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Michele Sgobio Uso e Abuso Pubblico Della-Storia

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Uso, e abuso, pubblico della storia tra “vecchi” e nuovi media.

Il caso di Passato e presente

Su youtube, tra i video che parlano di eventi


passati, quelli più cliccati hanno spesso, tra le
parole del titolo, aggettivi come “vera”,
“segreta”, “svelata”, tutti riferiti al termine
storia. Su facebook, le pagine delle riviste
storiche divulgative hanno più o meno gli stessi
fan di pagine che promettono di svelare una
storia per anni rimasta segreta, celata dalla
storiografia ufficiale. Non di rado anche le
riviste divulgative non lesinano l’utilizzo di
termini ed espressioni che promettono di far
luce su storie tenute a lungo nascoste.

Sembra quasi che la sfiducia nelle istituzioni, che pare essere un tratto caratteristico del secondo
decennio del Millennio, tenda a coinvolgere anche il sapere storico, almeno quello percepito come
“ufficiale”.

Ma come si è giunti a questa situazione? Perché la storia è divenuta così importante negli ultimi
anni, tanto da essere spesso oggetto del dibattito politico? Come viene trasmessa istituzionalmente
la conoscenza storica?

di Michele Sgobio

Già nel 1986 Nicola Gallerano metteva in guardia dalla “rivalutazione strisciante” del fascismo
condotta dai mass media. Un’operazione che, secondo lui, inibiva la funzione del paradigma
antifascista che era stato “un fondamentale strumento di legittimazione del sistema dei partiti uscito
vincitore dalla Resistenza”1.

Oggi, a oltre trent’anni di distanza, dei partiti usciti vincitori dalla Resistenza non vi è che un
pallido ricordo, in alcuni casi velato dalla nostalgia, mentre i mass media non di rado continuano
nella “rivalutazione strisciante” del fascismo. Una rivalutazione spesso tesa a creare un’identità
collettiva degli italiani attraverso una riconciliazione col passato, e non mediante una sua critica,
una prassi dalla quale Gallerano, citando Habermas, metteva in guardia2.

L’uso pubblico della storia – scriveva Gallerano – non sempre è negativo e per questo deprecabile,
ma può, in alcuni casi, “essere una forma di manipolazione che stabilisce analogie fuorvianti e
appiattisce sul presente profondità e complessità del passato.”3

1 Nicola Gallerano, Critica e crisi del paradigma antifascista, in (a cura di) Fascismo e antifascismo negli anni della
Repubblica, fascicolo monografico di Problemi del socialismo, 1986, n. 7, pp. 106-133.
2 Nicola Gallerano, Le ragioni dell’antifascismo, in Nicola Gallerano, Le verità della storia. Scritti sull’uso pubblico
del passato, Manifestolibri, Roma, 1999, pg. 244.
3 Nicola Gallerano, Storia e uso pubblico della storia, in Nicola Gallerano, Le verità della storia. Scritti sull’uso
pubblico del passato, Manifestolibri, Roma, 1999, pg. 39.

1
Nelle pagine seguenti mi soffermerò soprattutto su questo aspetto, cercando di descrivere il rapporto
degli italiani con la storia e le manipolazioni che mass media e politici hanno cercato di compiere
sul pubblico, oltre che gli effetti reali di tali manipolazioni.

In questo contesto, per fornire un esempio concreto, concluderò l’analisi con una descrizione,
facendo anche ricorso ai metodi d’indagine propri della semiotica, della prima edizione di Passato
e presente, la trasmissione condotta da Paolo Mieli in onda su Rai tre e Rai storia. Credo che essa
possa essere considerata un tentativo di narrazione “ufficiale” della storia trasmesso dalle reti
pubbliche. Una sua analisi potrebbe quindi aiutare a comprendere come questa comunicazione
avvenga e quali manipolazioni voglia compiere sullo spettatore.

Piazza Fontana

L’undici dicembre del 2017, il giorno prima del quarantottesimo anniversario della strage di piazza
Fontana, l’edizione online del quotidiano Repubblica ha pubblicato un video nel quale veniva
chiesto ad alcuni studenti dell’Università Statale di Milano se sapessero cosa fosse successo il 12
dicembre del 1969. Quasi tutti, imbarazzati, rispondevano che no, quella data non ricordava loro
nulla.

Il campione degli intervistati non è statisticamente significativo, le interviste riprese nel video sono
appena otto, ma potrebbero essere il segnale di un sentire comune che va diffondendosi, un sentire
che tende a cancellare dal proprio orizzonte la memoria delle stragi, dei loro esecutori, e di quella
che è stata chiamata “strategia della tensione”. È comunque indicativo che, nella città in cui la
strage è avvenuta, solo uno studente su otto lo sappia e ne ricordi la data.

I rilevamenti statistici

Le interviste pubblicate da Repubblica, anche se non statisticamente significative, sembrano


indicare un peggioramento rispetto alla situazione fotografata nel 2006 dall’istituto Piepoli4.

Nel dicembre del 2006 furono pubblicati i risultati di un rilevamento statistico che coinvolse oltre
mille studenti milanesi tra i 17 e i 19 anni. Dalle interviste risultò che il 18,4% degli studenti non
aveva mai sentito parlare della strage di piazza Fontana e che solo il 20,6% riusciva a darne una
collocazione temporale corretta.

Appena sei anni prima, nel 2000, un’indagine condotta sul medesimo campione e basata sulle stesse
domande, aveva rilevato che a non aver mai sentito parlare della strage era solo il 3,4% degli
studenti, mentre il 41,1% riusciva a collocarla correttamente nel tempo.

Sembrerebbe che un evento tanto significativo, e che per molti versi ha segnato la storia
contemporanea italiana, stia progressivamente scivolando via dalla memoria collettiva, anche nella
città teatro di quei fatti. A prima vista i dati sembrano confermate le parole che Eric Hobsbawm
scrisse nel 1994 nell’introduzione a il Secolo breve:

La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono
l'esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più
tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine

4 Il sondaggi è stato pubblicato su il Corriere della sera il 13 dicembre 2006 accompagnato da un articolo dal titolo
“Piazza Fontana, sono state le Br. O la mafia”.

2
del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto
organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. 5

Eppure, a uno sguardo più attento, è possibile rendersi conto che, probabilmente, il fenomeno in
atto è parzialmente diverso da quello descritto da Hobsbawm, comprende sì una “distruzione del
passato”, ma è connesso anche a un suo mescolamento, a un rielaborazione della memoria collettiva
nella quale eventi, responsabili e conseguenze si confondono allontanandosi terribilmente dalla
realtà dei fatti.

Colpa delle Br

Nelle interviste apparse sull’edizione online di Repubblica nel dicembre del 2017, dopo che gli si
era parlato della strage di piazza Fontana, due intervistati su otto attribuivano l’attentato alla Banca
dell’agricoltura alle Brigate rosse. La situazione non appare molto diversa se si fa riferimento alle
elaborazioni statistiche pubblicate dall’Istituto Piepoli nel 2006. In quel caso il 41,7% attribuiva la
strage alle Brigate rosse, mentre il 38,8% pensava che ne fosse responsabile la mafia. Solo il 25,2%
attribuiva quei fatti ai fascisti o all’eversione nera.

Sono dati significativi, che evidenziano un largo scostamento tra la percezione comune e il reale
andamento dei fatti. Ma come è stato possibile? Come mai la percezione degli eventi legati
soprattutto al fascismo e al neofascismo è spesso distorta? Quale è stato il ruolo dei media in tutto
questo?

