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GABRIELE PELIZZARI insegna Letteratura cri-

stiana antica e Filologia ed esegesi del Nuovo


Testamento presso l’Università degli Studi di
Milano, Storia della Chiesa e patrologia dei primi
3 secoli presso la Facoltà Teologica di Lugano.
I suoi interessi di ricerca abbracciano la
metodologia dello studio critico del Nuovo Te-
stamento, la ricostruzione dell’antica tradizione
cristiana aquileiese e la storia dell’esegesi cristia-
na antica, visuale e letteraria. Relativamente a
quest’ultimo argomento, tra le sue pubblicazioni
si segnala, per San Paolo, Vedere la Parola,
celebrare l’attesa. Scritture, iconografia e culto
nel cristianesimo delle origini (2014).
Per Paoline ha curato La discepola ribelle.
Tecla di Iconio nel ciclo agiografico degli Atti di
Paolo (2017) e, più recentemente, la Spiegazione
del credo di Rufino di Aquileia (2021).

Gabriele Pelizzari • L’ICONOGRAFIA CRISTIANA DELLE ORIGINI COME STORIA DELL’ESEGESI • Un’ermeneutica codificata
Contenuto digitale diffuso in Open Access con il contributo dell’Università degli Studi di Milano (Finanziamento ricerca “Seed” 2019 [Progetto: «IF - Immaginare la Fine»] e Fondi PSR2019)
LETTURE CRISTIANE
DEL PRIMO MILLENNIO
SUPPLEMENTI

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Gabriele Pelizzari

L’ICONOGRAFIA
CRISTIANA DELLE ORIGINI
COME STORIA DELL’ESEGESI
Un’ermeneutica codificata

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Volume edito in Open Access con il contributo dell’Università degli Studi di Milano
(Finanziamento ricerca “Seed” 2019 [Progetto: «IF - Immaginare la Fine»]
e Fondi PSR2019 [Progetto: «Tra “memoria religiosa” ed “elaborazione teologica”: le traiettorie
dell’esegesi scritturistica nella genesi della più antica documentazione cristiana »]).

PAOLINE Editoriale Libri


© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2022
Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano
www.paoline.it • www.paolinestore.it
[email protected]
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.
Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)

ISBN 978-88-315-5450-3

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Le verità si apprendono attraverso le immagini,
in altri termini:
tramite ciò che si può vedere
viene conosciuto quanto è invisibile.
Tertulliano

A Maria Chiara che,


con amorevole pazienza,
ha dato vita a ciascuna di queste pagine.

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Abbreviazione e sigle

Bosio A. Bosio, Roma sotterranea. Opera postuma di Antonio


Bosio Romano antiquario ecclesiastico singolare de’ suoi
tempi. Compita, disposta, & accresciuta dal M.R.P. Gio-
vanni Severani da S. Severino, in Roma, appresso Gu-
glielmo Facciotti, 1632.
CIL Corpus Inscriptionum Latinarum, Berlin.
DACL F. Cabrol - H. Leclercq - H.I. Marrou (éds.), Diction-
naire d’Archéologie Chrétienne et de Liturgie, Letouzey
et Ané, Paris 1907-1953.
EEECA P.C. Finney (ed.), The Eerdmans Encyclopedia of Early
Christian Art and Archaeology, Eerdmans, Grand Rap-
ids (MI) 2017.
Garr. 2: R. Garrucci, Storia della arte cristiana nei primi otto
secoli della Chiesa, 2: Pitture cimiteriali, Gaetano Gua-
sti, Prato 1873;
3: R. Garrucci, Storia della arte cristiana nei primi otto
secoli della Chiesa, 3: Pitture non cimiteriali, Gaetano
Guasti, Prato 1877;
4: R. Garrucci, Storia della arte cristiana nei primi otto
secoli della Chiesa, 4: Musaici cimiteriali e non cimite-
riali, Gaetano Guasti, Prato 1877;
5: R. Garrucci, Storia della arte cristiana nei primi otto
secoli della Chiesa, 5: Sarcofagi ossia sculture cimiteriali,
Gaetano Guasti, Prato 1879;
6: R. Garrucci, Storia della arte cristiana nei primi otto
secoli della Chiesa, 6: Sculture non cimiteriali, Gaetano
Guasti, Prato 1880.
ICUR A. Silvagni - A. Ferrua (edd.), Inscriptiones Christianae

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8 Abbreviazioni e sigle

Urbis Romae. Nova series, 1-10, PIAC, Città del Vati-


cano 1922-1992.
JbAC Jahrbuch für Antike und Christentum, Bonn.
Nestori A. Nestori, Repertorio topografico delle pitture delle ca-
tacombe romane, PIAC, Città del Vaticano 19932 (Ro-
ma sotterranea cristiana 5). [n.b.: nelle annotazioni,
all’indicazione “Nestori” seguirà la sigla del Repertorio
relativa a ciascun ipogeo con, a esponente, il numero
attribuito dal Repertorio a ciascun ambiente].
Mansi G.D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima
collectio, 1-31, Apud Antonium Zatta, Florentiae - Ve-
netiis 1758-1798.
Rep. 1: F.W. Deichmann (hrsg.), Repertorium der christ-
lich-antiken Sarkophage, 1: G. Bovini - H. Brandemburg
(hrsg.), Rom und Ostia, Franz Steiner GMBH, Wiesba-
den 1967;
2: T. Ulbert (hrsg.), Repertorium der christlich-antiken
Sarkophage, 2: J. Dresken-Weiland (hrsg.), Italien mit
einem Nachtrag Rom und Ostia, Dalmatien, Museen der
Welt, Philipp von Zabern, Mainz am Rhein 1998;
3. T. Ulbert (hrsg.), Repertorium der christlich-antiken
Sarkophage, 3: B. Christern-Briesenick (hrsg.), Frank-
reich, Algerien, Tunisien, Philipp von Zabern, Mainz
am Rhein 2003;
4: Repertorium der christlich-antiken Sarkophage, 4: N.
Buchsenschutz (hrsg.), Iberische Halbinsel und Ma-
rokko, Reichert, Wiesbaden 2018;
5: Repertorium der christlich-antiken Sarkophage, 5: J.G.
Deckers - G. Koch (hrsg.), Konstantinopel, Klein-
asien-Thracia, Syria, Palaestina-Arabia, Reichert, Wies-
baden 2018.
SP Studia Patristica, Leuven.
Temi F. Bisconti (cur.), Temi di iconografia paleocristiana,
PIAC, Città del Vaticano 2000 (Sussidi allo studio
delle antichità cristiane 13).
Wp. 03: J. Wilpert, Roma sotterranea: Le pitture delle cata-
combe romane, Desclée, Lefebvre & C., Roma 1903;

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Abbreviazioni e sigle 9

16,1-4: J. Wilpert, Die römischen Mosaiken und Male-


reien der kirchlichen Bauten vom IV. bis XIII. Jahrhun-
dert, Herder, Freiburg 1916;
29; 32; 36: J. Wilpert, I sarcofagi cristiani antichi, Ti-
pografia Poliglotta Vaticana, Roma 1929-1936 (Mo-
numenti dell’antichità cristiana 1).

