosa cagna che viene dall’Anatolia. Partorisce sette cuccioli.
Annibale ne sceglie due: il nostro Astarte, che racconta la storia in prima
persona, e suo fratello Baal. E gli altri cinque? Li fa uccidere. E la madre?
Dopo una carezza sulla testa, Annibale fece uccidere anche quella: perché
non ci viziasse troppo. Ecco un mondo gentile e barbarico insieme, visto
dagli occhi di un cane (come in certi racconti di Jack London), che per di
più è un cane punico: e che dispone non sappiamo ancora perché di un
occhio solo. Un occhio molto particolare, che guarda le cose dal basso,
ma con candida intensità. Astarte viene addestrato come cane da guerra:
“Mi insegnavano a uccidere, apprendevo rapidamente”. Alla prima bat-
taglia, gli mettono addosso una leggera corazza sormontata da una spada
tagliente, per aprire il ventre ai cavalli. E Lui lo fa. Va fra i cavalli romani
e li sventra, li squarcia. Poi, ad un certo momento, vede davanti a sé un
demonio in carne ed ossa: un cane immenso, armato di zanne di bronzo:
un cane romano. Allora, racconta Astarte, “mi rammentai di essere un
cucciolo e strisciai sull’erba verso di lui pisciandomi addosso.”15

15 Placido B., Il cane a fumetti, in Repubblica, 28/8/1988. Ripubblicato in Pazienza


A., Tutto Pazienza. Una estate. Storie 1987-1988, vol. 11, Repubblica- L’Espres-
so, Roma, 2016, p. 165-167.
Campofame, Una estate, Giorno, Astarte e altre illuminazioni 145

Oltre al riassunto dell’opera incompiuta di Pazienza, dobbiamo


a Placido uno spunto su “generazioni e fumetto” e l’osservazione
“Ecco un mondo gentile e barbarico insieme”. Sul primo cercherò
di dire qualcosa nel capitolo conclusivo di questo volume; sull’os-
servazione cosmologica: penso che Beniamino Placido abbia visto
giusto, individuando in quest’ultimo lavoro di Pazienza una miscela
di sentimenti ad alto voltaggio, addolcita e resa aspra da una sapien-
za narrativa che Oscar Glioti spiega con queste parole:

Astarte è forse il primo vero tentativo di trovare l’ispirazione non


nella strada, come aveva fatto finora, ma piuttosto nella lettura, nell’al-
lenamento, negli studi preliminari, nella meticolosità di un tratto senza
sbavature che ricorda il Magnus più spettacolare.16

Anche un grande maestro come Milo Manara riconosce in Astarte


un nuovo, positivo scarto creativo di Pazienza:

(…) probabilmente Astarte era proprio una di queste possibilità; in-


tanto c’era dentro l’animale di cui lui era veramente amante, e poi c’era
il soggetto storico, quindi senza più nessun rischio di rientrare nella
dimensione metropolitana urbana. Questa storia sarebbe stata comple-
tamente differente da tutte le altre, penso che sarebbe stata l’inizio di
una cosa straordinaria.17

Astarte, emblema dell’addestrata ferocia bellica canina, è nome


femminile di divinità: la dea Astarte (o Ashtart o Ishtar), venerata da
tempi antichissimi (II millennio a.C.) nell’area semitica nord-occi-
dentale, Grande Madre fenicia e cananea, idolatrata in particolare a
Sidone, Tiro e Biblo. Un forte culto di Astarte vigeva perciò anche
in Cartagine, che di Tiro era una colonia. Tuttavia Pazienza usa quel
nome per un molosso nero, adatto alla caccia notturna.
La lingua di Pazienza è particolarmente curata, senza più disordi-
ni ortografici o gramelot; una lingua capace, grazie all’esattezza, di
restituire senza violenza anche particolari scabrosi:

16 Glioti O., op. cit., p. 248


17 Cfr. Giubilei F. (2005), Vita da Paz. Storia e storie di Andrea Pazienza, Odoya,
Città di Castello (PG), 2016, p. 214.
146 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Astarte: “Vidi la luce durante l’assedio di Sagunto, in Spagna, quan-


do mia madre era già vecchia. Mio padre era stato ucciso tempo prima
ed Annibale in persona aveva estratto dal suo corpo ancora caldo il
seme vivo e con questo, e l’ausilio del membro di uno schiavo enorme,
aveva fatto fecondare mia madre.” (tav. 3)

L’atmosfera narrativa si avvia progressivamente verso una riusci-


ta annessione dell’epica: l’addestramento di Astarte, violento e siste-
matico, è accompagnato dall’eccezionalità del suo ruolo, “capo dei
cani da guerra di Annibale, suo guardiano inseparabile e fedelissimo
amico” (tav. 1), perciò meritevole di una narrazione modulata su
ritmi incalzanti e insieme solenni:

Mentre l’immane esercito risaliva la Spagna, io e mio fratello spia-


vamo dal carro il lavoro dei cani, che sembravano tessere, con il loro
andirivieni tra le zampe dei cavalli, una rete tra la polvere che rinsaldava
l’armata. Grossi, a volte enormi mastini indigeni, pesanti oltre cinquanta
chili, silenziosi, parchi ed inflessibili, abilissimi cacciatori, nemici giurati
dei lupi e degli orsi eppure inadatti a proteggere la figura del Dio. (tav. 4)

Annibale (rivolgendosi al cane): Ma noi… Avremo trascorso la notte


al caldo intorno ai fuochi, avremo mangiato e riposato. Sarà contro la
furia punica calda e asciutta che il romano digiuno e intirizzito dovrà
battersi allora, e avremo vinto! (tav. 8)

La conduzione autobiografica e ispirata dalla strada lascia il posto a


un’affabulazione ampia e innovativa, condotta con vignette che hanno
lo stesso formale principio ispiratore dei suoi precedenti poemi in prosa,
come Pompeo e Una estate: testo sovrastante il disegno, rari balloon. In
comune con altre opere, oltre a questa scelta di miniaturizzare la grande
tavola scritta/illustrata, vi è poi ancora una volta la presenza della morte,
annunciata fin dalla prima tavola, quando Astarte, comparso in sogno a
un giovanotto ricciuto (unico frammento para-autobiografico del rac-
conto), precisa: “Come tu mi vedi ora è come ero quando sono morto
a Zama”. Cani, lupi e cinghiali muoiono nell’addestramento di Astarte;
muoiono gli elefanti, pur avendo superato le Alpi, sotto la coltre dell’in-
verno più gelido. Muoiono schiavi e prigionieri, muoiono la madre e i
fratelli di Astarte. Ma il racconto oscilla anche su un altro polo tematico:
Campofame, Una estate, Giorno, Astarte e altre illuminazioni 147

l’ansia di vita guerriera del cane, che l’incontro con un gigantesco cane
romano fa tuttavia vibrare di una nuova emozione, imprevista e umi-
liante: la paura. Sulla regressione indotta dalla paura (“Mi rammentai di
essere un cucciolo e strisciai sull’erba verso di lui pisciandomi addos-
so”) si interrompe la saga di Astarte.
Beniamino Placido, ritornando ad Astarte in un articolo pubblica-
to nel 198918, scrive:

Non ci siamo mai incontrati. Intanto mi era capitato di leggere la Sto-


ria di Astarte, cane di Annibale, e ne ero rimasto impressionato. Cos’è
questa storia di crudeltà, di ferocia e di dolcezza? Chi è questo cane che
attacca e sbrana e che si fa però anche la pipì addosso? Questa belva che
è anche un cucciolo, chi è? Cosa vuole da noi?

Renato De Maria, regista del Paz! cinematografico (2002), con-


densa in poche parole il senso della trasformazione creativa avvenu-
ta in Pazienza:

Nessuno può sapere dove sarebbe arrivata la creatività di Andrea. Un


cambiamento, però, già si vedeva chiaramente: con Astarte, per esem-
pio, o con Porci19, non raccontava più la realtà che aveva davanti agli
occhi, ma i suoi miti, le sue visioni.20

A luglio 1988, quando «Comic Art» va in edicola con il primo e


unico episodio di Astarte, Andrea Pazienza è morto da poche setti-
mane.

18 Placido B. (1989), Storie incompiute, in Pazienza A., Tutto Pazienza. Incompiu-


te, vol. 19, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016, pp. 155-156.
19 Si tratta di una storia di 10 tavole uscita sul n. 44 di «Comic Art» (1988), dove
un maiale-ladro antropomorfo prima si auto-avvelena mangiando inavvertita-
mente le polpette destinate al cane della casa presa di mira, poi viene sbranato
dal cane della padrona di casa (una papera antropomorfa), mentre il fratello-
maiale è costretto a lasciarlo preda della belva per riuscire ad arrampicarsi su un
albero e mettersi in salvo. La terribile storia si conclude con queste parole della
papera: “Oh ma… Era un porco! Bravo Ringo, uccidilo, che lo mettiamo nel
congelatore!” Pur diversissima da Astarte, anche la storia Porci esplora una nuo-
va direzione narrativa per Pazienza, quella dell’apologo (pur di ambientazione
semi-splatter).
20 Cfr. Farina R. (2005), I dolori del giovane Paz. Biografia a più voci di Andrea
Pazienza, Milieu Edizioni, Milano, 2016, p. 118.
CAPITOLO VI
BUSSOLE, APPRENDISTATI, SODALIZI

Trascrivo da una composizione originale1 di Pazienza, rispettan-


done i righi/versi, la punteggiatura e l’ortografia:

Amo.
Al di là e oltre, è un mare di pennarelli,
ed il mio amore per i pennarelli è secondo solo
all’amore che nutro per me stesso.
Pennarello è bello, e se sai usarlo, se lo ami,
sa darti soddisfazioni,
diventa te, diventa tuo itsmo2,
ne ricordo uno, enorme, bleu,
dopo tre anni cominciò ad avere la lingua secca,
e presi ad usarlo per le sfumature ghiaccio delle
mie nuvole, era un buon pennarello, e mi dispiacque
quando morì, morì per aver perso il tappo.
Amo Hugo Pratt3, Wolinsky4 e Pichard5, amo

1 La composizione di Pazienza, probabilmente appartenente al suo primo periodo


da studente del Dams, è stata pubblicata (fotografia su due pagine di dattilo-
scritto originale, con correzioni a pennarello) in Pazienza A., Tutto Pazienza. Mi
chiamo Andrea, Michele Vincenzo Ciro (vol. 20), Repubblica-L’Espresso, Roma,
2016, pp. 54-55.
2 Nonostante sia scritto a macchina con i caratteri nitidi, il termine usato da
Pazienza risulta oscuro (o forse frutto di disattenzione, non però rimediabile
intuitivamente).
3 Maestro del fumetto italiano (1927-1995), autore del personaggio di Corto
Maltese.
4 Georges Wolinski (1934-2015), fumettista satirico francese, ucciso durante un
attacco terrorista dell’Isis alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo.
5 Georges Pichard (1920-2003), fumettista francese (Paulette, 1970).
150 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Parker e Johnny Hart6, amo Mell Lazarus7, Smythe8,


Pericoli e Pirella9, amo Chiappori10, Toppi11, Batta-
glia12, amo Quino13, amo Mordillo14, amo Fremura15 e Chaval16
, Sangio17, Schultz18, Bretechester19,… Breccia & Lovecraft20.

Amo Fosse21,
e i deserti di Electra Glide22.

Amo le Marlboro, le MS;


amo i pantaloni vissuti,
amo i cocktail di cioccolato e la coca cola con gi23
amo la panna e la besciamella e la maionese.
Amo le bretelle di cuoio,
le maglie a tinta unita, larghe,

6 Brant Parker (1920-2007) e Johnny Hart (1931-2007), fumettisti statunitensi,


autori della striscia The Wizard of Id (1964).
7 Fumettista statunitense (1927-2016), autore di due serie di grande successo:
Miss Peach (1957-2002) e Momma (1970-2016).
8 Fumettista inglese (1917-1998), autore della celeberrima striscia di Andy Capp.
9 Emanuele Pirella, scrittore e pubblicitario (1940-2010) e Tullio Pericoli, pittore
e disegnatore (1936), hanno collaborato con «Linus» e «L’Espresso», firmando
insieme varie storie satiriche.
10 Alfredo Chiappori (1943), disegnatore satirico italiano (Up il sovversivo, 1969).
11 Sergio Toppi (1932-2012), fumettista e illustratore italiano.
12 Dino Battaglia (1923-1983), fumettista italiano.
13 Pseudonimo di Joaquín Salvador Lavado Tejón (1932), fumettista argentino
(Mafalda, 1963).
14 Guillermo Mordillo (1932), cartoonist argentino.
15 Vignettista italiano (1936), attivo nella stampa quotidiana e settimanale naziona-
le (La Nazione, Il Resto del Carlino, ecc.), molto apprezzato da Jacovitti.
16 Pseudonimo di Yvan Louarne (1915-1968), vignettista francese, celebre negli
anni ’50.
17 Pseudonimo di Sandro Angiolini (1920-1985), fumettista italiano passato dal
fumetto per ragazzi (il Grande Blek) al fumetto per adulti (Belzeba, Frigilda).
18 Charles M. Schultz (1922-2000), fumettista statunitense (The Peanuts, 1950).
19 Si tratta con tutta probabilità di Claire Bretécher (1940), fumettista satirica fran-
cese (Les Frustrés).
20 Pazienza si riferisce al lavoro di illustrazione da parte del grande disegnatore
argentino Alberto Breccia (1919-1993) de I miti di Cthulhu, opera dello scrittore
visionario americano Howard P. Lovecraft (1890-1937).
21 Bob Fosse (1927-1987), regista e coreografo statunitense (Cabaret, 1972; Lenny,
1974).
22 Motocicletta costruita dalla Harley Davidson dal 1965.
23 Nel testo, la parola finale del rigo è interrotta (“gi”) e risulta incomprensibile.
Bussole, apprendistati, sodalizi 151

i calzini da tennis;
amo Woodhause24,
amo Linus,
i miei baffi,
i vecchi soprabiti.
Amo lo yogurt,
amo gli inchiostri rosa.
Amo Tzara25
Duchamp26
Susanne Duchamp27
Man Ray e Litterature28,
Il Cabaret Voltaire29 e Guillaume Apollinaire30,
Amo Monsieur Antipyrine31,
Arp32,
la Die Neue Kunst33,
Ball34,
Maurice Barres35, accademico,

24 Si tratta con tutta probabilità di Sir Pelham Grenville Wodehouse (1881-1975),


celebre scrittore inglese.
25 Tristan Tzara, pseudonimo di Samuel Rosenstock (1896-1963), poeta e saggista
rumeno, fondatore del dadaismo.
26 Marcel Duchamp (1887-1968), pittore, scultore e scacchista francese, animatore
del dadaismo e del surrealismo, iniziatore dell’arte concettuale.
27 Si tratta di Suzanne Duchamp-Crotti (1889-1963), pittrice dadaista francese,
sorella di Marcel Duchamp (1887-1968).
28 Rivista fondata da Breton, Aragon e Soupault (1919), cui si unirà in un secondo
momento Tzara.
29 Locale fondato a Zurigo nel 1916 da Hugo Ball e da Emmy Hennings, è consi-
derato la culla del dadaismo.
30 Pseudonimo di Wilhem Albert Wlodzimierz Apollinaris de Waz-Kostrowicki
(1880-1918), poeta, scrittore, critico d’arte e drammaturgo francese.
31 La prima avventura celeste del signor Antipyrine, “anti-testo” di Tristan Tzara
(1916), il cui seguito fu pubblicato da «Littérature» (1920).
32 Hans Arp (1887-1966), scultore, pittore e poeta francese, tra i fondatori del
dadaismo.
33 Rivista pre-dadaista tedesca, il primo numero uscì nel 1913 con alcune incisioni
di Richard Seewald (1889-1976).
34 Hugo Ball (1886-1927), poeta, scrittore e regista teatrale tedesco, tra gli artisti
guida del dadaismo.
35 Maurice Barrès (1862-1923), scrittore e politico, esponente del nazionalismo
francese, fu eletto nel 1906 all’Académie française. Barrès, in un improbabile
processo intentatogli dai dadaisti nel 1921 per “attentato alla vita dello spirito”,
risultò colpevole e condannato simbolicamente a vent’anni di lavori forzati.
152 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

André Breton36,
Tatlin37 e il costruttivismo38,
Dino Colalongo39,
amo Arthur Cravan40, Dufy41,
Max Ernst42,
l’Happening43, il New DADA44 e la Pop Art45,
amo Heartfield46,
Hanna Hoch47,
Lacerba48 e Giovanni Papini49,

36 Poeta, saggista e critico d’arte francese (1896-1966), fondatore del surrealismo.


37 Vladimir Evgrafovič Tatlin (1885-1953), architetto, pittore e scultore, uno degli
esponenti del costruttivismo e del produttivismo.
38 Movimento d’avanguardia nato in Russia dopo il 1917, basato su concezioni
figurative ispirate alle realizzazioni della rivoluzione sovietica e all’esaltazione
della tecnologia e della meccanica industriali.
39 Insegnante di Pazienza al Liceo artistico «Misticoni» di Pescara, e tra gli anima-
tori della galleria Convergenze dove il giovanissimo artista ebbe la propria prima
esposizione personale (maggio 1975).
40 Pugile e poeta inglese (1887-1918), esponente e idolo dei dadaisti.
41 Raoul Dufy (1877-1953), pittore francese e illustratore dai forti cromatismi,
inizialmente vicino a Matisse (1859-1954).
42 Pittore e scultore tedesco (1891-1976), tra i maggiori esponenti del surrealismo.
43 Forma d’arte-spettacolo (a partire dalla fine degli anni ’50) che, ricorrendo a
mezzi diversi (pittorici, musicali, teatrali), si basa sull’improvvisazione dell’a-
zione, svolta generalmente in ambienti non convenzionali e con il coinvolgimen-
to del pubblico.
44 Tendenza della pittura americana affermatasi alla fine degli anni Cinquanta a
opera di un gruppo di artisti tra cui R. Rauschenberg, J. Johns, J. Dine, pro-
tagonisti di una nuova stagione della poetica dell’oggetto, assunto nella sua
condizione di materia povera quale recupero e montaggio di prodotti usurati e
abbandonati dalla società che li ha sfruttati.
45 Tendenza artistica affermatasi negli Stati Uniti negli anni Sessanta del secolo
scorso, e poi diffusasi in Europa, basata sulla riproduzione esasperata e deforma-
ta, in chiave critica e ironica, dei materiali e dei simboli della civiltà dei consumi
(immagini pubblicitarie, fumetti, oggetti d’uso comune).
46 John Heartfield, anglicizzazione di Helmut Herzfeld (1891-1968), artista dadai-
sta tedesco, noto per I suoi fotomontaggi satirici.
47 Anna Therese Johanne Höch detta Hannah Höch (1889-1978), artista dadaista
tedesca.
48 Rivista letteraria italiana fondata nel 1913 da Giovanni Papini e Ardengo Soffici,
aderente al futurismo.
49 Poeta, scrittore e saggista (1881-1956), esponente del futurismo, ebbe poi una
conversione alla fede cattolica e sostenne il fascismo.
Bussole, apprendistati, sodalizi 153

Amo Georges Mathieu50,


amo Ezra Pound, fascista51,
amo Richter52,
e Georges Ribemont Dessaignes53,
e Balla54 Boccioni55 segantini56 severini57 carrà58;
e Marinetti Filippo Tommaso59, fascisti,
Sironi60,
amo Manzoni61, Pistoletto62,
Mondrian63,
li amo.