La storia ricordata e la storia degli storici

Zygmunt Bauman in un testo meno noto di altri, Memorie di classe, con il quale ha avviato il
percorso che lo ha portato, passando dalle teorie relative alla postmodernità, ad approdare alla
teorizzazione della modernità liquida, scrive:

La storia ricordata di rado concorda con la storia degli storici. […] La storia ricordata e la storia
(le storie?) degli storici seguono ciascuna il proprio corso. Esse sono mosse da bisogni diversi,
guidate da logiche diverse e soggette a diversi criteri di validità. 6

Secondo Bauman la storia ricordata viene “costruita” e, compito dell’interprete, è ricostruirla,


capire come ha potuto formarsi e radicarsi, “un compito indispensabile per la comprensione
dell’azione di gruppo”.

E forse, seguendo il suo consiglio, può essere utile provare a ricostruire il formarsi della memoria
collettiva che caratterizza questo scorcio di secolo, poiché un’analisi di questi processi potrebbe
essere utile anche per comprendere meglio i tempi in cui viviamo.

Gli italiani e la storia

Ho trovato pochi dati in grado di rappresentare il rapporto degli italiani con la storia. I più
significativi risalgono a quasi quindici anni fa, e appartengono a un sondaggio pubblicato nel
novembre del 2003 dal Corriere della sera7.

5 Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 1995, pp. 14-15.


6 Zygmunt Bauman, Memorie di classe, Einaudi, Torino, 1982, pg. 3.
7 Il sondaggio, effettuato da Ispo/Telefield per «Il Corriere della Sera», è stato pubblicato nel novembre del 2003.

3
Il rilevamento, effettuato su di un campione rappresentativo della popolazione italiana che ha un età
maggiore di diciassette anni, mostrò come più della metà degli intervistati si ritenesse “molto” o
“abbastanza” interessata dalla storia.

Secondo quanto fotografato dalla statistica, a interessare maggiormente gli italiani era l’Epoca
romana (14%), seguita dalla Seconda guerra mondiale e fine del fascismo (11%). Al terzo posto si
trovavano invece il Medioevo e il Risorgimento (10%).

Gli interessi storici degli italiani rappresentati dal sondaggio si dimostrarono alquanto frammentari
e diversificati, e solo un’esigua minoranza, circa il 18%, dichiarò di essere interessata a periodi o
fenomeni che riguardavano la storia italiana più recente, dal Secondo dopoguerra in poi.

Però, quando venne loro chiesto di ricordare un evento significativo del passato, la maggioranza
(18%) rispose l’attacco alle torri gemelle, avvenuto solo due anni prima. Altri, invece, risposero il
rapimento Moro e le Brigate rosse (9%). Solo il 5% rispose il fascismo, mentre la stagione delle
stragi fu ricordata da appena il 4% degli intervistati.

Quasi a dimostrare che gli eventi ricordati erano quelli che, ancora al tempo dell’intervista,
continuavano ad avere un certo risalto mediatico ed erano più legati all’attualità del momento che
alla memoria storica, confondendosi però con essa. L’abbattimento delle torri gemelle risaliva a solo
qualche anno prima, delle Brigate rosse si parlava molto in quell’inizio di Millennio in seguito agli
attentati compiuti tra la fine degli anni ‘90 e i primi anni del Secolo.

Ma in quegli anni la storia, o almeno alcuni eventi e fenomeni del passato, entrarono
prepotentemente nel dibattito politico e inondarono le televisioni. Contribuendo probabilmente alla
costruzione della memoria collettiva che caratterizza la contemporaneità.

Fu soprattutto la tv, che riportava le dichiarazioni dei politici e dedicava trasmissioni giornalistiche
e fiction ad argomenti di carattere storico, a catalizzare l’interesse degli italiani per la materia,
dando loro una particolare visione di essa.

Scrive Massimo Scaglioni in un saggio del 2006:

Da una parte, si è richiesta la rilettura e la riscrittura di intere pagine di storia nazionale come
premessa per ridefinire e riaffermare il senso e i confini di una appartenenza e di una identità
collettiva. Dall’altra parte, si è riconosciuto il ruolo di primo piano giocato dalle istituzioni
mediali – e dalla televisione, in particolare, come medium più popolare e potente – nel costruire
e ricostruire la memoria condivisa.8

Scaglioni, però, nel suo saggio, non analizza il contesto e le probabili ragioni che hanno portato a
rileggere e riscrivere “intere pagine di storia nazionale”. Nella sua analisi il tutto viene ridotto a “un
terreno fertile di incontro fra la domanda e l’offerta, fra la produzione e il consumo”.

Un’analisi, forse, troppo semplicistica, che nega la complessità degli eventi riducendo tutto a un
mero gioco tra domanda e offerta, come se la memoria condivisa di una nazione fosse solo un
oggetto di mero consumo.

8 Massimo Scaglioni, L’immagine come fonte, come evento, come memoria. Questioni e problemi nel rapporto fra
televisione e storia, in Aldo Grasso (a cura di), Fare storia con la televisione, Vita e pensiero, Milano, 2006, pp. 39-
40.

4
Di certo, come fanno notare De Groot9 e, in parte, Jameson10 la storia, e la cultura in generale,
tendono a divenire prodotti, merci, ma, in questo caso, probabilmente, non si può ridurre il tutto a
una richiesta di un prodotto soddisfatta dall’industria mediatica nazionale.

Per rendersene conto, forse può essere utile soffermarsi sulle dichiarazioni dei politici e sui
contenuti che hanno caratterizzato le trasmissioni televisive negli anni a cavallo tra un Millennio e
l’altro.

Mussolini ha fatto anche cose buone

Il 28 maggio del 1994, Silvio Berlusconi, nominato presidente del consiglio da poco più di dieci
giorni, afferma: “In una certa fase Mussolini fece cose buone, un fatto confermato dalla storia”, una
frase ripetuta, dallo stesso Berlusconi, anche sul finire del 2017, mentre, al tempio di Adriano,
partecipava alla presentazione dell’ultimo libro di Bruno Vespa, e dove ha sostenuto che:
“Mussolini non era proprio un dittatore”.

Nel settembre del 2003, sempre Silvio Berlusconi, affermava che: “Mussolini non ha mai ucciso
nessuno: gli oppositori li mandava in vacanza al confino”. Mentre, nel maggio del 2010, citava i
diari di Mussolini per affermare di non aver mai avuto la sensazione di essere un uomo di potere,
contribuendo a rivalutarne l’immagine.

Con le citazioni si potrebbe continuare fino ad arrivare ai giorni nostri, come nel caso già riportato
delle dichiarazioni rilasciate al tempio di Adriano sul finire del 2017, o facendo riferimento a Porta
a porta, la trasmissione condotta da Bruno Vespa, durante la quale l’ex presidente del consiglio ha
affermato che il suo motto preferito è “Credere, obbedire, combattere”, nota massima mussoliniana.

Gli anni del protagonismo politico di Silvio Berlusconi che, di fatto, non si sono ancora conclusi,
sono stati caratterizzati da una costante rivalutazione del Ventennio e costellati di frasi che
descrivevano il duce come “il più grande statista del Secolo”. Anni che hanno avuto il loro culmine
il 4 agosto del 2010, quando Berlusconi entrò in Parlamento tra i cori osannanti dei deputati che
facevano riferimento al suo schieramento politico e, tra un “Silvio, Silvio!” e l’altro, molti lo
accolsero urlando “duce, duce!”11.

Quelli appena descritti mediante frasi ed eventi, però, non furono solo anni di dichiarazioni roboanti
e cori da stadio. Anche l’azione legislativa dei governi guidati dal centro-destra fu indirizzata a una
parziale rivalutazione del regime fascista.