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UNA PREMESSA

La storia è un atto creativo che, attraverso un rigoroso esame di “evi-


denze documentarie” – espressione che può indicare qualsiasi prodotto
del passato che emerge, che sembra più rilevante (evidentia, in latino, è
parola composta che deriva da ex + video e indica proprio ciò che spicca
tra quanto è visibile) –, si propone di descrivere tempi già trascorsi.
La difficoltà specifica del “mestiere dello storico” sta forse nel decide-
re quali evidenze impiegare per documentare il passato, nello scegliere la
metodologia critica a cui affidare la forma dell’analisi e nel sorvegliare
che le conclusioni a cui si perviene siano rigorose, condotte in modo con-
seguente, articolate razionalmente e con equilibrio.
Accanto a questi requisiti critici – ma forse anche prima di essi – sta
però l’aspettativa con cui si rivolge l’attenzione al passato. Sintetizzando,
come pare doveroso in una premessa, credo sia lecito affermare che, in
ultima analisi, esistono due modelli, tra loro alternativi, che possono mo-
tivare un’indagine sul passato: in esso si possono, infatti, cercare risposte
e paradigmi che incontrino, e magari risolvano, i quesiti del presente;
oppure si può impiegare la storia come un genuino esercizio di estasi, nel
senso etimologico dello “stare fuori (ex + stare)” da sé o, per meglio dire,
dato il caso, per star fuori dal proprio presente. L’alternativa può essere
ulteriormente semplificata: o si costringe il passato a “farsi presente”, ad
abbandonare il suo tempo per abbracciare quello di chi lo osserva, in una
sorta di auxilium historiae; oppure si impara a rendere il proprio presente
“spettatore”, a rispettare il passato con le sue domande, le sue priorità, in
una parola, i suoi caratteri salienti.
Questa premessa potrà forse sembrare di ordine troppo generale; tut-
tavia essa determina importanti ricadute nella quotidianità del “lavoro

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12 Premessa

dello storico”, molto spesso trascurate. Mi limiterò a citarne una, che po-
tremmo definire come un “historiographical media gap”: è caratteristico
del nostro tempo “pensare per iscritto”, immaginare, cioè, che le idee
trovino la loro necessaria e migliore espressione attraverso le parole (scrit-
te); proiettare questa abitudine su un tempo – quello, per esempio, del
I-III secolo – nel quale l’alfabetizzazione riguardava solo poche unità
percentuali della popolazione non produrrà già di per sé una distorsione
della descrizione storiografica di quel passato?
Diverrà forse un esercizio salutare chiedersi con puntigliosa curiosità
se avessero più forza culturale – la capacità di orientare l’interpretazione
comune della vita e della storia – le storiografie immaginarie di Asinio
Pollione o di Livio oppure la corazza dell’Augusto di Prima Porta.
Nel caso del mondo antico e delle origini cristiane è davvero difficile
immaginare di poter prescindere dalla documentazione visuale: da tutti
quei documenti, cioè, che affidavano all’immagine, anziché alla parola,
il compito di elaborare e articolare pensiero, di costruire significato, di
trasmettere idee, di istruire – o condizionare – l’ideale dei propri fruito-
ri. Un bassorilievo, una pittura, un’immagine offrivano il loro messaggio
a tutti; i testi erano viceversa appannaggio di quei pochi che li potevano
decifrare, che avevano le competenze necessarie per trasformare quelle
successioni di grafemi in suoni e in significati, per ritrovare in essi il mes-
saggio che era stato affidato a quella serie di segni. La scrittura, infatti, è
una somma di figure che necessitano di essere decifrate; l’immagine ico-
nica è viceversa una figura già significante (o significativa).

---

Scopo dell’itinerario qui tratteggiato è duplice: per un verso, esso mi-


ra a presentare i principali momenti che portarono alla nascita di un les-
sico figurativo cristiano; per l’altro, questa ricerca vuole evidenziare la
straordinaria efficacia documentaria di cui la primigenia produzione fi-
gurativa cristiana è capace, un’efficacia in grado di restituire una fonte
primaria per la ricostruzione di quei primi secoli cristiani.

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Premessa 13

La ricerca si articola in due parti. La prima, di ordine teoretico e me-


todologico, si sofferma su due aspetti di natura preliminare:
1. La genesi dello specifico concetto di “immagine cristiana” a cui la
ricerca si è lungamente affidata per investigare la prima documen-
tazione visuale cristiana (Sezione I: Le matrici di una critica).
2. La discussione di un approccio metodologico modellato sul Sitz
im Leben di questa cultura visuale e finalizzato alla critica di que-
sta più antica produzione figurativa (Sezione II: L’approccio erme-
neutico).
La seconda parte, di natura descrittiva (Sezioni III-V), vuole invece
provare ad applicare queste categorie (teoretiche e metodologiche), pre-
sentando allo stesso tempo i caratteri fondativi e quelli distintivi di que-
sta primigenia cultura visuale.

---

Non posso affidare queste pagine ai loro lettori senza aver prima
espresso la mia riconoscenza a sr. Mariangela Tassielli, responsabile di
Paoline Editoriale Libri, che ha accolto e accudito questo lavoro, e a sr.
Gianfranca Zancanaro, che mi ha pazientemente accompagnato, e non
solo nella confezione di questo libro; a mia mamma, perché ancora una
volta mi ha convinto a non risparmiare nulla di ciò che riuscivo; a Remo
Cacitti, per la fiducia che ha riposto nelle mie capacità e per avermi in-
segnato molto più di ciò che ho saputo apprendere; ad Alessandro Rossi,
per l’amicizia così schietta; a don Sandro Ramirez e don Antonio Scat-
tolini per aver colorato con la loro passione per l’arte la nostra amicizia;
a don Patricio de Navascués Benlloch, a don Andrés Sáez Gutiérrez, a
Emiliano Fiori e a Marco Zambon, per aver discusso pazientemente con
me dell’indice di queste pagine; a Irene Barbotti, per l’aiuto, perspicuo e
generoso, nella stesura di questo scritto.
Mi auguro di avere onorato, almeno in parte, così tanto bene ricevuto.

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LE MATRICI DI UNA CRITICA

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I.

ALLE ORIGINI DI UN EQUIVOCO.


LA MISURA TEOLOGICA DELL’IMMAGINE

La nascita della cultura visuale cristiana antica rappresenta un tema “sto-


riograficamente controverso”, fondato su un paradosso che Miriam J. Rigby
ha efficacemente riassunto nei suoi estremi: «Una “ostilità cristiana verso
l’arte” a fronte di una “produzione cristiana d’arte”»1. Questa antitesi emer-
ge frequentemente nella critica come una sorta di incoerenza fattuale; come
si vedrà, però, essa di fatto si basa su una forzatura di entrambi i termini
che contrappone. Né la più antica letteratura cristiana fu, infatti, ostile
all’immagine né le origini cristiane produssero una vera e propria “arte” 2.
La centralità che questo “paradosso storiografico” occupa nella lette-
ratura critica che si dedica alla primigenia cultura visuale cristiana rende
necessario affrontarne preliminarmente la discussione.
Per capire le modalità attraverso le quali si è strutturato un simile
pre-giudizio critico, reputo necessario riflettere, prima che sulle immagi-
ni in quanto tali, sull’immagine in quanto argomento speculativo, cer-
cando di ripercorrere la storia del dibattito cristiano relativo all’“arte”.

1 M.J. Rigby, The “Heretical” Origin of Christian Art, M.A. Diss., Hamilton, a.a. 1980-

1981, 1.
2 Data l’inadeguatezza della categoria di “arte” per la più antica cultura visuale cristiana,

quando impiegato, il lessico artistico verrà nelle prossime pagine posto tra virgolette. L’inade-
guatezza di tale categoria per la prima cultura visuale cristiana è stata correttamente osservata da
R. Couzin, “Early” “Christian” “Art”, in R.M. Jensen - M.D. Ellison (eds.), The Routledge Hand-
book of Early Christian Art, Routledge, London - New York (NY) 2018, 380-392, in part. 380-
381. Il discorso sulla prima cultura figurativa cristiana intercetta un secondo lemma “delicato”,
quello di “immagine”, che storicamente giocò un ruolo decisivo nel passaggio dalla teoresi teo-
logica (cfr. M.J. Edwards, Image, Word, and God in the Early Christian Centuries, Ashgate, Farn-
ham - Burlington [VT] 2013 [Ashgate studies in philosophy & theology in late antiquity], in
part. 79-96) a quella dell’icona, enfatizzando l’indirizzo cristologico assunto da quest’ultimo.