Siamo in presenza, anche in questa strampalata dichiarazione d’a-


more, di una serie ricorrente di elementi della poetica di Pazienza: la

50 Pittore francese (1921-2012), considerato uno dei padri dell’astrattismo lirico e


della pittura informale.
51 Il grande poeta americano (1885-1972) passò la maggior parte della sua vita
in Italia. Sostenne il fascismo fino alla caduta della Repubblica Sociale di Salò
(1945). Catturato dai partigiani, venne consegnato alle forze armate degli Stati
Uniti, dove fu sottoposto a processo per tradimento. Dichiarato infermo di men-
te, fu detenuto tredici anni in un manicomio giudiziario fino a quando, liberato,
tornò in Italia dove trascorse le sue ultime stagioni.
52 Gerhard Richter (1932), pittore tedesco.
53 Georges Ribemont-Dessaignes (1884-1974), scrittore e pittore francese legato al
dadaismo.
54 Giacomo Balla (1871-1958), pittore e scultore protagonista del Divisionismo e
in seguito del Futurismo.
55 Umberto Boccioni (1882-1916), pittore e scultore, esponente di punta del
futurismo.
56 Giovanni Segantini (1858-1899), pittore italiano, tra i massimi esponenti del
divisionismo.
57 Gino Severini (1883-1966), pittore futurista, tra i fondatori del movimento.
58 Carlo Dalmazio Carrà (1881-1966), pittore italiano che aderì al futurismo e poi
alla corrente metafisica.
59 Poeta, scrittore e drammaturgo italiano (1876-1944), fondatore del movimento
futurista e sostenitore del fascismo.
60 Mario Sironi (1885-1961), pittore, tra gli iniziatori del movimento Novecento a
Milano nel 1922, esponente del futurismo e sostenitore di Mussolini.
61 Piero Manzoni (1933-1963), artista italiano conosciuto per i suoi lavori Achrome
e Merda d’artista.
62 Michelangelo Pistoletto (1933), pittore e scultore, animatore e protagonista
dell’arte povera.
63 Piet Mondrian (1872-1944), pittore olandese, fondatore con Theo van Doesburg
(1883-1931) del movimento artistico De Stijl (Lo stile), dall’omonima rivista di
sostegno teorico.
154 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

smania elencativa, la confusione voluta dei piani del discorso (arte-


gusto-cibo-arte), la rapidità nell’afferrare uno scivolamento logico
e trasformarlo in un’iperbole delocalizzata (dal pennarello alla lista
dei fumettisti preferiti), il ritmo narrativo, la musicalità dei testi, gli
accostamenti demenziali.
Con questa poesia in forma di elenco (o viceversa), Pazienza ci
ha detto moltissimo sulla propria bussola artistica. I suoi riferimenti
d’esordio vanno a un grappolo di grandi classici del fumetto, già
considerati tali a metà degli anni ’70, quando l’artista stilava la sua
lista.
Il primo è Pratt, che giganteggia tra i pur notissimi Wolinski e Pi-
chard: una scelta che guarda in direzione del fumetto più sofisticato
e letterario del mondo, seguito però a ruota da un numero di umoristi
sopraffini e popolari, come Parker & Hart, Quino, Mordillo, Schultz.
Intervallati però da altri esponenti del fumetto di ispirazione lettera-
ria, come Toppi, Battaglia e Breccia, a loro volta conteggiati a fianco
di raffinati satirici italiani, come Chiappori e Pericoli & Pirella, e
francesi, come Claire Bretécher.
L’amore di Pazienza scivola a questo punto sul regista Bob Fosse,
poi su una motocicletta da deserto e quindi si stende su un insieme
di merci pop nominate quasi con spudoratezza; il talento umoristico
di Wodehouse sembrerebbe far scartare il binario poetico in un’altra
direzione, che Linus riporta però all’iniziale campo fumettistico. In-
vece Pazienza scarta di nuovo e cita i propri baffi, i vecchi soprabiti,
lo yogurt, gli enigmatici inchiostri rosa.
Poi l’elenco affronta la via delle avanguardie: c’è quasi tutta la
prima fila dada (Tristan Tzara, Marcel e Suzanne Duchamp, Man
Ray, Hans Arp, Max Ernst, Arthur Cravan, Hugo Ball, André Bre-
ton), e poi altre avanguardie (Vladimir Tatlin e il costruttivismo)
intercalate dagli eterodossi Maurice Barrés (bollato, alla maniera di
un processo dadaista, come “accademico”) e Raoul Dufy, tra cui si
inserisce, in empito a suo modo neo-dada (o demenziale), Dino Co-
lalongo, artista e organizzatore culturale pesarese amico di Pazienza.
Separata solo da una virgola e da un cambio di rigo arriva poi
l’ondata delle neo-avanguardie della seconda metà del ‘900, l’Hap-
pening, il New Dada di Robert Rauschenberg e la Pop art di Andy
Warhol, cui si accostano altri nomi del dadaismo della prima ora,
Bussole, apprendistati, sodalizi 155

come Heartfield e la Hoch. È poi la volta dell’ambiente futurista


(Lacerba, Papini, Balla, Boccioni, Severini, Carrà, Marinetti, Siro-
ni), con l’inserimento dell’epiteto “fascisti” (forse un po’ sbrigativo
per alcuni di loro) a maggior chiarezza della scelta consapevole da
parte di Pazienza (il termine va quindi interpretato come “pur es-
sendo fascisti”). Lo stesso rilievo era stato dato al mussolinismo di
Ezra Pound, anche lui ricordato come “fascista”. Da notare però che,
prima del finale contemporaneista che tra un attimo sarà considerato,
Pazienza aveva infilato nella zona dei futuristi anche il padre del
divisionismo, Segantini, l’informale Mathieu e un esploratore delle
relazioni tra realismo e astrattismo come Richter, nonché un ultimo
dadaista sfuggito in precedenza alla catalogazione, Ribemont-Des-
saignes.
Il finale è per due nomi della neo-avanguardia italiana degli anni
’60, Manzoni e Pistoletto. L’ultimissimo nome è Mondrian, che
consegna la dichiarazione poetica alla cassaforte del sentimento im-
perituro, espresso con tutta l’enfasi e la semplicità di cui è capace
Pazienza: “Li amo”.
Collocare questo dattiloscritto nel primo periodo bolognese
dell’artista significa ritenerlo precedente alla sua produzione fu-
mettistica pubblicata su riviste nazionali (a partire dal 1977) e forse
ancora in bilico tra la vocazione pittorica e l’urgenza fumettistica,
ben esplicitata nella poesia-elenco con l’esordio del pennarello, stru-
mento di lavoro peculiare dell’arte di Pazienza che si rovescia in
pochi righi/versi nell’elogio di Pratt e degli altri cartoonist. Probabil-
mente in questo scritto vale ancora l’atmosfera artistico-culturale di
Pescara, dove Andrea Pazienza era considerato lo studente più dota-
to del liceo artistico (alla maturità ebbe il massimo dei voti, 60/60);
era diciassettenne all’epoca della sua prima esposizione personale di
pittura, nella galleria di Cesare Manzo, di cui fu anche assistente64.
Mancano infatti alcuni riferimenti che diverranno marchi di fabbrica
di Pazienza, e che occuperanno una parte sempre più rilevante nel ci-
tazionismo metamorfico dell’artista. Manca un saturatore folle come
Jacovitti, per esempio, manca l’underground americano e manca so-

64 Cfr. http://www.artribune.com/attualita/2014/11/intervista-a-cesare-manzo-ho-
chiuso-perche-si-vende-piu/, consultato il 29/3/2017.
156 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

prattutto l’universo Disney. Manca Moebius e mancano tutti i visio-


nari americani e francesi (tra cui Richard Corben65 e Enki Bilal66).
Il lavoro di accumulazione mentale della storia dell’arte insiste sul
moderno e sul quasi postmoderno, sia per la naturalezza dei passaggi
tra zone diverse della cultura (da Pratt alla Coca Cola, da Bob Fosse
alla cioccolata), sia per l’evidente e spasmodica centralità dell’avan-
guardia artistica novecentesca, adottata in blocco sul fronte dadaista,
neo-dadaista e pop, con qualche riserva verso la macchinazione fu-
turista sfociata politicamente in sostegno al fascismo e con qualche
tocco di altre avanguardie. Il riferimento più antico è Segantini, nato
nel 1858. Più indietro Pazienza non si spinge. È scontato che co-
noscesse la storia dell’arte nel suo complesso secondo gli standard
richiesti dai licei artistici di quegli anni, tuttavia l’elenco-poesia è
tutto proiettato sul Novecento e sui suoi discussi e spesso fragorosi
protagonisti. Il richiamo degli studi scolastici sull’arte del Rinasci-
mento e della Controriforma emergerà nella sua produzione poco
alla volta, a seconda delle sue esigenze artistiche e narrative e degli
incontri con esperti ed appassionati che lo spingeranno ad approfon-
dimenti intensivi. D’altronde, anche nella poesia-elenco il tono è da
sostenitore incallito, quasi da fandom. In attesa di creare la propria
avanguardia, il giovane Pazienza si dota di una bussola estrema, ed
estremamente adatta a dare origine al suo mondo fumettistico, dove
sono appostati – a guardare bene – tutti i nomi del suo esplosivo
firmamento.

Occorre tornare all’istruzione di Pazienza. Era ancora un ragazzo


quando si iscrisse al Liceo artistico “Giuseppe Misticoni” di Pesca-
ra, città dove visse da solo fino alla maturità. È un fatto piuttosto
inconsueto che un tredicenne lasci la propria vita trasferendosi altro-
ve per motivi di studio, ma nel caso di Pazienza la priorità era l’ad-
destramento tecnico: aveva dato evidenti prove di talento, e già il
padre acquarellista ne aveva precocemente testato le doti. Un istituto
di Foggia, cui si iscrisse dopo il primo anno a Pescara perché più

65 Illustratore e cartoonist statunitense (1940), collaboratore storico di «Heavy Me-


tal», versione americana di «Metal Hurlant».
66 Fumettista e regista francese di origine jugoslava (1951), autore della saga fanta-
scientifica La fiera degli immortali (1981).
Bussole, apprendistati, sodalizi 157

vicino a casa, non sembrò adatto alla serenità del ragazzo e quindi la
famiglia Pazienza optò di nuovo per Pescara.
Ricorda Tanino Liberatore:
“L’ho conosciuto perché frequentava il liceo artistico come me. A
quel tempo, quella di Pescara era la scuola d’arte di quattro regioni:
l’Abruzzo, il Molise, il Sud delle Marche e il Nord delle Puglie. E
infatti c’erano moltissimi marchigiani, pugliesi e abruzzesi. E An-
drea, che era di San Severo, è arrivato lì, a un Convitto dei gesuiti,
mentre io ero al terzo anno. Era un ragazzino. Era la prima volta che
usciva di casa da solo. Era vispissimo. Si vedeva che era intelligente
ma allo stesso tempo, come tutti i ragazzini, si vedeva pure che era
un rompicoglioni. Già a quei tempi disegnava in un modo eccezio-
nale, anche se tutto quello che faceva era cartoon. Pure i gessi, le
sculture classiche, le faceva in un modo cartoonesco. Mi ricordo
che suo padre mi chiese di provare a fargli passare questo senso del
fumetto in qualsiasi cosa; io gli risposi che era impossibile, perché
era una cosa innata.”67
L’esuberanza di Pazienza fu chiara a tutti, e naturalmente anche ai
suoi insegnanti. Tra questi il giovanissimo studente ebbe due men-
tori, i professori Sandro Visca e Alberto Paolinelli. Con il primo,
docente di Figura disegnata, Pazienza strinse un particolare legame,
una sorta di rispetto piuttosto impertinente: ne vennero fuori vignet-
te satiriche che facevano sogghignare gli studenti di tutto il liceo e
che strappavano un sorriso anche alla vittima. Visca si accorse del
talento del ragazzo e cercò di indirizzarlo verso il lavoro di ricerca
che presiede all’espressione artistica visiva.

In quegli anni insegnavo Figura disegnata che è una materia quasi


matematica e a volte, se presa con distacco, anche terribilmente no-
iosa. Andrea, allora sedicenne, sul piano didattico non aveva nulla da
imparare, riusciva a disegnare a memoria qualsiasi cosa, come se nel-
la testa avesse una banca dati: era davvero impressionante, sembrava
un computer. Per esempio, poteva disegnare a memoria una serie di
mani – tra i soggetti anatomici più difficili da riprodurre – una dietro
l’altra, tracciando un movimento di torsione nell’aria lungo una linea a

67 Cfr. https://www.wired.it/play/fumetti/2016/05/20/
tanino-liberatore-ricordo-andrea-pazienza/
158 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

semicerchio. La sua rapidità era stupefacente. Difatti, l’insegnante di


Anatomia artistica del liceo me lo chiedeva spesso in «prestito». Face-
va lezione mentre Andrea disegnava alla lavagna, sempre a memoria,
muscoli e parti anatomiche di cui conosceva a perfezione la forma, ma
spesso non la denominazione. Inoltre, infondeva nei temi di italiano la
straordinaria creatività dei suoi fumetti e delle sue storie: scritti molto
bene e piacevoli da leggere, ma dal contenuto così immaginario e astru-
so che l’insegnante di lettere spesso mi consultava, indeciso se valutarli
con un dieci o con uno zero. Ovviamente, a ragione, ero sempre per il
voto più alto. (…) Al cospetto degli altri era solito presentarsi con una
corazza da duro: Andrea veniva da San Severo e già da due anni viveva
da solo, sapeva scrivere bene e parlare con una spiccata proprietà di lin-
guaggio e faceva letture per suo conto dimostrando sempre una vivacità
di apprendere e di conoscere.68

Aggiunge Albano Paolinelli, docente di Ornato disegnato al liceo


Misticoni:

Le sue capacità fuori scala, evidenti, lo portavano a riempire il foglio


in maniera eccessiva. Questo suo modo di concepire la composizione
instaurò tra noi, i primi tempi, un rapporto conflittuale. Tentavo in con-
tinuazione di fargli capire l’importanza degli spazi vuoti nell’arte.69

Nel 1973, ad opera di un gruppo di artisti pescaresi, tra cui Visca e


Paolinelli, apre la galleria “Convergenze”, un luogo da cui prendono
origine anche iniziative musicali, affidate a docenti del Conservato-
rio di Pescara, e cinematografiche. Il giovanissimo Andrea Pazienza
entra nel gruppo e partecipa alle intraprese.
Dopo la maturità, entrambi i docenti del giovane artista, pur
contribuendo a farne conoscere i primi lavori pittorici al pubblico
dell’arte contemporanea pescarese e constatando che Pazienza, pur
precocissimo, si era inserito a tutti gli effetti di quel gruppo d’a-

68 Originariamente il testo uscì come prefazione a Pazienza A. (1972-74), Visca,


Fandango Libri, Roma, 2006, un intero volume dedicato ai disegni e ai fumetti
di Pazienza sul suo professore di Figura disegnata. Il testo è stato poi ripubblica-
to in Pazienza A., Tutto Pazienza. Gli anni giovanili, vol. 12, Repubblica- L’E-
spresso, Roma, 2016, con il titolo Lo studente fuori-classe, pp. 167-173.
69 La testimonianza è resa a Simone Angelini, cfr. Pazienza A. Tutto Pazienza.
Convergenze, vol. 13, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016, p. 9.
Bussole, apprendistati, sodalizi 159

vanguardia, gli consigliarono di andare verso nuove città e nuove


esperienze, per non essere condizionato dall’opacità provinciale.
Quando Pazienza approdò a Bologna iscrivendosi al Dams, rinun-
ciò alla notorietà nell’ambiente artistico e alla libertà di movimento
di cui godeva a Pescara, ma il suo background era solido: durante
il liceo aveva studiato ciò che gli stava a cuore, concependo una
propria storia dell’arte a misura di esperto in avanguardie storiche,
passata per l’esplosione del primo Novecento ma anche per un se-
condo Novecento pop-artistico e con riferimenti vari e globali, come
la cartellonistica rivoluzionaria sudamericana e la grande attenzione
al fumetto. Un’attenzione non solo intellettuale e di consumo, ma
direttamente produttiva, basata su una frenetica attività di disegno e
di scrittura.

L’influenza dei suoi docenti e la relazione speciale che Pazienza


seppe instaurare con entrambi contribuì senz’altro a fornire al giova-
ne artista una bussola ben tarata, cui egli stesso aggiunse una spicca-
ta curiosità intellettuale, che lo portò a leggere e a documentarsi per
proprio conto, come ricorda Sandro Visca.
Tuttavia Pazienza appartiene a una generazione che non ha avuto
propriamente dei maestri, quanto degli allenatori o, se si preferisce,
degli stimolatori. Negli anni ’70 esplose l’università di massa e ci
furono immissioni forzate di giovani assistenti nelle cattedre, ma già
da qualche anno – soprattutto nella nicchia dei licei artistici – erano
usciti dalle Accademie giovani docenti preparati e determinati a tra-
sformare le attività scolastiche in laboratori per i giovani artisti in
formazione. La differenza anagrafica tra docenti e studenti dell’età di
Pazienza, ricorda Paolinelli, era di poco più di dieci anni, una distan-
za che vige tra zii giovani e nipoti, e non infrequentemente tra fratelli,
non certo tra padri e figli. Ed è rara anche tra maestri e allievi.
A ulteriore testimonianza di una certa singolarità formativa della
generazione di Pazienza vi è l’affermarsi di uno scambio infra-gene-
razionale tra pari. È con ragazzi più o meno della sua stessa età che
Pazienza avviò uno scambio frenetico e continuo, pratica inaugurata
dal rapporto con Tanino Liberatore, conosciuto proprio ai tempi del
liceo artistico di Pescara. L’acculturazione tramite gruppo dei pari fu
il modello attraverso cui alcuni giovani artisti aumentarono le proprie
160 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

conoscenze e implementarono le proprie tecniche, assorbendo col-


lettivamente le tensioni individuali in uno scambio concentrato, non
privo di spigoli. D’altronde, la profondità di sguardo fornita da un
gruppo di coetanei talentuosi è evidente fin dalla prima testimonian-
za di Tanino Liberatore, quando segnala la scaturigine fumettistica
nel tratto di Pazienza (“Pure i gessi, le sculture classiche, le faceva
in un modo cartoonesco”). Il padre di Pazienza chiedeva a Tanino
di aiutare Andrea a liberarsene, ma gli veniva saggiamente risposto
di considerare quella mania come costitutiva dell’arte di Pazienza,
della sua stessa essenza. Liberatore, semi-coetaneo di Andrea, capi-
va una cosa che la generazione precedente (Enrico Pazienza), pur
artisticamente competente, non riusciva a comprendere. La relazio-
ne tra i due ex-compagni di scuola è spiegabile anche dal punto di
vista della provenienza di classe, una piccola borghesia meridionale
che aveva deciso (dopo qualche resistenza nel caso dei genitori di
Liberatore) di assecondare il talento artistico dei propri figli, il cui
sviluppo avvenne però attraverso processi formativi lontani dalla fa-
miglia, e in un regime di grande auto-determinazione creativa.
Nelle definizioni sociologiche correnti, il peer-group è formato da
individui appartenenti a classe di età identica o simile e che hanno
uno stesso status sociale. Nel caso del gruppo di pari associabile
agli studenti del liceo artistico di Pescara, per arrivare alla relazione
tra Pazienza e Liberatore occorre passare per alcuni sotto-gruppi, in
primo luogo la nicchia che risiedeva presso il Convitto dei Gesuiti.
L’immaginario che avvolge i ricordi di Liberatore sembra una paro-
dia de I turbamenti del giovane Törless di Robert Musil:

“In tutto eravamo una trentina di ragazzi, dunque io e Andrea ci sia-


mo frequentati per forza durante l’anno che lui ha passato in collegio,
prima che se ne andasse a stare in una pensione. Erano sì gesuiti, ma
non di quelli terribili: eravamo abbastanza liberi, specie quelli che an-
davano bene a scuola, non c’era disciplina ferrea. Andrea era un ragaz-
zino molto vispo e intelligente, e pure un po’ rompicoglioni, che faceva
stronzate come mettere il dentifricio in tutti i letti tranne il mio, quello
di un altro e il suo, per sviare le indagini. Ti veniva a spiare quando
facevi la doccia, si metteva lì nascosto e ti guardava. Allora lo prende-
vamo, gli chiedevamo: «Che facevi dentro la doccia?» Una volta, dopo
che l’abbiamo sorpreso a fare qualche cazzata, l’abbiamo legato al let-
Bussole, apprendistati, sodalizi 161

to, gli abbiamo dato un sacco di schiaffi e messo il carboncino in faccia.