A questo proposito l’evento più significativo che è possibile citare è l’istituzione, nel marzo del
2004, del Giorno del ricordo che ha il fine di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia
degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e
dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.”12

Un vero e proprio grimaldello, costellato di trasmissione giornalistiche e fiction, che portò a una
parziale equiparazione di partigiani e nazi-fascisti, a cancellare i crimini di guerra e di occupazione

9 Jerome de Groot, Consuming History: Historians and Heritage in Contemporary Popular Culture, London and
New York, Routledge, 2009.
10 Fredric Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma, 2007.
11 Sulla vicenda, immosrtalata in un video di Rai Parlamento, circolano diverse ricostruzioni. All’epoca Rai news
affermò che a intonare il coro furono i deputati del centro-destra, altri organi di informazione sostennero invece che
fosse uno sfottò intonato dall’opposizione.
12 Dalla legge numero 92 del 30 marzo 2004 che istituisce il Giorno del ricordo.

5
commessi dai fascisti durante la permanenza nell’ex Jugoslavia, e a riabilitare personaggi
protagonisti della Repubblica sociale italiana.

Dal marzo del 2004, e fino al 2015, quando la vicenda è emersa, oltre trecento fascisti aderenti alla
Repubblica di Salò hanno ricevuto, nel Giorno del ricordo, l’onoreficenza del governo italiano “in
riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria”. Tra essi, alcuni, a quanto pare almeno cinque,
sono accusati di crimini di guerra, riconosciuti responsabili di aver ucciso e torturato civili italiani e
jugoslavi, ammazzato a sangue freddo, incendiato case, saccheggiato, ordinato fucilazioni di
partigiani e segnalato gente da rinchiudere nei lager nazisti. Di fatto, una riabilitazione non solo
delle “cose buone” accadute durante il Ventennio, ma anche dei crimini compiuti dalla dittatura e
dei loro esecutori.

Negli stessi anni, anche sull’onda di fatti di cronaca come gli omicidi D’Antona e Biagi, la stagione
del terrorismo italiano fu descritta come semplicemente limitata al terrorismo rosso, portando a una
parziale ma significativa rimozione dello stragismo e del terrorismo di matrice fascista, che,
probabilmente, secondo molte ricostruzioni e dichiarazioni dei protagonisti dell’epoca, ebbe, tra le
altre cose, un ruolo non marginale nel portare molti militanti rivoluzionari comunisti a fare la scelta
della lotta armata.

Forse è in questo contesto, e non in un mero incontro tra domanda e offerta, che si possono meglio
comprendere le produzioni mediatiche, soprattutto televisive, indirizzate a narrare la storia italiana.

Particolarmente utile potrebbe essere analizzare la narrazione mediatica delle vicende legate alle
foibe. Una narrazione dalla quale scompare il contesto all’interno del quale quelle vicende si
svolsero, che cancella la storia dell’occupazione italiana dei territori all’interno dei quali quei fatti si
svolgono ed è indirizzata esclusivamente a coinvolgere emotivamente il pubblico, portandolo a
empatizzare con quelle che vengono presentate come vittime.

Le omissioni dei media nella narrazione delle foibe

Scrive Angelo Del Boca

Anche se la presenza dell’Italia fascista nei Balcani ha superato di poco i due anni, i crimini commessi
dalle truppe di occupazione sono stati sicuramente, per numero e ferocia, superiori a quelli consumati in
Libia e in Etiopia. Anche perché, nei Balcani, a fare il lavoro sporco, non c’erano i battaglioni amhara-
eritrei e gli eviratori galla della banda di Mohamed Sultan. Nei Balcani, il lavoro sporco, lo hanno fatto
interamente gli italiani, seguendo le precise direttive dei più bei nomi del gotha dell’esercito […]

La «Relazione n. 4 (Slovenia)» ha un incipit terrificante:

«Durante l’occupazione dall’11-IV-1941 all’8-IX-1943 gli invasori italiani, nella sola provincia di
Lubiana 439, hanno fucilato 1000 ostaggi, ammazzato proditoriamente oltre 8000 persone, fra le quali
alcune erano state prosciolte dal famigerato tribunale militare di guerra di Lubiana; incendiarono 3000
case, deportarono nei vari campi di concentramento in Italia oltre 35.000 persone, uomini, donne e
bambini, e devastarono completamente 800 villaggi. Attraverso la questura di Lubiana passarono decine
di migliaia di sloveni. Là furono sottoposti alle più orrende torture, donne vennero violentate e maltrattate
a morte. Il tribunale militare di Lubiana pronunciò molte condanne all’ergastolo e alla reclusione,
cosicché nel solo campo di Arbe perirono di fame più di 4500 persone.»

In altre parole, più di 50.000 sloveni o persero la vita o subirono gravissime offese da parte delle truppe di
occupazione, nell’arco di appena due anni.13

13 Angelo Del Boca, Italiani brava gente, Neri Pozza, Venezia, 2005, pg. 218.

6
Un genocidio, che come sottolinea Del Boca, citando circolari e ordini alle truppe di occupazione
italiane, assume spesso i tratti della “bonifica etnica”.

Una strategia al servizio della quale vengono messi a disposizione anche campi di concentramento,
gestiti interamente da italiani, nei quali tra il 1942 e l’otto settembre del 1943 “si svolge una
tragedia che vede l'internamento di oltre centomila persone dei territori jugoslavi occupati, e la
morte di fame e malattie di alcune migliaia di essi.14”

Di tutto questo, nonostante siano studi supportati da solide fonti e che si attendono strettamente alla
metodologia storica, non vi è traccia nella vasta produzione mediatica tesa a descrivere quel che
avvenne sul confine orientale.

Essa, facendo propria una delle caratteristiche della postverità, punta estremamente sul
coinvolgimento emotivo dello spettatore, al quale viene prospettato un contesto asettico, senza una
storia precedente, nel quale gli italiani appaiono vittime, nonostante la ricerca storiografica dica
altro. Eppure, per comprendere quanto avvenne davvero, parlare degli episodi legati
all’occupazione italiana di quelle terre sarebbe fondamentale. Probabilmente scopo di questa
produzione mediatica non è quello di accrescere la conoscenza storica degli spettatori, ma quello di
consolidare un sentire comune, funzionale al diffondersi di una certa mentalità adeguata a rafforzare
il potere di una determinata parte politica.

Esemplare, in questo caso, per comprendere l’uso pubblico della storia fatto proprio dai media, e il
contesto caratterizzato dalla postverità che contribuisce a rinsaldare, è Il cuore nel pozzo, una fiction
ispirata alla vicenda delle foibe.

Il cuore oltre il pozzo

Il cuore nel pozzo è una fiction del 2005, che descrive, ambientando nel contesto una storia di
fantasia, gli eventi connessi alle foibe.

Scaglioni, nel saggio già citato, scrive a proposito:

Quello che colpisce in quest’opera è un’impressionante semplificazione del discorso storico,


che procede elidendo, innanzitutto, qualsiasi forma di contestualizzazione: la fiction inizia con
l’abbandono dei territori da parte dell’esercito tedesco, ma nulla in realtà viene spiegato del
contesto storico degli anni 1943-1945; e anzi, la costruzione figurativa dell’esercito jugoslavo e
dei titini, in particolare del ‘cattivo’ Novak, è fatta, se così possiamo dire, in analogia con le
rappresentazioni dei nazisti, ovvero con la semplice sostituzione della svastica con la stella
rossa. Si arriva, così, a esiti estremamente manichei, che rappresentano e ribadiscono
continuamente una separazione molto netta, quasi assoluta, del territorio valoriale dei ‘buoni’
(gli italiani) e dei ‘cattivi’ (i titini).15

Una riflessione che porta Scaglioni a sostenere l’urgenza di interrogarsi su quale tipo di memoria
viene elaborata, veicolata e ricostruita nel discorso televisivo.

