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Punch One Night Two Lives and The Fight That Changed Basketball Forever

Il libro 'Punch One Night Two Lives And The Fight That Changed Basketball Forever' esplora un evento cruciale nella storia del basket che ha avuto un impatto duraturo sullo sport. Disponibile in vari formati, il testo promette di offrire una narrazione avvincente e approfondita. È possibile acquistarlo su alibris.com.

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Punch One Night Two Lives And The Fight That Changed

Basketball Forever

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Punch One Night Two Lives And The
Fight That Changed Basketball
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ISBN: 9780316279727
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Language: English
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.
entrare un frate in Pistoia, il quale per parte loro promise le più belle
cose del mondo a quel popolo, di maniera che parte per la fame,
giunta quasi all'estremo, e parte pel dolce suono delle esibite
vantaggiose condizioni, renderono infine la terra nel dì 10 d'aprile
[Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital.]. Niuna promessa fu loro attenuta; anzi
un terribile strazio si fece di quell'infelice città. Divisero i Fiorentini e
Lucchesi fra loro il contado, atterrarono tutte le mura e fortezze della
città, e ne spianarono le fosse. Infierirono ancora contro i palagi e le
case dei Ghibellini e Bianchi, diroccandole: in una parola, restò
Pistoia uno scheletro, e sotto l'aspro governo de' vincitori. Venne in
Italia il cardinal Napoleone, e, udita la resa di Pistoia, ne fu molto
dolente. Andossene a Bologna per rimetter quivi la pace e gli usciti.
Anche ivi lavorarono sottomano i Fiorentini [Dino Compagni, lib. 3, tom. 9
Rer. Italic. Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.], con far giocare danaro, e
indussero que' maggiorenti ad opporgli un trattato pregiudiziale allo
stato loro. Perciò nel dì 22 di maggio commosso il popolo a rumore,
colle armi in mano corse al palazzo del legato con tal furore e
minaccie, che gli convenne sloggiare, e furono morti alcuni di sua
famiglia, e rubata, nell'andarsene, buona parte de' suoi ricchi arnesi.
Pien di vergogna e rabbia si ritirò il cardinale ad Imola, e, quivi
stando, nel dì 24 di giugno [Annal. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] scomunicò i
rettori ed anziani di Bologna, mise l'interdetto alla città, la privò dello
Studio, con dichiarare scomunicato chi v'andasse a studiare: il che fu
la fortuna di Padova, perchè tutti gli scolari passarono allo Studio di
quella città. Aveva egli fatto sapere anche a' Fiorentini di voler
visitare la lor città, per liberarla dall'interdetto e dalle censure. Gli fu
fatto intendere che non s'incomodasse, perchè per allora non aveano
bisogno di sue benedizioni: con che restò egli nemico ancora di
Firenze, e riconfermò l'interdetto e l'altre pene spirituali, delle quali
erano già aggravati. Signori di Bertinoro in questi tempi erano i
Calboli, e faceano mal governo. Alberguccio dei Mainardi, aiutato da'
Forlivesi e Faentini, nel dì 6 di giugno prese la terra; ed essendosi
ritirati i Calboli nel Girone, por mancanza di vettovaglia, furono
astretti a renderlo, salve le robe e le persone. Secondo la Cronica
Forlivese [Chron. Forolivien., tom. 22 Rer. Ital.], passò quella nobil terra in
potere del comune di Forlì. Una somigliante disgrazia accadde a
Pandolfo Malatesta, che era podestà e quasi signore di Fano. Ne fu
egli scacciato nel luglio di quest'anno, ancorchè avesse per sua
guardia cinquecento cavalieri e trecento pedoni. Poscia nel seguente
agosto anche il popolo di Pesaro, di cui era podestà, il fece con mala
grazia uscire della lor città. Perdè egli finalmente anche Sinigaglia, di
cui era quasi signore. Per attestato del Corio [Corio, Istor. di Milano.],
Matteo Visconte venne con un buon corpo di soldatesche in
quest'anno per prendere Vavro sul fiume Adda; ma, accorsi i Milanesi
coi lor collegati, fecero restar vani i di lui attentati. Però, conoscendo
egli troppo contraria a sè la presente fortuna, si ritirò finalmente in
solitario luogo a far vita privata e nascosa, aspettando tempi più
propizii a' suoi desiderii. Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, lib. 3, tom.
9 Rer. Italic.] scrive che egli si ricoverò prima al lago d'Iseo, e poscia
andò ad abitare nella villa di Nogarola, che era di Bailardino da
Nogarola, nei confini di Mantova, dove da povero signore dimorò
circa cinque anni. Galeazzo suo figliuolo fu in questi tempi podestà di
Trivigi.
In Genova [Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] per la
festa dell'Epifania i Doria (a riserva di Bernabò Doria) con altri grandi
della fazion mascherata, cioè ghibellina, presero l'armi per
abbassargli Spinoli e la parte popolare. Furono vinti dalla forza del
popolo, e se n'andarono in esilio. Allora il popolo costituì capitani e
governatori della città il suddetto Bernabò ed Obizzone Spinola da
Lucolo. Anche il popolo piacentino [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital.]
diviso in due fazioni fu in armi nel dì 16 di maggio. Restarono
superiori nel conflitto i Laudi, i Fulgosi e Visconte Pelavicino, e fu
cacciata dalla città la famiglia de' Fontana con tutti i suoi seguaci.
Approdò in quest'anno a Genova Teodoro figliuolo di Andronico
Comneno imperador de' Greci, venuto per entrare in dominio del
Monferrato [Guillelmus Ventura, Chron. Astens., cap. 42 tom. 11 Rer. Ital.],
lasciatogli in eredità dal fu marchese Giovanni suo zio. Ma trovò
quegli Stati per la maggior parte occupati da Manfredi marchese di
Saluzzo e dai fuorusciti d'Asti. Si prevalse di quella occasione
Obizzino Spinola, uno de' capitani e come signori di Genova, per
fargli prendere in moglie Argentina sua figliuola, al che condiscese
Teodoro per isperanza d'essere assistito ne' correnti suoi bisogni dal
potente suocero, e in considerazione ancora di un'altra figliuola
d'esso Obizzino Spinola, maritata con Filippone conte di Langusco e
signor di Pavia, la cui parentela potea molto giovargli. Ciò fatto,
venne a Casale di Sant'Evasio, accolto con gran festa da quel popolo
e da altre terre del Monferrato, che s'erano conservate fedeli, e si
gloriavano di aver per loro padrone il figliuolo d'un imperadore. Qual
fosse lo stato allora del Monferrato e del Piemonte, l'abbiamo da
Guglielmo Ventura, chiamato Ruffino da Benvenuto da San Giorgio
[Benvenuto da S. Giorgio, Istoria del Monferrato, tom. 23 Rer. Ital.]. Avea il
suddetto marchese di Saluzzo occupate molte terre che erano in
Piemonte, già possedute da Carlo I re di Sicilia. Nell'anno precedente
mandò il re Carlo II, nel mese di marzo, Rinaldo da Leto Pugliese
suo siniscalco con cento uomini d'armi ed altrettanti balestrieri in
Piemonte. La città d'Alba e le terre di Cherasco, Savigliano e
Montevico giurarono nelle di lui mani di nuovo fedeltà al re. Dopo di
che egli, coll'aiuto degli Astigiani, tolse Cuneo ed altri luoghi al
marchese di Saluzzo, il quale tra per levarsi di dosso questo possente
nemico, e per poter tenere le molte terre già occupate nel
Monferrato, venne ad un accordo col re Carlo II nel dì 7 di febbraio
dell'anno presente, con riconoscere da lui in feudo il marchesato del
Monferrato, e cedergli Nizza della Paglia e Castagnole, terre del
medesimo marchesato. Niuna ragione avea il re Carlo sopra del
Monferrato; ma il marchese venne a questo atto per sostener la
preda colla protezione ed aiuto del re contra del greco Teodoro.
Quanto agli Astigiani, essendo capitato ad Asti Filippo di Savoia
principe della Morea, che tornava di Levante con due soli compagni,
e trovandosi quel popolo assai stretto per le molte terre del loro
contado occupate dalla fazion dei Gottuari fuorusciti, venne in parere
di prendere questo principe per suo capitano per tre anni avvenire,
dandogli ventisette mila lire ogni anno: con che egli dovesse tenere
cento uomini d'armi al loro servigio. A man baciata accettò il principe
questo impiego, sperando fra qualche tempo di piantar quivi le radici
con divenir signore di quella allora assai ricca città. Nè passarono
mesi, ch'egli imperiosamente ne richiese il dominio a que' cittadini, la
metà per lui, e l'altra per Amedeo conte di Savoia suo parente. Fu in
pericolo della vita per questo, tanto se ne sdegnarono gli Astigiani;
ma si disdisse, e cessò il rumore. Avendo poi desiderato il marchese
Teodoro d'abboccarsi con esso principe e coi deputati d'Asti al ponte
della Rotta, si videro insieme, e, per attestato del Ventura, Filippo
corse ad abbracciare e baciare, con bacio poco corrispondente al
cuore, il marchese; e, poi trattatosi di lega, promise quanto l'altro
desiderò. Ma appena fu ritornato ad Asti, che scoprì il suo mal animo
contra di Teodoro, ed aspramente comandò agli Astigiani di astenersi
dal far lega con lui, non senza maraviglia di chi era intervenuto al
suddetto abboccamento. Anche un uffiziale del re Carlo avea voluto
indurlo con vantaggiose condizioni a far lega col suo signore contra
del marchese di Saluzzo; e il principe ricusò tutto. Ne fu informato il
re con esagerazion dell'uffiziale, e andò così in collera, che giurò di
vendicarsene; e gli attenne la parola, perchè spedì Filippo principe di
Taranto suo figliuolo con una armata che gli occupò il principato
della Morea. Allora Filippo di Savoia quasi per forza contrasse lega in
Piemonte col re Carlo, e perchè gli Astigiani presero la villa di
Cavalerio senza sua saputa, si ritirò da Asti; e favorendo poscia i
fuorusciti di quella città, seguitò a guerreggiare unito co' Provenzali
contra di Teodoro marchese di Monferrato. Tale era allora lo stato di
quelle contrade.
Cristo mcccvii. Indizione v.
Clemente V papa 3.
Anno di
Alberto Austriaco re de' Romani
10.

Desiderando Filippo re di Francia di fare un abboccamento col


papa, fu scelta a questo effetto la città di Poitiers [Raynald., in Annal.