«La smetti?» gli dicevamo. «La smetto, la smetto» faceva lui, e dopo
cinque minuti era di nuovo lì a sfottere, a fare «ciao ciao».”70

L’abbandono del convitto per la pensione da parte di Pazienza, più


giovane di Liberatore di tre anni (quindi frequentante altra classe del
liceo) implicò una rarefazione delle occasioni d’incontro. Ci fu co-
munque tempo, ricorda Liberatore, per disegnare una storia insieme:
“Era un albo tratto dall’Inferno di Dante, lui metteva i preti nei peg-
giori posti dei gironi, ma purtroppo è andato perduto”71. La relazione
riprese qualche anno dopo, nel 1977, quando Pazienza pubblicò su
«Alter Alter» una narrazione incentrata sulla descrizione di armi,
che fu anche il titolo della storia72. Liberatore, all’epoca iscritto alla
facoltà di Architettura di Roma, rimase colpito dal lavoro e contattò
Pazienza, il quale lo introdusse ai soci dell’impresa in fieri di «Can-
nibale», Stefano Tamburini, Filippo Scòzzari e Massimo Mattioli. A
quest’ultimo Liberatore fece vedere i propri lavori, che convinsero
sia Mattioli sia il resto del gruppo. In particolare Tamburini rimase
impressionato da come Liberatore disegnava i musicisti.

Andai all’appuntamento e lì incontrai Andrea assieme ai due fonda-


tori di «Cannibale», Massimo Mattioli e Stefano Tamburini, che era
un po’ il leader del gruppo (l’unico assente era Filippo Scòzzari, che
per qualche motivo era rimasto a Bologna). Io mi ero portato appresso
un po’ di disegni e glieli mostrai. Tamburini se li studiò ma lì per lì
non sembrò impressionarsi granché. Poi tirai fuori una serie di tavole
coi ritratti dei miei musicisti preferiti: Brian Eno, Robert Wyatt, Frank

70 Testimonianza resa in Giubilei F. (2005), Vita da Paz. Storia e storie di Andrea


Pazienza, Odoya, Città di Castello (PG), 2016, pp. 54-55.
71 Testimonianza resa in Giubilei F., op. cit., p. 55. Su questo stesso episodio vi è
una versione leggermente diversa in un’altra testimonianza resa da Liberatore,
dove il disegnatore racconta: “A quei tempi, Andrea disegnò la Divina Comme-
dia: io e un altro ragazzo eravamo Virgilio e Dante, e tutti gli altri, specialmente
i preti, erano messi nei gironi più terribili dell’inferno”. Cfr. https://www.wired.
it/play/fumetti/2016/05/20/tanino-liberatore-ricordo-andrea-pazienza/
72 Pazienza A. (1977), Armi, in Pazienza A., Tutto Pazienza. Allegro con fuoco.
Storie 1977-1979, vol. 6, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016, pp. 21-28.
162 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Zappa. Tamburini saltò letteralmente sulla sedia. “Eh?!”, fece lui, “ma
questi sono i miei musicisti preferiti!”.73

La collaborazione tra Tamburini e Liberatore sfociò in seguito


nella realizzazione di Ranxerox, il coatto sintetico abitante al tren-
tesimo livello di una Roma futura, tecnologica e violenta, esalta-
ta dalla lavorazione pop-michelangiolesca di Liberatore. Pazienza
contribuì alla definizione grafica del protagonista, e disegnò di suo
pugno per «Cannibale» anche la prima versione della pre-puberale
partner di Ranxerox, Lubna: quando le storie di Ranxerox trasmi-
grarono sulle pagine patinate di «Frigidaire», Liberatore si attenne
alla caratterizzazione data da Pazienza. Liberatore poche stagioni
più tardi si stabilì a Parigi, e da allora i rapporti tra i due compa-
gni ridivennero poco frequenti. A testimonianza dell’ammirazione
di Pazienza nei confronti di Liberatore (certamente ricambiata) re-
sta la delirante Leggenda di Italianino Liberatore74, che Pazienza
disegnò per «Frizzer» nel 1985 e riprese per «Tempi supplementa-
ri» nel 1986. Si tratta di un divertissement demenziale, sorretto da
un’illuminazione neo-dadaista: lo scambio tra Italia e Francia che ha
per oggetto il disegnatore Italianino Liberatore e il giocatore Michel
Platini. La Francia si è privata di Platini finito alla Juventus: l’Ita-
lia dovrà privarsi di Liberatore (effettivamente trasferitosi a Parigi
nel frattempo, come sappiamo). È un omaggio pieno di sub-episodi
specialistici, come la presa in giro di Tamburini, caratterialmente
sensibile alle critiche e infastidito dalle imprecisioni giornalistiche,
colto in un momento di indignazione nello scoprire che è stato citato
il suo nome come sceneggiatore di Ranxerox, ma solo tra parentesi.
Pazienza dipinge Liberatore come un inselvatichito tamarro dell’ar-
te, gran bestemmiatore, attratto dalla tossicità, ma la storia, troppo
sconclusionata75 per appartenere alla sua produzione più memorabi-
le, resta un omaggio davvero singolare tributato a un amico.

73 Intervista a Tanino Liberatore di Valerio Mattioli, su X-L Repubblica, 5/10/2012,


cfr. http://xl.repubblica.it/articoli/812/812/?refresh_ce
74 In Pazienza A., Tutto Pazienza. Lo specchio dei tempi. Storie 1985-1987, vol.
10, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016, pp. 19-71.
75 Oltre alle bizzarrie della sceneggiatura, c’è da registrare anche la sub-vicenda di
alcune tavole perdute da Pazienza prima della consegna, fatto di cui l’artista si
lamentò con enfasi nel prosieguo narrativo. Ritrovate le tavole, le re-inserì nella
Bussole, apprendistati, sodalizi 163

Liberatore riteneva Pazienza un artista tecnicamente super-dotato


e senz’altro geniale:

Io penso che sia stato uno dei più grandi disegnatori degli ultimi
cinquant’anni: al di là dell’autore, parlo proprio della tecnica come di-
segno. Un tipo che disegnava come lui, soltanto col pennarello diretto,
senza matita, significa veramente che era talmente lucido nelle sue cose
che le sue mani funzionavano rispetto alla sua testa. Spesso invece in
me la mano prende il sopravvento sulla testa, e questa è la differenza fra
un disegnatore e un autore.76

Nella primavera del 1976 Filippo Scòzzari, Gianpietro Huber


(fondatore dei Gaznevada) e Dadi Mariotti (una delle fondatrici di
Radio Alice) occuparono un appartamento in uno stabile (occupato)
nel centro di Bologna, in via Clavature 20. Scòzzari chiamò il posto
Traumfabrik, la fabbrica dei sogni. Divenne un luogo leggendario
per l’immaginario bolognese, precursore dell’accelerazione del ’77:
una postazione privilegiata per osservare dall’interno varie mutazio-
ni del mondo giovanile, comprese le transizioni dalla sinistra extra-
parlamentare all’Autonomia, dal mondo freak a quello indiano me-
tropolitano, dal rock degli anni ’70 alla scena punk americana e poi
inglese. Nella Traumfabrik si praticavano varie discipline, ispiran-
dosi a modelli nobili come il Bauhaus o la Factory di Andy Warhol:
l’esordio col fumetto e la grafica, poi la musica e le azioni perfor-
mative. Circolava un certo numero di droghe, e le frequentazioni
erano assidue, favorite dalla vicinanza di piazza Maggiore, dove si
riversavano centinaia di giovani per incontrarsi. Un pomeriggio di
aprile del 1977 Andrea Pazienza bussò alla porta della Traumfabrik
chiedendo di parlare con Scòzzari. “Si presentò in casa mia con ‘sta
risma di carta, era aprile-maggio del 1977. Gliel’avevano descritta
come un casino pazzesco, il che l’aveva intrigato” – racconta Scòz-
zari77. Da allora Pazienza, come sottolineato da lui stesso, passerà

storia, che nel frattempo era stata però modificata, rendendo sempre più compli-
cata e surreale la vicenda di Italianino Liberatore.
76 Cfr. Giubilei F., op. cit., p. 57.
77 Ivi, p. 120.
164 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

molto tempo al numero 20 di via Clavature, fino a metà 1978, quan-


do la Traumfabrik “è stata sbaraccata”78.
Secondo Giorgio Lavagna, fondatore e cantante dei Gaznevada,
Pazienza si trovò in un posto equamente diviso tra fumettari (la re-
dazione di «Cannibale», grazie agli spostamenti di Tamburini, era
mobile, e quindi anche temporaneamente bolognese) e i Gaznevada,
una band di rock new wave. “Andrea apparteneva al primo gruppo,
io al secondo. Tra le due bande della Traum esisteva una strana ten-
sione. I fumettari invidiavano noi rocker e, viceversa, noi musicisti
invidiavamo disperatamente loro.” I primi approcci non furono feli-
ci: “La prima volta che lo vidi, Andrea Pazienza mi fece un’impres-
sione pessima. Non era cool come noi. Lui… rideva. E poi cercava
di fare il simpatico, l’espansivo.”
Anche Scòzzari diffidava degli artisti estroversi, e Pazienza lo era
fin troppo.
Però Scòzzari qualche mese prima aveva potuto vedere da Fulvia
Serra, allora caporedattrice di Linus, gli originali a colori di Armi, un
insieme di illustrazioni con didascalia che lo impressionò molto (era
successa la stessa cosa anche a Tanino Liberatore, come sappiamo).
Passò quindi sopra alle notevoli differenze nello stile di vita (a quan-
to pare Pazienza proprio in via Clavature ebbe le prime esperienze
con l’eroina, disapprovate da Scòzzari), e accettò una particolare
forma di sodalizio incazzoso, che durò nel tempo e attraversò la vita
di almeno tre riviste: «Cannibale», «il Male», «Frigidaire».
Scòzzari aveva precedentemente conosciuto Tamburini a un’as-
semblea dell’Autonomia nella redazione di «Rosso» a Milano79.
Avevano parlato fittamente, soprattutto di riviste e di fumetti. In
seguito, Tamburini fu uno dei pochi a rispondere alla chiamata di
Scòzzari dai microfoni di Radio Alice per creare un’organizzazione
indipendente dei fumettisti, almeno per quelli stufi come lui di un
lungo precariato nel sottobosco delle riviste. Scòzzari è del 1946,
dieci anni più di Pazienza e nove più di Tamburini, una differenza
che talvolta sfavorisce i sodalizi: tuttavia l’intesa si stabilì per un
comune disporsi di competenze e di esperienze diverse allo scopo di

78 Ivi, p. 98.
79 Cfr. Tamburini, S., Muscoli e forbici, Coconino Press, Roma, 2017, p. 8.
Bussole, apprendistati, sodalizi 165

assemblare approcci nuovi e rivoluzionari, in continuità fraudolenta


con gli anni ’20 delle avanguardie, come segnalato dal titolo della
rivista che riunì tutti loro (Tamburini, Scòzzari, Pazienza, Mattioli
e, poco dopo, Liberatore), «Cannibale». La prima uscita ebbe la di-
citura di numero 3, perché il gruppo romano-bolognese si annetteva
i primi due numeri curati dal dadaista Francis Picabia (1879-1953)
nel lontano 1920 parigino.
Naturalmente nel gruppo coesistevano visioni personali dell’ar-
te e del fumetto, e le valutazioni di ciascun autore avevano il loro
peso, anche critico, sul lavoro degli altri. A volte la competizione
tra i talentosi giovanotti sembrava addirittura prevalere sull’impresa
comune. Non però fino al punto di incrinare l’adesione di fondo a
un’idea di trasformazione completa della creazione a fumetti. Sinte-
tizza con enfasi Scòzzari:

Con me e Andrea è iniziato il nuovo fumetto italiano. Quando ab-


biamo cominciato c’erano Tex, Kriminal e Satanik, Andrea invece ha
raccontato la realtà, con lui la realtà irrompe nel fumetto italiano, con
il tipo che si impenna in motorino, la metropoli e tutto il resto. Va an-
che precisato che per Andrea «politica» è una parola sbagliata, la cosa
semplicemente non si poneva: lui faceva politica per il fatto di aver
cambiato l’estetica di una generazione.80

Nelle pieghe della relazione collettiva, quella tra Pazienza e Scòz-


zari infila una strada che è stata percorsa narrativamente nell’Ama-
deus di Forman. “Indovina chi era Salieri e chi Mozart: io portavo
la pesantezza, lui la leggerezza” – ha dichiarato Scòzzari con una
certa dose di autoironia81. L’ammirazione di quest’ultimo nei con-
fronti della tecnica e della velocità di esecuzione di Pazienza è certa,
ma la relazione non fu a senso unico: Scòzzari aveva, a dispetto di
un carattere puntuto, una notevole propensione allo studio sistema-
tico delle creazioni che lo interessavano, e si era progressivamente
impossessato di materiali all’epoca poco noti in Italia, come le sto-
rie dell’underground americano, “da Corben a Shelton, da Crumb a

80 Cfr. Giubilei F., op. cit., p. 121.


81 Ivi, p. 120.
166 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Moscoso”82, oppure le messe in pagina del grande cartoonist Will


Eisner83 o ancora la saga dei paperi di Carl Barks (non un generico
Disney: proprio le storie di Barks)84. Importante anche lo studio dei
super-eroi Marvel, che gli suggerisce nuove strategie per l’impagi-
nazione e la tenuta dei balloon:
“Piuttosto, dal punto di vista invece del linguaggio dei fumetti,
della mise en page, altri begli esempi mi vennero dall’odiatissima
Marvel; metteva al mondo personaggi ridicoli per tredicenni stupi-
di, che non ho mai sopportato, ma alcuni loro suggerimenti formali
erano interessanti, per esempio la loro mania per vignette con ton-
nellate di balloon a cascata; non erano solo un pretesto calligrafico
ma nell’economia della storia avevano un’utilità intrinseca, affasci-
nante. Soprattutto mi colpiva perché era una cosa nuova. Gli ameri-
cani, una volta di più, riuscivano a essere maestri nell’arte che hanno
inventato, persino in questi particolari.”85
I balloon a cascata di Scòzzari saranno notati da Pazienza e da
questi utilizzati in molte vignette. Lo scambio prendeva forma anche
così, osservandosi, rileggendosi e imitandosi. Scòzzari usò l’espres-
sione studenlinquenti nel sorprendente racconto fantascientifico di
ambientazione bolognese Un buon impiego («Alter Alter», 1978):
la crasi piacque a Stefano Tamburini, il quale chiese a Scòzzari il
permesso di usarlo nel primo episodio di Ranxerox. D’altronde
in quel primo episodio aveva messo i pennarelli anche Pazienza,
migliorando alcune tavole di Tamburini, che in seguito chiese e
ottenne la collaborazione fissa ai disegni di Tanino Liberatore,
fornendogli testi e storyboard.

82 Cfr. Matteo Tonon, Intervista a Filippo Scòzzari, in Fumettologi-


ca, consultata il 18/3/2014, http://www.fumettologica.it/2014/03/
fumetto-intervista-filippo-Scòzzari-frigidaire-parte-1/
83 Wiiliam Erwin Eisner (1917-2005), uno dei più importanti cartoonist di tutti i
tempi, autore di The Spirit (1940).
84 Punta di diamante degli autori Disney, è noto anche come “l’uomo dei paperi”
(1901-2000).
85 Cfr. Matteo Tonon, Intervista a Filippo Scòzzari, in Fumettologi-
ca, consultata il 18/3/2014, http://www.fumettologica.it/2014/03/
fumetto-intervista-filippo-Scòzzari-frigidaire-parte-1/
Bussole, apprendistati, sodalizi 167

Stefano Tamburini non aveva avuto una formazione artistica sco-


lastica. Di famiglia modesta (il padre era ferroviere), si diplomò al
liceo classico, si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia e si im-
merse nella scena underground romana. Di gusti estetici radicali e
molto aggiornato (musica, fumetti, grafica, cinema), seppe mettere
a frutto diverse collaborazioni grafiche e redazionali, tra cui un’e-
sperienze con Stampa Alternativa, una mini-factory editoriale impe-
gnata, tra le altre cose, al lancio di produzioni d’atmosfera affine a
quella dei grandi autori dell’underground americano, Robert Crumb,
Gilbert Shelton e Greg Irons, punto di riferimento di Tamburini. A
21 anni, Tamburini è dentro le dinamiche del ’77 romano, collabora
a «Zut», una rivista neo-situazionista parte in causa delle turbolenze
alla Sapienza e dello spirito, irridente e innovativo, che proviene
dal Movimento. Ha in mente da tempo il progetto di «Cannibale»,
che in effetti compare in edicola nel maggio 1977 (il già ricordato
n. 3 di dadaista memoria). Sono con lui Massimo Mattioli e Marco
D’Alessandro.
Tamburini ha grandi capacità di lavoro ed è energico: quando la
piccola impresa si ingrandisce con l’arrivo di Scòzzari, Pazienza e
Liberatore, ha lui in mano il timone grafico della rivista e una sorta
di leadership operativa del gruppo. Legherà soprattutto con Andrea
Pazienza: oltre a interi mondi di riferimenti culturali comuni o da
scambiarsi (sono entrambi rapidissimi a tesaurizzare gli stimoli), en-
trambi fanno uso di eroina (che hanno iniziato a usare proprio nella
primavera del ’77). La collaborazione diventa sodalizio già nel lavo-
ro di «Cannibale», impresa coraggiosa e rivoluzionaria dal punto di
vista della storia dei fumetti e delle tendenze estetiche generali, an-
che se non proficua economicamente. Pur finendo sotto l’ala protet-
tiva del vendutissimo «il Male», alle cui vicende redazionali Pazien-
za e Scòzzari parteciperanno attivamente, «Cannibale» continuava a
perdere soldi, e fu chiuso nell’estate del 1979. Nei mesi successivi
Tamburini viaggiò negli Stati Uniti, con l’obiettivo di raccogliere
stimoli ed esempi di innovazione grafica e visiva, senza trascurare
il motore dei consumi e dell’immaginario giovanile dell’epoca, cioè
la musica, colta nel passaggio dal punk alla new wave. A New York
si incontrò con Vincenzo Sparagna, uno dei leader de «il Male»,
disponibile a una nuova impresa editoriale. La testata prese forma
168 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

rapidamente nella mente di Tamburini, e, in seguito ad accalorate


discussioni con Filippo Scòzzari, a sua volta tornato da un soggiorno
(in Francia) ed entusiasta del mensile di reportage «Actuel», le sug-
gestioni grafico-fumettistiche e le istanze di un giornalismo rivolto
all’estremo si compenetrarono nel progetto di «Frigidaire». Non vi
è qui lo spazio per ripercorrere le vicende di quell’importante men-
sile, dentro cui un bel numero di cervelli si impegnò o transitò. Ciò
che ancora oggi colpisce è la fantastica ipermodernità dell’oggetto
grafico creato da Stefano Tamburini, dentro cui si accomodarono
olimpicamente sia le nuove narrazioni zanardesche di Pazienza sia
gli sketch anti-disneyani di Mattioli sia le complesse sceneggiature
di Scòzzari, inframezzate da servizi giornalistici ficcanti e inaspetta-
ti, corredati da fotografie in grande formato o a volte illustrati da una
delle grandi firme della rivista. «Frigidaire» è anche naturalmente
l’ecosistema perfetto per gli affreschi metropolitani di Liberatore e
per le intelligenti manipolazioni testuali di Tamburini. L’artista ro-
mano aveva creato un habitat perfetto per le produzioni di tutti, con-
sentendo una regia editoriale che puntava contemporaneamente sul
lusso della confezione e della carta, sull’esplosione della nuova arte
contemporanea a fumetti e sulla radicalità dei contenuti testuali.
Meno dotato di altri nel disegno, Tamburini preferì comporre, e
per farlo si servì di tutto, naturalmente anche delle matite e dei pen-
narelli, ma usò in realtà soprattutto cartoncini e fotografie, vecchie
illustrazioni, macchine fotocopiatrici per deformare l’immagine di
antichi fumetti, inducendo la visione di individui accelerati e dotati
di una propria scia iconica. “Geniale assemblatore di immagini”, lo
definì Pazienza86. Sul piano del costume, inventò personaggi solo te-
stuali, come lo spietato e corrosivo critico musicale Red Vinyle o lo
sperimentatore musicale Mongoholy-Nazy, di cui commercializzò
una cassetta-truffa. A Tamburini piaceva il surf sul molteplice, e pos-
sedeva un istinto molto affinato dall’underground verso la tendenza
in atto, di cui percepiva e anticipava le forme.
Tamburini e Pazienza anche per questi motivi, cioè per la continua
oscillazione degli stimoli creativi provenienti dall’uno o dell’altro,