14 Alessandra Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941 -
1943, Nutrimenti, Roma, 2008, pg. 8.
15 Massimo Scaglioni, L’immagine come fonte, come evento, come memoria. Questioni e problemi nel rapporto fra
televisione e storia, in Aldo Grasso (a cura di), Fare storia con la televisione, Vita e pensiero, Milano, 2006, pg. 45-
46.

7
Oltre questo però, forse sarebbe anche utile chiedersi perché, in quegli anni, il discorso televisivo
soprattutto, ma anche quello di altri media, elabora, ricostruisce e veicola la memoria in una certa
maniera.

Non si può non notare che i concetti che veicola una fiction come Il cuore nel pozzo, che potremmo
considerare indicativa della produzione mediatica giornalistica e di finzione che ha caratterizzato gli
anni in questione, sia pienamente in linea con l’attività politica e normativa dei governi di centro-
destra.

Quella che Il cuore nel pozzo cerca di trasmettere è un’identificazione patemica tra lo spettatore e le
vittime, reali o presunte, a prescindere dal contesto storico e dai fatti che hanno portato al verificarsi
di quegli eventi. Gli eventi vengono semplificati all’osso, la parte di finzione prende il sopravvento
sulla ricostruzione storica, probabilmente cercando di infondere nello spettatore una visione che lo
porta a concepire gli italiani come mere vittime della vicenda, cancellando del tutto i crimini di
guerra da loro commessi in quell’area, e ad associare i partigiani comunisti, siano essi italiani o
jugoslavi, ai nazisti (nella fiction la presenza fascista nell’area geografica in cui l’opera è
ambientata viene completamente nascosta).

Le produzioni di carattere storico che hanno caratterizzato i primi dieci anni del Secolo, soprattutto
trasmissioni a carattere giornalistico e fiction, sono quasi tutte mirate a eliminare la complessità
degli eventi, a dare un’interpretazione univoca, spesso di parte, di essi e a muovere
sentimentalmente lo spettatore, in modo da portarlo a identificarsi con quelle che vengono descritte
come vittime. Anche quando si tratta di criminali di guerra, come quelli che hanno ricevuto
un’onorificenza dal governo italiano nei primi anni del 2000.

a tenere insieme tutto il complesso delle leggi varate in questo decennio – scrive Giovanni De Luna - è
stato […] essenzialmente il tentativo di proporre come contenuto del patto fondativo della nostra memoria
il dolore e il lutto che scaturiscono dal ricordo delle “vittime”. Della mafia, del terrorismo, della Shoah,
delle foibe, delle catastrofi naturali, del dovere, vittime, sempre e solo vittime. […] Per emozionare,
commuovere, suscitare consenso, le sofferenze vanno gridate; più si grida forte più si sfondano le barriere
dell’audience e dell’ascolto. Quasi che le emozioni siano merci e quasi che sia il mercato a imporre le sue
regole, nel controllarne la domanda e l’offerta.16

Parallelamente si assiste a una vera e propria demonizzazione di una parte politica, quella di
sinistra, e comunista in particolare. Un processo che parte dalla Resistenza per arrivare agli anni del
terrorismo, ricondotti soprattutto a un terrorismo di matrice rossa. Il messaggio pare essere: “siano
essi partigiani, brigatisti rossi o iscritti al Pci, comunque fiancheggiatori dell’Unione sovietica, i
comunisti hanno macchiato di sangue la loro storia, non sono tanto diversi dai fascisti. Forse sono
peggio, dato che il fascismo ha fatto anche cose buone, mandava gli oppositori in villeggiatura e
non si è mica macchiato di crimini di guerra.”

La memoria condivisa ai tempi del neoliberismo

Tra la fine degli anni Novanta del secolo scorso e gli inizi del 2000, probabilmente abbiamo
assistito a una decostruzione e ricostruzione della memoria condivisa degli italiani. Con la fine della
Prima repubblica, dei partiti che l’avevano animata, e degli ideali che li avevano indirizzati, si è
cercato di mettere in soffitta anche i valori e le memorie condivise che avevano caratterizzato
quell’epoca almeno dalla metà degli anni Sessanta del Novecento, quando l’antifascismo si era
affermato come valore comune alla maggioranza degli italiani assieme all’idea di una società equa.

16 Giovanni De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano, 2011, pg. 15 e 16.

8
Insieme all’eliminazione di quei valori, probabilmente non più funzionali nel quadro economico e
sociale che andava delineandosi, si è cercato di criminalizzare e marginalizzare una parte politica,
quella comunista, e di sinistra in generale, che aveva avuto un ruolo significativo nella fase
precedente.

Con l’affermarsi anche in Italia dell’ideologia neoliberista, e con il suo rappresentarsi come l’unica
ideologia possibile, si è cercato, anche grazie ai limiti intrinseci alla parte politica che si voleva
marginalizzare, che probabilmente non fu in grado di analizzare e comprendere il nuovo scenario
nel quale agiva, rinnovando le proprie proposte e prospettive, di estromettere dallo scenario politico
ogni possibile detrattore di tale ideologia, ogni possibile elemento in grado di fornire un’alternativa
a essa e alla struttura della società che propone.

Allo stesso tempo sono state riabilitate, fino ad ammetterle al governo, tutte quelle forze in grado di
consolidare quello che andava affermandosi come un “pensiero unico”. Forze in grado di permettere
a tale ideologia di configurare, indirizzare e amministrare la struttura sociale anche in periodi in cui
i suoi dettami sono messi in crisi dall’andamento reale dell’economia e dei fenomeni sociali. Forze
in grado di garantire, se necessario, anche un restringimento degli spazi di democrazia.

L’estrema semplificazione della narrazione storica, dei fenomeni economici e sociali, la negazione
delle complessità, sono tutti fattori riscontrabili nel dibattito politico e nella produzione mediatica
degli anni in questione, e, probabilmente, sono lo specchio del tentativo di creare una memoria
condivisa e un sentire comune che non lascino spazio al pensiero critico, a un’analisi scientifica
della società tesa a metterne in luce limiti e complessità. Un tentativo teso a imporre un’ideologia
come l’unica possibile e a limitare al minimo ogni possibile spazio e capacità di critica.

Tutto viene ricondotto a un identificazione patemica, a un sentire mosso solo da commozione o


empatia verso quelle che vengono descritte come vittime, eliminando del tutto il lavoro scientifico
alla base della ricostruzione storica. La storia deve fornire solo uno scenario nel quale ambientare
una narrazione. L’importante è che lo spettatore si identifichi con i protagonisti e faccia proprio il
loro sentire. Anche se questo non corrisponde al reale andamento dei fatti.

Un’operazione simile non poteva essere immune da attaccare la storiografia ufficiale, quella che
certificava che i fatti fossero andati in maniera molto diversa da come voleva rappresentarli la parte
politica al potere. A questo proposito è significativo quanto avvenne nel Lazio a novembre del 2000.

Nell’autunno di quell’anno Azione studentesca, l’organizzazione degli studenti che faceva


riferimento ad Alleanza nazionale, diffonde in tutta Italia un opuscolo dal titolo Quando la storia
diventa una favola… sinistra. In esso si denuncia la falsità e la faziosità di molti manuali scolastici,
che narrerebbero una storia che “impedisce la ricostruzione di un’identità nazionale comune a tutti i
cittadini italiani e l’affermarsi di un sentimento di autentica pacificazione nazionale”.