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18 Le matrici di una critica

1. L’ICONOCLASMO COME NECESSARIA PREMESSA CRITICA


Eccettuati alcuni incidentali riferimenti a figure, simboli e immagini,
nella cultura cristiana antica un dibattito vero e proprio circa il valore e
il potenziale dell’immagine mancò sino al deflagrare della controversia
iconoclasta (726-823): la prassi tacitamente invalsa nelle diverse Chiese
costituì sino a quel momento il metro dell’agire di ciascuna comunità.
Con lo scoppio di quella crisi, però, tale atteggiamento venne superato
dai fatti, lasciando posto a un’aspra – talora violenta – controversia. Le due
fazioni che in essa si fronteggiarono argomentarono le proprie posizioni,
come d’abitudine, insistendo su due argomenti, l’uno dogmatico-teologi-
co (oggi diremmo “speculativo puro” o “teoretico”), l’altro «tradizionale
e quasi storico (corredato del ricorso alla Scrittura e ad altri precedenti
reali o inventati)»3. Per quest’ultimo, da ambo le parti furono redatti ric-
chi florilegi biblici e nutrite antologie degli scritti dei più autorevoli au-
tori cristiani.
Rispetto a queste fonti, entrambe le parti agirono pretestuosamente,
interpretando la “tradizione” – spesso addirittura “forgiando” una tradi-
zione – attraverso forzature ermeneutiche e distorsioni prospettiche fun-
zionali alle rispettive pretese ideali. Il dibattito ben presto travalicò i li-
miti della questione discussa, divenendo una competizione tra ortodossie
che non ammetteva alternative: la fazione vincente era l’unica abilitata
all’esistenza, l’unica che – come ricorda David M. Gwynn – poteva ri-
vendicare di esprimere l’autentica tradizione della Chiesa:
Gli iconofili e gli iconoclasti erano impegnati in una lotta per l’interpreta-
zione della tradizione cristiana, una lotta che alla fine gli iconofili vinsero. L’in-
sistenza iconofila sul fatto che i loro oppositori fossero in un certo senso ariani
fu un’arma importante per assicurare quella vittoria, poiché tale accusa servì non
solo a condannare gli iconoclasti, ma rafforzò anche la pretesa degli stessi ico-
nofili di essere i veri eredi della “grande Chiesa” di Atanasio e dei Cappadoci 4.

3 P.C. Finney, The Invisible God. The Earliest Christians on Art, Oxford University Press,

Oxford - New York (NY) 1994, 15. Tutte le traduzioni presenti nel testo sono a cura dell’autore.
4 D.M. Gwynn, From Iconoclasm to Arianism: The Construction of Christian Tradition in

the Iconoclast Controversy, in Greek, Roman, and Byzantine Studies 47 (2007) 225-251, qui 250.

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Alle origini di un equivoco 19

È necessario, però, guardarsi da un rischio, spesso ingenuamente tra-


scurato: benché la controversia iconoclasta abbia animato un dibattito
serrato – fu cioè il dipanarsi di un’autentica “storia di idee” –, essa fu in-
nanzi tutto un riflesso dell’abbagliante prisma della storia bizantina. Du-
rante gli anni di quella disputa, tre dinastie imperiali sorsero e si esauri-
rono tra figlicidi, torture oscene e tradimenti; colpi di stato, ribellioni e
congiure si provarono e, talora, ebbero successo; guerre atroci insangui-
narono ogni confine presidiato dal sacro impero; carestie e crisi finanzia-
rie si alternarono a inattese, “miracolose” fortune: il dibattito sulle icone
fu, insomma, un tratto tutto intrinseco a quella storia, insieme sontuosa
e perversa, che solo Bisanzio seppe provocare.
Per capire, quindi, come l’ideale dell’icona si definì – e quali siano le
categorie estranee all’immagine cristiana precedente a questo dibattito –,
sarà necessario osservarne la discussione dentro gli accadimenti di quei qua-
si due “secoli iconoclasti” (691-843), che si snodarono in cinque fasi:
1. 691-726: il periodo della preparazione;
2. 726-787: il “primo iconoclasmo”;
3. 787-813: la “prima restaurazione”;
4. 813-843: il “secondo iconoclasmo”;
5. 843 in avanti: la “seconda restaurazione” e la vittoria dell’“ortodossia”.
Vale la pena di ripercorrere questa storia, cercando di capire come
l’immagine sia divenuta un tema teologico e come questa intricata vicen-
da abbia segnato la successiva coscienza critica con cui si riguarda all’og-
getto visuale, all’immagine e all’“arte” delle più antiche Chiese.
Presupposto critico di questa ricerca è infatti che la controversia ico-
noclasta non sia stata solo una fase, pur traumatica, della riflessione cri-
stiana sull’immagine, ma che in essa si forgiarono ideali teologici e cate-
gorie che ancora condizionano la ricerca sulla prima visualità cristiana.

Il nesso tra primitivo iconoclasmo e l’accusa di aderire a tradizioni ariane era già stato sonda-
to da C. Murray, Le problème de l’ iconophobie et les premiers siècles chrétiens, in F. Boespflug
- N. Lossky (éds.), Nicée II, 787-1987. Douze siècles d’ images religieuses. Actes du Colloque in-
ternational Nicée II, tenu au Collège de France, Paris, les 2, 3, 4 octobre 1986, Cerf, Paris 1987
(Histoire), 39-50.

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20 Le matrici di una critica

2. IL PERIODO DELLA PREPARAZIONE (691-726):


IL RIFIUTO DI UN VALORE SIMBOLICO,
IL COSTO E IL POTERE DELL’IMMAGINE

Dovendo stabilire un momento al quale far idealmente risalire l’avvio


della questione iconoclasta, è forse opportuno richiamare il controverso
concilio Quin(i)sesto (692)5 convocato dall’imperatore Giustiniano II
durante il suo primo regno (685-695) 6. Si tratta di un concilio “transito-
rio”, per così dire, che non ebbe la pretesa di decidere nulla di nuovo, ma
solamente di disciplinare l’esistente. Esso fu buona testimonianza della
pretesa dell’imperatore di farsi carico della pietas popolare, ancora con-
notata da pratiche di chiara ascendenza profana – l’imperatore si fece
definire «servo di Cristo» sulla sua monetazione –, ed è in questo oriz-
zonte che deve essere intesa tutta l’imponente mole di decisioni che i Ca-
noni del Concilio stabilirono7.