86 Cfr. http://www.radioradicale.it/scheda/14002/14024-morte-di-stefano-tamburi-
ni, minuto 25:45.
Bussole, apprendistati, sodalizi 169

si frequentavano al di là delle riunioni redazionali e delle discussioni


sulle consegne, a Roma, a Bologna e anche a Montepulciano. A par-
tire dalla metà degli anni ’80 «Frigidaire» perse colpi, anche per una
improvvida interruzione dei contributi statali alla testata, in seguito
alla valutazione negativa della rivista da parte di una commissione
ministeriale disinformata e bacchettona.
Le relazioni tra i protagonisti di quella stagione finirono per allen-
tarsi, e ognuno prese direzioni proprie: Tamburini riscuoteva succes-
si internazionali crescenti grazie a Ranxerox, un personaggio che era
entrato nell’immaginario collettivo anche fuori dall’Italia, come te-
stimoniato dalla richiesta di Frank Zappa (idolo di Tamburini e Libe-
ratore) di potersi avvalere di una loro copertina per il disco The Man
from Utopia (1983), dove campeggia un Frank Zappa ranxerizzato.
Pazienza allargava le sue collaborazioni, frenetico e inappagato,
mentre Bologna gli diventava sempre più stretta e meditava la fuga,
che poi come sappiamo avvenne (Montepulciano, 1984). Scòzzari e
Sparagna cercavano di rilanciare il gioco collaborativo, ma soprat-
tutto il primo sembrava disilluso, e le risorse economiche scarseg-
giavano.
Tamburini morì di overdose a trent’anni, in un appartamento del
quartiere Trionfale di Roma, in aprile. La data esatta della morte non
è conosciuta. Il cadavere di Stefano venne rinvenuto alcuni giorni
dopo il decesso da Sparagna, Pazienza, e Vincino. Non si avevano
notizie di Tamburini da una ventina di giorni.
Circa una settimana dopo, il 29 aprile del 1986, Andrea Pazienza,
Filippo Scòzzari e Vincenzo Sparagna furono invitati dall’emittente
Teleroma 56 a parlare della scomparsa di Tamburini. Erano ancora
in evidente stato di choc, ma tentarono di organizzare un discorso.
Tra le altre, Pazienza disse queste parole:

Da un lato c’era la voglia di divertire, una serie di battute canzona-


torie, a volte molto provocatorie perché Stefano è stato sempre molto
provocatorio. (…) Da un lato quindi lui si è sempre mosso sul piano del
divertimento, e se vogliamo anche dell’evasione, anche di quella pura
e semplice, a volte lontana da… Forse, in un certo senso, Stefano non
voleva crescere, non so… Stefano comunque non era legato a nulla, a
nessun punto di vista politico: Stefano funzionava in modo assoluta-
mente autonomo. (…) Dall’altro lato c’era un discorso con la morte,
170 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

sempre aperto. In questo ci siamo trovati spesso vicini nei nostri schemi
di narrazione (parlo proprio per me e per Stefano). I nostri personaggi
sono spesso permeati da un sentore di morte. Lo stesso Ranxerox è
costruito in quel modo per avere la capacità di morire e risorgere, in
quanto essere meccanico. Nelle storie, Rankerox viene sabotato e muo-
re, viene investito da un camion e muore, viene decapitato e usato come
radiolina portatile stereo e anche lì muore e via di questo passo, fino
all’ultima avventura in cui praticamente Ranxerox si strappa il cuore
e lo offre al pubblico, all’umanità e a una donna nello specifico.(…)
Stefano è una persona che, in futuro, bisognerà cercare di ordinare, per
quella che è stata la sua opera e la sua produzione, in modo che non si
faccia riferimento solo a Ranxerox per definire il suo livello di geniali-
tà, ma andare a riscoprire tutte quelle cose, anche minimali, che lui era
capace di dare e che comunque avevano un’incidenza profonda sui suoi
risultati e anche in quelli delle nostre riunioni. (…) Ricordiamoci che il
vero genio non va monumentalizzato, ma va solo studiato.87

Condivido quest’ultimo monito di Andrea Pazienza tal punto da


aver scritto il libro che state leggendo.

87 Registrazione audio della trasmissione, reperibile su http://www.radioradicale.it/


scheda/14002/14024-morte-di-stefano-tamburini, da minuto 38:25.
CAPITOLO VII
ESSERE ANDREA PAZIENZA:
L’ARTE DEL FUGGIASCO E ALTRE
DEFINIZIONI DI UN GENIO DEL ’900

Seguire Andrea Pazienza nei reticoli delle sue frequentazioni pro-


fessionali e sociali è piuttosto complicato. Una volta chiarito che con
Tamburini, Liberatore e Scòzzari (e in parte con Mattioli) la relazio-
ne aveva dato vita a un sodalizio autentico, vitale e a tratti scompo-
sto (con i conseguenti diverbi a sfondo competitivo-meritocratico, a
volte risolti con una risata, a volte no1), non si possono ignorare le
mille forme attraverso cui si sprigionò il rapporto tra Pazienza e il
suo mondo sociale.
Ho cercato di tenermi lontano da qualsiasi mitizzazione dell’ar-
tista, studiando piuttosto anche la risonanza della sua opera e del
suo nome come indicatori dell’impatto sociologico della sua arte.
Nemmeno la numerosità e l’intensità dei contatti sociali di Pazienza
conduce quindi a un piccolo mito e a un’eccezionalità esistenziale,
quanto a una qualità insita nelle variegate tipologie in cui rientrava
il fumettista: giovane, artista, meridionale, di (estrema) sinistra, tra-
piantato al Nord, di origine piccolo (medio) borghese, professionista
riconosciuto eccellente nel suo settore creativo. In aggiunta, contrad-

1 Esistono numerose testimonianze, tra cui quella di Scòzzari nel suo Prima pagare
poi ricordare. Da «Cannibale» a «Frigidaire». Storia di un manipolo di ragazzi
geniali (Roma, Coniglio Editore, 2004), sul clima redazionale talvolta teso delle
redazioni delle riviste, soprattutto «Frigidaire», dove l’agonismo tra i talenti po-
teva lasciare a volte posto a liti e a rancori. Una chiave di lettura per storie come
Finzioni (su «Corto Maltese»1983, testi di Marcello D’Angelo) e La scuola (4
tavole su «Cannibale» n. 11, gennaio 1979), potrebbe essere fornita da un’esa-
sperazione narrativa costruita sulla base delle relazioni tra i giovani artisti. In
Finzioni emergono relazioni pericolose e quindi omicide all’interno di un gruppo
di giovani banditi, mentre in La scuola l’esperta sceneggiatura svela a poco a poco
che un duello tra due mercenari, nascosti l’uno all’altro da grandi rocce, cela in
realtà un duello tra migliori amici di un tempo.
172 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

distinto da stile di vita irregolare, tutt’altro che raro nella sua epoca
storica di espressione, seconda metà anni ’70 – seconda metà anni
’80. La sintesi di questi indicatori diede vita a un carattere contrad-
distinto da una certa estroversione sociale, prevalentemente guidata
da curiosità e istinto di condivisione. Una socialità estrosa che non
esclude un fitto sottobosco di osservazioni sulla vita sociale e poli-
tica, screziate anche da rifiuto, amarezza e indifferenza. Pazienza è
portatore di una filosofia prevalentemente nichilista, e tuttavia ca-
pace di spargerla nei suoi testi senza rimuginazioni e lamentazioni,
costruendo i dialoghi e i monologhi in modalità esperta e sofisticata.
Sull’eccellenza di Pazienza e sul suo straordinario “regalo del
disegno” molto è stato scritto ed è superfluo rimarcarlo per l’en-
nesima volta. La conseguenza della popolarità di Pazienza, prima
negli ambienti freak e dell’ultra-sinistra poi in un pubblico inter-
generazionale e in genere acculturato, fu un proliferare di contatti e
di momentanee collaborazioni, alcune foriere di un seguito amicale,
altre puramente professionali.
Fu questo il caso dei suoi rapporti con Federico Fellini, che gli
commissionò il manifesto de La città delle donne (1980). Dopo vari
bozzetti scartati, Pazienza propose la famosa tavola di una giovane
donna dai capelli strabordanti e magnetici, con uno sguardo poco
rassicurante avvolto nell’ombra. Fellini accettò, ma a quanto pare
non era soddisfatto, e Pazienza nemmeno.
Il mondo dei fumetti stava comunque stretto a Pazienza, che legò
più con alcuni irregolari attivi in vari settori artistici e comunica-
tivi che non con i mostri sacri del pennino e del pennarello. Tra i
fumettisti più noti e importanti della scena italiana, chi ebbe una
relazione speciale con l’artista fu Milo Manara, che ne riconobbe
subito la grandezza, individuando un problema specifico nel modo
di produrre arte da parte di Pazienza, probabilmente centrale anche
per spiegarne la propensione al consumo di oppiacei:

Io penso che essere così mostruosamente forti, efficaci, potenti nel


disegno come era Andrea, comportasse in realtà un dispendio psichico
notevole, nonostante l’apparente facilità con cui disegnava. Che do-
vesse avere una concentrazione veramente formidabile, proprio come
un laser, ecco. Che avesse questo coefficiente di extraterrestre è sicuro,
Essere Andrea Pazienza 173

sembrava uno assistito dall’alto, sembrava che qualcuno gli suggerisse


come disegnare. Io ho visto all’opera anche altri grandissimi disegna-
tori, come Moebius, che è anche un mio grande amico, e anche lui ha
questa capacità sorprendente di improvvisare un disegno, però tende
a restare sempre abbastanza Moebius, invece Andrea poteva cambiare
registro nella stessa pagina, nella stessa vignetta, e questo penso fosse
mentalmente faticoso.2

Manara spiega anche con grande efficacia la caratteristica princi-


pale dell’arte di Pazienza:

In Andrea c’è la facilità, mozartiana direi, di passare da un registro


all’altro: dalla comicità – e ti faceva veramente ridere quando voleva
farti ridere – alla tragedia e alla disperazione, a volte nella stessa pa-
gina. E tutto questo lo faceva cambiando, assolutamente senza preoc-
cupazione, registro, stile, grafia, strumenti di disegno, passando da un
pennarellone enorme mezzo consumato a un segno sottilissimo appunto
nella stessa pagina o nello stesso disegno, fregandosene altamente della
coerenza stilistica, e puntando solo all’espressività del segno. (…) Pas-
sando da una vignetta all’altra, si vede che è sempre lo stesso autore,
ma è completamente differente il segno: prima fa la nuvoletta e i nasoni
caricaturali, poi però subito dopo cambia stile, è l’espressionismo più
assoluto, perché riusciva a penetrare nell’anima dei personaggi con po-
che cose. Lui attinge proprio da chiunque, contemporaneamente da Ca-
ravaggio oppure dalla fotografia, con segni immediati e semplicissimi.
Sul piano stilistico la sua caratteristica era proprio questa: fregarsene
dello stile.3

Questa considerazione dell’arte di Pazienza non resta lettera mor-


ta: come racconta ancora Manara, ci sono stati dei risvolti operativi
nella loro relazione, poco importa se non sempre andati a buon fine.
Ciò che importa è che la socialità di Pazienza era spesso operativa,
e l’artista tendeva a proporre o a partecipare a imprese collettive,
mescolando flussi produttivi e affinità culturali:

2 In Giubilei F. (2005), Vita da Paz. Storia e storie di Andrea Pazienza, Odoya,


Città di Castello (PG), 2016, pp. 207-208.
3 Ivi, p. 202.
174 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Con Andrea abbiamo fatto una mostra insieme a Verona e poi fonda-
to il mensile «Corto Maltese», che inizialmente era nato come una co-
operativa di Hugo Pratt, me e Andrea. Li nomino in ordine decrescente
di età perché era questa l’idea di Pratt che ci disse: «Io prendo i lettori
di una certa età, tu prendi quelli di mezzo e Andrea prende i giovani», e
così abbiamo fatto questa cooperativa, una società. Dopo però si è inse-
rita la Milano Libri-Rizzoli e ha fatto un’offerta che Pratt non ha potuto
rifiutare, non ha voluto rifiutare, perché altrimenti avremmo dovuto fare
tutto noi, lavorare per i primi tempi senza retribuzione.4

Il tasto economico, evocato da Manara, ha una sua importanza, e


non solo nell’occasione della nascita di «Corto Maltese». La dimen-
sione culturale in cui si presenta il problema del denaro e delle retri-
buzioni non è identico per tutte le generazioni artistiche: per quella
di Pazienza c’è da mettere in conto uno scacchiere più composito
della contrattazione lavoratore-impresa o artista-committente. Se
per un lungo periodo i pagamenti del mondo editoriale ruotante sul
fumetto erano stati calmierati e non si notavano troppe differenze
negli onorari dei collaboratori, con l’avvento del fumetto d’autore
le cose cambiarono. Da un lato spingendo i fumettisti più venduti e
stimati ad alzare le proprie richieste. Dall’altro, tenendo conto che
una gran parte dei disegnatori e degli sceneggiatori venivano dal
mondo della sinistra e, soprattutto, dalla galassia extraparlamentare,
vi era una forte propensione ad affrancarsi dall’editoria tradizionale
e a dare vita a imprese collettive e cooperative. Questi due atteggia-
menti si incrociarono pericolosamente sia quando il successo fu di
critica ma non di pubblico (è il caso di «Cannibale»), sia quando il
successo fu esplosivo ma ci furono problemi di ordine pubblico (è
il caso del pluri-venduto e pluri-sequestrato «il Male»), sia quando
critica e pubblico parvero mettersi d’accordo (è il caso di «Frigi-
daire»). In tutti e tre i casi il talento editoriale non fu accompagnato
da acume imprenditoriale, e le imprese fallirono o scemarono con
l’ovvio corollario di una dispersione dei gruppi creativi. Pazienza
fu forse il più leggero dei soci nell’atto di aprirsi a collaborazio-
ni nuove e fuori asse rispetto all’empito avanguardistico del grup-
po iniziale. Quasi leggiadro nel disimpegnarsi e ripartire, Pazienza

4 Ivi, pp. 199-200.


Essere Andrea Pazienza 175

ebbe una socialità conseguente alle sue stazioni principali: Bologna,


Milano, Roma, Montepulciano. In ognuna delle realtà ebbe amici e
sodali ben al di là della nicchia del fumetto, che pure frequentava in
vari modi. Pazienza è studente universitario a Bologna quando gli
ambienti dell’autonomia creativa inventano Radio Alice e A/traver-
so, animati da persone inquiete e iperattive come Giancarlo Vitali
e Franco Berardi. La scena musicale è dominata dal punk-rock de-
menziale degli Skiantos di Freak Antoni e dei Gaznevada. Pazienza
ha contatti con questi mondi, tuttavia mano a mano che il suo nome
diventa noto i suoi habitat iniziali sfioriscono o risultano sghembi
rispetto ai ritmi produttivi di un artista molto richiesto, e che tuttavia
non vuole rinunciare a uno stile di vita rischioso. In questa rifrazio-
ne vagamente allucinata, Pazienza entra in confidenza con persone
più esperte, come Stefano Benni, o semi-coetanee, come Renato De
Maria. Il trasporto nell’amicizia con il pittore Marcello Jori è spie-
gato da alcuni con l’attrazione di Pazienza per il mondo dell’arte
contemporanea, pur rifiutato dopo la stagione pescarese e tuttavia
non negato per sporadiche escursioni. In realtà, tra giovani artisti
di quella stagione non erano rare le affinità estetiche e culturali, an-
che una volta passata l’atmosfera ribelle indotta dal Movimento, e
non era raro che queste relazioni influissero anche sulle opere degli
artisti coinvolti nella relazione, che diventava elettrica e ad alto vol-
taggio emotivo, perché la mescolanza tra il piano creativo e quello
esistenziale continuava a dar vita a una forma sociale ereditata (e in
parte scimmiottata) dalle avanguardie.
A Milano il giro di riferimento è quello della redazione di «Linus»
e «Alter», anche se, nel periodo di Pentothal, qualche volta Pazienza
si fa vedere nel più alternativo «Macondo», il chill-out post-politico
creato da Mauro Rostagno e poi chiuso dopo un’irruzione polizie-
sca, durante la quale si era scoperto qualche spinello in giro.
Oreste Del Buono, il noto intellettuale e saggista direttore di «Li-
nus», non era presente al leggendario ingresso di Pazienza nella casa
editrice con la cartella di Pentothal sottobraccio, eppure fu lui a
scorgere nell’artista un cantore perfetto per quell’epoca di turbolen-
ze sociali a epicentro giovanile, e ne interpretò più volte i lavori an-
che in chiave di critica verso l’atteggiamento sulle culture giovanili
proveniente dal suo stesso partito, il Partito comunista italiano. Del
176 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Buono fu uno degli intellettuali comunisti con cui Pazienza stabilì


una conversazione, seppure in modo non lineare. Per il resto, soprat-
tutto nei paraggi del ’77, ci fu una forte antipatia verso il Pci e la
sua Federazione giovanile. I giovani comunisti usarono una famosa
tavola di Pentothal (quella dove il protagonista guarda i disordini
urbani infilato in un loden) per illustrare un servizio su Bologna a
qualche mese di distanza dai noti fatti del marzo 1977. All’artista la
cosa non andò giù e se ne lamentò in una lettera alla caporedattrice
di «Linus» Fulvia Serra, e che fu poi resa pubblica, perché ad essa ri-
spose direttamente sul mensile Oreste Del Buono, schierandosi dalla
parte di Pazienza. Questo il testo della lettera:

Cara Fulvia,
come sai qui a Bologna l’aria è sempre più stretta. Il clima sem-
pre più inquietante: siamo sul filo sottile del delirio. Sembra che tutti
noi che viviamo in questa città assediata, da assediati, non paghiamo
abbastanza, mai. E così «La città futura», il settimanale dei giovani
berlingueristi, esce nel numero 9 con un servizio su Bologna (La città
presente).
Non è un servizio sensazionale: da mesi in prima fila questi nostri
coetanei con la testa sulle spalle plaudono, incitano, promuovono e
collaborano a reticolare Bologna, ricordandoci settimanalmente la città
futura, ammannendoci settimanalmente la città futura.
Non è un servizio sensazionale: anche questa volta il diavolo rivive
nella rievocazione delle giornate di marzo. Pubblicano una registrazio-
ne «inedita» di Radio Alice dove parlano voci del movimento, voci che
parlano di polizia armata e di compagni da difendere: sono le voci di
quei giorni, Francesco ucciso da qualche ora… ma i berlingueristi con
uso abile del contesto del neretto delle titolazioni (allievi prediletti di
Eco) confermano Alice è il diavolo, Bifo un seduttore, un agitatore, un
provocatore (ma ragazzi di questi tempi basta dire Bifo e hai detto tut-
to), i compagni del movimento cannibali, gli studenti stranieri la peste,
la malapianta da estirpare, gli autonomi potete immaginarlo.
Il complotto internazionale contro Bologna deve essere annientato,
non bastano compagni e amici in carcere da quattro mesi in 20 per cella,
non bastano i compagni e gli amici costretti a stare lontano da questo
immenso lager, non basta controllare, sequestrare, vietare, minaccia-
re, nevrotizzare, giustiziare, censurare, incarcerare, bisogna superare i
confini del reale, impedire ai giovani di stare seduti insieme a piazza
Essere Andrea Pazienza 177