Eccl.]. Quivi il re, non contento dell'avere dianzi il pontefice abolite le
costituzioni di papa Bonifazio VIII pregiudiziali ai diritti dei re
franzesi, tuttavia, pieno di livore, fece di forti istanze al papa perchè
condannasse la memoria di papa Bonifazio, con ispacciarlo per
simoniaco ed eretico. In prova di che, dicea d'aver testimonii degni
di fede. Volle Dio che Niccolò cardinale da Prato eludesse il mal
talento del re [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 91.] con suggerire al papa un
ripiego atto a dilungare ed imbrogliar la faccenda. E fu quello di
rispondere, che cosa di tanto momento, riguardante tutta la Chiesa,
non si potea trattare e risolvere se non in un concilio generale. Al
che non potendo di meno, acconsentì il re; e fu determinato di
tenerlo in Vienna del Delfinato. Propose ancora il re in quel
congresso di processare i cavalieri del Tempio, che, possedendo di
grandi ricchezze e beni per tutta la cristianità, si erano dati forte al
lusso e al libertinaggio, pretendendo giunta la depravazione dei lor
costumi ai più abbominevoli ed enormi vizii, e sino a rinnegar la fede
di Gesù Cristo. Altro io non dirò intorno a questa materia, se non che
con mano forte si procedè contra d'essi Templari, imprigionati per
tutta la Francia, e poscia per gli altri regni, il numero de' quali si fa
ascendere da Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, lib. 3, tom. 9 Rer. Ital.]
a quindici mila. Costoro, se crediamo ai processi fatti in questo e nei
susseguenti anni, furono trovati rei e convinti d'enormità inudite,
d'apostasia e d'idolatria. Si sa che nel concilio di Vienna fu poscia
abolito l'ordine, e confiscati gl'immensi lor beni a profitto del papa e
dei re; la maggior parte de' quali fu venduta ai cavalieri dello
Spedale, oggidì di Malta, con grande loro svantaggio nondimeno,
perchè si caricarono di tanti debiti per denari presi ad usura affin di
far sì grossi acquisti, che gran tempo ne languì l'ordine loro. Da molti
fu quella sentenza tenuta per giustissima. Ma non si potè levar di
capo ai più di que' tempi (e lo confessa il Villani [Giovanni Villani, lib. 8,
cap. 92.] con altri Italiani, e sopra ciò s'è veduto anche ai dì nostri un
libro di autore franzese) che quella non fosse un'iniqua invenzione di
Filippo il Bello re di Francia per arricchirsi colle spoglie loro, siccome
dianzi avea fatto delle tante ricchezze degli Ebrei che egli scacciò dal
regno suo. Dicevano essi che non ci voleva molto ai re il far
comparire con dei processi e tormenti colpevole chi era in loro
disgrazia, o per vendicarsi di loro o per assorbire i loro beni; e che se
fosse toccato al re Filippo di formar anche il processo a papa
Bonifazio, egli sarebbe apparuto simile ai Templari, quando pure
ognun sapeva essere false le imputazioni a lui date dal medesimo re.
Noto è altresì che il gran maestro e tanti altri cavalieri del Tempio
bruciati vivi, o in altra guisa giustiziati, protestaronsi sempre
innocenti de' falli loro apposti, e però da molti furono creduti martiri
della cupidigia di quel re, principe diffamato per altri suoi gravi
eccessi. Il perchè le disavventure occorse a lui, e la mancanza della
sua linea furono attribuite dagli speculativi de' giudizii di Dio a questi
ed altri atti della prepotenza sua. Guglielmo Ventura [Guillel. Ventura,
Chron. Astense, cap. 27, tom. 11 Rer. Ital.] scrittore contemporaneo, santo
Antonino [S. Anton., P. III, tit. 21, Istor. Pistolesi, tom. 11 Rer. Ital., pag. 518.]
ed altri son da vedere intorno a questo argomento. Intanto a noi
conviene il sospendere qui i giudizii nostri, lasciando a Dio solo, che
non può ingannarsi, la cognizione della verità, bastando a noi
d'avere inteso il fatto e le varie opinioni d'allora.
Vidersi ancora nell'anno presente di grandi rivoluzioni in Italia.
Cominciarono i Modenesi a provare il frutto della lor ribellione alla
casa d'Este [Annales Veteres Mutinenses, tom. 11 Rer. Ital. Chron. Bononiense,
tom. 18 Rer. Ital. Annal. Estenses, tom. 15 Rer. Italic.]. A tradimento tolsero
loro i Bolognesi la terra di Nonantola; e l'arciprete de' Guidoni (dal
Morani è detto de' Guidotti, siccome ancora dal Gazata [Gazata,
Chronic. Regiense, tom. 18 Rer. Italic.]) occupò l'altra del Finale. Inoltre
menavano essi Bolognesi un trattato coi Guelfi modenesi
d'impadronirsi della città di Modena, e vennero coll'esercito fino a
Spilamberto. Ma scoperto il macchinato tradimento verso la festa di
Pasqua, furono in armi le due interne fazioni, e riuscì a quei di
Sassuolo, da Livizzano, da Ganaceto e ai Grassoni, tutti Ghibellini, di
superare e cacciar fuori di città i Savignani, Rangoni, Boschetti,
Guidoni, Pedrezzani ed altri Guelfi. L'autore della Cronica di Parma,
vivente in questi tempi, fa qui un brutto elogio di Modena, con dire
che essa [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] semper fuit in his partibus
Lombardiae exordium motionum, et novitatum origo, ex antiguis
odiis partium, scilicet guelfae et ghibellinae: quasi che anche
tant'altre città di Lombardia, Toscana, Romagna, ec. non fossero
infette del medesimo morbo. Furono parimente non pochi rumori nel
mese di marzo in Parma, dove s'era tramata una congiura per torre
la signoria a Giberto da Correggio. Molti perciò furono presi e
tormentati, ed altri, sì nobili che plebei, mandati ai confini. Scoprissi
ancora nel mese di giugno un nuovo trattato contra d'esso Giberto;
ed altri ne fuggirono, o furono confinati. Più strepito ancora fecero in
questi tempi le rivoluzioni di Piacenza. Alberto Scotto cogli altri usciti
di quella città, e con gli usciti di Parma ed altri amici [Chron. Placentin.,
tom. 16 Rer. Ital.], dopo aver data una rotta ai Piacentini a Roncaruolo,
entrò in castello Arquato, e in Fiorenzuola nella vigilia di san Jacopo.
Nel dì seguente cavalcò alla volta di Piacenza, e gli fu data una
porta, e però con tutti i suoi liberamente v'entrò. Ne fuggirono tutti i
suoi avversarii, cioè Ubertino Lando, i Pelavicini, Anguissoli ed altre
nobili famiglie ghibelline, e si ridussero in Bobbio. In tali occasioni
compassionevole spettacolo era il veder anche le nobili donne coi
loro figliuolini andarsene raminghe in esilio, e il mirar saccheggiate
ed atterrate le case loro. Diedero poi essi fuorusciti una rotta ai
Piacentini dominanti al luogo di Pigazzano. Questo avvenimento,
secondo la Cronica di Piacenza, fece risolvere, sul fine dell'anno, quel
popolo a prendere per due anni in suo capitano, difensore e signore
Guido dalla Torre, poco prima divenuto signor di Milano, il quale
mandò colà per podestà Passerino dalla Torre. Guerra grande fatta
fu in quest'anno dai Mantovani, Veronesi, Bresciani e Parmigiani
[Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] al comune di Cremona. Perchè tanti si
unissero contra de' Cremonesi, non l'accennano le storie.
Probabilmente fu perchè essi si governavano a parte ghibellina, e
Guelfi erano i cremonesi. In aiuto di Cremona mandò il comune di
Milano [Corio, Istor. di Milano.] due mila fanti con molta cavalleria nel dì
24 d'agosto: nel qual tempo i Mantovani con grosso naviglio per Po,
secondati da tutte le forze de' Parmigiani, entrati nel distretto
cremonese, presero e diedero alle fiamme il ponte di Dosolo,
Montesoro, Viadana, Portiolo, Casalmaggiore, Rivaruolo, Luzzara,
Pomponesco ed altri luoghi. A Giberto da Correggio signor di Parma
si arrendè Guastalla, ed egli ne fece spianar le fosse ed atterrar tutte
le fortificazioni. Da gran tempo era Guastalla de' Cremonesi, e di qua
apparisce fin dove si stendeva allora la giurisdizion di Cremona. I
Veronesi dal canto loro presero e distrussero la terra di Piadena. Ed i
Bresciani andarono a Rebecco, ed arrivarono sino alle porte di
Cremona saccheggiando e bruciando dappertutto. Chi non dirà
forsennati gli Italiani d'allora sempre inquieti, sempre torbidi, sempre
rivolti a distruggersi l'un l'altro, disuniti in casa, e talvolta uniti co'
vicini solamente per portare ad altri la rovina e la morte? Si rinnovò
poi questo flagello anche nel settembre, con essere ritornati questi
popoli ai danni del Cremonese. Vennero anche i Milanesi, Piacentini,
Lodigiani e Pavesi con tutte le lor forze sino a Borgo San Donnino, e
diedero il guasto a quei contorni, a e Soragna e ad altri luoghi. In
favor di Cremona uscì ancora Azzo marchese d'Este co' Ferraresi
[Annales Estenses, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], e con
un buon corpo di Catalani a lui inviati dal re Carlo II suocero suo,
menando un copioso e possente naviglio per Po, col disegno di
mettere l'assedio ad Ostiglia, terra allora de' Veronesi; ma quel
presidio, senza volerlo aspettare, attaccò il fuoco alla terra, e se
n'andò. Di là passò il marchese estense ad assalir Serravalle dei
Mantovani; lo prese per forza, e ne tagliò il ponte, con poscia
dirupare il castello, le torri e fortezze di quella terra. Ed allora fu
ch'egli soggiogò tutte le navi armate de' Mantovani e Veronesi; fra le
quali erano sei grosse galee, ed altre barche incastellate con
battifredi da due ponti; e tutte con gran bottino le condusse a
Ferrara.
Teodoro marchese di Monferrato coll'aiuto di Filippone conte di
Langusco e signor di Pavia, suo cognato [Chron. Astense, cap. 44, tom. 11
Rer. Ital.], ricuperò in quest'anno la terra di Luy. Ma Rinaldo da Leto,
siniscalco del re Carlo II, con Filippo di Savoia e Giorgio marchese di
Ceva, ammassato un buon esercito, uscì in campo nel mese d'agosto
contra di lui. Il conte di Langusco, dopo aver fatto ritirare Teodoro in
luogo sicuro, andò, benchè inferiore di forze, arditamente ad
azzuffarsi coi nemici, ed aspra fu la battaglia. Ma sbaragliati rimasero
i Monferrini e Pavesi; e Filippone, fatto prigione, fu inviato al re
Carlo, dimorante in Marsilia, che gli diede per carcere un castello
della Provenza. Obizzino Spinola, capitano allora di Genova, e
suocero d'esso Filippone e del marchese Teodoro, con promettere ad
esso re il soccorso di un grande stuolo di galee genovesi per
ricuperar la Sicilia, ottenne, dopo sei mesi, la libertà di esso suo
genero. Fece anche cedere a sè stesso ogni pretensione che potesse
avere il re sopra il Monferrato. Inoltre impetrò la restituzion delle
terre di Moncalvo e Vignale, occupate al Monferrato, le quali egli
ritenne per sè senza renderle al genero marchese Teodoro.