5 Il Concilio fu così chiamato perché indetto per elaborare e definire in decreti le deci-

sioni dei Concili ecumenici quinto e sesto (rispettivamente il secondo concilio di Costan-
tinopoli del 553 e il terzo concilio di Costantinopoli del 680: cfr. C. Head, Justinian II of
Byzantium, The University of Wisconsin Press, Madison [WI] 1972, 65-71); la denomina-
zione latina ricalca quella greca di “Pentècto” (dal greco pente: “quinto”, ed ektos: “sesto”;
propriamente, perciò: “quinto-sesto”). È noto anche come Concilio “in Trullo” (dal greco
troullos: “cupola”, il nome del salone del “sacro palazzo” imperiale di Costantinopoli, sovra-
stato da una grande volta, dove si celebravano le più rilevanti riunioni della corte). Su que-
sta assise è fondamentale lo studio di E. Brunet, La ricezione del Concilio Quinisesto (691-
692) nelle fonti occidentali (VII-IX sec.). Diritto - Arte - Teologia, De Boccard, Paris 2011
(Autour de Byzance 2). Cfr. anche M.T.G. Humphreys, Law, Power, and Imperial Ideology
in the Iconoclast Era c. 680-850, Oxford University Press, Oxford 2015 (Oxford Studies in
Byzantium), 37-80.
6 Su questo imperatore – e sui suoi rapporti con Roma –, cfr. ancora F. Görres, Justi-

nian II und das römische Papsttum, in Byzantinische Zeitschrift 17 (1908) 432-454. Così at-
testa esplicitamente il Logos prophonetikos, una sorta di saluto collettivo dei padri concilia-
ri all’imperatore, nel quale esplicitamente si dichiara che la convocazione dell’assise
avvenne per iniziativa di quest’ultimo: cfr. H. Ohme, Sources of the Greek Canon Law to the
Quinisext Council (691/2): Councils and Church Fathers, in W. Hartmann - K. Pennington
(eds.), The History of Byzantine and Eastern Canon Law to 1500, Catholic University of Ame-
rica Press, Washington D.C. 2012 (History of Medieval Canon Law) 24-114, qui 78.
7 All’assise parteciparono duecentoventisei (duecentoventisette) vescovi (probabilmen-

te nessun latino): Basilio di Gortyna (Creta), la cui diocesi dipendeva da Roma, firmò i Ca-
noni conclusivi: ne nacque la pretesa, da parte della tradizione ortodossa (a partire dal ca-
nonista Teodoro Balsamone, † 1199), di una sottoscrizione in rappresentanza del vescovo

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Alle origini di un equivoco 21

Gli Atti forniscono la prima legislazione canonica bizantina sulle immagini


religiose e tre Canoni […] erano dedicati alla produzione artigianale, in quello
che sembra essere stato un tentativo di regolare e controllare i nuovi poteri del-
le immagini sacre (the new powers of sacred images). Il Canone 73 vietava di de-
corare il pavimento con le effigi della croce; il Canone 82 imponeva che il Cri-
sto fosse rappresentato esclusivamente in forma umana piuttosto che
simbolicamente come un agnello; e il Canone 100 insisteva sulla distinzione tra
immagini buone e cattive, definendo queste ultime come immagini che evoca-
vano «le fiamme di vergognosi piaceri» 8.

Questi tre Canoni (73, 82 e 100) del concilio Quin(i)sesto sono di


particolare rilievo per tre motivi:
1. per un verso (Canone 73), qui per la prima volta l’immagine è resa
un argomento di disciplina ecclesiastica universale (sino ad allora,
le poche disposizioni che erano state erogate – come quelle attri-
buite ai Canoni del sinodo di Elvira del 306 [34-36]9 – avevano
portata solo locale);
2. per altro verso, i Canoni stabiliscono che le immagini non debbano
più assumere un “valore simbolico”, ma solo illustrativo (Canone 82);
3. infine, riconoscono nella figura un potenziale vettore non di signi-
ficato ma di moralità (Canone 100), trasferendo la riflessione cri-

di Roma, ma si tratta probabilmente di una forzatura. Basilio non aveva infatti ricevuto al-
cun mandato in tal senso (non era apocrisario) né il papa ratificò poi il Concilio che ormai
denunciava «lo sviluppo divergente delle due metropoli ‹Costantinopoli e Roma›» (G. Ostro-
gorsky, Storia dell’ impero bizantino, Einaudi, Torino 19932 [Biblioteca di cultura storica 97],
119). Proprio per richiamare il carattere costitutivamente “bizantino” del Concilio, Hum-
phreys, Law, Power and Imperial Ideology, 45, parla esplicitamente di un «ruolo del Conci-
lio come veicolo dell’ideologia imperiale e nell’articolazione dell’identità ‹bizantina›».
8 L. Brubaker, Inventing Byzantine Iconoclasm, Bristol Classic, London 2012 (Studies in

Early Medieval History), 17.


9 Su questo sinodo, largamente citato negli studi, cfr. oggi J. Vilella Masana, The Pseudo-

Iliberritan Canon Texts, in Zeitschrift für Antikes Christentum 18 (2014) 210-259; Id., Placuit
picturas in ecclesia esse non debere: la prohibición del c. 36 pseudoiliberritano, in Veleia 34 (2017)
147-162; Id., Colecciones falsamente atribuidas a un concilio, in Cristianesimo nella Storia 39 (2018)
137-175, dove efficacemente si ipotizza che la c.d. “trilogia martiriale” del sinodo di Elvira (Ca-
noni 34-36) debba essere considerata un’interpolazione di materiali più tardi, riconducibili a una
cronologia tra fine del IV secolo e inizi del V. Uno status quaestionis sul sinodo di Elvira era sta-
to tracciato di recente da M. Sotomayor - J. Fernández Ubiña (edd.), El concilio de Elvira y su
tiempo, Editorial Universidad de Granada, Granada 2005 (Biblioteca de Humanidades. Chro-
nica Nova de Estudios Históricos 89).

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22 Le matrici di una critica

stiana sull’immagine da un piano strumentale (usare le figure è


utile?) a un piano etico (usare le figure è giusto?).
È nel contesto di queste decisioni – e, forse, in ossequio ad esse – che
Giustiniano II promosse una riforma del conio bizantino che, nel 691,
introdusse sulla monetazione imperiale il ritratto di Cristo. Tale riforma
dei nomismata (solidi) imperiali innescò forse la scintilla da cui deflagrò
per l’impero la perdita della provincia d’Armenia. L’imperatore, infatti,
pretese che anche gli Arabi, suoi tributari, versassero l’imposizione bat-
tendo monete bizantine – e quindi, dal 691, solidi con il volto di Cristo.
Gli Arabi, mussulmani, si rifiutarono di raffigurare il Cristo, offrendosi
però di pagare l’equivalente tributo in monete di altro conio; Giustiniano
II rifiutò l’offerta, rompendo la pace. Nel 692 formò un esercito che si
scontrò con le schiere arabe a Sebastopoli, subendo una sconfitta rovino-
sa che costò a Costantinopoli l’intera Armenia10.
La necessaria prudenza con cui si deve recepire questa ricostruzione
non ne pregiudica l’efficacia documentaria rispetto alla vicenda di cui ci
stiamo interessando: il mito della centralità identitaria del nesso tra po-
tere e immagine nella cultura di Costantinopoli.
Per comprendere la portata di questo legame, può essere utile rievo-
care un episodio legato proprio alla biografia di Giustiniano II. Questi,
infatti, ottenne l’appellativo di “Rinotmeto (‘il senza naso’)” in circostan-
ze eloquenti: a seguito di una grave insurrezione, motivata dal crescente

Così A. Grabar, L’ iconoclasme byzantin, dossier archéologique, Collège de France, Paris


10

1957, 77-84. Hanno ragione J.D. Breckenridge, The Numismatic Iconography of Justinian II
(685-695, 705-711 A.D.), The American Numismatic Society, New York (NY) 1959 (Numis-
matic Notes and Monographs), 69-77, e M. Humphreys, The ‘War of Images’ Revisited. Jus-
tinian II’s Coinage Reform and the Caliphate, in The Numismatic Chronicle 173 (2013) 229-244,
a invitare a non sopravvalutare l’importanza di questo casus belli che, però, permette di coglie-
re il rilievo che la definizione di una cultura visuale ebbe nella genesi delle identità nazionali
antiche. Per altro, non si deve neppure dimenticare che la prossimità geografica delle regioni
orientali dell’impero con il Califfato e con i principali insediamenti ebraici favorì in quei qua-
dranti una maggiore diffusione di idee iconoclaste anche presso i cristiani. Il dato è impor-
tante perché, come si vedrà, la storia dell’iconoclasmo bizantino è profondamente correlata
alla vicenda del confine arabo-bizantino. Sulla monetazione araba durante questa fase di scon-
tri con Bisanzio – e sulla sua struttura religiosa –, cfr. J.L. Bacharach, Signs of Sovereignty: The
Shahāda, Qur’anic Verses, and the Coinage of Abd al-Malik, in Muqarnas 27 (2010) 1-30.