Maggiore (perché Zangheri non la promuove Generale già che c’è), bi-
sogna rispedire ai regimi polizieschi tutti gli studenti stranieri e bisogna
fare presto.
Non è niente di eccezionale, lo sappiamo, i mostri si riproducono
all’infinito. Mi sono incazzato (mi vergogno di essermi stupito) perché
tutti quei discorsi stampati su piombo erano impaginati in maniera egre-
gia, e per come si dice alleggerirli, Adornato e gli altri hanno pensato
bene di schiaffare in alto a destra il mio amico Pentothal di aprile.
Non voglio commentare ancora, io credo che tu non li abbia auto-
rizzati, ne sono sicuro, e allora pretendo che si scusino, loro che sono
precisi, e che paghino, loro che non hanno mai pagato.
Io sto da un’altra parte. Che trovino tra le loro fila gli illustratori, gli
scrittori, i musicisti, i poeti, i cantori del compromesso storico, dei carri
armati, del lavoro, della Siberia. Ti saluto con molto affetto,
Andrea (che ha perso la pazienza).5

Una rivendicazione rabbiosa di alterità e di radicalità, declinata


in più forme e in più modi, che nel corso del tempo, sbolliti i furori
giovanili, prenderà in Pazienza la forma di un’osservazione critica
scanzonata e provocatoria del mondo comunista ufficiale, come nel
periodo in cui collaborò con «Tango», supplemento de «l’Unità».
Anche se diretto dal disegnatore umoristico Sergio Staino, «Tango»
era pur sempre inserito nel quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Pazienza partecipò con regolarità alle uscite del supplemento, e con
la nomenklatura del Pci non fu certo docile. D’altronde, nessuno
gliel’aveva chiesto: una specie di gioco delle parti.
La redazione di «Tango» era a Roma, così come a Roma erano
state la redazione di «Cannibale» e de «il Male». In questa, in parti-
colare, le sue relazioni si estesero alla generazione più vissuta della
sua, quella di Vincino, Sparagna, Pasquini, Lo Sardo, Angese, Peri-
ni, e altri. Pazienza, prima di dedicarsi alle relazioni dirette, stabilì
un rapporto con il gruppo nel suo insieme. Mi raccontò Piero Lo
Sardo, tra i redattori del settimanale e più tardi progettista culturale
di valore, che l’atmosfera de «il Male» era talmente anarchica che
le singole parti del giornale procedevano quasi autonomamente, ri-

5 Pubblicata in Pazienza A., Tutto Pazienza.Mi chiamo Andrea. Michele Vincenzo


Ciro, vol. 20, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016, p. 57.
178 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

congiungendosi magicamente nell’ultimo momento possibile prima


dell’andata in stampa, facendosi largo nel fumo di decine e decine
di sigarette legali e illegali e nei rumoreggiamenti di una ciurma
che non si percepiva proprietaria, pur essendolo. Pazienza, giunto
in quell’eccitante marasma dopo la precocissima investitura di Pen-
tothal e con una schiera di fan fricchettoni e post-punk che si era
procurato con «Cannibale», faticava a farsi conoscere e pochi lo ba-
davano. Allora si mise da una parte a disegnare come un forsennato
e sfornò – nemmeno Lo Sardo sapeva dire in quanto tempo, ma gli
parve pochissimo – un numero de il «Male» tutto suo, in un formato
microscopico. L’oggetto (ribattezzato «il Malino»6), che contene-
va caricature e sketch di ogni genere (anche il presidente Pertini fa
capolino in una gag demenziale), passò di mano in mano tra redat-
tori e collaboratori, strappando unanime consenso. Pazienza venne
praticamente arruolato sul campo. In seguito Vincino ricorderà con
nostalgia le molte nottate passate a disegnare con a fianco Pazienza:

Al Male io e Andrea stavamo fino all’alba in redazione a lavorare in-


sieme; vedevo sorgere, in una notte, tutta un’esplosione di colori da una
sceneggiatura solo abbozzata. Ricordo come faceva satira, lui cercava
di raccontare l’impressione che un politico gli dava, l’impressione, e
non una cosa precisa, perché la politica spicciola non gli interessava.7

Un sodalizio del tutto particolare ed estraneo a queste vicende


collettive Pazienza lo ebbe con Marcello D’Angelo, che compare
come sceneggiatore di alcune delle sue storie (persino di un sub-
episodio di Pentothal, intitolato Marcello D’Angelo è l’educatore, e
firmato “una storia di Pazienza & D’Angelo”, tavv. 96-113) e anche
come personaggio di finzione, come il caporalmaggiore omonimo
in Aficionados. D’Angelo era l’unica vera amicizia sopravvissuta
alle stagioni pre-bolognesi di Pazienza, con l’eccezione di Tanino
Liberatore (ma a lui precedente). Foggiano di San Severo, D’An-
gelo conobbe Pazienza nella pre-adolescenza, le cui stagioni estive

6 Cfr. Pazienza A., Tutto Pazienza. Pertini e la Prima Repubblica, vol. 4, Repub-
blica- L’Espresso, Roma, 2016, pp. 26-27.
7 In Farina R. (2005), I dolori del giovane Paz. Biografia a più voci di Andrea
Pazienza, Milieu edizioni, Milano, 2016, p. 101.
Essere Andrea Pazienza 179

trascorrevano a San Menaio, dove i genitori di Andrea avevano una


casa di villeggiatura. Qualche anno più tardi i due si conobbero me-
glio, a partire dal 1973, quando Andrea si approssimava alla fine del
liceo. Viaggiarono in quegli anni e soprattutto qualche anno dopo,
quando D’Angelo si rifece vivo a Bologna, nel 1976, e poi anche più
tardi, già dentro gli anni ’80.

Fra il 1982 e il 1983 ce ne andavamo in giro on the road con la


macchina scassata, la sua vecchia Renault, e un po’ di chincaglieria: le
mazze da kendo, qualche canna, un po’ di pesi, abiti essenziali. Il fatto
di raccontarci questi soggetti infarciti di zen e di vuoto interiore era
un modo per indagarsi. La sua disperazione era la mia, il nostro era un
viaggiare nel nulla. Nasce così la storia Il segno di una resa invincibile,
che era una sua frase creata perché si era reso conto che non sarebbe
andato da nessuna parte, pur rivendicando una sorta di invincibilità nel
fare la solita vita zigzagante.8

Anche in questa versione ipo-depressa e gironzolante, il sodalizio


centra il bersaglio produttivo: la storia di D’Angelo («Corto Mal-
tese», dicembre 1983), piuttosto diversa da quelle di Pentothal e di
Zanardi, già uscite da tempo, crea una piccola vertigine di malessere
nel lettore. Non per la tracotanza dell’azione violenta, come in Za-
nardi, o dell’illuminazione cattiva, come nel cagnolino squartato in
un incubo di Pentothal, ma per un’inspiegabile propensione morti-
fera che emana dalle lente gesta dei giovani protagonisti: in mezzo
a loro il dotatissimo fotografo Michele, dopo una stagione spumeg-
giante ma priva di favorevoli risvolti professionali (che anzi rifiuta),
viene notato in atteggiamenti di malcelato isolamento e sospettato
di organizzarsi il suicidio. Morirà invece per arresto cardiaco, forse
persino volontario.
Una strana atmosfera bucolica, inizialmente tutt’altro che buia,
avvolge le tavole di Pasqua («Alter Alter», aprile 1985, in tutto sette
tavole) dove si svolge una gara di tiro con l’arco tra due giovani,
uno dei quali, di gran lunga il più preciso, è su una sedia a rotelle.
L’altro è il cugino, arrivato a trovarlo in campagna con una ragazza:
è inquieto, poco comunicativo, sfuggente. Mentre il ragazzo disa-

8 In Giubilei F., op. cit., p. 157.


180 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

bile e la ragazza si appartano a vedere “le diapositive di Natale” in


casa, il terzo personaggio scompare. Lo ritroveranno impiccato a un
albero. Dal punto di vista narrativo, il sodalizio tra Pazienza e D’An-
gelo produce inquietudine in una forma narrativamente minimalista,
sorretta dalle inquadrature esperte di Pazienza e anche dalla sua cal-
ligrafia, un corsivo intimista ne Il segno di una resa invincibile e un
più sobrio stampatello maiuscolo in Pasqua. Per staccare il cadavere
dai rami in cui è impigliato, il protagonista paraplegico darà modo
a Pazienza di prodursi in una serie di fotogrammi tarzanidi, inecce-
pibili e angoscianti. Il suicida aveva però già predisposto tutto per
impedire al cugino e all’amica di chiedere soccorso: disattivato il te-
lefono, tagliate le gomme delle ruote dell’automobile. Il ragazzo sul-
la sedia a rotelle e la ragazza sono soli con il cadavere. Con immane
fatica, riescono a sistemarlo in salotto, vicino al camino. La prima
persona con cui riusciranno a comunicare sarà la cameriera, ma solo
l’indomani mattina alle sette. La notte è angosciante, la ragazza è
instabile e nervosa, sfibrata dalla freddezza del ragazzo disabile, che
ha fame, si nutre e poi si sposta a dormire, incurante delle paranoie
e degli insulti della ragazza. Il mattino seguente, alle sette, la came-
riera entra nella camera da letto del proprietario e si rivolge a lui con
queste parole, porgendogli una tazzina:

Ho fatto il caffè. Piano piano, per non svegliare il giovanotto che dor-
me di là (si riferisce al cadavere, nda)… Mò però devo scopare interra
(sic, nda). Che faccio, lo sveglio?

Un’altra storia con sceneggiatura di D’Angelo (soggetto di Isabel-


la Damiani) è Suite for Benka («Alter Alter», dicembre 1982). I di-
vertenti disegni pupazzeschi di Pazienza non alterano la devastante
indifferenza sentimentale di un pianista jazz eroinomane e alcolizza-
to per le attenzioni di una giovane donna divorata da un’inspiegabile
passione amorosa nei suoi confronti.
Anche raschiando il fondo di vicende turpi e malinconiche e rico-
prendole di cinismo minimalista, il sodalizio di Pazienza sperimenta
storie che contengono sofisticati depistaggi narrativi e finali enig-
matici, per poi lasciare che l’artista torni solitario all’istanza di una
scattante accelerazione “massimalista” (le storie di Zanardi, lo stes-
Essere Andrea Pazienza 181

so Astarte). D’altronde anche nelle storie di minimalismo perver-


so sceneggiate da Marcello D’Angelo Pazienza immette tavole che
restano impresse indelebilmente nella memoria del lettore, a partire
da alcune potenti illustrazioni de Il segno di una resa invincibile, in
particolare un ritratto del personaggio del talentuoso fotografo.

Dunque è ancora il segno di Pazienza che si impone, nelle im-


magini e di nuovo nei testi, riscuotendo consensi e mai lasciando
indifferenti i lettori. Si parla esplicitamente di genialità di Pazienza,
ben prima della sua pur precocissima morte.
La dolce mostruosità di Pazienza, la sublime anomalia dell’arti-
sta, consisteva in una assenza di ostacoli tra la sua immaginazione
e la sua capacità di rappresentarla in immagini e in parole. Ogni più
esagerata pulsione è stata disegnata e descritta da Pazienza, e così
anche la sensazione più placida e soddisfatta. Pazienza era capace
di dettagliare in segni l’espressione più complessa, e di sciogliere
l’enigma con poche e ricercate parole, in uno stato di persistente e
suntuosa naturalezza.
È questo il genio?
Dopo aver riferito di un incontro assai strampalato tra Hugo Pratt
e Andrea Pazienza, da lui considerati entrambi dei geni, Milo Mana-
ra passa a un ricordo più sottile e rivelatorio della questione:

(…) ma l’episodio a cui penso più spesso invece è una chiacchie-


rata che io e Andrea abbiamo avuto a Mestre, mi pare a una festa di
«Frigidaire», e mi ha impressionato, mi ha colpito quello che mi ha
detto perché era anche uno dei miei rovelli; diceva: “Io penso di avere
pochissimo tempo davanti a me per fare il mio capolavoro, per fare
quello che voglio fare, perché penso che a quarant’anni uno abbia già
detto tutto e non faccia altro che ripetere quello che ha detto”. Questa
era la sua convinzione, e io gli dicevo “No!”, e gli facevo l’esempio dei
due artisti più vicini: Fellini il suo capolavoro, che è senz’altro Otto
e mezzo, l’ha girato a quarant’anni, e Hugo Pratt che Una ballata del
mare salato l’ha disegnata a quarant’anni, appunto, quindi io sostenevo
che fino ai quarant’anni lui poteva continuare ad accelerare e andare in
salita come aveva sempre fatto. I quaranta casomai potevano rappre-
sentare il punto da cui lui avrebbe ripetuto le stesse cose, ma se poi uno
considera altri artisti come Tiziano, che ha continuato a inventare fino
182 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

agli ottanta… Oppure c’è il rovescio della medaglia: Caravaggio che


è morto a trentanove anni, Masaccio addirittura a ventisette, per cui sì
dipendeva dall’artista, ma quella conversazione mi è rimasta impressa
perché quello dei quarant’anni era anche uno dei miei crucci, delle mie
ossessioni. Pensavo anch’io che dai quaranta in poi uno non avrebbe
più potuto, solo che questo colloquio avveniva – fra noi c’era una deci-
na d’anni di differenza – quando lui era giovane e invece io avevo quasi
quarant’anni, appunto… Intanto credo di non averlo convinto, e dopo
credo di aver parlato più nel mio interesse che nel suo, dicendo queste
cose: ha fatto finta di credermi, e mi è sembrato sollevato perché era
una cosa che gli stava veramente a cuore, aveva una vera ossessione
per l’età, per l’essere il giovane genio. Non gli interessava forse tanto
essere un genio, quanto essere un genio giovanissimo. Forse per lui era
più importante l’età, ecco perché questo dialogo che abbiamo avuto è la
cosa che me lo ricorda di più.9

Milo Manara ci ha così aiutati ad andare più a fondo alla con-


cezione del genio privilegiata da Pazienza, rivelando non solo la
consapevolezza di Andrea della propria straordinarietà, ma anche
l’ossessione su un profilo di genio particolarissimo: il genio precoce.
La tentazione deduttiva è forte, e spingerebbe ad argomentare dal
piano generale per poi scendere al particolare: dal genio al genio
precoce. Vorrei invece tentare la strada opposta, approfondendo le
osservazioni di Manara. Innanzitutto: l’ossessione di Pazienza sul
poco tempo a disposizione per passare alla storia con la sua rivolu-
zione grafico-narrativo illumina su due componenti strutturali della
vita artistica contemporanea. Mi riferisco all’accelerazione costante
dei ritmi professionali e produttivi e all’aumento delle sollecitazioni
esperienziali ed emotive. Un terzo aspetto, la globalizzazione dei
mercati artistici e culturali, sta rivelando la sua importanza ai nostri
giorni, ma non ebbe una parte rilevante nella biografia di Pazienza.
La sua stessa lavorazione testuale si avvale del suo particolarissi-
mo gioco con l’italiano, difficile da tradurre in altre lingue: questo
fattore ha contribuito ad ostacolare una diffusione pienamente in-
ternazionale dei lavori dell’artista, anche se alcune storie sono state
accolte con favore nel mercato spagnolo e francese dei comics.

9 In Giubilei F., op. cit., p. 213.


Essere Andrea Pazienza 183

Può sembrare paradossale che Pazienza si descrivesse spesso


come un disegnatore indolente: in realtà, in soli dieci anni ha pro-
dotto un numero talmente significativo di opere da saturare scaffali
di librerie personali. Eppure, in accordo con il mood collettivo cri-
stallizzatosi nel ’77, si percepiva come un artista che disprezzava il
lavoro nella sua dimensione contrattuale e generatrice di obblighi.
La verità è che Pazienza lavorava sempre, nel senso che non c’è
ricordo di amico che non contempli prima o poi Andrea con in mano
la matita, la penna o il pennarello, immerso in un’alternanza di scom-
parsa e ricomparsa dalla realtà del foglio di carta, mentre la mano
sembrava in grado di rendersi autonoma dal contesto conversativo,
che continuava ad esistere indipendentemente da ciò che si compo-
neva nel foglio. Questo surplus di lavoro creativo, scaricatosi su chi
solo diciassettenne ebbe la prima esposizione personale di pittura,
agiva in Pazienza come traiettoria di fuga. La sistematicità ordina-
ta del lavoro grafico e letterario non era necessaria per accendere
le sue tavole di un’intensità che tutti riconoscono come precipua e
speciale: Pazienza si fa immaginare come un disegnatore sempre
in movimento, col tavolo da disegno appresso. Lui stesso provvede
a farsi indovinare in questa forma quando usa foglietti strappati a
quaderni altrui e ci rovescia sopra un capolavoro come Pompeo. Op-
pure quando disegna le vignette di «Tango» sulle ginocchia, mentre
l’amico Miorelli lo porta in stazione in automobile.
Errare, dunque, essere nomadi con il proprio genio incorporato,
essere in movimento per come è possibile a cavallo tra gli anni ’70
e gli anni ’80, con le cabine del telefono ancora strategiche per co-
municare, con compagni e amici senza quattrini, in case occupate, in
redazioni simpaticamente viziose, negli alberghetti, nei ritorni a casa
a San Severo e al mare di San Menaio.
Un’epoca, d’altronde, che chiuse i conti di diversi azzardi durati
un quindicennio, dalla metà degli anni ’60 alla fine degli anni ’70: si
tratta, detto altrimenti, della seconda metà del “trentennio glorioso”
(anni ’50, ’60 e ’70), caratterizzato da conflitti sociali, politici e cul-
turali che avevano segnato dei punti a favore dei diritti dei lavoratori
e dei cittadini. Il quindicennio tra il ’65 e l’80 aveva registrato l’e-
splosione della questione giovanile e femminile mentre il sindaca-
to otteneva aumenti salariali e contrattualizzava diritti inediti; dopo
184 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

l’eruzione movimentista del ’77 e le tetre geometrie terroristiche,


una fase di smarrimento acuto serpeggiò in molti gruppi sociali, sen-
timento presto sostituito da una galassia di emozioni ed istinti futu-
ristici, la cui base comune fu una sorta di ideologia della velocità.
A livello di massa ciò significò, per gli italiani, disporre del tele-
comando, che liberava per la prima volta le opzioni di consumo di
milioni di telespettatori e le indirizzava, com’è ovvio, verso chi si
era maggiormente preparato alla liberalizzazione dell’etere, e cioè
verso le aziende (e i programmi) di Berlusconi. Alle masse il brillio
dello zapping sui canali, alle élite colte e agli artisti (la “famigerata”
classe creativa di Jeremy Rifkin) i consumi vistosi e le suggestioni
metropolitane, la città che cresce fino a diventare megalopoli e città-
stato del futuro, dentro cui si accendono i mille impicci della vita
diurna di genti estranee e le luci artificiali e ipnotiche dell’altra vita,
quella notturna. Non solo: la metropoli è anche una rottura nell’equi-
librio di massa “pubblico/privato”.

Si può dire che si è passati dallo spazio pubblico all’immagine pub-


blica – scriveva nell’ormai lontano 1988 (lo stesso anno della morte di
Pazienza) l’urbanista francese Paul Virilio – La città secondo la tradi-
zione è sempre stata organizzata attorno a un luogo pubblico, attorno
all’agorà, al foro, alla piazza. A partire dal XX secolo saranno delle sale
di riunione a rimpiazzare tutto questo. Penso al ruolo del cinema nella
società di quarant’anni fa e, oggi, al ruolo della televisione. La città del-
le origini è una città in cui domina lo spazio pubblico, è una città topica,
mentre a partire dal XX secolo la città non è più tanto legata allo spazio
pubblico. Si passa dalla città-teatro alla cine-città e poi alla tele-città. Si
passa da uno spazio topico a uno spazio tele-topico, uno spazio in cui
il tempo reale della ritrasmissione di un evento si impone sullo spazio
reale dell’evento stesso.10

L’orizzonte espressivo di Pazienza si stabilì in questo contesto di


trasformazione dei luoghi della mentalità collettiva, mentre l’iper-
modernità cantata nella fantascienza degli anni precedenti stava
insediandosi nei luoghi di tutti attraverso il computer da scrivania.
Stava cambiando il tempo, stavano cambiando i luoghi.