Mancarono di vita in quest'anno nella città di Milano [Corio, Istoria di
Milano.] Mosca e Martino dalla Torre. Capo di quella casa restò Guido
figliuolo di Francesco. Questi nel dì 17 di settembre nel pieno
consiglio fu eletto capitano del popolo per un anno: il che vuol dire
signore. E in questa cronologia sembra più fedele ed esatto il Corio
storico milanese, che Galvano Fiamma e l'autor degli Annali di
Milano. Consultò il primo migliori memorie che gli altri. Da lì a non
molto, siccome ho detto, anche i Piacentini presero esso Guido per
lor capitano. Passò in quest'anno dalla Romagna ad Arezzo il cardinal
Napoleone degli Orsini, legato pontificio [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 89.],
e siccome disgustato dei Fiorentini che non voleano prestargli
ubbidienza alcuna, cominciò a fare una gran raunata di gente, tanto
di terra di Roma, del ducato di Spoleti, della marca d'Ancona, quanto
della Romagna e dei Ghibellini di Toscana. I Fiorentini, che vedeano
prepararsi questo nuvolo contra di loro, nol vollero aspettare; e
richiesti gli amici, misero insieme un'armata dì quindici mila fanti e
tre mila cavalli, e con essa entrarono nel contado d'Arezzo, facendo
ivi que' buoni trattamenti che solea far la guerra di que' tempi. Per
consiglio dei saggi, uscì d'Arezzo il cardinale, facendo vista di andar
pel Casentino alla volta di Firenze. Allora i Fiorentini, per timore che
egli avesse delle intelligenze nella loro città, disordinatamente
alzarono il campo, e chi più potea si affrettò per correre a Firenze.
Se il cardinale era ben avvertito, li potea con facilità mettere in
isconfitta. Andò egli poscia a Chiusi, e mandò innanzi e indietro
ambasciate a' Fiorentini per ridurre gli usciti in Firenze [Dino Compagni,
Chron., tom. 9 Rer. Ital.]; ma nulla potè ottenere; di modo che, vedendo
scemato il suo credito e potere, e sè stesso anche dileggiato, se ne
tornò assai malcontento di là da' monti ad informar la corte pontificia
della sua fallita legazione, che gli fu anche levata: tante furono le
segrete cabale de' Fiorentini nella corte papale. Volle in quest'anno
Malatestino dei Malatesti tentare di ricuperar Bertinoro [Chron. Caesen.,
tom. 14 Rer. Ital.], e ne avea già ordito il tradimento con Alberguccio
de' Mainardi. V'andò nel dì 6 d'agosto con parte della milizia di
Rimini e con tutta quella di Cesena, ed ebbe una parte della terra,
ma non il girone e la torre. Portatone l'avviso a Forlì, Scarpetta degli
Ordelaffi, capitano di quella città, marciò in fretta con tutta la
soldatesca, diede loro battaglia e li sconfisse. Si rifugiò parte de'
Riminesi e Cesenati nel castello; ma da lì a due giorni, per difetto di
vettovaglia, furono costretti a rendersi. Quasi due mila persone
restarono prigioniere, e andarono a far penitenza nelle carceri di
Forlì. Anche i Bolognesi fecero guerra a Faenza ed Imola [Chronic.
Bononiense, tom. 18 Rer. Ital.], e s'impadronirono del castello di Lugo. In
Roma si attaccò il fuoco alla sacra basilica lateranense, e tutta la
bruciò, insieme colle case dei canonici: disgrazia che recò sommo
dolore al popolo romano, e fu presa per presagio delle calamità che
avvennero. Ma non passarono molti anni, che unitisi i buoni di Roma,
uomini e donne, ed aiutati anche dal papa, la rifecero come prima
[Bernard. Guid., in Vit. Clementis V.]. Erano già più anni che Dulcino, nato
in Val d'Ossela, diocesi di Novara, eretico della setta de' Catari
ossieno Gazzeri, specie di Manichei [Historia Dulcini, tom. 9 Rer. Ital.
Bernardus Guid., Giovanni Villani, et alii.], andava infettando la Lombardia
co' suoi perversi errori. Si ridusse costui in una montagna del
Vercellese co' suoi seguaci in numero di circa mille e trecento, dove,
per mantenersi quella canaglia, altro ripiego non avea che di
saccheggiare le ville vicine. Predicata contra di essi la crociata,
furono essi assediati in quel monte, e finalmente nel dì 23 di marzo
dell'anno presente obbligati per la fame a rendersi. Dulcino colla
moglie Margherita ed altri pochi, senza volersi mai ravvedere, furono
bruciati vivi: con che estirpata rimase la pestilente sua setta.
Cristo mcccviii. Indizione vi.
Clemente V papa 4.
Anno di
Arrigo VI, detto VII, re dei
Romani 1.

Succedette nel primo dì di maggio di quest'anno la morte funesta


di Alberto Austriaco re de' Romani [Bernard. Guid. Ptolomaeus Lucens.
Ferretus Vicent. et alii.]. Grande odio gli portava Giovanni figliuolo di un
suo fratello primogenito, pretendendosi gravato da lui, perchè gli
negava una parte, nonchè il tutto, degli Stati dovuti a lui per le
ragioni del padre. Partitosi da Baden il re Alberto, nel passare il
fiume Orsa, fu assalito dal nipote con una mano di sicarii, e trafitto
da più spade, quivi lasciò la vita. Restarono di lui più figliuoli, il
primogenito de' quali Federigo fu duca d'Austria e signore d'altri Stati
spettanti a quella nobilissima casa. Trattossi dipoi di eleggere il
successore; ed uno di quei che più vi aspiravano, fu lo stesso duca
Federigo. Ma insorta gran discordia fra gli elettori, si mise allora in
pensiero Filippo il Bello re di Francia di far cadere quella corona in
capo a Carlo di Valois suo fratello, che ne avea già avuto promessa
da papa Bonifazio VIII [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 95.]. Fu perciò risoluto
nel suo consiglio di preparar un'armata per entrare in Germania, e
dar calore alla dimanda coll'efficace raccomandazione dell'armi, e
intanto di procurar anche i premurosi ufficii pel papa. Penetrò la
corte pontificia questi disegni non senza affanno del pontefice, il
quale, se s'ha a credere a Giovanni Villani, richiese del suo parere
l'accortissimo cardinale Niccolò da Prato. Questi il consigliò di
scrivere immediatamente agli elettori dell'imperio, ordinando che
senza dilazione procedessero all'elezione, con suggerir loro ancora
che Arrigo conte di Lucemburgo, principe pio, savio e ornato d'altre
belle doti, pareva a lui il più a proposito pel romano imperio.
Camminò la faccenda come avea divisato il papa col cardinale. Arrigo
fu eletto quasi a voti pieni re dei Romani nel dì di santa Caterina
[Henric. Stero, in Chron. Albert. Argentinens., in Chron. Bernard. Guid. Albertinus
Mussatus. Ferretus Vicentinus, et alii.], e poi pubblicata l'elezion sua nel dì
27 di novembre, e non già nell'Ognissanti, o in altro giorno, come
alcuni lasciarono scritto. Meraviglia recò ad ognuno l'udire preferito a
tanti altri potenti principi Arrigo, principe di nobile schiatta bensì, ma
di pochi Stati provveduto. Secondo il Villani, corse subito la nuova di
questa inaspettata elezione alla corte del re di Francia, mentre egli si
apparecchiava per andare al papa, affine di averlo favorevole in
questo affare; ed accortosi che Clemente V vi aveva avuta mano per
escludere Carlo suo fratello, da lì innanzi non fu più suo amico. Ma
non si sa intendere come il re Filippo dal dì primo di maggio, in cui
tolto fu dal mondo il re Alberto, sino al dì 25 o 27 di novembre,
giorno nel quale si pubblicò L'elezione di Arrigo, tardasse tanto,
giacchè ardea di voglia di quella corona, ad impegnare gli uffizii del
pontefice in favor del fratello. Sembra ben più probabile che se li
procacciasse per tempo, ma che restasse burlato con altre segrete
insinuazioni fatte fare dal medesimo Clemente. Furono poi spediti da
esso Arrigo solenni ambasciatori al papa, cioè i vescovi di Basilea e
di Coira, Amedeo conte di Savoia Guido conte di Fiandra, Giovanni
Delfino di Vienna, ed altri baroni [Joannes de Cermenat., tom. 9 Rer. Italic.
Franciscius Pipinus, Chron., tom. 9 Rer. Ital.], per ottenere il consenso
pontificio: il che fu facilmente conceduto. Tale ambasceria vien dai
più riferita all'anno seguente, ma dovette precederne un'altra
almeno, certo essendo che Arrigo fu coronato in Aquisgrana
nell'Epifania dell'anno seguente, e ciò non par fatto senza la
precedente approvazione del papa. Fu questo Arrigo il sesto fra
gl'imperadori, ma comunemente vien chiamato Arrigo settimo,
perchè tale nell'ordine dei re di Germania di tal nome.
Cadde infermo in quest'anno ancora Azzo VIII marchese d'Este,
signor di Ferrara, Rovigo e d'altri Stati, ed anche conte d'Andria nel
regno di Napoli [Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital. Chron. Bononiens., tom. 18
Rer. Ital. Peregrinus Priscianus. Annal. MSS. et alii.]. Fecesi portare ad Este,
sperando miglioramento da quell'aria salubre; e furono a visitarlo, e
a far pace con lui i suoi due fratelli Francesco e Aldrovandino
marchesi. Ma quivi nell'ultimo dì di gennaio finì di vivere. Questo
principe d'alte idee, ma d'idee mal condotte, dopo aver vivente recati
notabili danni alla sua casa coll'aver perdute le città di Modena e di
Reggio, ben peggio fece morendo, perchè lasciò suo successore nel
dominio di Ferrara e degli altri suoi Stati Folco, figliuolo legittimo di
Fresco suo figliuolo bastardo, con escludere i Suoi legittimi fratelli
Francesco ed Aldrovandino, e i figliuoli di quest'ultimo. La Cronica
Estense [Annales Estenses, tom. 15 Rer. Ital.] ha, ch'egli ritrattò un sì fatto
testamento; ma certamente gli effetti si videro in contrario, e di qua
venne un gran crollo alla famiglia estense. Fresco, aiutato dai
Bolognesi, giacchè il figliuolo non era giunto ad età capace di
governo, prese le redini della signoria di Ferrara, che gli fu
confermata, benchè mal volentieri, dal popolo. Ma nel medesimo
tempo il marchese Francesco d'Este co' suoi nipoti si mise in
possesso d'Este, di Rovigo e d'altre terre, e in quella della Fratta
diede una rotta alle genti di Fresco. Così cominciò la guerra fra loro.