Una rappresentazione della storia che, a detta dei giovani di An, ometteva molte vicende, in primis
quella relativa alle foibe, per consentire la costruzione dell’identità nazionale “sul mito - debole -
della Resistenza”.

In seguito alla diffusione di questo opuscolo il consiglio regionale del Lazio, a maggioranza di
centro-destra, approvò una mozione nella quale si sosteneva che:

dal momento che molti manuali di storia usati dagli studenti raccontano i trascorsi della nostra
nazione mistificandone alcune pagine e omettendo di scriverne altre, dando l'impressione di
voler far prevalere una sorta di verità di Stato assai spesso incompatibile con la realtà [...] il

9
consiglio regionale del Lazio impegna presidente ed assessori a istituire una commissione di
esperti che svolga un'attenta analisi dei testi evidenziandone carenze e ricostruzioni arbitrarie.

In altri termini: se le ricostruzioni storiografiche non sono in linea con il sentire comune e con la
memoria condivisa che si cerca affermare, sono queste a essere errate, faziose, da mettere in
discussione.

Alimentare la sfiducia nella storiografia scientifica per costruire una nuova memoria condivisa,
funzionale ai nuovi equilibri che si vogliono imporre. Probabilmente anche questo è successo negli
anni appena trascorsi e, forse, ha avuto un ruolo significativo nel delinearsi della percezione e del
sentire degli individui che caratterizzano la fase più recente della storia italiana. Una fase nella
quale le responsabilità degli eventi si confondono, allontanandosi dalla realtà dei fatti, come nel
caso di piazza Fontana; un contesto nel quale si scatenano violente polemiche su ex brigatisti, a
volte pentiti, dissociati, o che negli anni hanno compiuto autocritica, che si ricostruiscono una vita,
anche lavorativa, o vengono invitati in dibattiti. Polemiche alimentate oltremodo dai media. Mentre
solo qualche flebile voce, con poco risalto sui media, si indigna se Franco Freda, ritenuto dai giudici
(anche se non è possibile condannarlo) tra i responsabili della strage di piazza Fontana, ha scritto
sino a pochi anni fa su quotidiani vicini al centro-destra. Gli stessi che additano Umberto Eco come
“cattivo maestro”, ispiratore e fiancheggiatore del terrorismo rosso.

Ma qual è il rapporto odierno degli italiani con la storia?

Italia oggi

Non ho trovato sondaggi come quello pubblicato dal Corriere della sera nel 2003 che espongono
dati più recenti e indicativi dell’interesse degli italiani per la storia.

È possibile però farsi un’idea grazie ai dati auditel 17 relativi alle reti tematiche, alle statistiche sulle
pubblicazioni18, ai numeri di fan delle pagine facebook o alle visualizzazioni dei video pubblicati su
youtube.

Le reti televisive tematiche rivolte alla storia, Rai storia e History channel, non sembrano godere di
ottima salute. Se prendiamo in considerazione la fascia oraria di massimo ascolto, quella che va
dalle 20,30 alle 22,30, possiamo osservare come Rai storia, nel 2016, sia stata scelta mediamente da
poco meno di 70mila individui, mentre poco più di 15mila persone si sono sintonizzate su uno dei
due canali di History channel.

Prendendo in considerazione il periodo che va dal 2012 al 2016, possiamo osservare, invece, che il
numero di spettatori che si sintonizzano, nella fascia oraria di massimo ascolto, su Rai storia è
crescente: passano da 38.943 a circa 70mila; mentre gli individui che scelgono di guardare uno dei
due canali di History channel decrescono, passando da poco meno di 40mila nel 2012 a 15 mila nel
2016.

Meglio va per le trasmissioni a carattere storico che vanno in onda sulle reti generaliste, Ulisse, il
piacere della scoperta, in onda su Rai tre, e Voyager, trasmessa da Rai due: catalizzano mediamente
l’attenzione di circa due milioni di spettatori per ogni puntata, confermando come siano soprattutto
le reti generaliste, nonostante la presenza di reti tematiche, a soddisfare la richiesta di conoscenza
storica del pubblico italiano. Entrambe le trasmissioni raramente parlano di storia contemporanea, e,

17 Tutti i dati citati, relativi al numero degli spettatori televisivi, sono disponibili sul sito Auditel.
18 I dati citati, relativi alle pubblicazioni, sono disponibili sul sito Accertamenti diffusione stampa.

10
se Ulisse sembra basarsi su di una rigorosa ricostruzione scientifica degli eventi e dei contesti
narrati, Voyager tende più a spettacolarizzare la ricostruzione storica, spesso prescindendo da
un’analisi dettagliata e aprendo a tesi complottiste o misteriche.

Se volgiamo invece lo sguardo verso le pubblicazioni divulgative tematiche, possiamo osservare


che Focus storia passa da una diffusione media di oltre 113mila copie nel 2012 a una di meno di
57mila nel 2016, mentre Storica, del National Geographic, nel 2012 aveva una diffusione media di
oltre 44mila copie, nel 2013 di poco più di 36 mila.

I dati riflettono senz’altro la crisi generale che investe l’editoria, in particolare quella diffusa in
edicola, ma, come quelli delle reti tematiche, confermano che il consumo di prodotti divulgativi che
trattano di storia è molto ridotto tra gli italiani, e il pubblico si rivolge soprattutto alle reti televisive
generaliste per entrare in contatto con produzioni che trattano di argomenti di ordine storico.
Interessanti sono, infine, i dati che possiamo ricavare osservando la rete, soprattutto piattaforme
come facebook e youtube.

Su facebook, la pagina di Focus storia ha 373.210 "mi piace", quella di Storica del National
geographic 303.517, mentre inferiori sono i "like" relativi ad altre pagine che si occupano di storia,
alcune di qualità, come Zhistorica (circa 129mila fan).19

Riviste sorte in ambito accademico, come Diacronie, Zapruder, Storicamente, Storia e futuro, che
spesso mettono a disposizione gratuitamente articoli divulgativi, ma basati su analisi rigorose dal
punto di vista scientifico, viaggiano invece su cifre molto basse, attorno ai 5mila "mi piace"
ciascuna.

Diversa la situazione se osserviamo pagine che fanno un utilizzo politico della storia, spesso
descrivendo la storiografia ufficiale come falsa: riscuotono un ampio consenso, simile a quello delle
riviste divulgative, ma potendo contare su di una partecipazione più ampia degli iscritti, cosa che
porta, grazie alle condivisioni, a una diffusione esponenziale del messaggio trasmesso, che spesso è
possibile trovare postato da individui che non seguono la pagina in questione.

Rappresentative del fenomeno sono le pagine Briganti, di ispirazione neo-borbonica, e Vota Franz
Josef, di spiccate nostalgie asburgiche e rivolta al pubblico triestino.

La prima è seguita da 324.963 persone, pur essendo rivolta a un pubblico esclusivamente


meridionale, la seconda, invece, ha circa 2mila fan, cifra non trascurabile se si tiene conto che la
provincia di Trieste è abitata da poco più di 230mila persone.

Entrambe le pagine hanno una narrazione simmetrica, tesa a demonizzare la storiografia ufficiale e
ad affermare che, nell'Italia pre-unitaria, nei territori ai quali si rivolgono, si vivesse in una sorta di
paradiso terrestre.