10 Virilio P. (1988), La macchina che vede, Sugarco, Milano, 1989, p. 182.


Essere Andrea Pazienza 185

Pazienza racconta questo passaggio da una postazione inconsueta:


quella del soggetto che si fa personaggio. Tradotto nel linguaggio
del medium usato da Pazienza, l’artista entra nelle tavole a fumetti
esibendo se stesso (o comunque un proprio avatar) sulla carta, por-
tando a spasso i lettori in un multiverso spiazzante, letterariamente
e graficamente più intenso e visionario di quelli moebiusiani perché
costruito sui tasselli di un’identità sociale precisa (giovanile e uni-
versitaria) e perché capace di agire sul fronte demenziale della gag
e della situazione narrativa, grazie all’assimilazione neo-dadaista e
alla tendenza al polimorfismo stilistico, attraverso cui Pazienza ren-
de pubblici i comportamenti di settori minoritari ma vistosi della
gioventù. “Visible youth”, secondo l’espressione dell’antropologo
urbano Dick Hebdige, autore di un libro sulle sottoculture giovanili
che ebbe una discreta circolazione in quegli anni.11
La rivoluzione di Pazienza è innanzitutto una rivoluzione narci-
sistica: si esprime grazie all’abilità nel disegno, ma la prima for-
ma che il pennarello traccia è l’autore stesso; il personaggio che ne
consegue si muove modellato sul corpo e sulla mente di Pazienza.
L’artista si guarda, si studia, si rappresenta: è il proprio stesso campo
di esercitazioni, in un duello irriducibile a una semplice competizio-
ne, perché chi ordisce i complotti e le metamorfosi del segno è lo
stesso artista rappresentato, puparo della propria stessa commedia.
Ecco perché la giovinezza assume uno spessore così rilevante nella
poetica di Andrea Pazienza: il gioco della velocità ha una sua evi-
dente limitazione, come aveva capito Tamburini creando la lungimi-
rante striscia di Snake Agent, un vecchio fumetto americano trattato
alla fotocopiatrice in modo da far risultare anche visivamente acce-
lerate le sue mosse e i suoi movimenti. La limitazione della velocità
è il dispendio di energia creativa. Nei casi in oggetto (parlo quindi
anche di Tamburini), al dispendio di energia creativa corrisponde il
dispendio di energia vitale. Nel caso di Snake Agent, la velocità di
azione è così esasperata da lasciare nel lettore la sensazione di un
gioco a-logico, dove domina la pura presenza futuristica della super-
ficialità, punteggiata di paradossi e di sarcasmi.

11 Hebdige D. (1979), Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & No-
lan, Genova, 1982.
186 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Per il sociologo tedesco Hartmut Rosa parlare di velocità implica


ragionare su un movimento irresistibile di accelerazione, il cui mo-
tore culturale sarebbe la promessa di eternità. Grazie alla seguente
riflessione di Rosa siamo anche in grado di rimettere in circolazione
la complessa relazione tra vita, accelerazione e morte, presente come
costante nell’opera di Andrea Pazienza (e di Stefano Tamburini).

Gustare la vita in tutte le sue altezze e i suoi abissi è diventata l’a-


spirazione principale dell’uomo moderno. Ma alla fine il mondo ha
sfortunatamente molto più da offrire di quanto si possa sperimentare
in una singola esistenza. (…) L’accelerazione del ritmo di vita appa-
re così la soluzione più ovvia al problema: se viviamo “due volte più
veloce”, ci serve solo metà del tempo per portare a termine un atto,
un obiettivo, un’esperienza e possiamo raddoppiare la “somma” delle
esperienze e, quindi “della vita” stessa nel corso della nostra esistenza.
(…) Ora, seguendo questa catena di ragionamenti, se continuiamo a
far aumentare la velocità della vita, dovremmo in teoria riuscire a vi-
vere una molteplicità o persino infinità di vite in una singola esistenza,
realizzando tutte le opzioni (…). L’accelerazione servirebbe dunque
come strategia per cancellare la differenza tra il tempo del mondo e il
tempo della nostra vita. La promessa eudemonistica dell’accelerazione
moderna si fonda quindi sull’idea (inespressa) che l’accelerazione del
“ritmo di vita” sia la nostra risposta (cioè la risposta della modernità) al
problema della finitezza e della morte. È superfluo dire che purtroppo
alla fine la promessa non viene mantenuta. Quelle stesse tecniche che ci
aiutano a guadagnare tempo hanno anche portato a un’esplosione delle
opzioni nel mondo: non importa quanto veloci riusciamo ad essere, la
nostra quota di mondo, cioè la proporzione tra le opzioni realizzate e
le esperienze vissute e tutte quelle mancate non cresce, bensì precipita
incessantemente. Questa è, oserei dire, una delle tragedie dell’individuo
moderno: sentirsi imprigionato in una ruota da criceto, mentre la sua
fame di vita e di mondo non è mai soddisfatta, ma anzi gradatamente
sempre più frustrata.12

Sfuggire alla banalità e alle frustrazioni del presente poteva sem-


brare estremamente facile a chi si immergeva nella lettura delle sto-

12 Rosa H. (2010), Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo
nella tarda modernità, Einaudi, Torino, 2015, pp. 27-28.
Essere Andrea Pazienza 187

rie di Tamburini e di Pazienza, ma sappiamo dalle testimonianze di


entrambi gli artisti quanto sia stato a volte complesso trasferire le
loro visioni accelerate in libri, albi e riviste. Il peso esistenziale da
loro avvertito nella situazione di costante velocizzazione produttiva
può sembrare sproporzionato rispetto al piccolo mondo del fumetto
italiano, e il fatto di rimarcarlo può apparire come il tentativo di fare
storia o sociologia su fattori invece prevalentemente psicologici e
caratteriali. Non è così: credo che la stagione del fumetto italiano
tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80 possa essere letta
come esplosione creativa interna al mondo dell’arte contemporanea
nel suo complesso, capace di influenzarne le forme e le tendenze13.
L’arte di cui è stato protagonista Andrea Pazienza è stata consumata
da piccole masse di giovani e poi da generazioni successive, ed è sta-
ta in grado di imporre linguaggio e comportamenti, cioè immagina-
rio collettivo in atto. Pazienza è arrivato a questo effetto disegnando
sé stesso e i suoi pensieri e poi infilandosi in un contesto prescel-
to, prima quello del Dams e di Pentothal, poi quello dell’ambiente
fricchettone e fattone, poi quello dell’antropologia zanardesca, poi
quello di Pompeo – per seppellire le proprie rovine – e infine quello,
erudito e non meno sorprendente, della lavorazione di Campofame e
di Astarte. A quest’ultima fase artistica appartiene il periodo trascor-
so a Montepulciano, caratterizzato dalla presenza rassicurante, intor-
no a Pazienza, non solo della moglie Marina ma dell’amico-editore
Mauro Paganelli e di un gruppo di creativi eclettici, tra cui Moreno
Miorelli, con cui prendeva confidenza diretta dell’arte rinascimenta-
le nelle chiese e nei musei toscani.

Narciso non aveva mai visto il proprio volto, e ignorava di essere


l’oggetto d’amore di sé stesso. Narciso è fissato dai poeti e dai pittori
come immobile: tra sé e il volto di cui s’innamora nello specchio
dell’acqua vi è eterna stasi, rotta soltanto dall’avvento del sonno, che
stacca Narciso dall’amata visione e lo fa sparire nei flutti. Il narci-
sismo è statico, bloccato nell’eterna dedizione a sé stessi. Perciò, se
Pazienza ha determinato una rivoluzione narcisistica significa che il

13 Ad esempio gli artisti del gruppo Valvoline esposero i loro lavori nella grande
mostra “Anni Ottanta”, organizzata da Renato Barilli nel 1985 a Bologna, sulle
tendenze dell’arte figurativa italiana di quegli anni.
188 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

suo lavoro ha trasformato il concetto stesso di narcisismo. Il narcisi-


smo di Pazienza non è statico: è programmatico e poetico, tutt’altro
che inconsapevole. Si parte da qui: da queste scarpe, da questo naso,
da questi giacconi e da questi capelli. Si parte dalla forma giovanile
per arrivare al riconoscimento dello stato irrimediabilmente transi-
torio della giovinezza, che necessita quindi di una iper-narrazione,
di un racconto polimorfico e concentrato. L’arco poetico della pro-
duzione di Pazienza si impone su una durata che coincide con la
giovinezza: i suoi personaggi e le sue storie furono collocati su un
palcoscenico che prese l’avvio dal narratore, indagando il mondo dei
suoi simili a cominciare da se stesso e dai propri tratti, senza alcun
timore di rivelare segreti o stili di vita estremi o di auto-stigmatiz-
zarsi, indotto a dire la propria verità attraverso un mezzo, il fumetto,
su cui operò in modo enormemente innovativo, cioè rivoluzionario.
Pazienza dimostrò sul campo di essere un genio artistico, ma ri-
cercava una qualifica ulteriore, quella di genio precoce. Per il poco
che ho avuto la fortuna di conoscerlo e di intervistarlo, anche a me
Pazienza ha dato l’impressione, come a Manara, di rivolgere le pro-
prie attenzioni filosofiche a una sorta, per dirla con Benjamin, di
“metafisica della gioventù”. Scriveva nel 1913 il ventunenne genio
della saggistica:

Il giovane farà esperienza dello spirito e quanto più dovrà faticare


per raggiungere qualcosa di grande, tanto più incontrerà lo spirito lungo
il suo cammino e in tutti gli uomini.14

Per aspera ad astra, scriveva da tutte le parti Pazienza come pro-


prio motto. E altrove aggiungeva: “Io sono una moltitudine”. Le due
cose non vanno disgiunte: per arrivare alle stelle occorrono cose dif-
ficili, come l’impresa di essere molti in uno. Pazienza impresse una
velocità estrema – esagerata – alla propria arte, diventando, almeno
in parte, simile a uno dei personaggi delle sue saghe del tipo Fran-
cesco Stella, che prevedono visioni futuristiche di biografismi ecce-
zionali e deliranti. Pazienza esplorò un’intera gamma di espressioni
fumettistiche condensandole in storie uscite senza interruzioni nel

14 Benjamin W. (1913), Esperienza, in Opere complete, vol. 1, Einaudi, Torino,


2001.
Essere Andrea Pazienza 189

corso del suo unico decennio produttivo, come fosse una specie di
Snake Agent del fumetto italiano.
Questa compressione del tempo creativo fu alleviata dalle impre-
se collettive, che davano l’impressione a Pazienza di rivivere le at-
mosfere delle avanguardie storiche, come si nota esplicitamente in
varie tavole in cui l’artista raffigura sé stesso e i suoi compagni nelle
vesti di dadaisti e di avanguardie, riconoscendo che, per la prima
volta nella storia della modernità, un gruppo giovanile di pari supe-
rava in importanza e originalità il singolo uomo di genio.
La mancata tenuta delle riviste a fumetti spinse a un free-lancing
esasperato Pazienza, che collaborò con diverse testate e in diversi
esprimenti performativi, spesso insieme ai talenti di Valvoline. Dopo
la morte di Tamburini, la sua sensazione di solitudine probabilmente
si acuì. Fece finta di niente, indossando la sua tuta disindividuante15
moltitudinaria, abbracciando uno stile poetico-illustrativo per passa-
re, nella storia appena successiva, a un pupazzismo pazzoide.
Questa poliedricità, riteneva Pazienza, era parte del suo modo di
essere artista. Considerato che aveva deciso di raccontare per imma-
gini a partire dalla propria stessa immagine – e cioè dall’immagine
di un giovane artista italiano d’avanguardia –, il suo modo di asse-
condare l’esuberanza creativa era di pensarla avvinta alla giovinez-
za, secondo la suggestione di due versi pluri-citati di Sandro Penna,
piazzati da Pazienza nello Zanardi medievale: “Forse la giovinezza
è solo questo/perenne amare i sensi e non pentirsi.”
Nel pensiero di Pazienza, come ho potuto appurare direttamente
parlandone con lui, vi era ciò che oggi chiameremmo “giovanili-
smo”, cioè la tendenza a centralizzare nella gioventù il senso domi-
nante del mondo, e che parte da un tentativo di mimesi generaziona-
le, ad esempio laddove un individuo maturo continua ad abbigliarsi
da giovane e a praticarne gli stili di vita. Tuttavia l’anomalia balza
subito agli occhi: Pazienza aveva da poco superato i venticinque anni
quando parlava con me (o con Manara, o con altri) del fatto che “fino
a trent’anni siamo tutti ragazzi, e abbiamo il diritto di sperimentare
come ci pare. Poi, vedremo come si mettono le cose.”

15 Dispositivo che consente al protagonista di un celebre racconto di Philip K. Dick


di confondere i propri lineamenti. Cfr. Dick K.P. (1977), Un oscuro scrutare,
Fanucci, Roma, 2004 (traduzione di Gabriele Frasca).
190 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Un giovane non può essere giovanilista, perché l’aggettivo è stato


utilizzato socialmente per definire un atteggiamento proprio degli
adulti. In realtà, anche un giovane può ritenere che la giovinezza sia
“questo perenne amare i sensi e non pentirsi”, e che nel corpo mutato
della giovinezza (dopo i travagli metamorfici dell’adolescenza) sia
racchiuso il tesoro di una disponibilità insieme fisica e mentale al
cambiamento radicale anche traumatico, portatore di sovversione e,
se il soggetto possiede una visione “ego-moltitudinaria” come quella
di Pazienza, anche di auto-sovversione.
Pazienza era un pensatore che potremmo definire iuvenista, enor-
memente curioso di altrui vite giovani oltre che della propria, pro-
iettato in un microcosmo di geni precoci già presente nel suo elenco
poetico-sentimentale, esaminato nel capitolo precedente. Attraverso
la tensione spasmodica indotta da questa specie di turbo-giovinezza,
l’artista pensava potesse essere colto un nuovo ingrediente narrativo,
che finì per vincolarlo strettamente al suo pubblico. Trascinò i suoi
lettori alla scoperta di un’epica iuvenista, dove i ventenni (o poco
più) si prendevano l’intera scena senza nemmeno bisogno di esclu-
dere gli adulti dal fumetto, come fa Charles Schulz nei Peanuts. La
giovinezza è il frame attraverso cui Pazienza parla al suo pubblico:
così come è avvenuto con il disegno della propria persona, l’artista
guarda al mondo sociale a partire dalle dinamiche giovanili: una par-
te della sua fortuna si deve proprio alla centralità culturale riservata
ai ventenni e all’invenzione di biografie narrativamente verosimili.
Essere giovane, per Pazienza, era l’occorrenza in cui inscrivere il
proprio genio, che è grafico, poetico, narrativo, umoristico, antropo-
logico, criminologico, tragico. Attraverso questo suo genio polimor-
fico, espresso da un narcisismo quasi naturalistico poi interiorizzato
e usato nella pratica artistica e narrativa, Pazienza è risalito al genio
nella sua dimensione universale, generale.
L’etimo del termine “genio”, raccolto in un vecchio dizionario ora
fortunatamente on line16, risale al latino genius e al sanscrito g’anya,
che “propriamente vale forza naturale produttrice, da geno, genero,
produco”.

16 http://www.etimo.it/?term=genio
Essere Andrea Pazienza 191

In questo modo il vetusto dizionario definisce il genio a partire


dal suo etimo, in uno stile passatista che avrebbe divertito Pazienza:

Così venne appellato dai Latini, che ne attinsero la idea dalla teo-
logia degli Etruschi, uno spirito buono o angelo guardiano del sesso
maschile, che si credeva fosse generato insieme a ogni uomo che veniva
al mondo, e avesse il compito di dirigere le sue azioni e vegliare al suo
benessere durante la vita. Colla morte di lui era poi universal credenza
che il genio si perdesse nell’oceano degli spiriti; e sembra dunque che
per genio gli antichi intendessero l’anima immortale, ossia il princi-
pio vivificatore della materia. Esso corrispondeva al buon demonio dei
Greci, all’angelo custode dei cristiani ed era rappresentato in forma di
alato fanciullo. Gli spiriti custodi del sesso femminile erano appellati
junones e si vedono sempre figurati come giovani donne tutte vestite,
colle ali di pipistrelli o di falene.17

L’estensore del lemma così prosegue la ricognizione sul lato “mo-


derno” del fenomeno:

Oggi applicato agli uomini vale propriamente Natura; e per estens.


Inclinazione d’animo o di mente ed è quindi sinonimo di Talento, d’In-
gegno e simili. Però il Genio va dall’Ingegno distinto, perché sebbene
l’uno e l’altro sieno congeniti, questo è l’attitudine a comprendere, ra-
gionare e con giustezza combinare le idee, per trarne utili resultati ed è
facoltà che non può essere disgiunta da molta memoria, fantasia tran-
quilla, da moderate vivacità di sentimento: quello invece, ossia il genio,
è facoltà creatrice dell’intelletto, scintilla vivificatrice, che presuppone
l’ingegno accoppiato a grande fantasia e forte passione, onde non solo
ricorda e vede, ma esalta e ricompone le idee, e mirando al bello e al
sublime, si passiona e la passione agli altri trasfonde.18

Eccoci dunque risaliti al punto che cercavamo, giacché l’estensore


anonimo ha dettagliato questa interpretazione avendo in mente il ge-
nio artistico più che il genio scientifico, vista l’importanza che attri-
buisce alla “forte passione” e allo scopo del “bello” e del “sublime”,
rafforzato dall’insistenza sulla “passione” che “agli altri trasfonde”.

17 http://www.etimo.it/?term=genio
18 http://www.etimo.it/?term=genio
192 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

La stagionata definizione del dizionario etimologico si attaglia assai


bene a Pazienza, artista che “si passiona”, come testimoniato anche
da studiosi e critici di varie generazioni. “Autore amatissimo dai
giovani, sui quali esercita un forte ascendente”, scrisse Gianni Bru-
noro nel fatidico 1988, aggiungendo un riconoscimento al fumetto e
all’autore Pazienza, perché capace di “esprimere con fortissimo pa-
thos l’autenticità dell’affannosa condizione giovanile d’oggi.”19 In
realtà il campo dei fumetti, proprio perché periferico nella gerarchia
dell’industria culturale, si era dimostrato uno dei media più adatti
a concepire sperimentazioni formali e sostanziali, aderendo più di
altri mezzi alle pieghe delle culture giovanili, di cui Pazienza fu in-
sieme creatore e sovvertitore. E Pazienza, di quella stagione, è stato
il genio, la divinità “vivificatrice”. Come sintetizza Sergio Brancato,

Nelle sue mani, in un solo decennio, il fumetto è diventato qualcosa


di diverso, un linguaggio ibrido sospeso tra serialità e autorialità, una
complessa macchina ipertestuale in grado di rilanciare in avanti le stra-
tegie dell’immaginario.20

Ci si potrebbe chiedere: cosa si cela dietro questo tipo di genio


particolare e dietro il genio universale? In termini junghiani: qual è
l’archetipo?
Le imprese di un genio versatile sono già presenti nella mitolo-
gia, e rimandano a Hermes, autoproclamatosi dio e divenuto poi
messaggero di Zeus. Nel tracciare l’archetipo del personaggio Cor-
to Maltese di Hugo Pratt, ho riscontrato che le caratteristiche del-
lo “straniero” incarnate da Corto ben si adattano a una derivazione
ermetica, caratterizzata da un instancabile andare21. Tuttavia Her-
mes sovrintende anche i caratteri che abbiamo ravvisato nel genio di
Andrea, ossia la multiformità (grafica e testuale), l’esattezza tecni-
ca, il sentore costante della morte nelle sue narrazioni, l’esaltazione
della giovinezza. Infatti Hermes inventa un macro-settore artistico

19 Brunoro G. (1988), Andrea Pazienza, in «Il Fumetto», terza serie n. 14, Anaf,
Roma, p. 64.
20 Brancato S., Pazienza senza limiti, in Tutto Pazienza. Costa Turca. Storie 1983-
1985, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016, pp. 149-152.
21 Cristante S., Corto Maltese e la poetica dello straniero, Mimesis, Milano, 2016.
Essere Andrea Pazienza 193

(la musica, dando vita al primo strumento a corde mai inventato, la


lira); è precisissimo nell’esecuzione anche manuale delle sue inven-
zioni; passa metà della sua esistenza ad aiutare Ade (fratello del pa-
dre Zeus) guidando le anime dei morti nell’Averno ed ha quindi un
rapporto costante con la morte; è rappresentato come eternamente
giovane, spesso atletico e talvolta efebico. C’è soprattutto un’imma-
gine che mi porta a considerare un comune archetipo ermetico per lo
straniero di Pratt e per i personaggi di Pazienza: si tratta dell’imma-
gine di Hermes fanciullo che s’ingegna ad accendere il fuoco senza
attendere un incendio naturale o sottraendolo agli dei, come aveva
fatto Prometeo. Con due legnetti, parecchia immaginazione e molta
manualità il fanciullo si procura il fuoco. L’antenato comune allo
straniero [di] Pratt e al fuggiasco [di] Andrea Pazienza potrebbe in
effetti avere le forme di Hermes, il leggiadro.