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Alle origini di un equivoco 23

malcontento verso l’imperatore, Giustiniano II venne deposto, condotto


all’ippodromo di Costantinopoli, umiliato dinanzi alla popolazione e
sfigurato tramite la mutilazione del naso11. Non si trattò semplicemente
di una sevizia: sin dai tempi di Eusebio di Cesarea, infatti, nella teologia
politica di Costantinopoli l’imperatore era considerato terzo in un rap-
porto di immagine e somiglianza con Dio Padre e con il Logos12. Con
rigore sillogistico, se ne derivava che una persona sfigurata non potesse
stare nella carica che doveva raffigurare la perfezione della Deità.
L’esempio giova a capire come, nella cultura bizantina ancora prece-
dente alla disputa iconoclasta vera e propria, l’“immagine visuale”, inte-
sa come figura “vista” – esito dell’azione fisiologica dell’occhio –, e l’“im-
magine logica”, intesa come prodotto razionale – esito del pensare e del
comprendere –, potessero coincidere.
Durante il breve regno del successore di Giustiniano II, Filippico Bar-
desane (711-713), le prime tendenze iconoclaste vere e proprie iniziarono
a palesarsi: l’imperatore, monotelita, dopo aver convocato nel 711 un si-
nodo per annullare le decisioni del sesto concilio ecumenico (il Costan-
tinopolitano terzo del 680)13, diede infatti ordine di distruggere un di-
pinto, presente nel “sacro palazzo”, che raffigurava quell’assise, celebrata
proprio in quell’edificio – il Costantinopolitano terzo era inviso all’im-
peratore perché in esso era stata condannata la teologia monotelita che
egli professava 14. Ricevuta la notizia, papa Costantino (664-715) decise
di disporre in San Pietro immagini che rappresentassero tutti i sei conci-

11 Cfr. Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6187 (369). Le menomazio-

ni di naso (rinokopia) e lingua (glossotomia) erano, infatti, disciplinate da legge: cfr. R.S. Lo-
pez, Byzantine Law in the Seventh Century and Its Reception by the Germans and the Arabs,
in Byzantion 16 (1942-1943) 445-461, in part. 454-456. Sull’episodio, cfr. anche Head, Jus-
tinian II, 95-98.
12 Cfr. R. Cacitti, «L’ immagine del Regno di Cristo». La forgiatura dei materiali escatolo-

gici nell’officina della teologia politica di Eusebio di Cesarea, in R. Macchioro (cur.), Costan-
tino a Milano. L’Editto e la sua storia (313-2013), Bulzoni, Milano 2017 (Biblioteca Ambro-
siana. Fonti e Studi 28), 165-203.
13 Cfr. Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6203 (381).
14 Cfr. J. Elsner, Iconoclasm as Discourse: From Antiquity to Byzantium, in The Art Bul-

letin 94 (2012) 368-394, qui 370-371.

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24 Le matrici di una critica

li (quello oggetto della rimozione, il sesto ecumenico, Costantinopolita-


no terzo, era viceversa particolarmente caro a Roma, perché in esso l’im-
peratore, Costantino IV, aveva ribadito il principio del primato petrino).
Quello che alla mentalità contemporanea potrà forse sembrare non
più di una scaramuccia di poco conto non dev’essere sottovalutato: erano
anni durante i quali Bisanzio stava perdendo il controllo politico – e re-
ligioso – su Roma, sempre più interna all’orbita d’influenza longobarda
e franca; in questo convulso quadro geopolitico, le immagini divennero,
per la prima volta, le “armi” con cui veniva combattuto uno scontro di
natura ecclesiologica e imperiale15.

3. IL “PRIMO ICONOCLASMO” (726-787):


IMMAGINE SACRA, POTERE IMPERIALE,
« SOSTANZA E IPOSTASI » DEL LOGOS
Dilagava, nel frattempo, l’uso devozionale delle immagini “sacre”.
L’immaginario cristiano assorbiva ogni giorno un ulteriore quadrante del
quotidiano e, in questo modo, ampliava la sua influenza sul reale:
In età tardoantica e altomedioevale si moltiplicano le immagini religiose
portatili: piccole icone, croci-reliquiario e ornamenti personali a soggetto cri-
stiano, ricordi di pellegrinaggio […]. I simboli cristiani invadono a poco a poco
gli oggetti della vita quotidiana – oggetti da tavolo, lampade, gioielli, abiti –
mentre svaniscono i motivi classici, sovente mitologici. L’arte cristiana tende a
privilegiare il ritratto, l’icona, un’immagine frontale che appare già molto sti-
lizzata, poiché la sua funzione è quella di rivelare le qualità spirituali del santo.
I cristiani preferiscono indirizzare le loro preghiere a un santo tramite il suo
ritratto, stabilendo così un rapporto personale con lui, e questo probabilmente
spiega il successo delle icone […]. ‹Nello stesso periodo› È possibile rilevare la

15 A tal punto era chiaro il valore potenzialmente deflagrante di questa decisione che Fi-

lippico sostituì la raffigurazione del Costantinopolitano III nel vestibolo del “sacro palaz-
zo” con i ritratti del patriarca Sergio I di Costantinopoli (patriarca dal 610 al 638) e di pa-
pa Onorio I (pontefice dal 625 al 638; il “papa eretico” che rappresenterà uno dei massimi
problemi in vista della definizione del dogma dell’infallibilità pontificia: cfr. G. Kreuzer,
Die Honoriusfrage im Mittelalter und in der Neuzeit, Ph.D. Diss., Tübingen - Stuttgart a.a.
1975-1976) che erano stati condannati dal sesto Concilio ecumenico per il loro appoggio
al monotelismo.

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Alle origini di un equivoco 25

volontà di appropriarsi dell’immagine per controllare il potere che in essa risie-


de […]. Poco per volta, l’icona viene permeata dalla presenza del santo, e funge
allora da elemento mediatore tra il santo e il fedele. Mentre prima risiedeva
stabilmente nel suo santuario ed era legato alle sue reliquie, il santo può adesso
essere invocato dovunque si trovi una sua immagine […]. Questa trasformazio-
ne dell’icona da elemento esornativo a oggetto di culto manifesta una perdita
di neutralità dell’immagine religiosa, ormai investita dalla potenza del sovran-
naturale16.