Le pagine neo-fasciste, invece, stimate dall’Anpi in circa 4.600 20, possono contare su di un pubblico
particolarmente attivo, che si avvicina al milione di individui. Su queste pagine vengono attribuite
al duce cose buone che non ha mai fatto, come l’istituzione delle pensioni. Notizie false che
godono, sempre grazie alle condivisioni, di una diffusione a volte straordinaria, e, anche se non ho
trovato statistiche ufficiali, è possibile notare che spesso sono presenti nelle bacheche facebook

19 I like delle pagine facebook analizzate sono stati controllati per l’ultima volta il 16 giugno del 2019.
20 Il dato è fornito dal Gruppo di lavoro su neofascismo e web di Patria indipendente, la rivista ufficiale dell’Anpi.

11
degli individui più disparati che, non di rado, le mescolano a notizie provenienti da siti che fanno
riferimento a organizzazioni di un orientamento politico diverso.

Su youtube, invece, si può notare come i video relativi alla storia più visualizzati abbiano spesso nel
titolo le parole "misteriosa", "segreta", "vera", e così via. Anche quando si tratta di produzioni di
qualità.

Quello che sembra emergere, è un pubblico sempre meno fiducioso nella storiografia accademica,
che volge il proprio sguardo verso ricostruzioni spettacolari, spesso fantasiose, senza nessun
ancoraggio con la realtà. Ricostruzioni che, spesso, parlano di complotti o tendono a mitizzare
epoche e personaggi che di mitico hanno ben poco.

Lo storico March Bloch notava che le false notizie si diffondono quando le immaginazioni
collettive sono già pronte ad accoglierle21, e parrebbe che, nella nostra epoca, anche a causa dei
risultati di strategie politiche come quella che ho descritto in precedenza, la sfiducia verso le
istituzioni, la progressiva perdita di benessere, in assenza di analisi che spieghino scientificamente i
fenomeni che interessano le nostre società, si stiano volgendo verso narrazioni antiscientifiche, e
che il sapere storico, soprattutto in un contesto in cui molti cercano nuove identità e si rivolgono al
passato per trovarle, non sia immune da questi fenomeni. Per certi versi stiamo assistendo a una
"reinvenzione" della tradizione simile a quella che, secondo Hobsbawm 22, ha interessato
l'Ottocento, accompagnando la nascita dei nazionalismi.

In un simile contesto, possiamo chiederci quale sia la risposta istituzionale (intendendo questo
termine in senso lato) alla situazione che va delineandosi e se essa risulti essere diversa rispetto
quella che ha caratterizzato gli anni precedenti.

Passato e presente

Significativo in questo senso può essere considerato Passato e presente, programma di carattere
storico condotto da Paolo Mieli che vanta un pubblico medio di oltre 600mila spettatori e che va in
onda quotidianamente su Rai tre dalle 13,15 alle 13,55, e su Rai storia alle 20,30.

Per struttura e organizzazione la trasmissione sembra avere tutte le caratteristiche di voce storica
ufficiale della televisione pubblica o, almeno, così sembra rappresentarsi. E, forse, una sua analisi
semiotica può aiutare a mettere in luce i pregi e i difetti della comunicazione storica in onda
attualmente sulle reti pubbliche.

A questo proposito può essere utile partire dal sito che descrive il programma e contiene tutte le
puntate andate in onda.

La descrizione

Nella descrizione presente sulla pagina web della trasmissione si legge:

Il programma, si propone di raccontare i grandi e piccoli eventi e i personaggi che hanno


segnato la storia del mondo, per fornire strumenti di conoscenza del tempo in cui viviamo.

21 Marc Bloch, La guerra e le false notizie, Donzelli, Roma, 2004.


22 Eric J. Hobsbawm, L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino, 2002.

12
Anche se non tralascia di occuparsi di eventi e personaggi molto lontani nel tempo, a volte, come
nel caso di Carlo Magno, ancorando il loro ruolo al presente, spesso il programma di Mieli si
occupa di storia contemporanea.

Nello spot che lo pubblicizza, Mieli sostiene che "la storia non viene mai scritta una volta per tutte".
Una frase che, pur concedendo diverse interpretazioni, in un contesto come quello che ho cercato di
descrivere in precedenza, sembra strizzare l'occhio a chi propone interpretazioni della storia che
rompono con la storiografia ufficiale.

In realtà questa rottura, nelle trasmissioni di Mieli, non avviene mai. A volte è possibile notare
un'immedesimazione della testata con impostazioni storiografiche di stampo liberale, ma non si ha
mai la sensazione che la trasmissione stia rompendo con la storiografia accademica, al contrario,
tutto il programma sembra essere teso ad accreditare una certa visione della storia che è diffusa
anche in ambiti accademici (e sulla quale spesso c'è dibattito, cosa che dalle trasmissioni di Mieli
non emerge quasi mai).

Quella frase pronunciata nello spot, sembra più uno specchietto per le allodole, un espediente per
richiamare un pubblico che spesso si rivolge altrove.

Lo spettatore tipo

Non sembra emergere una figura univoca dello spettatore tipo di Passato e presente. L’intento del
programma sembra essere quello di contribuire all’affermarsi di una memoria condivisa tra gli
italiani e, per questa ragione, lo spettatore tipo pare essere abbastanza generico, identificato in
chiunque si interessi di storia e abbia l’opportunità di vedere il programma negli orari in cui va in
onda.

Per impostazione, la trasmissione non sembra rivolta a un pubblico specialista della materia, anche
se si può ipotizzare che lo spettatore tipo sia immaginato come parzialmente dotto, o, almeno, con
la voglia di seguire una trasmissione che non offre al pubblico alcun coinvolgimento emotivo
diretto e alcuna spettacolarizzazione dei fatti narrati.

Si potrebbe dire che il pubblico di riferimento sia un pubblico interessato alla storia, mediamente
istruito, composto anche, ma non solo, e non soprattutto, da studenti. Una fascia media della
popolazione alla quale fornire una concezione della storia lineare. Una memoria condivisa utile al
consolidamento degli equilibri attuali.

Gli spettatori reali

Secondo i dati pubblicati dalla multinazionale pubblicitaria Omnicom Media Group in


collaborazione con l’agenzia di comunicazione d’impresa Klaus Davi and company, Passato e
presente può vantare un pubblico composto prevalentemente da donne (il 55%), la maggioranza
degli spettatori, circa l’85%, è composta invece da individui che hanno più di 55 anni, mentre il
65% di essi appartiene a classi socio-economiche alte23.

Un’analisi più approfondita, probabilmente, può aiutare a tracciare un quadro del tipo di
comunicazione proposta da Mieli. In questo senso può essere utile partire dai titoli delle puntate.

I titoli
23 I dati sono riportati in un articolo di Klaus Davi pubblicato da Affari italiani il 5 maggio 2018.

13
Questi ultimi, associati sul sito a immagini che descrivono l’argomento trattato, sono spesso iconici,
suggeriscono subito un’immagine o un richiamo diretto al personaggio o all’evento di cui si parlerà
nella puntata. A volte al tratto iconico ne aggiungono uno descrittivo, quando il richiamo a
un’immagine sembra non essere immediato, o non riportare istantaneamente il lettore a quelli che
sono i tratti salienti dei quali la trasmissione si occuperà.

Così, se per presentare la puntata che parlerà di Carlo Magno, come titolo basta “Carlo Magno”, per
presentare quella relativa a Nicola II è necessario specificare nel titolo, accanto al nome e dopo una
virgola, “l’ultimo zar”, perché non è solo il personaggio che sarà descritto nel corso della
trasmissione, ma il personaggio in qualità di ultimo zar, di una dinastia defenestrata dalla
rivoluzione.

Raramente i titoli si fanno anche interpretativi ed è curioso notare come, nella prima edizione del
programma, questo avvenga esclusivamente in due casi relativi alla storia sovietica, quando il titolo
della puntata dedicata a Stalin è “Stalin. L’età del terrore”, mentre quello della trasmissione dedicata
a Trotsky è “Trotsky. La rivoluzione impossibile”.