Stabilì Fresco pace coi Mantovani, Veronesi, Bresciani, Parmigiani,
Reggiani e Modenesi. Il popolo di Ferrara, essendo molto portato a
voler i principi estensi legittimi, cominciò a fare delle congiure contra
di lui, le quali svanirono colla morte di molti. Ricorsero gli Estensi
legittimi al papa in Francia per implorar il suo patrocinio ed aiuto; ed
oh con che benignità furono ascoltati! Promise quella corte mari e
monti, purchè riconoscessero Ferrara per città della Chiesa romana;
dal che s'erano nel secolo addietro guardati gli altri Estensi. Dacchè
questo fu ottenuto, allora furono spediti uffiziali e milizie in Italia per
prendere il possesso di Ferrara coll'assistenza del marchese
Francesco; e per questo i Ferraresi cominciarono a tumultuar più che
mai contra di Fresco [Raynaldus, Annal. Eccles.]. Veggendo la mal parata,
fece anch'egli ricorso ai Veneziani, e propose di ceder loro con varii
patti quella città. Niuna fatica si durò perchè essi accettassero la
proposizione, e non tardarono ad inviar colà gran copia di
soldatesche, le quali entrarono e si fortificarono in castel Tealdo;
cosa che maggiormente accese l'ira de' Ferraresi, popolo già avvezzo
ad avere il suo principe, e alieno dall'ubbidire agli stranieri. Per altro,
anche i Bolognesi, Mantovani e Veronesi amoreggiavano in queste
occasioni Ferrara, e mossero l'armi per tentarne l'acquisto. Anzi
Bernardino da Polenta co' Ravegnani e Cerviesi proditoriamente
v'entrò una notte, e si fece eleggere signore d'essa città per cinque
anni avvenire. Ma non vi si fermò che otto giorni, saccheggiando
tutto quel che potè. I Veneziani quei furono che riportarono il pallio.
Li fece ben ammonire il papa [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] di
desistere e ritirarsi da quella impresa, perchè Ferrara era terra della
Chiesa romana; ma si parlò ai sordi. Un dì poscia le milizie pontificie
con Francesco marchese d'Este ed altri fuorusciti, e con Lamberto da
Polenta condottiere de' Ravegnani entrarono in quella città, gridando
invano il popolo: Viva il marchese Francesco; e ne presero il
possesso a nome del papa, senza più poi pensare a rimetterla in
mano degli Estensi. Succederono poi varie battaglie tra i Ferraresi e
Veneziani, e talmente prevalsero gli ultimi, che nel dì 27 di novembre
convenne ai Ferraresi d'implorare pace o tregua, e di prendere quel
podestà che piacque ai Veneziani. Allora furono ammesse in città le
famiglie de' Torelli, Ramberti, Fontanesi, Turchi, Pagani ed altri
sbanditi dalla città, perchè Ghibellini e nemici degli Estensi.
In Parma non furono minori le rivoluzioni [Chron. Parmense, tom. 9
Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.]. Nel dì 24 di marzo
cominciarono una rissa fra loro i Ghibellini ed i Guelfi; e nel dì
seguente passò questa in una fiera guerra civile, in cui rimasero
morte molte persone, rubate ed incendiate moltissime case.
Maggiormente si rinforzò nel dì 26 la tempesta dell'armi, stando
sempre Giberto da Correggio signore della città colle sue genti in
possesso della piazza. Ma udito che i Rossi e i Lupi di Soragna con
altri banditi erano venuti alla porta di Santa Croce, colà si portò, ed
uscì ancora per mettergli in fuga; ma toccò a lui di fuggire in città,
perchè contra di lui si rivoltarono non pochi de' suoi. V'entrarono
anche i suddetti sbanditi, in favor dei quali essendosi dichiarati molti
del popolo, andò si fattamente crescendo la forza de' Guelfi, che
Giberto e Matteo fratelli da Correggio coi loro aderenti dovettero
cercar colla fuga di salvarsi a Castelnuovo. Però tutti gli altri usciti
guelfi tornarono alla patria. Infinite furono le ruberie fatte in questa
occasione per la città; molte le case bruciate; e i contadini entrati
corsero al palazzo pubblico, e vi stracciarono tutti i libri dei bandi e
maleficii, e diedero il sacco ad ogni mobile e scrittura di Giberto.
Seguitarono poi anche per molti giorni i saccheggi e gl'incendii, e i
bandi di chi era creduto Ghibellino; e intanto i fuorusciti faceano
guerra alla città. Contra d'essi nel mese di giugno uscì in campagna
tutto l'esercito de' Parmigiani dominanti. Giberto da Correggio
anch'egli, fatto forte dai Modenesi, che v'andarono tutti col loro
capitano, e dai banditi di Bologna, e dal marchese Francesco
Malaspina co' suoi di Lunigiana, e da copiose schiere d'altri
Ghibellini, nel dì 19 di giugno andò a ritrovare i Parmigiani, ed
attaccò la mischia. Vigorosamente si combattè sul principio da
amendue le parti; ma poco stettero ad essere sbaragliati i
Parmigiani, de' quali assaissimi restarono morti con più di dugento
Lucchesi, ch'erano al loro soldo, e quasi dissi innumerabili restarono
prigioni colla perdita di tutto il bagaglio [Gazata, Chron. Regiens., tom. 18
Rer. Ital.]. Dopo la vittoria corse Giberto alla città, ma non potè
entrarvi allora. V'entrò nel dì 28, perchè, colla mediazione di
Anselmo abbate di San Giovanni, fu fatta una pace generale, e
permesso a tutti gli usciti di ripatriare. Secondo il diabolico costume
di que' tempi, andò presto per terra questa pace. Giberto da
Correggio, che prometteva e giurava a misura del bisogno, senza
credersi poi tenuto a giuramenti e promesse, ben disposti i suoi
pezzi, nel dì 3 d'agosto levò rumore, e colla forza de' suoi scacciò
dalla città i Rossi e Lupi, con tutti i loro amici guelfi, i quali si
ridussero a Borgo San Donnino e ad altri luoghi, e continuò poi la
guerra fra loro. Essendo passato al paese dei più in quest'anno, e
non già nel precedente, come ha il testo di Galvano Fiamma [Gualv.
Flamma, Manip. Flor., cap. 346.], Francesco da Parma arcivescovo di
Milano, fu in suo luogo eletto Castone ossia Gastone, comunemente
appellato Cassone dalla Torre, figliuolo di Mosca [Corio, Istor. di Milano.
Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.], e la sua elezione fu approvata dal
cardinal Napoleone legato apostolico. Poscia nel dì 24 di settembre,
tenutosi un general parlamento in Milano, quivi concordemente fu
eletto perpetuo signor di Milano Guido dalla Torre. Ebbero in
quest'anno guerra i Milanesi co' Bresciani, ma ne seguì anche pace.
Mancò di vita in essa città di Brescia nell'ottobre del presente anno
Berardo de' Maggi, vescovo d'essa città, dopo esserne stato anche
per anni parecchi signore nel temporale, con governarla a parte
dell'imperio, ossia ghibellina. Molti benefizii da lui fatti a quella città
indussero quel popolo ad eleggere per suo successor nella chiesa
Federigo de' Maggi [Malvecius, Chron. Brixian., tom. 14 Rer. Ital.]. Inoltre
Maffeo, ossia Matteo de' Maggi, fratello d'esso Berardo, fu
proclamato signore della città. Guido dalla Torre, siccome signor di
Piacenza, nell'anno presente stabilì pace fra quei cittadini e i lor
fuorusciti [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital.], che lieti rientrarono nella
lor patria. Nella Romagna [Chron. Caesen., tom. 15 Rer. Ital.] il conte di
Cunio con altri suoi partigiani occupò, contro il voler de' Faentini ed
Imolesi, la terra di Bagnacavallo nel dì 24 di luglio. Poscia nel dì 28 di
agosto fu fatta pace fra i Bolognesi, Riminesi e Cesenati dall'una
parte, e i Forlivesi, Faentini, Imolesi e Bertinoresi dall'altra, colla
liberazion di tutti i prigioni. Ma in Firenze fu una gran commozione di
popolo [Dino Compagni, Chron., tom. 9 Rer. Ital Giovanni Villani, lib. 8, cap. 96.].
Perchè Corso de' Donati, a cui la parte nera, ossia guelfa, era
obbligata dal presente suo stato dominante, voleva soprastare di
troppo agli altri nobili, l'ambizione e l'invidia fecero dividere in due
fazioni i grandi stessi. Rosso dalla Tosa, capo dell'una, seppe tanto
screditar esso Corso, che gli tagliò infine le gambe; facendo
soprattutto valere contra di lui la parentela da esso contratta con
Uguccion dalla Faggiuola gran ghibellino. Levossi dunque a rumore
contra di lui il popolo tutto; ed essendosi esso Corso ben
asserragliato, assistito anche da molti suoi amici, fece gran difesa;
infine gli convenne prendere la fuga, ma, raggiunto da certi Catalani
a cavallo, fu ucciso: con che tornò la quiete in Firenze.
Cristo mcccix. Indizione vii.
Anno di Clemente V papa 5.
Arrigo VII re de' Romani 2.

Alla prepotenza di Filippo il Bello re di Francia riuscì in quest'anno


e nel seguente d'indurre papa Clemente a ricevere le accuse contro
la memoria di papa Bonifazio [Raynaldus, Annal. Eccles.]; il che cagionò
orrore a tutta la cristianità, ben consapevole dell'iniquità e falsità di
quanto a lui veniva opposto in materia di fede. Frutti erano questi
dell'essere divenuta schiava di un re possente e malvagio la Sede
Apostolica; del che fu in colpa il pontefice stesso, il quale intanto
andava lusingando i Romani con far loro credere di voler venire in
Italia, mentre, inceppato dalle delizie della Francia, a tutt'altro
pensava che ad abbandonarla. Ma non permise Iddio che andasse
molto innanzi questa maligna persecuzione, e la vedremo finita in
breve. Nel dì 27 di marzo dell'anno presente, trovandosi esso papa in
Avignone, pubblicò contra de' Veneziani, come occupatori della città
di Ferrara, la più terribile ed ingiusta bolla che si sia mai udita. Oltre
alle scomuniche ed agl'interdetti, dichiarò infami tutti i Veneziani, e
incapaci i lor figliuoli sino alla quarta generazione d'alcuna dignità
ecclesiastica e secolare; confiscati in ogni parte del mondo tutti i lor
beni; data facoltà a ciaschedun di fare schiavo qualunque Veneziano
che lor capitasse alle mani nell'universa terra, senza distinzione
alcuna tra innocenti e rei: il che fa orrore, eppure fu eseguito in vari
paesi. Poscia aggiunse alle armi spirituali le temporali contra di loro,
inviando in Italia il cardinale Arnaldo di Pelagrua suo parente, con
titolo di legato, il qual fece dappertutto predicar la crociata contra
d'essi Veneziani, come se si trattasse contra de' Turchi. Copioso fu il
concorso delle genti della Lombardia, marca di Verona, Romagna e
Toscana. Ferreto Vicentino [Ferretus Vicentinus, lib. 3, tom. 9 Rer. Ital.
Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital. Chron. Bononiens., tom. 18 Rer. Ital.] scrive
che v'andarono de' soli Bolognesi circa otto mila combattenti.
Premeva a quel popolo di riacquistar la grazia perduta del pontefice
per lo scorno fatto al cardinal Napoleone. Pel medesimo fine anche i
Fiorentini colà inviarono molte schiere d'armati. Nel dì 10 d'aprile di
quest'anno si disciolse la pace e l'accordo già fatto dal popolo di
Ferrara coi Veneziani, e si ricominciò la guerra. Di grossi rinforzi di
gente e di navi furono spediti da Venezia ai suoi; e nel mese di
giugno, usciti di Castel Tealdo i Veneziani, mentre i Ferraresi erano a
cena, fecero contra di essi un feroce insulto. Tutta fu in armi la città.
Francesco marchese d'Este con Galeazzo visconte marito di Beatrice
Estense, alla testa di tutti andò ad assalirli, e ne fece aspro macello.
Per consiglio ancora di lui, fu fabbricato un ponte sopra Po, non
ostante la gagliarda opposizion de' Veneziani, i quali un giorno
diedero una fiera rotta ai Bolognesi. Ma nel dì 28 d'agosto, cioè nella
festa di santo Agostino, per ordine del cardinal Pelagrua, si venne ad
una general battaglia contro la flotta veneziana esistente in Po, la
quale restò interamente disfatta e in potere dei Ferraresi con tutte le
macchine e l'armamento. Tra uccisi ed annegati nel fiume si
contarono circa sei mila Veneziani. Questa insigne vittoria,
accompagnata da un immenso bottino, decise la controversia;
perciocchè non istette molto a rendersi Castello Tealdo al legato, il
quale, dimenticandosi d'essere uomo di Chiesa, fece impiccare
quanti Ferraresi trovò complici de' Veneziani. Fu anche spedito
Lamberto da Polenta con Bernardino suo fratello, e coi Ravegnani e
parte dei Ferraresi ad espugnare il castello di Marcamò, fabbricato
da essi Veneti nel distretto di Ravenna; e l'ebbe a patti di buona
guerra nel dì 23 di settembre, nè vi lasciò pietra sopra pietra. Così
venne liberamente Ferrara in potere del pontificio legato, il quale,
d'ordine della corte, ne diede da lì a non molto il vicariato a Roberto
re di Napoli, niuna considerazione avendo degli Estensi, che aveano
suggettata quella città alla Chiesa, e massimamente del marchese
Francesco, che tanto s'era affaticato per riacquistarla. Quivi esso re
Roberto mise per governatore Dalmasio con un corpo di Catalani, la
maggior parte capestri da forca, che fecero ben provare al popolo di
Ferrara la differenza che passa fra l'avere il proprio principe e
l'essere governati da gente straniera.
Giacchè abbiam fatta menzione del re Roberto, convien ora dire
che in questo anno nel dì cinque di maggio arrivò al fine di sua vita
Carlo II re di Napoli e conte di Provenza [Bernardus Guido, in Vit.
Clementis V. Giovanni Villani, lib. 8, cap. 108.], principe che per la sua
liberalità, dabbenaggine e clemenza non ebbe pari; e perciò
amaramente pianto da' suoi sudditi, ma più dai Napoletani, a lui
molto tenuti pei tanti benefizii ed ornamenti accresciuti alla loro
città. Per la successione in quel regno nacque disputa fra Roberto
duca di Calabria suo secondogenito e Carlo Uberto divenuto re
d'Ungheria, che si pretendeva anteriore nel diritto a Roberto, perchè
figliuolo di Carlo Martello, primogenito di esso re Carlo II. Fu
acremente dibattuta fra i legisti la quistione; ma buon fu per Roberto
l'esser egli passato in persona alla corte pontificia di Avignone, dove
seppe ben far da avvocato a sè stesso, e muovere colle macchine
più gagliarde gli animi de' giudici in suo favore. Fu creduto che più la
ragion politica che la legale facesse sentenziare in favor di Roberto,
principe riputato allora di gran saviezza e valore, ed atto e tener
l'Italia in freno nella lontananza dei papi. Tuttavia, se è vero che
Carlo II suo padre nell'ultimo suo testamento (il qual si dice fatto nel
dì 16 di marzo dell'anno precedente, e fu dato alla luce dal Leibnizio
[Leibnit., Cod. Jur. Gent., tom. 1, num. 31.]) lasciasse Roberto erede di tutti
i suoi Stati, giacchè dovea considerare assai provveduta la linea del
re d'Ungheria, par bene che fosse ben appoggiata la pretension del
medesimo Roberto. Per attestato di Bernardo Guidone, fu egli
coronato in Avignone re di Sicilia (benchè solamente comandasse al
regno di Napoli) nella prima domenica d'agosto dell'anno presente, e
non già nella festa della Natività della Vergine, come scrive Giovanni
Villani. Ed il papa liberalmente gli condonò le somme immense d'oro,
delle quali il re Carlo suo padre andava debitore alla santa Sede.
Quel che è strano, secondo i documenti accennati dal Rinaldi
[Raynald., Annal. Eccl., ad hunc ann., §. 24.], seguì una segreta convenzione
fra papa Clemente e Giacomo re di Aragona, ch'esso re, oltre alla
Sardegna e Corsica, delle quali era stato investito da papa Bonifazio
VIII, conquistasse ancora Pisa coll'isola dell'Elba, e la riconoscesse
poi in feudo dai romani pontefici: vergognosa concessione,
trattandosi di spogliare senza ragione alcuna il romano imperio d'una
sì cospicua città, e quel popolo della sua libertà. Se fossero ancora
assai ragionevolmente concedute al medesimo re le decime del
clero, per impiegarle in levar la Sardegna e Corsica ai Pisani e ad
altri principi cristiani, io non mi metterò a ricercarlo. Fin qui l'innata
saviezza dei nobili Veneziani avea saputo così ben regolare e tenere
unita la lor città, che quando tante altre libere città d'Italia bollivano
per le discordie cittadinesche, ed erano divise in Guelfi e Ghibellini,
sola essa era felice e gloriosa per la sua mirabil unione, ancorchè
non fosse esente da diversità di genii e fazioni: del che fu anche
lodata dallo storico Rolandino nel precedente secolo. Ma in
quest'anno patì anch'essa un'eclissi. Baiamonte Tiepolo, capo della
fazione guelfa, fece una congiura con altri di casa Querina e Badoera
contra di Pietro Gradenigo doge [Marino Sanuto, Istor. Venet., tom. 22 Rer.
Italic.], e nel dì 15 di giugno scoppiò questo incendio. Vi fu gran
combattimento, ma infine dopo la morte di molti restò sconfitto
Baiamonte, il quale scampò colla fuga. Simili sedizioni le abbiamo
vedute familiari in altre città; fu questa considerata come
stravagante cosa in Venezia, e ne dura quivi anche oggidì con orrore
la memoria. A cagion d'essa furono mandati ai confini assaissimi
nobili e popolari di quella insigne città. Era in questi tempi Guido
dalla Torre in auge di fortuna, siccome signore perpetuo di Milano e
di Piacenza, con assai amici e collegati d'intorno. Scrivono [Giovanni
Villani, lib. 8, cap. 61. Corio, Istoria di Milano.], che, volendo saper nuove di
Matteo Visconte, il quale privatamente vivea nella villa di Nogaruola,
diede incumbenza ad un accorto uomo di andarlo a trovare per
ispiare i fatti suoi, promettendogli un palafreno e una veste di vaio,
se gli portava la risposta a due quesiti da fargli. Andò costui, e trovò
il Visconte in abito dimesso, che passeggiava; e, dopo varii discorsi,
quando fu per andarsene, il pregò di fargli guadagnare un palafreno
e una veste col rispondere a due sue interrogazioni. La prima: Come
gli parea di stare, e qual vita era la sua; la seconda: Quando egli si
credea di poter tornare a Milano. Molto ben s'avvide l'accorto Matteo
onde procedevano queste dimande, e che erano fatte per ischernire
il suo povero stato. Adunque rispose alla prima: Egli mi par di star
bene, perchè so vivere secondo il tempo. Alla seconda: Dirai al tuo
signor Guidotto, che quando i suoi peccati soperchieranno i miei,
allora io tornerò a Milano. Portate queste risposte a Guido, le lodò
come d'uomo savio, e regalò quel messo.
In quest'anno appunto cominciò a declinar la fortuna del
Torriano. Nel principio di maggio si alzò a poco a poco una nebbia di
vicina sollevazione in Piacenza [Chron. Placentin., tom. 16 Rer. Ital. Corio,
Istor. di Milano.], veggendosi il vescovo Leone da Fontana colla fazion
guelfa macchinar delle novità contra dei Landi, Fulgosi ed altri di
parte ghibellina. Mandò ben Guido dalla Torre un corpo di gente da
Milano per vegliare alla quiete di quella città; ma nel dì cinque d'esso
mese Alberto Scotto, avendo con belle parole addormentato lo
sciocco podestà, nella notte raunata tutta la sua fazione, e
impadronitosi della piazza, diede addosso agli avversarii sprovveduti,
e li fece fuggir fuori di città. Racconta il Corio, che, tolta in questa
forma la signoria di Piacenza al Torriano, Alberto Scotto ne fu egli
proclamato di nuovo signore. La Cronica di Piacenza ha, che la
signoria fu data allora al vescovo Fontana suddetto; ma si
contraddice poi all'anno seguente, dove confessa che lo Scotto era
stato signor di Piacenza un anno e quattro mesi. Anche dalla Cronica
Estense apparisce [Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.] che esso Scotto
tornò in signoria, e fece lega coi Parmigiani, Mantovani, Veronesi,
Reggiani, Modenesi e Bresciani, tutti di parte ghibellina. Inimicatosi
per questo contra de' Piacentini Guido dalla Torre, con tutto lo sforzo
de' suoi Milanesi, de' Pavesi, Novaresi, Vercellesi e fuorusciti
piacentini, venne, sul principio di giugno, e di nuovo nel settembre,
ai danni del distretto di Piacenza, con prendere alcune castella, e
dare il guasto fino alle porte di quella città. Presero anche il ponte
de' Piacentini sul Po; ma, uscito Alberto co' suoi, così virilmente
assalì i nemici, che li ruppe, colla morte di circa secento d'essi.