È venuto quindi il momento di motivare la centralità della “tematica


della fuga” nella poetica di Pazienza. Ho cercato di disseminare le
tracce qua e là nella narrazione, ma si impone un resumé indiziario e
una proposta interpretativa.
Detto in estrema sintesi, Pazienza è espressione di una tellurica
instabilità, che lo porta a sviluppare in pochissimo tempo una grande
intimità con persone e ambienti, per poi dirottarsi altrove, per satu-
razione o per occasione, per disagio o per entusiasmo, per questioni
professionali o sentimentali. La fuga non è escapismo, cioè immer-
sione in una realtà altra indotta da tecniche comunicative di massa: è
abbandono per saturazione, per sovraccarico di capitale sociale, tal-
volta mal compreso. La testimonianza di Giorgio Lavagna dei Gaz-
nevada fa emergere un aspetto sociologico critico nella relazione tra
l’artista e il suo ambiente:

Divenne molto più cool. Occhiali scurissimi sul viso color vetro, abi-
ti neri, pupille come insetti perduti nell’ambra. Presto Pazienza divenne
piuttosto popolare a Bologna. (…) Fu quando uscirono i fumetti che la
sua popolarità cominciò ad appannarsi. La gente a Bologna è abituata a
frequentare i cretini, non i geni, e siccome la gente non sa nulla degli in-
finiti problemi che un genio deve affrontare in ogni momento del suo la-
voro, non gli perdona certe cose. Le persone, gli amici, i conoscenti co-
minciarono a riconoscersi nei fumetti di Andrea. Le fisionomie, i nomi,
194 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

pezzi di conversazione, case, aneddoti, affioravano nei suoi racconti in


modo disturbante. La gente si incazzava, e molto. Non capivano che
non c’era altro modo, che lui usava i pezzi della sua vita perché era un
disegnatore e uno scrittore, e attingeva a un serbatoio che provvedeva a
riempire di quel che poteva: feste, giornate di pioggia, sguardi di ragaz-
ze, concerti rock, ragionamenti fatti per strada, film, amici, sentimenti.
Più storie uscivano, meno Andrea era popolare. Ho sentito persino di
gente che avrebbe preteso dei soldi per quelle “citazioni”. Alla fine An-
drea lasciò per sempre Bologna.22

Pazienza trasforma il medium fumetto in un nuovo ambiente, su


cui vengono accesi i riflettori delle tendenze culturali. La saturazio-
ne sociale è un effetto della trasposizione nelle fiction a fumetti di
materiali intercettati da dinamiche interpersonali, i cui protagonisti
sono a loro volta lettori di fumetti. Se poi la realtà urbana è mo-
vimentata ma non compiutamente metropolitana (come nel caso di
Bologna) il corto circuito è prevedibile o assicurato: rappresenta-
re “tipi” e “nominarli” induce all’entropia del pettegolezzo e degli
equivoci. Forse ora, quando sono passati quattro decenni dalla pub-
blicazione di Pentothal, le acque si sono del tutto acquietate, e molti
testimoni dell’epoca ripensano con nostalgia a quel periodo e ai suoi
palcoscenici mondani.
In precedenza, Pazienza era andato via da San Severo, verso Pe-
scara: non fu una fuga ma un trasferimento per motivi di studio,
tuttavia la giovanissima età dell’artista procura all’evento un’aura
iniziatica particolare. A Pescara, come sappiamo, il suo talento stra-
ordinario venne riconosciuto dai suoi docenti ed egli poté esporre
molto precocemente nelle gallerie di arte contemporanea. Ancora
minorenne, era un pittore promettente.
La sua disposizione grafica infantile e preadolescenziale era attra-
versata dalla forma cartoon: Pazienza, come ha ricordato Gaetano
Liberatore, cartoonizzava ogni soggetto, anche il più canonicamente
lirico. Pazienza tentò una fuga da questa forma mentale e dal me-
dium fumetto, e lo fece costruendosi un immaginario avanguardisti-
co, corrispondente a opere pittoriche che risentono di un’infinità di

22 Lavagna G., Vita da Paz, in Pazienza A., Zanardi, Gruppo Editoriale L’Espresso,
Roma, 2006, p. 9.
Essere Andrea Pazienza 195

stimoli e di influenze, rimessi in gioco da un dinamismo citazionisti-


co novecentesco tendente all’ironia e al grottesco.
Poi, fugge dalla pittura. Attenzione: scappare non corrisponde a
dimenticanza e oblio. La fuga è la porta di un altro viaggio obbliga-
to: esplorare il fumetto in tutte le direzioni, farne una fucina di rac-
conti memorabili, capaci di sorprendere anche il lettore dei decenni
a venire.
Il fuggiasco ha dunque trovato non il proprio rifugio definitivo
(e come potrebbe?), ma almeno il proprio mezzo di trasporto più
affidabile: la tavola a fumetti. Da questo momento in poi Pazienza
raggiunge un nuovo livello nel gioco artistico ed esistenziale: con-
quistato il campo espressivo del medium-fumetto, la fuga comincia
ora al suo stesso interno. Bologna diventa la base ideale per recarsi
spesso a Milano e a Roma, dove avvengono riunioni e consegne. Pa-
zienza entra nel fumetto e nel ristretto novero degli autori di calibro
con una risma di tavole sperimentali e spesso pittoriche. Per realiz-
zarle, è scappato dalla pittura, trasferendone in parte il linguaggio
sulla carta di Pentothal e di Armi. Poi, è scappato dallo sperimenta-
lismo grafico visionario attraverso una via di fuga sotterranea, che
coincide anche terminologicamente con l’underground americano e
con le storie di ambientazione tossico-fricchettona.
Una parte consistente del suo tempo fu spesa in frenetiche tra-
sferte professionali tra le città dei suoi traffici, e in qualche viaggio
vagabondo. Di ampiamente documentata, c’è la sua fuga da Bologna
e l’approdo a Montepulciano, dove si stabilì a vivere con Marina an-
che dopo il matrimonio, il cui viaggio di nozze esotico e pasticcione
fu poi sceneggiato da Pazienza in un supplemento di Linus («Avaj»).
Se poi qualcuno pensa che l’eroina sia una fuga da qualcosa, Pa-
zienza in questo caso fu un notorio fuggiasco. Ma il carattere del
fuggiasco non si spiega con l’uso o l’abuso di sostanze. Casomai è
il contrario.
Qual è il carattere (sociologico) del fuggiasco? Si sa per certo che
il fuggiasco fugge, ma non si dice a causa di cosa egli fugga. Né che
cosa porti con sé nella fuga. Nonostante questa mancanza di infor-
mazioni vitali, il fuggiasco è definibile ugualmente, attraverso i suoi
comportamenti. Il fuggiasco non è necessariamente e indefinitamen-
te solitario, aggrappato al suo singolare ed escludente destino: nelle
196 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

varie stazioni della sua fuga trova interlocutori, discute, organizza,


forse trama o ordisce complotti, stabilisce un nuovo piano di fuga.
Infine, fugge di nuovo.
Da che fugge il fuggiasco Pazienza?
Come esponente della generazione nata durante il boom economi-
co, fugge dal conformismo e dall’alienazione produttiva, dall’autori-
tà costituita, dall’idolatria professionale.
Come ragazzo del Sud iscritto all’università di Bologna, fugge
dal suo radicamento pescarese e rimette in discussione la sua prassi
pittorica.
Come giovane artista fugge dalla proletarizzazione, e cerca con-
tatti con le aziende editoriali di mercato di cui, come altri, vorrebbe
fare a meno perseguendo una dimensione imprenditoriale indipen-
dente. Così avverrà, ma le piccole fughe di Pazienza continueranno,
e coinvolgeranno anche le aziende da lui co-fondate.
Che cosa porta con sé Pazienza nelle sue vie di fuga?
La cassetta degli attrezzi è completa fin dal periodo pescarese,
e utilizzata con crescente maestria. Si aggiungono nuove tecniche
e nuove escogitazioni, dal titanico rumorismo grafico capace di ri-
empire intere tavole (come nei rumori dello sgranocchiare di sassi
dolci in una tavola di Pompeo, resi graficamente da infinite sequenze
onomatopeiche scritturali) ai balloon multipli, rubati a Scòzzari che
li aveva rubati ai fumetti Marvel, per poi ridonarli come materiali
di pubblico dominio a tutti gli artisti del fumetto interessati. Aveva
detto l’anonimo etimologo: “(…) onde non solo ricorda e vede, ma
esalta e ricompone le idee, e mirando al bello e al sublime, si passio-
na e la passione agli altri trasfonde.”23

Ah! Ah! Vorrei… Ecco… Avere qualcosa da fare, qualcuno da aspet-


tare… Vorrei aspettare… un vento, un vento forte, sì, un vento. Qualco-
sa che non sia… la solita puttanata.

La vita di Pazienza ha esaudito l’auspicio del Partigiano solo in


parte. Il senso dell’attesa, così radicato nei rituali della dipendenza,
non gli era proprio. Era impaziente. Non attese il vento se non una

23 http://www.etimo.it/?term=genio
Essere Andrea Pazienza 197

volta, nel ’77, come tanti; riuscì a stare a cavallo di quel vento forte
con destrezza e poi ad avvistare nuove onde, più sottili e sofisticate di
quelle cavalcate dai movimenti, immerse in avventure urbane, dove il
vento sbatte sui palazzi e sui parabrezza e si blocca sull’indifferenza
delle cose e degli individui. Cercò allora di crearlo da sé, il vento.
Insieme a vari sodali, mise a punto vari ventilatori e una turbina, «Fri-
gidaire», che aumentò i giri fino ad ingripparsi. Allora, da fuggiasco,
inventò tormente, tramontane e scirocchi. Poi tacque, d’improvviso.
L’epilogo del fuggiasco non è necessariamente la morte. La sto-
ria – anche la storia dell’arte – è piena di grandi talenti che hanno
superato la “linea d’ombra” della gioventù e non hanno inaridito la
propria poetica con il passare degli anni, cambiando per quanto era
necessario al loro spirito e ai loro bisogni, creando fino alla fine, av-
volti nel silenzio come Italo Calvino o loquaci fino all’ultimo come
Dario Fo.
Andrea Pazienza non ha avuto queste occasioni.
Aver compresso all’inverosimile la propria produzione in un solo
decennio significa aver consegnare alla contemporaneità e ai posteri
un cospicuo bottino. Il fuggiasco non vagava a mani vuote. Come
certi cavalieri della letteratura d’avventura che Pazienza amava –
come D’Artagnan in certi passi dei Tre moschettieri –, l’artista por-
tava con sé un segreto (nel suo caso: “il regalo del disegno”) che
segreto non era, ma predisposizione comportamentale assecondata
già nella primissima infanzia e in seguito coltivata con zelo, in un
esercizio minuto, continuo, esistenziale. A ciò Pazienza aggiunse
benzina e accelerò, rivivendo le avanguardie storiche e immergen-
dosi nel pop e nell’underground. Ne scaturirono nuove tecniche e
nuove visioni, cioè una grandissima innovazione grafica. Associò il
disegno a una passione al racconto parimenti intensa e spiazzante,
inventando o migliorando generi fumettistici e letterari.
Tutto ciò che colpiva Pazienza si prestava alla sua manipolazione:
appropriandosi all’istante dello stimolo artistico intercettato, Andrea
lo gettava nel proprio caos, e ripartiva con un motore potenziato.
Inevitabile, per un talento di questo genere, il rischio della dissipa-
zione.
La concentrazione visionaria produce eccesso, cioè ricerca del
punto di superamento di un limite, e l’eccesso ha bisogno di alte-
198 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

razioni, di cambi di ritmo continui, abbassando l’intensità solo at-


traverso l’espulsione di residui, di scarti. Tuttavia non ci sono scarti
nell’arte di Andrea Pazienza. Anzi, come capita a coloro che di-
vengono fenomeni di culto, ogni tratto d’inchiostro lasciato su un
cartoncino o su un tovagliolo aggiunge una tessera al puzzle della
sua creatività. Dov’è allora la dissipazione? È interna al lavoro di
Pazienza e lo caratterizza. Si tratta di un tipo paradossale di dissipa-
zione: l’artista dimostra una velocità di elaborazione tale da rendere
superfluo un perdurare delle sue scoperte grafiche e narrative. Per-
ché insistere a disegnare citando Walt Disney per un intero ciclo di
racconti quando con poche decine di vignette il lettore ha già colto
l’esplorazione a tappeto che l’artista ha compiuto su tutta la poeti-
ca disneyana, rivoltandola come un calzino e facendo di Pippo uno
sballato? Quando ogni stanza della creatività a disegni è visitata,
fotografata e quindi rielaborata e restituita in una forma stupefacente
e inedita, cosa resta se non passare ad altro? Si potrebbe dire anche:
Andrea era un concentrato di intensità e di energia creatrice, capace
di assimilare uno stimolo alla velocità della luce e di trasformarlo
in un segno prorompente, come in un perenne e sorprendente fuoco
d’artificio visivo e mentale.
Passando da una metafora di fonte sociologica (il fuggiasco) a una
di origine botanica, potremmo dire che in Pazienza c’è una crescita
artistica ad albero: il fusto si slancia verso l’alto grazie al connubio
di talento grafico e narrativo, ma i rami sono diversi e inaspettati, e
offrono la sorpresa di frutti anch’essi diversi. Come se una stessa
pianta potesse offrire ciliegie, mele, uva, cedri e albicocche.

A conclusione del fulmineo saggio Metafisica della morte (1910-


1911) scriveva Georg Simmel:

Dove si crede nell’immortalità e ogni contenuto materiale, per il


quale essa costituisca uno scopo, venga respinto – sia perché eticamen-
te non abbastanza profondo, sia perché assolutamente inconoscibile
–, dove viene cercata, per così dire, la forma pura dell’immortalità, la
morte apparirà come il confine al di là del quale tutti i possibili contenu-
Essere Andrea Pazienza 199

ti della vita si distaccano dall’Io e dove il suo essere e il suo sviluppo è


un puro appartenere-a-se-stesso, una pura autodeterminazione.24

L’ossessione di Simmel – la forma – si manifesta come attrazione


teorica in questo assunto:

Il segreto della forma sta nel fatto che essa stessa è confine; essa è
la cosa stessa e, nello stesso tempo, il cessare della cosa, il territorio
circoscritto in cui l’Essere e il Non-più-essere della cosa sono una cosa
sola.25

La forma artistica, forma inorganica determinata dall’esterno (l’o-


pera), si incrocia con la forma organica degli individui: la forma ar-
tistica diventa dunque a sua volta confine, implicante la forma della
vita e della morte dei suoi produttori, cioè degli artisti. Nel caso di
Pazienza, ciò che emerge è una presenza costante della morte nelle
sue opere, come rileva l’artista stesso in diverse interviste e testimo-
nianze. Presenza e consapevolezza sono due atteggiamenti diversi,
come sentire e capire. La sensibilità di Pazienza è fuori discussio-
ne, le sue possibilità personali di elaborazione intellettuale, invece,
scomparvero con lui. Restano le opere, ed esse ci parlano di vita e di
morte, spesso contrappuntandole con rinascite e metamorfosi.

Come tanti della mia età attivi nel mondo del fumetto negli anni
’80, ho potuto conoscere Andrea Pazienza, incontrandolo in alcune
occasioni. La prima fu a casa di Milo Manara, a Valpolicella di Vero-
na, dove mi ero accodato a un gruppo di amici dopo il vernissage di
un’esposizione. C’era anche Andrea. Gli avevo chiesto se potevo in-
tervistarlo, credo per «il Manifesto», e lui mi disse di sì, però dopo.
Io però stavo per perdere il treno per tornare a Roma, e gli misi fret-
ta. Allora si convinse e andammo in giro a cercare una stanza dove
parlare qualche minuto. Alla fine, non so perché, lui decise che il
bagno era elegantissimo (in effetti lo era). Parlammo così, nel bagno
di Milo Manara, ridendo molto: Andrea al microfono era bravissimo
e spiegava le cose a partire da un’esitazione che poteva sembrare

24 Simmel G. (1910-1911), Metafisica della morte, SE edizioni, Milano, p. 17


25 Simmel G., op. cit., p. 9.
200 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

preoccupante, e invece era solo un trampolino per un pensiero in


genere inaspettato e bene organizzato. La seconda volta lo incontrai
alla stazione Termini, a Roma: stavo scendendo da un treno e lui
stava aspettando di salire sul suo. Gli dissi se aveva cinque minuti
al volo per rispondere a due domande su Giallo scolastico, che era
uscito da poco. Lui disse mannaggia ho poco tempo ma dai provia-
mo. Mi prese sottobraccio e cercammo un posto: si materializzarono
i famigerati bagni della stazione, e lui li puntò senza esitazioni. Ri-
uscimmo a parlare due o tre minuti, poi scappò a prendere il treno.
L’intervista finì sulle onde di un’emittente romana nei primissimi
anni ’80, Radio Blu. Sono riuscito a conservare i due nastri durante
un paio di traslochi, ma giunto al quattordicesimo confesso di non li
ritrovarli più.
Poi lo vidi una volta ad Alcatraz, da Jacopo Fo, in autunno, con
poca gente: non sembrava di buon umore, parlava poco. Poi però si
mise a disegnare un cavallo da qualche parte, e intorno a lui si ricreò
in un attimo un’attenzione stupita.
Al funerale di Stefano Tamburini mi colpì molto la sua indaffara-
ta gentilezza, direi la premura che usava con i partecipanti al triste
evento.
Infine me lo ricordo in una situazione professionale comica: in-
sediato nel ruolo di imprinter di «Frizzer», mi ricevette alla scri-
vania dell’ufficio di Monteverde come un manager consumato. Io
volevo fare una chiacchierata con Vincenzo Sparagna per un pos-
sibile accordo su alcune iniziative dell’Arci e mi ritrovai di fronte
Andrea (Sparagna arrivò in seguito) che mi mostrava le copertine
della rivista elencandone le derivazioni nel target di mio interesse
(?) e proponendo tariffe per un totale di svariati milioni di lire. Io lo
ascoltai per un po’ e poi scoppiai a ridere. Mi pare che ridesse anche
lui, comunque sia arrivò Vincenzo e la conversazione divenne meno
surreale (non di molto, comunque).
In tutte quelle piccole occasioni, e in alcune altre, mi trovai di
fronte un essere esuberante e carismatico, che continuava a ripeter-
mi: “Ma quanti anni hai? Madò, tu sei davvero giovane.” Mi aveva
fatto questa domanda la prima volta che ci eravamo visti e aveva
subito sottolineato che avevo ben cinque anni meno di lui. All’epoca
non sembravano pochi nemmeno a me. La conversazione si era svi-
Essere Andrea Pazienza 201

luppata su quel crinale, che per me era fondamentale perché lavora-


vo nei giornali e nell’associazionismo convinto propugnatore di una
specificità culturale, politica e artistica giovanile. Mi resi conto che
Andrea rifletteva in termini a me familiari: il punto restava proprio la
percezione di affinità che Pazienza lasciava trasparire nei suoi lavo-
ri, e che i suoi lettori intercettavano e trasmettevano ad altri.