Il fatto è indicativo perché traccia già una linea editoriale della trasmissione. Se nelle puntate che
riguardano il fascismo mai viene dato un titolo che lasci spazio a un’interpretazione negativa, in
quelle riguardanti la storia sovietica, caso unico tra i titoli, viene fatto per ben due volte, e,
indipendentemente dal giudizio che si può avere sui personaggi di cui si parla e sugli eventi dei
quali sono stati protagonisti, sembra essere rappresentativo della continuità della trasmissione di
Mieli con l’impostazione storiografica che ha caratterizzato gli anni dei governi di centro-destra,
nonostante i cambiamenti nel panorama politico (durante la prima edizione era in carica un governo
a guida Pd.

La sigla

Anche dalla sigla sembra emergere una particolare concezione della storia, una sua interpretazione
che sembra attribuirle un significato lineare, privo di complessità. Una concezione più utile a
consolidare una struttura di potere che a presentare a un pubblico relativamente vasto il dibattito
storiografico, le analisi che ne scaturiscono e le differenze tra varie interpretazioni.

La musica che accompagna le immagini ha un incedere epico con toni drammatici, quasi a
sottolineare l’importanza e la drammaticità degli eventi trattati.

In primo piano una cinepresa d’epoca, azionata da una manovella; sulla destra si intravede una
mano che la fa girare. Sullo schermo della cinepresa, al centro del video, scorrono singole immagini
che rappresentano personaggi o eventi storici. Si passa così da Napoleone a una marcia nazista,
dalle immagini che immortalano la caduta del muro di Berlino, ad Aldo Moro fotografato nei giorni
della prigionia con una bandiera delle Brigate rosse alle spalle, a “Che” Guevara.

Secondo Umberto Eco24 e Omar Calabrese, il montaggio è già un’interpretazione, e gli accostamenti
presenti nella sigla della prima edizione di Passato e presente, nella loro linearità, sembrano
suggerire allo spettatore una lettura degli eventi che pare essere in linea con la concezione della
storia, e della politica, trasmessa negli anni dei governi di centro-destra. Aldo Moro, prigioniero, è
tra il muro di Berlino e “Che” Guevara.

24 Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano, 1964.

14
Quella suggerita è una visione lineare, priva di complessità. Una storia fatta di avvenimenti e
individui, dalla quale i fenomeni sociali, i processi storici e il contesto nel quale si manifestano
vengono espunti, lasciati sullo sfondo, nonostante siano indispensabili per comprendere gli
avvenimenti e le scelte che gli individui prendono al loro interno o a causa di essi. Una concezione
molto simile alla “storia evenemenziale” contro la quale scrisse Fernand Braudel.

Forse, per comprenderne i limiti, può essere utile paragonare la sigla di Passato e presente a
un’altra sigla, quella de La storia siamo noi, il programma condotto, fino a qualche anno fa, da
Gianni Minoli. Qui, in un labirinto fatto di monitor che sembra strizzare l’occhio all’immaginario
fantascientifico e cyberpunk, si sovrappongono e si intrecciano immagini, voci e suoni, quasi a
rappresentare la complessità dei processi storici. A volte alcune voci si distinguono chiaramente, o
alcune immagini sono più nitide, come per indicare che alcuni avvenimenti, o alcuni individui,
tendono a porsi in primo piano nel divenire storico, ma che la storia non è fatta solo di essi. Sullo
sfondo restano sempre altri monitor, che trasmettono immagini diverse, e la voce principale, quella
che sembra emergere, è sempre mescolata ad altre. Guardandolo, si ha l’impressione che il breve
filmato voglia descrivere il pozzo dal quale lo storico attinge, ma dal quale, quello che riesce a
portare alla luce, a spiegare, è solo una minima parte di quello che resta in fondo a esso, che
continuerà a essere poco chiaro.

Questa complessità sembra essere ignorata da Passato e presente, non solo nella sigla, ma anche nel
corso della trasmissione, durante la quale l’andamento degli avvenimenti trattati sembra sempre
chiaro, uniforme, e quasi mai si fa cenno al dibattito storiografico attorno a essi. Si illustra una sola
interpretazione del loro corso, che viene presentata al pubblico come l’unica esistente.

Lo studio

Lo studio virtuale nel quale va in onda il


programma è “concepito come uno spazio
moderno all’interno del quale le immagini
del passato restituiscono e raccontano il tema
trattato”, recita la descrizione presente sul
sito della trasmissione.

Al suo interno possiamo osservare, sulle


pareti, la proiezione di una biblioteca nella
quale sono presenti testi antichi, mentre due
grandi monitor sono posti al centro, alle
spalle del conduttore e degli ospiti. In quello
sulla sinistra, è presente il titolo della punta e
su entrambi scorrono immagini e filmati
relativi al tema trattato.

In primo piano, visibile soprattutto quando si rientra in studio dopo che un documentario è stato
mandato in onda, vi è un totem olografico, che riporta brevi frasi in grado di riassumere
l’argomento o il concetto che si sta esponendo, a volte anche una loro interpretazione. Dei cubi
olografici sui quali spesso vengono proiettate immagini relative al tema trattato, sono invece
presenti soprattutto al momento dell’introduzione e delle conclusioni.

I colori predominanti sono tenui, chiari, quasi a voler trasmettere tranquillità allo spettatore. A
indurlo a rilassarsi e ascoltare, conferendo al contesto un carattere di ufficialità.

15
Al centro dello studio vi è il conduttore, alla sua destra lo storico invitato a trattare un determinato
argomento e, alla sua sinistra, tre studenti di storia che interagiscono con lo studioso ospite o con il
conduttore che rivolge loro domande.

L’allestimento dello studio sembra suggerire una commistione tra passato e presente, una continuità
priva di rotture, mentre la disposizione dei protagonisti della puntata sembra suggerire un
enunciatore forte, la testata, rappresentata da Mieli in qualità di conduttore, che, posto al centro,
media i contenuti e sancisce una loro interpretazione, fornendo allo spettatore una visione della
storia che è unica: quella emersa dalla puntata.

La conduzione

La conduzione, nonostante Mieli sia spesso in primo piano, tende a tenerlo sullo sfondo, a
presentarlo più come portavoce della testata che come individuo con delle proprie opinioni e una
propria concezione della storia.

La tendenza a oggettivare il discorso, a presentare la testata come enunciatrice, pare chiara


soprattutto nella prima puntata della prima edizione, quella in cui si parla di “Che” Guevara. Mieli,
introducendola, annuncia: “Oggi Passato e presente si occupa di...”.

Nel resto delle puntate, invece, il tono cambia leggermente e l’introduzione che puntualmente Mieli
recita è: “Oggi a passato e presente parleremo…", intendendo con quel noi, non se stesso, lo storico
e gli studenti invitati, bensì la testata e il pubblico.

L’unico enunciatore sembra così essere la testata, la quale, tramite la mediazione di Mieli, accredita
o, raramente, contraddice quanto affermato dallo storico presente in studio, e ciò pare essere
espressione di un tentativo di trasmettere la visione dei personaggi, e degli eventi dei quali si è
discusso, come quella ufficiale, l’unica in grado di assicurare una memoria condivisa al pubblico
italiano.

L’introduzione e le conclusioni sono entrambe tratte da Mieli, solo in studio, che fornisce una
lettura dei fatti narrati.