È entro questo controverso quadro – nel quale l’immagine, da figura,


è ormai divenuta “oggetto potente” – che si possono leggere, già negli an-
ni ’20 dell’VIII secolo, tre Lettere del patriarca Germano di Costantino-
poli17, da molti storici considerati il primo dossier documentario relativo
all’affiorare di tendenze iconoclaste. Si tratta di tre missive relative alla
condotta di due vescovi, Costantino di Nicoleia e Tommaso di Claudio-
poli, i quali, in vario modo, avevano contestato il valore delle immagini
sacre (o meglio: avevano disincentivato la prassi cultuale che le riguardava):
L’ultima delle tre Lettere, a Tommaso di Claudiopoli (sede sotto la giurisdi-
zione di Costantinopoli), ha un tono diverso. Tommaso aveva trascorso del
tempo con Germano e quest’ultimo ricorda ‹nella Lettera› le loro conversazioni,
nessuna delle quali gli aveva lasciato presagire che, al suo ritorno a Claudiopo-
li, Tommaso avrebbe rimosso le icone dalla sua Chiesa, come se questa fosse
una pratica accettabile. Germano si precipitò a condannare questa novità, che

16 B. Caseau - M.-H. Congourdeau, La vita religiosa, in J.-C. Cheynet (cur.), Il mondo

bizantino, 2: L’ impero bizantino (641-1204), Einaudi, Torino 2008, 329-362, qui 350-351.
Sul rapporto tra reliquie e immagine nella tradizione bizantina, cfr. anche L. James, Dry
Bones and Painted Pictures: Relics and Icons in Byzantium, in A. Lidov (ed.), Eastern Chris-
tian Relics, Progress-Tradicija, Moscow 2003, 45-55.
17 Le Lettere (PG 98, 155-194) sono considerate per lo meno tra «i più importanti docu-

menti della controversia iconoclasta »: così L. Brubaker - J. Haldon, Byzantium in the Icono-
clast Era (ca 680-850): The Sources. An Annotated Survey, Ashgate, Aldershot et alibi (Bir-
mingham Byzantine and Ottoman monographs 7), 246-247; cfr. anche Iid., Byzantium in
the Iconoclast Era C. 680-850: A History, Cambridge University Press, Cambridge 2011, 94-
105. Su queste fondamentali Lettere cfr. anche V. Fazzo, Agli inizi dell’ iconoclasmo. Argomen-
tazione scritturistica e difesa delle icone presso il patriarca Germano di Costantinopoli, in C.
Marcheselli Casale (cur.), Parola e spirito. Studi in onore di Settimio Cipriani, Paideia, Bre-
scia 1982, 1, 809-832. Sulla figura di Germano, cfr. D. Stein, Germanos I. (11. August 715 -
17. Januar 730), in R.-J. Lilie (hrsg.), Die Patriarchen der ikonoklastischen Zeit: Germanos I.
- Methodios I. (715-847), Peter Lang, New York (NY) 1999 (Berliner Byzantinistische Stu-
dien 5), 5-21.

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26 Le matrici di una critica

aveva dato a ebrei e mussulmani l’opportunità di calunniare la Chiesa. Si di-


lunga ‹inoltre› sul perché le azioni di Tommaso siano sbagliate, citando la tra-
dizione, le Scritture e l’efficacia delle immagini nell’indurre a emulare i santi,
un argomento familiare ‹quest’ultimo› sin dal teologo del IV secolo, Basilio di
Cesarea 18.

La minaccia che il patriarca Germano paventa – l’irrisione della Chie-


sa da parte di ebrei e mussulmani –, chiaramente antistorica, poteva però
evocare alcuni elementi concreti: tra questi va senz’altro ricordato che,
nel 721 (o nel 722 o nel 723), il Califfo Yazīd II emanò un decreto ico-
noclasta, l’“Editto di Yazīd”19, che ingiungeva in tutto il Califfato la di-
struzione di tutte le rappresentazioni umane e animali, croci cristiane e
immagini varie.
Più ancora che per questa efficacia comparativa, però, le Lettere di
Germano paiono interessanti perché dimostrano che la discussione sulla
liceità delle immagini stava iniziando ad assumere la fisionomia teoretica
che, come si vedrà, ne connoterà il prosieguo:
1. era una discussione sulla cultualità cristiana; l’immagine di cui si
discuteva era, in altri termini, già pienamente “sacra”;
2. denotava evidenti correlati identitari (il dibattito sull’immagine
voleva stabilire l’identità religiosa cristiana rispetto a ebrei e mus-
sulmani) e dunque si proiettava sin da subito sul piano apologetico
– e polemico (verrà impiegata ben presto la categoria di eresia) –;
3. era una discussione teologica, che dunque poteva procedere solo sod-
disfacendo alcuni parametri (essere secundum Scripturas; preservare
la tradizione della Chiesa; implicare la teologia dei “santi padri”);

18
L. Brubaker, Icons and Iconomachy, in L. James (ed.), A Companion to Byzantium,
Blackwell, Malden (MA) 2010 (Blackwell Companions to the Ancient World) 323-337, qui 324.
19 Si tratta di un provvedimento che verrà goffamente irriso dal presbitero Giovanni, du-

rante il secondo concilio di Nicea, e richiamato anche dal vescovo di Messana durante lo
stesso Concilio: tutte le fonti che attestano questo editto sono raccolte da A.A. Vasiliev, The
Iconoclastic Edict of the Caliph Yazid II, A.D. 721, in Dumbarton Oaks Papers 9/10 (1956) 23-
47. Cfr. anche L.W. Barnard, The Sources of the Byzantine Iconoclastic Controversy. Leo III and
Yazid II, a Reconsideration, in F. Paschke (hrsg.), Überlieferungsgeschichtliche Untersuchungen,
Akademie, Berlin 1981 (Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Lite-
ratur 125), 29-37.

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Alle origini di un equivoco 27

4. determinò la nascita culturale dell’immagine, dal momento che


questo dibattito distinse costitutivamente tra “immagine” e “figu-
re”. Si discusse, cioè, solo quella forma che rivendicasse qualche
rapporto con il suo prototipo; l’“arte”, intesa come “svago della
vista” o come prodotto creativo di valore ideale, non fu in altri ter-
mini oggetto del dibattimento20.
Di qui a poco questo dibattito prenderà il largo, sospinto dal suo de-
cisivo propellente: l’interessamento imperiale.

3.1. Leone III (717-741): la misura programmatica


di un iconoclasmo politico
La tendenza alla rimozione delle immagini sacre ricevette il primo
impulso politico durante il regno di Leone III “Isaurico” (717-741). Ba-
sandosi sull’anonima Orazione contro gli iconoclasti, datata attorno al 770,
che situa 45 anni prima della sua redazione l’inizio della controversia, si
è soliti far risalire il primo atto della vicenda iconoclasta vera e propria al
725-726 21, quando Leone III avrebbe tentato di rimuovere l’immagine
di Cristo dalla porta Chalke (la monumentale porta bronzea che segna-
lava l’ingresso al “sacro palazzo” imperiale di Costantinopoli)22.

20 Cfr. D.J. Sahas, Icons and Logos. Sources in Eighth-Century Iconoclasm, University of

Toronto Press, Toronto - Buffalo (TX) - London 1986 (Toronto Medieval Texts and Trans-
lations 4), 5-16; A. Besançon, L’ image interdite. Une histoire intellectuelle de l’ iconoclasme,
Fayard, Paris 1994 (L’esprit de la cité), 170-173.
21 Cfr. PG 96, 1347-1362. Su questa datazione converge anche la tardiva orazione (del

IX secolo) Contro il Caballino, scritta contro l’imperatore Costantino V, detto appunto an-
che “Caballino” (PG 95, 309-344; cfr. anche M.-F. Auzépy, L’Hagiographie et l’ iconoclasme
byzantin: le cas de la Vie d’Étienne le Jeune, Routledge, Oxford - New York [NY] 2016 [Bir-
mingham Byzantine and Ottoman Monographs 5], 121-130).
22 Si tratta di un episodio tanto menzionato quanto discusso, probabilmente addirittu-

ra solo leggendario; un bilancio critico delle fonti disponibili è stato efficacemente condot-
to da M.-F. Auzépy, La destruction de l’ icône du Christ de la Chalcé par Léon III: propagande
ou réalité?, in Ead., L’ histoire des iconoclastes, ACHCByz, Paris 2007 [Bilans de recherche 2],
145-178. Sulla base di questo lavoro, la studiosa afferma la non storicità dell’episodio: «Non
ha mai avuto luogo» (ivi, 177). Resta in ogni caso fondamentale menzionare questa “leggen-
da” perché ad essa venne dato il compito di “raffigurare” l’atto primigenio di questa intera
vicenda: l’estirpazione del signum Christi dal luogo in cui risiedeva la maiestas imperii.