Ho trovato una bella dichiarazione di Milo Manara cui voglio af-


fidare il compito di preparare la conclusione di questo lavoro, non
solo perché la condivido ma perché riguarda sia Andrea Pazienza sia
Stefano Tamburini:

Penso che se ci fossero ancora rappresenterebbero un modello cul-


turale fondamentale, importantissimo. Il fatto di non avere più modelli
culturali è di una gravità enorme, e non ce li abbiamo più perché ce li
avevamo e sono morti. Anche la morte di Tamburini per me è gravissi-
ma: era veramente geniale soprattutto come grafico.26

Per ora la produzione di scrittura su Pazienza e Tamburini è stata


prevalentemente “leggera”, nel senso che su di loro sono uscite per
lo più testimonianze biografiche o brevi scritti di taglio giornalisti-
co. La saggistica si è espressa relativamente poco, e quella valida è
facile da rintracciare e da citare.
Un singolo artista, per quanto grande, non riuscirà mai a dire la
propria epoca per intero, ma, nemmeno l’epoca in cui è vissuto un
grande artista potrà contenerlo. Perciò la ricerca continua, perché
gli sguardi su un’opera e su un artista sono necessari da prospettive
diverse, per trovare indizi capaci di fare luce su una storia dell’inten-
sificazione narrativa che è parte estrema e vitale dell’immaginario
collettivo da vari decenni.
Che poi quell’intensità particolare, di quel particolare genio-ra-
gazzo, manchi ancora oggi e produca nostalgia, ciò fa parte del gio-
co. “Ci sta”, come dicono i giovani d’oggi. Ciao Paz.

26 In Giubilei F., op. cit., p..206.


INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE

Abruzzese A., Forme estetiche e società di massa, Marsilio, Venezia, 1973.


Abruzzese A.- Barbiani L., Pornograffiti, Napoleone Editore, Roma, 1982.
Barbieri D., La linea inquieta. Emozioni e ironia nel fumetto (a cura di), Meltemi,
Roma, 2005.
Barbieri D., Lo straniamento e il Dams, in Pazienza A., Tutto Pazienza. Pompeo,
vol. 5, Repubblica- l’Espresso, Roma, 2016.
Bene C. (1995), Opere, Bompiani, Milano, 2004.
Brancato S., Pazienza senza limiti, in Tutto Pazienza. Costa Turca. Storie 1983-
1985, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016.
Benjamin W. (1913), Esperienza, in Opere complete, vol. 1, Einaudi, Torino, 2001.
Bolelli F. – Berardi F. (a cura di), Presagi. L’arte e l’immaginazione visionaria
negli anni ottanta, Agalev, Bologna, 1988.
Brunoro G. (1988), Andrea Pazienza, in «Il Fumetto», terza serie n. 14, Anaf,
Roma.
Calvino I., (1993), Lezioni americane, Mondadori, Milano, 2015.
Carano R., «Prefazione», in I pensieri di Pippo, Mondadori, Milano, 1970.
Cristante S., 2016, Essere Andrea Pazienza: genio artistico e precocità, in Pazien-
za A., Tutto Pazienza. Il segno ’80, Repubblica- l’Espresso, Roma, pp. 13-15.
Cristante S., Corto Maltese e la poetica dello straniero, Mimesis, Milano, 2016.
De Amicis E. (1889), Cuore, Mondadori, Milano, 2001.
De Cataldo G., Pertini e Paz, due ragazzi irrequieti, in Pazienza A., Tutto Pazien-
za. Pertini e la Prima Repubblica, vol. 4, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016.
Diamond J. (1991), Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo sapiens,
Bollati-Boringhieri, 2015.
Dick R.K. (1977), Un oscuro scrutare, Fanucci, Roma, 2004 (trad. Gabriele Fra-
sca).
Eco U. (1964), Apocalittici e integrati.
Eliot T.S., (1922) La terra desolata, introduzione e traduzione di Alessandro Ser-
pieri, Rizzoli, Milano, 1982; 1985.
Faeti A. (1991), La logica del fast food, in Pazienza A., Tutto Pazienza. Vignette
vignette vighnette, vol. 18, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016.
Faeti A., La freccia di Ulceda. Di fumetti e altro, Coniglio Editore, Roma, 2008.
Farina R. (2005), I dolori del giovane Paz. Biografia a più voci di Andrea Pazien-
za, Milieu Edizioni, Milano, 2016.
204 Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco

Giubilei F. (2005), Vita da Paz. Storia e storie di Andrea Pazienza, Odoya, Città di
Castello (PG), 2016.
Glioti O., Fumetti d’evasione. Vita artistica di Andrea Pazienza, Fandango, Roma,
2009.
Goffman E. (1963), Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi
di riunione, Einaudi, Torino, 2006.
Hebdige D. (1979), Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan,
Genova, 1982.
Jeffers R. (1948), La bipenne e altre poesie, a cura di Mary de Rachewiltz, Guanda,
Parma, 1969.
Jeffers R. (1954), Campofame, a cura di Mary de Rachewiltz, con disegni di Rena-
to Guttuso, Edizioni del Segnacolo, Bologna, 1962.
Karman J., Robinson Jeffers. Poet and prophet, Stanford University Press, Stan-
ford (CA), 2015.
Lavagna G., Vita da Paz, in Pazienza A., Zanardi, Gruppo Editoriale L’Espresso,
Roma, 2006.
McLuhan M. (1964), Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano, 1996.
McLuhan M., Dall’occhio all’orecchio, Armando Editore, Roma, 1982.
Micheli
Placido B., Il cane a fumetti, in Repubblica, 28/8/1988. Ripubblicato in Pazienza
A., Tutto Pazienza. Una estate. Storie 1987-1988, vol. 11, Repubblica- L’E-
spresso, Roma, 2016.
Placido B. (1989), Storie incompiute, in Pazienza A., Tutto Pazienza. Incompiute,
vol. 19, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016.
Pound E., I Cantos, Mondadori, Milano, 1985.
Raffaelli L., 2016, Il cattivo, il bello e lo sfigato, in Pazienza A., Tutto Pazienza.
Zanardi 1981-1984, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma.
Raffaelli L., Il rifiuto del finale, in Pazienza A., Tutto Pazienza. Allegro con fuoco.
Storie 1977-1979, vol. 6, Repubblica- L’Espresso, Roma, 2016.
Rosa H. (2010), Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo
nella tarda modernità, Einaudi, Torino, 2015.
Rossi Fabio, Dannate lingue del Paz! Osservazioni linguistiche sui fumetti di An-
drea Pazienza, in Die Sprache(n) der Comics. Kolloquium in Heidelberg, 16.-
17, Juni 2009.
Scòzzari F., Prima pagare poi ricordare. Da «Cannibale» a «Frigidaire». Storia di
un manipolo di ragazzi geniali. Coniglio Editore, Roma, 2004.
Serpieri A., Introduzione, in Eliot T.S. (1922), La terra desolata, Rizzoli, Milano,
1982.
Simmel G. (1910-1911), Metafisica della morte e altri scritti, SE Editore, Milano,
2012.
Sparagna V., Frigidaire. L’incredibile storia e le sorprendenti avventure della più
rivoluzionaria rivista d’arte del mondo, Rizzoli, Milano, 2008.
Tamburini S., Muscoli e forbici, Coconino Press, Roma, 2017.
Trevi E. (2008), “Nel vuoto di Zanardi”, in Pazienza A., 2016b, op. cit., pp. 129-
136.
Indicazioni bibliografiche 205

Uhlig B., Andrea Pazienza and Lorenzo Mattotti: How the Student Riots of 1977
Shaped Italian Comics, in CaNero J. & Claudio E. (eds.), On the Edge of the
Panel. Essays on Comics Criticism, Cambridge Scholar Publishing, Cambridge
(UK), 2015.
Vincino, Il Male. 1978-1982. I cinque anni che cambiarono la satira, Rizzoli, Mi-
lano, 2007.
Virilio P. (1988), La macchina che vede, Sugarco, Milano, 1989.
Zahavi A., Mate Selection – A Selection for a Handicap, in «Journal of Theoretical
Biology», n. 53, 1975, pp. 205-214.
Zahavi A., The Cost of Honesty (Further Remarks on the Handicap Principle), in
«Journal of Theoretical Biology», n. 67, 1977, pp. 603-605.

Opere di Andrea Pazienza


Tutte le opere principali di Pazienza, compresi antichi quadernetti e bozze di sce-
neggiature inedite, sono ora raccolte in Tutto Pazienza, un lavoro in 20 volumi
pressoché esaustivo della produzione dell’artista, realizzato dal Gruppo Edito-
riale L’Espresso e pubblicato nel corso del 2016, con la consulenza editoriale
e le introduzioni di Luca Raffaelli e curato da Giovanni Ferrara e Oscar Glioti.
Per esigenze di spazio e di semplicità di reperimento mi limito a indicare questa
edizione dei lavori di Pazienza. Alcune altre edizioni delle opere dell’autore
citate nel testo sono indicate nelle note.
Questi i titoli dei volumi della serie TuttoPazienza:

Tutto Pazienza. Pentothal, vol. 1.


Tutto Pazienza. Zanardi 1981-1984, vol. 2.
Tutto Pazienza. Zanardi 1985-1988, vol. 3.
Tutto Pazienza. Pertini e la Prima Repubblica, vol. 4.
Tutto Pazienza. Pompeo, vol. 5.
Tutto Pazienza. Allegro con fuoco. Storie 1977-1979, vol. 6.
Tutto Pazienza. Il Partigiano. Storie 1979-1981, vol. 7.
Tutto Pazienza. Amore mio. Storie 1981-1983, vol. 8.
Tutto Pazienza. Costa Turca. Storie 1983-1985, vol. 9.
Tutto Pazienza. Lo specchio dei tempi. Storie 1985-1987, vol. 10.
Tutto Pazienza. Una estate. Storie 1987-1988, vol. 11.
Tutto Pazienza.Gli anni giovanili, vol. 12.
Tutto Pazienza. Convergenze, vol. 13.
Tutto Pazienza. Superpazeroticus, vol. 14.
Tutto Pazienza. Bestiario, vol. 15.
Tutto Pazienza. Favole e cartoon, vol. 16.
Tutto Pazienza. Il segno ’80, vol. 17.
Tutto Pazienza. Vignette, vignette, vighnette, vol. 18.
Tutto Pazienza. Incompiute, vol. 19.
Tutto Pazienza. Mi chiamo Andrea, Michele, Vincenzo, Ciro, vol. 20.
RINGRAZIAMENTI

Ringrazio i colleghi con cui ho parlato di questo lavoro, in parti-


colare Luca Bandirali (che è stato anche il mio primo lettore), Sergio
Brancato, Luca Raffaelli, Daniele Barbieri e Alberto Abruzzese (con
cui ho tentato un complesso trasferimento telepatico del testo durato
lunghi anni). Grazie a Nina e al mio Fennec e a Bloody Mary per il
bene e il supporto costante. Grazie ai miei studenti dell’Università
del Salento, che mi hanno sentito tante volte citare Andrea a lezione,
e anche agli studenti del mio primo seminario tenuto alla Sapienza
nel lontanissimo 1994 e dedicato – pensa un po’ – ad Andrea Pazien-
za. In particolare mando un saluto al mio vecchio amico Eugenio Di
Nepi e alle mie amiche Annabella Nucara e Rossella Rega.
That’s all, Folks.
IL CAFFÈ DEI FILOSOFI
Collana diretta da Claudio Bonvecchio, Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio

1. Claudio Bonvecchio (a cura di), La filosofia del Signore degli Anelli


2. Claudio Bonvecchio, I viaggi dei filosofi. Percorsi iniziatici del sapere tra
spazio e tempo
3. Sandro Nannini, La nottola di Minerva. Storie e dialoghi fantastici sulla filo-
sofia della mente
4. Eleonora De Conciliis, Pensami, stupido!
5. Maurizio Elettrico, L’Infante Demiurgo. Manifesto estetico dell’artificiale bi-
ologico
6. Roberto Manzocco, Twin Peaks, David Lynch e la filosofia
7. Giulio M. Facchetti, Erika Notti (a cura di), Atlantide. Luogo geografico, lu-
ogo dello spirito
8. Roberto Manzocco, Pensare Lost. L’enigma della vita e i segreti dell’isola
9. Marcello Ghilardi, Filosofia nei manga. Estetica e immaginario nel Giappone
contemporaneo
10. Claudio Bonvecchio, L’eclissi della sovranità
11. Claudio Bonvecchio, La magia e il sacro
12. Frances A. Yates, L’illuminismo dei Rosa Croce
13. Carmelo Muscato, L’enigma della scelta. Un approccio cognitivo e filosofi-
co-politico
14. Fabio Chiusi, Nessun segreto. Guida minima a WikiLeaks, l’organizzazione
che ha cambiato per sempre il rapporto tra internet, informazione e potere
15. Emma Palese, Da Icaro a Iron Man. Il Corpo nell’era del Post-Umano
16. Carlo Magnani, Filosofia del tennis. Profilo ideologico del tennis moderno
17. Marco Teti, Generazione Goldrake. L’animazione giapponese e le culture
giovanili degli anni Ottanta
18. Achim Seiffarth, Meditazioni sullo shopping
19. Laura Anna Macor, Filosofando con Harry Potter. Corpo a corpo con la morte
20. Roberto Manzocco, Dylan Dog. Esistenza, orrore, filosofia
21. Claudio Bonvecchio (a cura di), La filosofia di Indiana Jones
22. Vittorio Mathieu, Sciagure parallele. Risorgimento italiano e rivoluzione
francese
23. Marcello Barison (a cura di), Borges. Labirinti immaginari
24. Salvatore Patriarca, Il mistero di Maria. La filosofia, la De Filippi e la tele-
visione
25. Alessandro Alfieri-Paolo Talanca, Vasco, il male. Il trionfo della logica
dell’identico
26. Otto Weininger, Sesso e carattere, Introduzione di Franco Rella
27. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto
28. Claudio Bonvecchio (a cura di), Il mito dell’Università
29. Arnaldo Colasanti, Febbrili transiti. Frammenti di etica
30. Jorge Luis Borges, Cartografia di un destino. Interviste, a cura di Tommaso
Menegazzi
31. Antoine Buéno, Il libro nero dei puffi. La società dei puffi tra stalinismo e
nazismo
32. Nicoletta Cusano, Essenza e fondamento dell’amore
33. Paolo Bellini, L’immaginario politico del salvatore
34. Alessandro Grilli, Storie di Venere e Adone. Bellezza, genere, desiderio
35. Santiago Ramón y Cajal, Psicologia del Don Quijote e il quijotismo
36. Pierpaolo Antonello, Dimenticare Pasolini. Intellettuali e impegno nell’Italia
contemporanea
37. Enrico Cantino, Da Goldrake a Supercar Gattiger. Dal semplice al comples-
so: tipologie di robottoni dell’animazione giapponese
38. Enrico Cantino, Da Kenshiro a Sasuke. Gli anime guerrieri e il codice d’ono-
re degli antichi samurai
39. Davide Pessach, Semiotica del calcio in TV. I segni dello sport nello spetta-
colo postmoderno
40. Claudio Bonvecchio, Gian Luigi Cecchini, Marco Grusovin, Simone Paliaga,
Adriano Segatori, Mitteleuropa ed Euroregione, Un destino, una vocazione,
un carattere
41. Pietro Piro, Francisco Franco. Appunti per una fenomenologia della potenza
xe del potere
42. Carmine Castoro, Filosofia dell’osceno televisivo. Pratiche dell’odio contro
la tv del Nulla
43. Roberto Masiero (a cura di), Pensare l’Europa
44. Angelo Villa, Pink Freud. Psicoanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan
a Van De Sfroos
45. Donato Ferdori, Stefano Marino (a cura di), Filosofia e popular music
46. Lucrezia Ercoli, Filosofia della crudeltà. Etica ed estetica di un enigma
47. Salvatore Ferlita, Non per viltade. Papi sull’orlo di una crisi
48. Paolo Ercolani, Qualcuno era italiano. Dal disastro politico all’utopia della rete
49. Flavio Ermini, Essere il nemico. Discorso sulla via estetica alla liberazione
50. Federico Nicolaci, Tempio vuoto. Crisi e disintegrazione dell’Europa
51. Antonio Guerrieri, Apple come esperienza religiosa
52. Erik Peterson, Il mistero degli ebrei e dei gentili nella Chiesa
53. Richard Greene e Peter Vernezze, I Soprano e la filosofia. Uccido dunque
sono, traduzione e cura di Andrea Signorelli
54. Richard Greene e K. Silem Mohammad (a cura di), Quentin Tarantino e la
filosofia. Come fare filosofia con un paio di pinze e una saldatrice
55. Natale Sansone (a cura di), La filosofia del marchese De Sade
56. Sergio Benvenuto, Antonio Lucci, Lacan, oggi. Sette conversazioni per capire
Lacan
57. Enrico Cantino, Da Lamù a Kiss me Licia. Le dinamiche di coppia secondo
l’animazione giapponese
58. Enrico Cantino, Da Mimì Ayuhara a Oliver Hutton. Gli anime sportivi e lo
spirito di gruppo
59. Stefano Petruccioli, Gli X-Men e la filosofia
60. Ernesto L. Francalanci, Estetica del potere. Figure dell’ordine e del disordine
61. Furio Colombo, Athos De Luca, con Vittorio Pavoncello, Il paradosso del
Giorno della Memoria. Dialoghi
62. Andrea Calzolari (a cura di), Mondobugia. Undici variazioni sul mentire
63. Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attra-
verso l’orrore
64 Richard Greene e K. Silem Mohammad (a cura di), La filosofia di zombie e
vampiri. Una nuova vita per i non morti
65. Jean-Luc Nancy, Tommaso Tuppini, 2014
66. Pino Bertelli, Guy Debord. Anche il cinema è da distruggere! Sul cinema
sovversivo di un filosofo dell’eresia e commentari sulla macchina/cinema
67. Matteo Galli, Il sogno e il tempo. Due saggi su Wenders
68. Leonardo Vittorio Arena, Sul nudo. Introduzione al nonsense
69. Enrico Cantino, Dall’incantevole Creamy a Pollon. Maghette e incantesimi
nell’animazione giapponese
70. Enrico Cantino, Da Heidi a Lady Oscar. Le eroine degli anime al femminile,
71. Stefano Petruccioli, X-MEN. Per un’etica indagata in stile mutante
72. Pino Bertelli, Guy Debord un filosofo sovversivo. Per una critica radicale
della civiltà dello spettacolo e la rivolta della gioia dell’Internazionale
Situazionista
73. Carmine Castoro, Clinica della TV. I dieci virus del Tele-Capitalismo. Filosofia
della Grande Mutazione
74. Monia Andreani, Peppa Pig e la filosofia. Tra antropologia e animalità
75. Mario De Caro, Biografie convergenti. Venti ircocervi filosofici, con illustrazioni
di Guido Scarabottolo
76. Enrico Petris, Rosso, nero e Pasolini
77. Umberto Vincenti, Etica per una Repubblica
78. Alberto Abruzzese e Gian Piero Jacobelli (a cura di), Bond, James Bond.
Come e perché si ripresenta l’agente segreto più famoso del mondo
79. Matteo Boscarol (a cura di), I mondi di Miyazaki. Percorsi filosofici negli
universi dell’artista giapponese
80. Massimiliano Pandimiglio, Rugby Football. Storia e mito di uno sport che è
quasi una religione
81. Nicola Perullo, Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto
Finito di stampare
nel mese di xxxx 2017
da Digital Team - Fano (PU)

Potrebbero piacerti anche