In studio si ha sì l’impressione di una pluralità di voci, quella di Mieli, quella dello storico invitato e
quella degli studenti, ma questa resta solo un’impressione. Non vi è mai dibattito, non vi sono mai
visioni alternative a quella presentata, la complessità degli eventi e dei personaggi resta sempre
sullo sfondo e, spesso, gli studenti invitati, si limitano a confermare l’interpretazione della storia
che la testata vuole fornire o a fare una domanda allo storico presente, anche quando è richiesta una
loro opinione.

Anche l’intervento dello storico, che pare essere considerato una voce autorevole in grado di dare
forza a quanto la testata vuole enunciare, è mediato dalla presenza del Mieli/testata e, quando
sembra emergere una lettura dei fatti diversa da quella che la testata vuole affermare, quest’ultimo
non esita a interrompere l’intervento per riportarlo sui binari che sembrano essere stabiliti,
sull’interpretazione che pare la testata voglia fornire al pubblico.

Durante ciascuna puntata, sembra dominare la figura dell’embrayage. Mieli/testata sembra


richiamare a sé e a presentarsi come raccordo e mediatore di tutte le enunciazioni che emergono nel
corso della trasmissione, in modo da dare una visione e un’interpretazione che appaia autorevole e
unica, la sola possibile. Quella ufficiale.

16
Solo raramente il conduttore parla di sé in prima persona, e ciò avviene esclusivamente quando,
solo in studio, trae le conclusioni della puntata appena andata in onda. Sembra quasi che voglia
rimarcare la propria autorevolezza uscendo dall'oggettività in cui si è nascosto per tutta la puntata,
per dare forza al concetto che vuole affermare. Spesso, infatti, le conclusioni sembrano essere
indirizzate esclusivamente a rafforzare alcuni concetti sostenuti nel corso del programma, a
confermare la visione che la testata ha voluto fornire al pubblico.

Il documentario

I momenti di discussione, o, meglio, dell’intervista allo storico condotta dal Mieli/testata in studio,
si alternano alla messa in onda di documentari che scandiscono i temi trattati nel corso della
puntata. Anche in questo caso, l’enunciatore sembra essere la testata.

Nei documentari trasmessi, la voce narrante si limita a raccontare i fatti, senza caratterizzarsi
particolarmente se non come voce impersonale. In essi non si cerca di spettacolarizzare la storia, né
di presentificare del tutto il passato. Anche se spesso i tempi verbali sono declinati al presente,
nonostante si parli di epoche più o meno remote, si conserva sempre un certo distacco, e lo
spettatore non viene coinvolto con suoni o rumori che cercano di dare un "effetto di presenza". Il
coinvolgimento emotivo è delegato esclusivamente alle musiche, che spesso hanno un incedere
epico.

In qualche caso capita che quanto sostenuto nel documentario contraddica, seppur in parte, quanto
lo studioso o Mieli sostenevano in studio. Ma neanche in questo caso si apre un dibattito. Mieli
chiede allo studioso, che a sua volta contraddice il documentario, e si chiude lì, lasciando allo
spettatore la sensazione che sia stato l'autore del documentario a fare affermazioni scorrette e che
l’interpretazione corretta sia quella fornita dalla testata. Tralasciando completamente tutto il
dibattito storiografico sulla questione.

Conclusioni

Passato e presente sembra trasmettere una visione della storia simile, anche se più edulcorata, a
quella che si è diffusa negli anni dei governi di centro-destra.

Molte puntate sono dedicate al fascismo, presentato spesso come una reazione alla violenza dei
rossi e ai tentativi insurrezionali del Biennio rosso. Spesso giustificandolo o facendolo apparire
come il male minore. Capita nella puntata dedicata alla strage di palazzo D’Accursio, a Bologna,
dove le forze dell’ordine, che, assieme ai fascisti, sparano sui socialisti che hanno appena vinto le
elezioni, vengono presentate come stanche delle mazzate prese durante il Biennio rosso e per questo
si avvicinano al fascismo.

Capita nella puntata sui rapporti e le simpatie tra il duce e gli Stati uniti d’America, dove si descrive
l’iniziale intesa tra l’Italia fascista e gli Usa come frutto di una giustificata paura americana di una
rivoluzione in Italia.

Significativo è quanto avviene nella puntata dedicata ad Anna Frank, per il momento l’unica dove
temi e personaggi storici vengono accostati a fatti di attualità.

I tifosi della Lazio, qualche giorno prima della messa in onda, hanno riprodotto l’immagine di Anna
Frank con la maglia della Roma, ideando quello che voleva essere uno sfottò verso la squadra
rivale.

17
Nel corso della puntata che tratta di questo evento, cercando di ricostruire la vita di Anna Frank e le
vicende che l’hanno interessata, mai vengono usati i termini “fascisti” o “nazisti” per descrivere i
tifosi della Lazio, nonostante essi stessi si fregino di tali nomi. Vengono definiti “antisemiti”,
riducendo la vicenda a mero odio razziale senza inserirla in un contesto più ampio, politico e
sociale.

Anche quando i due storici presenti in studio (evento unico nel corso della trasmissione) cercano di
indagare le ragioni di quel gesto, mai si parla delle recrudescenze fasciste che investono il paese,
tutto viene descritto quasi come una ribellione adolescenziale, come la voglia di andare contro
quello che è il sentire comune. Si parla di attualità, di un determinato argomento che la investe, ma
si celano nomi, definizioni e analisi che possano portare lo spettatore a comprenderla appieno.

Infine, se vogliamo considerare quello di Mieli come un tentativo istituzionale per arginare la
tendenza del pubblico a fare propria una "storia inventata", potremmo giudicarlo piuttosto debole.

Le storie inventate hanno più o meno le stesse peculiarità della concezione della storia che Passato
e presente sembra trasmettere: sono lineari, semplici, prive di conflitti e complessità, spesso
acontestualizzate.

L’attenzione crescente che stampa e Tv dedicano alla storia, e in particolare alla storia contemporanea –
scriveva Marcello Flores in un saggio del 2005 - sembra costituire a sua volta un volano per la creazione
di un senso comune storiografico improntato di volta in volta alla mancanza di problematicità o alla
diffusione di pregiudizi e stereotipi.25

E la trasmissione condotta da Mieli non sembra discostarsi da questo cliché. Il timore è che un
simile tentativo possa rafforzare, invece che indebolire, determinate concezioni a-scientifiche della
storia, mentre, forse, il compito del servizio pubblico dovrebbe essere quello di trasmettere a un
pubblico vasto la complessità della storia (e sforzarsi di farlo con un linguaggio semplice e
comprensibile), far conoscere diffusamente i dibattiti che attraversano la storiografia, rendere
condivisa la coscienza che la storia è molto più complessa, e non può essere limitata a eventi e
personaggi, escludendo l’economia, le masse, i fenomeni sociali, le mentalità.

Forse solo da un’operazione simile potrebbe nascere una reale memoria condivisa degli italiani,
ancorata a uno studio scientifico della storia e non a storie costruite, spesso inventate per
consolidare il potere di un determinato settore della società e della parte politica che lo rappresenta.

Bibliografia

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Marc Bloch, La guerra e le false notizie, Donzelli, Roma, 2004.

Giovanni De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano,
2009.

Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano, 1964.

Marcello Flores, Memoria collettiva e uso della storia, in il Mulino, fascicolo 1, gennaio – febbraio
2005.

25 Marcello Flores, Memoria collettiva e uso della storia, in il Mulino, fascicolo 1, gennaio – febbraio 2005, pg. 178.

18
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1999.

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di Sergio Zavoli, in Isabella Pezzioni, Immagini quotidiane, Laterza, Roma-Bari, 2008.

Cinzia Venturoli, Stragi fra memoria e storia, Tesi di dottorato, Bologna, 2007.

19

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