Peggio nondimeno avvenne allo stesso Guido Torriano per altro fatto
che servì di principio alla total sua rovina. Nel primo dì di ottobre egli
fece prendere Gaston dalla Torre ossia Cassone, arcivescovo di
Milano, parente suo, ed il mandò nella rocca d'Anghiera con altri suoi
tre fratelli, figliuoli del fu Mosca, pretendendo che avessero formata
una congiura contra di lui, per torgli non solamente lo Stato, ma
anche la vita. Fu egli scomunicato per questa violenza dal cardinale
Pelagrua legato, dimorante allora in Bologna, e sottoposta la città
all'interdetto. Venne apposta a Milano Pagano dalla Torre vescovo di
Padova, per rimediare a così scandalosa scissura fra i suoi consorti.
Vi concorsero ancora Filippone da Langusco signor di Pavia, Antonio
da Fissiraga signor di Lodi, Guglielmo Brusato signor di Novara,
Simone da Colobiano signor di Crema, cogli ambasciatori di Bergamo
e di Como. Costoro, in un gran parlamento tenuto nel dì 28 d'ottobre
nella metropolitana di Milano, conchiusero un accordo, per cui
Gastone arcivescovo ed altri Torriani riebbero la libertà, ma con
obbligo di andare ai confini; e questi poi si ridussero a Padova.
L'arcivescovo non ebbe più buon cuore per Guido, e sollecitò la
venuta di Arrigo VII in Italia: il che, se fosse utile a Guido, lo
scorgeremo fra poco. Nel dì 16 di settembre i Parmigiani, rinforzati
da gran quantità di cavalleria e fanteria di Verona, Mantova, Brescia,
Modena e Reggio, fecero oste a Borgo San Donnino [Chron. Estense,
tom. 15 Rer. Ital.], dove s'erano fortificati i Rossi, Lupi ed altri usciti
della loro città, e vi stettero sotto ben tre mesi con dei trabucchi che
incessantemente gittavano pietre, e con una forte circonvallazione
intorno alla terra. Mandò Guido dalla Torre secento uomini d'armi e
trecento fanti a Cremona con ordine di soccorrere gli assediati; ma
questa gente non osò mai d'inoltrarsi, perchè i Parmigiani gli
aspettavano a piè fermo per dar loro battaglia. S'interpose dipoi il
vescovo di Parma per l'accordo, e fu fatto compromesso con ostaggi
in Guglielmino da Canossa e Matteo da Fogliano, nobili reggiani, che
fecero cessar quell'assedio; ed eletti amendue podestà di Parma,
proferirono sul principio dell'anno seguente il loro laudo, al quale
niuna delle parti volle ubbidire. Nel dì 28 di maggio dell'anno
presente il popolo d'Asti [Chron. Astense, tom. 9 Rer. Ital.] coll'aiuto di
quei di Chieri, uscito in campagna contra de' suoi fuorusciti, ebbe
una rotta nella villa di Quatordo. Restarono gli Astigiani sì intimiditi
per questa disgrazia, che diedero balia ad Amedeo conte di Savoia e
a Filippo di Savoia, principe della Morea suo nipote, per trattar di
pace fra i cittadini e fuorusciti. Fu poi proferita da questi principi la
sentenza della pace, per cui i Gottuari cogli altri usciti nella festa di
santa Caterina di novembre rientrarono in Asti. Fra gli altri capitoli vi
fu, che il suddetto principe dovesse restar governatore della pace in
Asti col salario di diciassette mila lire l'anno: del che si dolsero non
poco gli Astigiani.
Abbiamo in quest'anno da Guglielmo Ventura, dal Villani e dalle
Croniche Estense e Parmigiana [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 114. Chronic.
Estense, tom. 9 Rer. Ital. Chron. Parmense, tom. 9 Rer. Ital.] che seguirono
delle novità in Genova. Scopertasi molta amicizia fra Bernabò Doria,
uno de' due capitani di Genova, e i Grimaldi fuorusciti, Obizzino
Spinola, cioè l'altro capitano, fece imprigionare il Doria. Questi ebbe
la fortuna di fuggirsene dalla carcere, e con tutti quei di sua casa si
ritirò al castello della Stella, che fu preso da Obizzino. Venuti poscia i
fuorusciti, cioè i suddetti Grimaldi, Doria, Fieschi ed altri in Genova
con assai forze, andò ad assalirli lo Spinola; e benchè fosse superiore
di gente armata, pure ne rimase sconfitto, e vi morì il podestà di
Genova. Allora i fuorusciti entrarono pacificamente in Genova, e
tolsero ad Obizzino Ventimiglia, Porto Venere e Lerice, con passar
anche al guasto di Gavi, dove s'era ritirato il suddetto Obizzino, le cui
case in Genova furono date alle fiamme. Giorgio Stella riferisce
[Georgius Stella, Annal. Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] questo fatto all'anno
seguente; ma dee prevalere l'autorità degli storici sovraccitati, e
spezialmente dell'autore contemporaneo della Cronica di Parma, che
finì di scrivere in quest'anno. Confessa il medesimo Stella d'aver
vedute storie che ne parlano all'anno presente. Mette egli la
battaglia nel dì 10 di giugno. La Cronica di Parma ha, ch'essa
accadde nella festa di san Gervasio, cioè nel dì 19 d'esso mese. Il
Villani la riferisce al dì 11. Io sto colla Cronica Parmigiana. In
Toscana a' dì 10 di febbraio i Fiorentini si mossero con sei mila
pedoni e quattrocento cinquanta cavalieri, per dare il guasto ad
Arezzo. Quei cavalieri la maggior parte erano Catalani, mandati in
loro aiuto dal re Roberto [Giovanni Villani, lib. 8, cap. 105.], giacchè più
fede avea questo re in quella gente, e ne teneva anche in Ferrara,
siccome abbiam detto. Arditamente vennero loro incontro gli Aretini
con Uguccion dalla Faggiuola lor capitano, ma andarono in isconfitta,
e più che di galoppo se ne fuggirono ad Arezzo. Con più possente
esercito nel dì 8 di giugno tornarono i Fiorentini fin sotto quella città,
devastando tutti i contorni; ed ancorchè venissero ordini di Arrigo
VII re dei Romani di non molestare Arezzo, se ne rise il popolo allora
superbo di Firenze. Anzi, essendo giunto Luigi di Savoia con altri
ambasciatori per parte di esso Arrigo a Firenze a notificar la di lui
venuta per la corona, ne riportarono risposte villane, che assai
diedero a conoscere ciò che poscia avvenne. Aspro governo intanto
faceano essi Fiorentini e Lucchesi di Pistoia [Istorie Pistolesi, tom. 11 Rer.
Ital.], ma gli ultimi specialmente, attendendo i loro uffiziali più a
rubare che a governare, e non era sicuro l'onor delle donne [Giovanni
Villani, lib. 8, cap. 111. Ptolom. Lucens., in Vita Clementis V.]. Condotto dalla
disperazione quel popolo, levò rumore nel dì primo di giugno, e tutti
a furia uomini e donne, fanciulli, preti e frati, con tavole, legnami e
pietre si diedero a fare uno steccato posticcio alla lor città, e a cavar
le fosse, giacchè ogni sua fortificazione era negli anni addietro stata
spianata. A questo avviso, s'inviò a quella volta tutto sdegno il
popolo di Lucca. Risoluti i poveri Pistoiesi di lasciar la vita l'un presso
all'altro, piuttostochè di sofferir più lungamente sì duro giogo, si
animarono alla difesa; ma non avrebbono potuto reggere alla
superiorità dei Lucchesi. Per buona ventura certi Fiorentini fecero
fermar l'esercito di Lucca a Pontelungo: con che lasciarono tempo a'
Pistoiesi di maggiormente afforzarsi, e di spedire a Siena, pregando
quel comune che s'interponesse per la pace. Vennero infatti gli
ambasciatori di Siena, ed ottennero buoni patti. Pistoia si fortificò, e
si governò da lì innanzi a comune, con solamente prendere i podestà
e capitani da Firenze e da Lucca. Nello stesso giorno primo di giugno
fu anche in Cesena [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] una sollevazione
della fazion guelfa, alla quale venne fatto di abbattere e mettere in
fuga i Ghibellini; ma questo movimento costò a quella città delle
grandi ruberie ed altri malanni. In questi tempi, secondo la Cronica
di Cesena, era capitano per la Chiesa romana in Jesi ed in altre terre
della marca d'Ancona Federigo conte di Montefeltro, figliuolo del fu
conte Guido. Fecero oste gli Anconitani sopra il contado di Jesi
[Giovanni Villani, lib. 7, cap. 113.]; ma esso conte Federigo per attestato
del Villani, colla gente di Jesi, Osimo e d'altri marchigiani ghibellini
andò ad assalirli, e diede loro una gran rotta, di modo che più di
cinque mila Anconitani vi restarono tra morti e presi.
Cristo mcccx. Indizione viii.
Anno di Clemente V papa 6.
Arrigo VII re de' Romani 3.

Nel dì 26 di luglio dell'anno presente que' fuorusciti che erano


entrati in Ferrara dopo la caduta dei principi estensi [Chron. Estense,
tom. 15 Rer. Ital. Chron. Bononiense, tom. 18 Rer. Ital. Chron. Caesen., tom. 14
Rer. Italic.], cioè Salingerra de' Torrelli, Ramberto de' Ramberti e
Francesco Menabò colla fazion ghibellina, nemica degli Estensi guelfi,
diede all'armi con disegno di levar quella città dalle mani della
Chiesa. Vi furono ammazzamenti, massimamente di Catalani, e
ruberie senza fine; e i palagi dei marchesi furono da que' ribaldi dati
alle fiamme. Già tutta la città era in lor potere; ma, avvertito di ciò il
cardinal Pelagrua, soggiornante allora in Bologna, cavalcò a quella
volta con copiosa milizia di Bolognesi, ed entrò in Castello Tealdo,
dove s'erano ritirati que' pochi de' suoi che poterono sottrarsi alle
spade de' sollevati. In aiuto suo accorsero ancora da Rovigo con
buon numero d'armati il marchese Francesco, Rinaldo ed Obizzo
Estensi. Allora i Ferraresi, veggendosi come perduti, altro ripiego non
ebbero che di ricorrere alla misericordia del legato; ma questi, dopo
aver voluto prima in mano circa ottanta (altri dicono meno) de'
migliori della città, non altra misericordia usò loro che di lasciar la
briglia alle sue truppe, le quali, unite coi Guelfi, si spinsero contra de'
Ghibellini, e li forzarono alla fuga. In tal occasione seguirono molte
uccisioni e saccheggi di monisteri e chiese, certo non con lode di
esso legato, il qual poscia affaticò per molti dì il boia in far impiccare
i colpevoli di quella sedizione. Anche la città di Piacenza fu in gran
moto [Chron. Placent., tom. 16 Rer. Ital. Chron. Estense, tom. 15 Rer. Ital.].