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28 Le matrici di una critica

Figura 1: Teodosio II, Passarione e Attico portano trionfalmente un reliquario


nella chiesa di Santo Stefano in Costantinopoli. Placca del c.d. “avorio dell’Ad-
ventus”. Trierer Domschatzkammer, Treviri. VIII secolo (?). L’immagine è trat-
ta da H. Leclercq, s.v. «Byzance », DACL 2,1, 1363-1454, qui 1413-1414, figura
1762. Non si sa molto del “Cristo della Chalke”, se non che esso era particolar-
mente venerato dalla popolazione di Costantinopoli, la quale, difatti, pare es-
sersi ribellata all’iniziativa imperiale, impedendola. L’“Avorio dell’Adventus”,
non di rado impiegato per ricostruire le sembianze della porta d’accesso al “sa-
cro palazzo”, è perciò un documento di grande interesse. Si tratta di un avorio,
datato tra VI e VIII secolo, attualmente conservato nel Trierer Domschatz.
Benché il dibattito tra gli iconografi sia ancora vivace, in esso si può osservare
un imperatore – verosimilmente Teodosio II (408-450) – che processionalmen-
te guida in Costantinopoli un corteo nel quale due vescovi – probabilmente
Passarione e Attico, patriarca di Costantinopoli dal 406 al 425 – su un carro
trionfale recano un reliquiario. L’itinerario conduce verso una basilica ancora
in costruzione – forse Santo Stefano in Dafne –, sulla cui soglia una figura
femminile – plausibilmente l’augusta Pulcheria (414-453) – accoglie la sfilata
dei dignitari (così secondo l’ipotesi di K.G. Holum - G. Vikan, The Trier Ivory,
“Adventus” Ceremonial, and the Relics of St. Stephen, in Dumbarton Oaks Papers
33 [1979] 115-133). Tutt’attorno la cittadinanza, festante, accompagna la pro-
cessione: innumerevoli persone si sono riversate sulle strade o si affacciano dal-
le finestre di un imponente palazzo nel quale, ad avviso di molti, deve essere
riconosciuto proprio il “sacro palazzo” della corte imperiale (a confermarlo vi
sarebbe il secondo ordine di finestre, dal quale si affacciano personaggi che so-
stengono ciascuno un turibolo, verosimilmente a rappresentare la nutrita com-
ponente clericale della corte). Come visto, il corteo sta uscendo da una porta

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Alle origini di un equivoco 29

monumentale: è stato fatto osservare che quest’ultima, sormontata da una raf-


figurazione di Cristo, è del tutto compatibile con quanto sappiamo della porta
Chalke del “sacro palazzo”.

Figura 2: La porta Chalke e l’immagine del Cristo. Particolare del c.d. “avo-
rio dell’Adventus”. Trierer Domschatzkammer, Treviri. VIII secolo (?). Il det-
taglio a china è preso dall’immagine apparsa sul Magasin Pittoresque 48 (1880)
312; il dettaglio della foto è preso da A. Di Muro, Uso politico delle reliquie e
modelli di regalità longobarda da Liutprando a Sicone di Benevento, in Mélanges
de l’École française de Rome - Moyen Âge, 132 (2020), figura 1: URL: http://
journals.openedition.org/mefrm/8193 (consultato l’11 gennaio 2022), figura
1. In altri termini, se si accetta una datazione tardiva di questo avorio (la
Chalke fu ultimata sotto Anastasio I [491-518] e restaurata sotto Giustiniano
I [527-565], ma il busto del Cristo potrebbe essere stato collocato nella lunet-
ta solo da Giustiniano II [685-695 e 705-711], secondo P. Speck, Ikonoklasmus
und die Anfänge der makedonischen Renaissance, in Id., Varia, 1, Rudolf Habelt
GMBH, Bonn 1984, 175-210, in part. 179) e la conseguente interferenza tra
la commemorazione di un evento del V secolo – la traslazione delle reliquie
di Stefano – e l’assetto monumentale del “sacro palazzo” dell’VIII secolo,
quando fu scolpito l’avorio – con una riproduzione dell’allestimento della
Chalke dopo Giustiniano II (cfr. comunque L. Brubaker, The Chalke Gate,
the Construction of the Past, and the Trier Ivory, in Byzantine and Modern Greek
Studies 23 [1999] 258-285, in part. 270-277) –, esso potrebbe costituire una
sorta di documentazione in “presa diretta” dell’immagine da cui prese avvio
l’intera vicenda iconoclasta.

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30 Le matrici di una critica

Rispetto all’indirizzo iconoclasta di Leone III, le fonti tendono a


ricondurre la scelta dell’imperatore alle più disparate ragioni 23: alcune
affermano che egli abbia abbracciato tale condotta per favorire la con-
versione di ebrei (che aveva forzatamente obbligato a ricevere il bat-
tesimo nel 722) e mussulmani – questi ultimi fortemente avversi alla
raffigurazione delle realtà celesti e ancor più fermamente contrari alla
venerazione delle immagini –, così da ricompattare il lacerato tessuto
sociale dell’impero; altre (così, per esempio la Storia breve di Niceforo)
riconducono la decisione imperiale alla forte impressione che l’eruzione
vulcanica nell’Egeo, al largo di Tera, nel 725, esercitò sull’imperatore,
spingendolo ad assumere un atteggiamento religiosamente radicale e
dunque intransigente verso le immagini, la cui venerazione egli riteneva
avesse attirato sull’impero l’ira di Dio, offeso da questa prassi idolatri-
ca; altre ancora tendono a considerare questo atteggiamento come un
tentativo di ridimensionare l’influenza e il potere del ceto monastico,
spesso presente nei santuari, dove venivano conservate reliquie e imma-
gini venerate dalla popolazione 24.

23 Per una rassegna, cfr. J. Atkinson, Leo III and Iconoclasm, in Theoria 41 (1973) 51-

62. Sulla documentazione circa la disputa iconoclasta nella prima età isaurica, cfr. l’intro-
duzione di S. Gero, Byzantine Iconoclasm during the Reign of Leo III. With Particular Atten-
tion to the Oriental Sources, Secrétariat du Corpus SCO, Louvain 1973 (Corpus Scriptorum
Christianorum Orientalium 346 - Subsidia 41).
24 S. Gero, Notes on Byzantine Iconoclasm in the Eighth Century, in Byzantion 44 (1974)

23-42, qui 32-42, passa in rassegna – e contesta – tutte le ipotesi di eventuali «spinte ester-
ne» (ricavabili dalle fonti) alla scelta iconoclasta di Leone III: 1. l’origine siriaca di Leone
III (e dunque la possibilità di un più o meno latente indirizzo monofisita del primo Isauri-
co); 2. la presenza di armeni nel suo seguito con il rischio di influenze pauliciane (i pauli-
ciani si distinsero per un iconoclasmo di marca docetica: l’incarnazione fu solo apparente,
dunque il ritratto di un’apparenza non può che condurre all’idolatria); 3. l’influsso del ri-
gorismo islamico (Leone visse infatti alcuni anni a Mar‘aš quand’era retta da mussulmani);
4. La possibile influenza ebraica sul’imperatore; 5. la volontà di disinnescare quel partico-
larismo politico che anche le icone, per via della loro associazione a singoli santuari e a sin-
gole città, concorrevano ad alimentare (così P. Brown, A Dark-Age Crisis: Aspects of the Ico-
noclastic Controversy, in The English Historical Review 346 [1973] 1-34). Rispetto a
quest’ultima ipotesi, in specie per la natura monastica di queste tendenze centrifughe che
le icone avrebbero favorito, sono molto interessanti le osservazioni sviluppate da G.L. Hux-
ley, Hagiography and the First Byzantine Iconoclasm, in Proceedings of the Royal Irish Academy
80C (1980) 187-196, a proposito dell’uso dell’agiografia nella prima polemica tra iconocla-

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Alle origini di un equivoco 31

Se dal punto di vista “ideale” non è semplice definire le ragioni che


spinsero alla prima censura delle immagini “sacre”, anche dal punto di
vista formale non è chiara la natura giuridica di questa prima iniziativa
repressiva:
Gli inizi dell’iconoclasmo sono solitamente associati all’emanazione di un
editto di Leone III, che ordinava la rimozione delle icone in tutto l’impero. Ma
non ci sono prove che un tale editto generale sia mai stato effettivamente ero-
gato. Solo nel Liber Pontifıcalis, nella sezione dedicata alla vita di Gregorio II,
si fa riferimento all’invio, da parte di Leone III, di ingiunzioni imperiali (ius-
siones - prostagmata) in materia di icone […]. Tuttavia, non c’è motivo di pre-
sumere che si trattasse di qualcosa di diverso da comunicazioni specificamente
indirizzate al Papa, e non ‹indicazioni› a livello di impero 25.