Alberto Scotto ivi signore, tra perchè si trovava incalzato dalla forza
de' fuorusciti, cioè di Leone degli Arcelli, Ubertino Lando ed altri
Ghibellini, che erano spalleggiati da Guido dalla Torre signor di
Milano; e perchè inoltre sentiva essere in procinto Arrigo VII di
calare in Italia, prese il partito di far pace cogli usciti, e di cedere il
dominio della città, con che i pubblici uffizii da lì innanzi fossero
comuni fra le parti. Entrarono in Piacenza quasi in trionfo i fuorusciti;
ma siccome non si davano mai posa gli animi troppo allora turbolenti
degl'Italiani, appena entrati i fuorusciti, svegliarono delle contese, e
nel dì seguente a forza d'armi ne scacciarono Alberto Scotto, il quale
co' suoi aderenti si ridusse a Castello Arquato, ed, impadronitosi di
Fiorenzuola e Bobbio, cominciò di nuovo a recar frequenti molestie al
popolo dominante di Piacenza. Obizzino Spinola cogli altri suoi
consorti, anche essi fuorusciti di Genova [Georgius Stella, Annal.
Genuens., tom. 17 Rer. Ital.] e padroni di Monaco, s'impadronì in
quest'anno delle terre di Montaldo e Votaggio, e le distrusse da'
fondamenti. La decantata venuta del re de' Romani è credibile che
movesse tanto essi Spinoli e i lor partigiani, quanto il governo di
Genova a far poco appresso pace. Quaranta mila lire furono pagate
agli Spinoli, che restituirono al comune di Genova tutti i luoghi presi,
ed ebbero accesso libero alla città, eccettochè Obizzino, obbligato
per due anni a starsene nelle sue castella. Nell'Umbria i Perugini,
rinforzati dal maliscalco del re Roberto abitante in Firenze, fecero
guerra nel mese di luglio alla città di Todi [Giovanni Villani, lib. 9, cap. 5.].
Volle provarsi quel popolo ad una battaglia; ma non l'avesse fatto,
perchè ne andò malamente sconfitto. Nello stesso mese furono
cacciali i Guelfi da Spoleti, restando la signoria ai Ghibellini. Ma per
più tempo i Perugini talmente guerreggiarono contra di quella città,
che nell'anno seguente la forzarono a rimettere in casa i Guelfi; ed
altrettanto fece la città di Todi.
Dava molto da pensare a Roberto re di Napoli la disposizione di
Arrigo VII re de' Romani, di calar in Italia, ben prevedendo ch'egli
sosterrebbe il partito dei Ghibellini amici dell'imperio con depressione
de' Guelfi, de' quali egli era il capo. Gli parve dunque di non dovere
maggiormente differire il suo ritorno dalla Provenza in Italia per dar
sesto a' suoi affari. Coll'avere indotto il papa a fermare la sua
residenza in Avignone, città della Provenza, e perciò di suo dominio,
egli era divenuto come arbitro della corte pontificia. E fu in
quest'anno [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.] ch'egli ottenne il vicariato
della Romagna e di Ferrara, ed inviò colà i suoi ministri a comandar
le feste. Il pontefice Clemente intanto barcheggiava. Mostravasi egli
tutto favorevole ad Arrigo VII, con approvar la sua venuta a
prendere la corona imperiale; avea anche destinati i cardinali, che
gliela dessero in Roma, e scrisse per lui lettere ai vescovi, principi e
città d'Italia. Tuttavia gran cura avea di non disgustare il re Roberto,
e non gli doveano dispiacere gli avanzamenti della fazione guelfa.
Ora esso re Roberto nel dì 10 di giugno arrivò a Cuneo in Piemonte
[Chron. Astens., cap. 53, tom. 11 Rer. Ital.]. Visitò Montevico, Fossano,
Savigliano, Cherasco ed Alba, terre di sua giurisdizione, Filippo di
Savoia, che si trovava allora in Asti, fece un'imperiosa intimazione
agli Astigiani di guardarsi dall'amicizia di quel re. Altrettanto fecero il
vescovo di Basilea, Luigi di Savoia, ed altri ambasciatori del re
Arrigo, ch'erano pervenuti in quella città, e passarono dipoi a
Savona, Genova e Pisa, annunziando dappertutto, la venuta d'esso
Arrigo alla corona. Di belle parole dissero gli Astigiani, ma poi,
spediti ambasciatori ad Alba, fecero una specie di lega col suddetto
re Roberto; e questi dipoi nel dì 9 di agosto venne ad Asti, ed ebbe
ad un gran convito i grandi di quella città. Si fece allora le maraviglie
Guglielmo Ventura, il quale vi si trovò presente, al vedere che tutti
mangiarono e bebbero solamente in vasi d'argento, perchè un lusso
tale era tuttavia incognito agl'Italiani. Passò Roberto nel dì 10
d'agosto ad Alessandria, e ne scacciò gl'Inviziati e i Lanzavecchi
ghibellini, e si fece dar la signoria di quella città dai Guelfi. Ecco
come il buon re andava stendendo l'ali alle spese del romano
imperio. Ito poscia a Lucca e a Firenze, dove indarno si studiò di
pacificare insieme i Guelfi disuniti, inviò al governo della Romagna
Niccolò Caracciolo [Chron. Caesen., tom. 14 Rer. Ital.], il quale, arrivato
colà nel mese d'ottobre, ebbe ubbidienza da quasi tutte quelle città,
e procurò di mettere pace dappertutto con ridurre nelle lor patrie i
fuorusciti. Su due piedi egli ascoltava le liti, e senza strepito di
giudizio le decideva. Di uno di questi abbisognerebbe ogni città.
Dovette trovare ne' Forlivesi qualche durezza [Chron. Foroliviens., tom. 22
Rer. Ital.], perchè ne fece spianar le fosse, e mise in prigione
Scarpetta, Pino e Bartolommeo degli Ordelaffi, e alcuni dei Calboli e
degli Argogliosi. Lasciò poi in libertà i Guelfi, e ritenne i Ghibellini.
Ora, avendo Arrigo re de Romani stabilita la sua venuta in Italia,
mandò varii ambasciatori a notificarlo alle città. Venne a Milano il
vescovo di Costanza [Johannes de Cermenat., cap. 10, tom. 9 Rer. Ital.], e
con bella orazione espose come il re era per prendere la corona del
ferro dall'arcivescovo di Milano. Mostraronsi pronti i Milanesi a
ricevere con tutto onore il sovrano; il solo Guido dalla Torre signor
della città buffava, nè volea che si parlasse di questo grande affare.
Chiamò poi ad un parlamento il conte Filippone da Langusco signor
di Pavia, Antonio da Fissiraga signor di Lodi, Guglielmo Cavalcabò
principal cittadino o signore di Cremona, e Simone degli Avvocati da
Colobiano cittadin primario o signore di Vercelli, per udir il loro
parere. Tutti erano di fazion guelfa. Schiettamente disse Filippone fra
i primi ch'egli non voleva essere ribello al re suo signore. Gli altri
dissero che bisognava prendere consiglio sul fatto, ma che allora non
si potea. Guido dalla Torre era di parere che tutti si unissero contra
di questo Tedesco; e smanioso girava per le camere, borbottando e
parlando da sè solo. Finì il parlamento senza conchiusione alcuna.
Sul fine d'ottobre arrivò a Susa, e poscia a Torino, il re Arrigo
colla regina Margherita sua moglie, mille arcieri e mille uomini
d'arme, dopo avere, mercè di un matrimonio, fatto divenir Giovanni
suo figliuolo re di Boemia. Amedeo conte di Savoia, Filippo e Luigi
parimente di Savoia erano tutti per lui, e seppero ben fare il lor
negozio con questo attaccamento. Nella corte d'esso re si contavano
l'arcivescovo di Treviri Baldovino suo fratello, Teobaldo vescovo di
Liegi, Ugo delfino di Vienna, il duca di Brabante ed altri principi e
baroni. Andarono colà a fargli riverenza Filippone conte di Langusco,
Teodoro marchese di Monferrato, i vescovi, i signori e gli
ambasciatori di varie città, e nominatamente i romani, che
comparvero con gran fasto. Tutti condussero gente armata per
accompagnarlo. Per attestato di Albertino Mussato [Albertinus Mussatus,
lib. 1, cap. 6.], mise un suo vicario in Torino: segno che quella era
allora città libera. Nel dì 10 di novembre venne ad Asti [Chron. Astense,
cap. 58, tom. 11 Rer. Ital.], e v'introdusse i fuorusciti ghibellini. Gli fu
data (malvolentieri nondimeno) la signoria di quella città, ed egli
pose quivi un vicario, che cominciò molto bene ad aggravar quel
popolo. Usava in corte d'esso re, ed era ben veduto da lui Francesco
da Garbagnate [Corio, Istor. di Milano. Bonincon. Morigia, Chron. tom. 12 Rer.
Ital.], giovane milanese assai disinvolto, che gli avea più volte detto
gran bene di Matteo Visconte esiliato da Milano, con dipignerglielo
pel più savio, attivo ed onorato uomo di Lombardia, e perciò capace
di ben servirlo ne' correnti affari. Mostrò Arrigo voglia di vederlo. Il
Garbagnate, che tenea buon filo col Visconte, gliel fece tosto sapere;
e Matteo travestito per solitarii cammini si portò ad Asti, dove, datosi
a conoscere, non vi fu cortesia che non ricevesse da quella corte, ed
anche dal re. I soli magnati guelfi il guardarono con occhio bieco, e
villanamente ancora parlarono di lui, ma senza ch'egli mostrasse di
alterarsene punto. Il favorevole accoglimento a lui fatto da Arrigo
cagionò bensì che molti Milanesi e Lombardi abbracciarono il suo
partito. Ed essendo giunto colà anche l'arcivescovo di Milano Gaston
dalla Torre, già esiliato, stabilì pace e lega con esso Matteo, a nome
ancora de' suoi fratelli, alcuni dei quali erano tuttavia detenuti
prigioni da Guido dalla Torre. Non si fidava molto Arrigo d'andare a
Milano, siccome abbastanza informato delle cattive disposizioni di
Guido dalla Torre; anzi diffidava non poco di tutti gl'Italiani, perchè
sessant'anni correano che non aveano veduto imperadori o re de'
Romani; ed avvezzati a vivere a lor modo, non amavano al certo di
riconoscere superiore alcuno. Matteo Visconte, per conto di Milano,
gli levò le apprensioni del cuore, ben conoscendo egli quanto se ne
potea promettere. Il distornò ancora dal differir la sua entrata in
Milano, al che l'andavano sotto varii pretesti esortando i capi de'
Guelfi [Dino Compagni, tom. 9 Rer. Ital.]. Passò dunque Arrigo a Casale, a
Vercelli e a Novara, accolto con allegria da que' popoli. In Vercelli
mise fine alla guerra civile fra i Tizzoni ed Avvocati, in Novara fra i
Brusati e Tornielli. Ogni fuoruscito potè ritornare alla sua patria.
Cavalcò poscia il re, ed, invece di andare a Pavia, dove il conte
Filippone l'aspettava, per consiglio di Matteo Visconte, passato il
Ticino, s'inviò alla volta di Milano, incontrato di mano in mano da
varie schiere di nobili milanesi, tutti in festa e gala, che gli baciavano
il piede: dal che s'avvide avergli il Visconte dato buon consiglio.
L'ultimo a venirgli incontro fuori de' borghi di Milano fu Guido dalla
Torre [Johan. de Cermenat., cap. 13, tom. 9 Rer. Ital.]. Lo sdegno e la
superbia erano con lui. Laddove gli altri, all'appressarsi del re,
abbassavano le loro insegne, Guido portava diritto la sua.
Gl'insegnarono i Tedeschi le creanze ed il dovere, con buttargliela
per terra. All'arrivo del re, smontò Guido da cavallo, e gli andò come
incantato a baciare il piede. Arrigo, con volto umano riguardandolo,
gli disse: Guido, riconosci il tuo re, perchè duro è il ricalcitrar contro
lo stimolo. Entrò il re nel dì 23 di dicembre, e non già nel dì
seguente, come scrivono alcuni [Gualvan. Flamma, cap. 349. Chron.
Astense, cap. 39, tom. 11 Rer. Ital.], in Milano, e seco Gastone
arcivescovo, Matteo Visconte ed ogni altro fuoruscito. Volle il dominio
della città, che gli fu dato, e Guido dalla Torre andò a sedere:
disgrazia per altro da lui preveduta, ma senza avere cercata, o, per
meglio dire, trovata maniera di provvedervi. Fece poi far pace fra i
Torriani e Visconti, e quetò le altre nemicizie, desiderando che tutti
vivessero in pace e concordia. Attese dipoi a far le sue disposizioni
per ricevere la corona del ferro, alla qual funzione fu destinato il dì
dell'Epifania dell'anno seguente. Fece in quest'anno papa Clemente
nelle quattro tempora del Natale una promozione di cinque cardinali,
tutti Guasconi [Ptolom. Lucensis, in Vita Clementis V.]: se con piacere
degl'Italiani, Dio vel dica. Nè voglio tacere che i Ghibellini di Modena
nel mese di luglio cacciarono fuori di città quei da Sassuolo, da
Ganaceto e i Grassoni, tutti di fazione guelfa [Gazata, Chron. Regiens.,
tom. 18 Rer. Ital.].
Cristo mcccxi. Indizione ix.
Anno di Clemente V papa 7.
Arrigo VII re de' Romani 4.

Per la corona del regno d'Italia, che dovea darsi al re Arrigo, tutte
le città di Lombardia e della marca di Verona inviarono i loro
ambasciatori a Milano [Albertinus Mussatus, lib. 1, tom. 8 Rer. Ital.], a
riserva di Alessandria, d'Alba e d'altri luoghi in Piemonte, che
riguardavano per loro signore Roberto re di Napoli. Intanto s'erano
già cominciati a veder preparamenti di guerra contra dello stesso
Arrigo. I Fiorentini, Lucchesi ed altri di Toscana [Giovanni Villani, lib. 9,
cap. 7.] aveano nell'anno precedente eletti gli ambasciatori, per
mandar a protestare l'ossequio loro al novello sovrano; ma
all'improvviso restò la spedizione, e, per lo contrario, si diede quel
popolo a far gente, e contrasse lega col medesimo re e colle città
guelfe, per opporsi a lui. Altrettanto fecero i Bolognesi, attendendo
specialmente in questo anno a fortificare e ben provvedere la loro
città. Non si potrà fallare, attribuendo queste risoluzioni ai maneggi
del re Roberto e de' suoi ministri, che non voleano lasciar crescere la
potenza di Arrigo, credendola di troppo pregiudizio ai loro interessi.
Si aggiunse, essere ben venuto in Italia il novello re con belle
proteste di voler mettere la pace dappertutto, ridurre nelle loro
patrie gli usciti, non avere parzialità nè per Guelfi, nè per Ghibellini,
e di voler conservare tutti i diritti e privilegii di qualsisia città. E, di
vero, opinione fu che sul principio fosse pura tal sua intenzione. Non
parve poi così nell'andare innanzi. In un general parlamento volle
che ogni città avesse un vicario imperiale [Gazata, Chronic. Regiense, tom.
18 Rer. Italic.]. Già gli avea messi in Torino, Asti e Milano; ed essi in
luogo dei podestà eletti dai cittadini: il che fu uno sminuire di molto
la libertà di quei popoli. Ora nel dì 6 di gennaio esso re fu colla
regina Margherita coronato in santo Ambrosio di Milano per le mani
dell'arcivescovo milanese Gastone dalla Torre. Pretesero il popolo e i
canonici della nobil terra di Monza che nella lor basilica di san
Giovanni Batista dovesse egli prendere la corona del ferro, che essi
per antico privilegio conservano nel loro sacrario, e nella quale
hanno da un secolo e mezzo in qua immaginato che si conservi uno
dei sacri chiodi della croce del Signore [Murat., Anecdot. Latin., tom. 2.]:
cosa ignorata ne' secoli precedenti. Ma dovettero tanto industriarsi i
Milanesi, che nella suddetta basilica di santo Ambrosio seguì quella
grandiosa funzione, siccome altre volte s'era fatto [Bonincontrus Morigia,
Chron., tom. 12 Rer. Ital.], coll'aver nondimeno Arrigo, mercè d'un suo
diploma, preservato il diritto che potesse competere a Monza. In tal
congiuntura egli creò cavalieri circa dugento nobili di varie città.
Attese di poi a pacificare le città di Lombardia, e in molte di esse
mise i suoi vicarii, volendo che in ciascuna d'esse rientrassero gli
sbanditi, fossero guelfi o ghibellini. Mise in Modena [Bonif. Moranus,
Chron. Mutinens., tom. 11 Rer. Ital.] per vicario Guidaloste dei Vercellesi da
Pistoia, che v'introdusse tutti i fuorusciti guelfi. L'ultimo a comparire
alla corte fu Matteo Maggi signore di Brescia, di fazion ghibellina
[Johann. de Cermenate, cap. 18, tom. 9 Rer. Italic.], non già per poco affetto
al re, ma per timore di Tebaldo Brusato di fazion guelfa, bandito da
Brescia negli anni addietro, che, venuto a Milano, avea già
guadagnato nella corte di molti protettori. Il buon Arrigo, che mirava
al sollievo e bene di tutti, propose al Maggi di ricevere in Brescia
Tebaldo. Il Maggi allora disse quanto potè per far conoscere al re
come Tebaldo era il maggior perfido e mancator di parola che fosse
al mondo, e sfibbiò tutti i tradimenti da lui fatti, e le crudeltà da lui
usate in varii tempi. A nulla servì; il re stette saldo in dire che
bisognava perdonare, e convenne accomodarsi al di lui volere, con
ricevere Tebaldo e i suoi seguaci in Brescia [Malvec., Chron. Brixian., tom.
14 Rer. Italic.]. Seguì pertanto uno strumento di pace fra i Guelfi e
Ghibellini di quella città; ed, avendo Matteo Maggi rinunziata quella
signoria, Arrigo mandò colà per suo vicario Alberto da Castelbarco.
Non andrà molto che ne vedremo gli effetti.
Diede esso re Arrigo per suo vicario a Milano Giovanni dalla
Calcia Franzese, uomo inetto, che neppure un mese durò in quel
posto. Gli sustituì Niccolò Bonsignore, un pezzo di mala carne, già
bandito per le sue ribalderie da Siena sua patria, che cominciò a
maltrattare quel popolo. Richiese il re un dono gratuito dai Milanesi,
perchè era corto di moneta. Fu proposto nel consiglio della città il
quanto, e rimesso in Guglielmo Posterla il tassarlo. Disse cinquanta
mila fiorini d'oro. Tutti consentivano, se non che Matteo Visconte
soggiunse che gli parea conveniente donarne anche dieci mila alla
regina. Allora Guido dalla Torre s'alzò in collera, riprovando il far così
da liberale colla roba altrui; e, nell'uscire del consiglio, disse: E
perchè non se ne danno cento mila? questo numero è più perfetto.
Perciò i ministri del re scrissero cento mila, e bisognò poi darli. E fin
qui era durato il bel sereno; ed Arrigo si figurava di aver data da
padre la pace a tutte le città di Lombardia, senza far distinzione tra
Guelfo e Ghibellino; ma non tardò ad intorbidarsi il cielo. Perchè
Arrigo, sotto spezie di onore, ma veramente per aver degli ostaggi,
dimandò che cento figliuoli de' nobili milanesi lo accompagnassero a
Roma, si trovarono molte difficoltà, ed insorsero sospetti di
sedizione. Furono anche veduti fuor d'una porta Franceschino
figliuolo di Guido dalla Torre, e Galeazzo figliuolo di Matteo Visconte,
parlar lungamente insieme, e toccarsi la mano nel congedarsi
[Bonicontrus Morigia, tom. 12 Rer. Ital. Johannes de Cermen., tom. 9 Rer. Ital.
Albertinus Mussatus, tom. 8 Rer. Ital. Ferretus Vicentinus, tom. 9 Rer. Ital. Gazata,
Chron. Regiens., tom. 18 Rer. Ital.]. Fu riferito ad Arrigo, e fatto credere
che il Visconte ed il Torriano macchinassero contra la sua real
persona, ed avessero già fatta massa di gente. Però nel dì 12 di
febbraio egli mandò una squadra di cavalleria a visitar le case dei
nobili. Matteo Visconte, avutone l'avviso, col mantello indosso avanti
il suo palazzo li stette aspettando, ragionando intanto con alcuni
amici. Arrivati i Tedeschi, come se nulla sapesse, invitolli a bere, e
gl'introdusse in casa. Se n'andarono tutti contenti, e persuasi della

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