Al di là dell’eventualità di un editto formale vero e proprio, è signifi-


cativo che Gregorio III, vescovo di Roma, abbia convocato nel 731 un
sinodo per stabilire formalmente la liceità delle immagini sacre, plausi-
bilmente in risposta, per lo meno, a un “clima iconoclasta”. Va in ogni
caso tenuto presente che, in sede storiografica, anche tenendo conto di
questa iniziativa pontificia, la correlazione pressoché automatica tra Leo-
ne III e l’avvio della repressione iconoclasta poggia su basi fragili, come
ha giustamente sottolineato Leslie Brubaker:

sti e iconoduli. Questi ultimi, per lo più monaci, colsero l’opportunità di difendere e dif-
fondere le proprie convinzioni – soprattutto nelle aree rurali – attraverso un sapiente uso
delle vite dei santi, in una sorta di “staffetta ideale” tra l’icona e la biografia del santo (una
rassegna in A.-M. Talbot, Byzantine Defenders of Images, Dumbarton Oaks, Washington,
D.C. 1998 [Byzantine saints’ lives in translation 2]).
25 Brubaker - Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era: A History, 119. Cfr. anche M.V.

Anastos, Leo III’s Edict against the Images in the Year 726-727 and Italo-Byzantine Relations
between 726 and 730, in Byzantinische Forschungen 3 (1968) 5-41; Gero, Notes on Byzantine
Iconoclasm, 26-27. Globalmente si può pensare a un’iniziativa imperiale rivolta solo al Papa se
si tiene conto dei contrasti che sussistevano tra la “sede petrina” e il “sacro palazzo”: cfr. F. Ma-
razzi, Il conflitto fra Leone III Isaurico e il papato fra il 725 e il 733, e il “ definitivo” inizio del
medioevo a Roma: un’ipotesi in discussione, in Papers of the British School at Rome 59 (1991) 231-
257. Fu in ogni caso in risposta alla politica di Leone III che Giovanni Damasceno compose
i tre celebri Discorsi apologetici (Orazioni sulle immagini) in difesa delle immagini cristiane (di
recente, però, J.M. Pinazo Pinazo, Las Orationes pro sacris imaginibus de Juan Damasceno:
un nuevo enfoque cronológico desde la perspectiva teológica, in Estudios Bizantinos 4 [2016] 67-
93, ha proposto di datare le tre orazioni al regno di Costantino V).

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32 Le matrici di una critica

Rimaniamo […] senza una chiara percezione delle convinzioni di Leone III,
salvo osservare che, intorno al 730, Germano lo considerava “amico delle im-
magini” e che, all’inizio del IX secolo, era divenuto il cattivo di una leggenda
sull’inizio della lotta per l’immagine. Su questa base, ben difficilmente possia-
mo ricostruire i primi anni dell’iconomachia come movimento imperiale 26.

Forse un modo efficace per sottrarsi al dibattito circa il personale con-


vincimento religioso di Leone III è quello di rileggere le sue scelte da altra
prospettiva, in base al suo più ampio ideale politico. In piena continuità
con Costantino I, il Grande, colui che veniva riguardato insieme come
istitutore e prototipo dell’imperatore cristiano, Leone III reclamò per sé il
ruolo di guida e arbitro nella vita della Chiesa. In questo ideale quadran-
te del principato bizantino, poiché le immagini sacre occupavano un rile-
vante spazio nella pietas del popolo di Dio – che il principe reggeva eser-
citando un vicariato pienamente teologico –, la disciplina giuridica
dell’icona doveva ricadere entro l’attivo governo del “sacro palazzo” 27.
Come ha efficacemente posto in evidenza Judith Herrin, la prima ne-
cessità di Leone III – chiamato a scegliere se essere semplicemente un altro
imperatore estraneo alla discendenza eracliana, come gli effimeri esponen-
ti dell’“anarchia dei vent’anni” (695-717)28, o se essere capostipite di una
dinastia nuova – era quella di fondare, di rendere stabile un regno che la
storia a lui contemporanea avrebbe lasciato presagire del tutto precario.

26 Brubaker, Inventing, 29. Si tenga anche presente che l’atteggiamento di Leone III fu, di

fatto, del tutto perimetrato alle sole immagini venerate; lo prova il fatto che egli non sia mai inter-
venuto sui reliquiari – pure intensamente iconizzati – (cfr. J. Wortley, Iconoclasm and Leipsan-
oclasm; Leo III, Constantine V and the Relics, in Byzantinische Forschungen 8 [1982] 253-279); il punto
era la repressione del culto delle immagini, non delle immagini di per sé. Un tentativo di definizio-
ne delle “ragioni ideali” di Leone III è provato da Gero, Notes on Byzantine Iconoclasm, 27-32.
27 Tale necessità si motivava infatti sul piano ideale: non era l’urgenza di un motivo cir-

costanziato a determinare l’intervento imperiale; era innanzi tutto la pretesa di dimostrare


l’assoluta ampiezza della regalità del “basileus dei Romei”. In altri termini: varcata la soglia
del valore ideale del governo imperiale, non è più necessario interpretare l’atteggiamento di
Leone III sulle immagini quale risposta a crisi o quale presa di posizione personale rispetto
a “temi scottanti” dell’agenda teologica del suo tempo; si dovrà invece leggere questa presa
di posizione come la trionfale dimostrazione della sollecitudine imperiale e come l’autori-
taria manifestazione della potestas imperiale.
28 Cfr. R.J.H. Jenkins, Byzantium: The Imperial Centuries: AD 610-1071, Weidenfeld

and Nicolson, London 1966, 56.

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Alle origini di un equivoco 33

Figura 3: grafico della durata dei principati bizantini tra il 610 e il 775. L’im-
magine è tratta da J. Herrin, The Context of Iconoclast Reform, in A. Bryer -
J. Herrin (eds.), Iconoclasm. Papers Given at the Ninth Spring Symposium of By-
zantine Studies. University of Byrmingham, March 1975, CBS, Birmingham
1977, 1-6; 15-20, qui 15. Lo schema presenta eloquentemente il contesto stori-
co e politico nel quale si deve ambientare la prima deflagrazione della disputa
iconoclasta: la scelta di isolarne in sede storiografica il profilo teoretico – la sua
maggiore o minore risolutezza, la sua forza più o meno esclusiva, la sua mag-
giore o minore “capienza ideale” ecc. – dal suo Sitz im Leben storico espone, a
mio avviso, al rischio di un parziale fraintendimento.

Per capire cosa animò l’iniziativa degli Isaurici rispetto alla disciplina
delle icone è dunque necessario rivolgere l’attenzione ai presupposti idea-
li con cui fu redatto il documento più importante del principato di Leo-
ne III: l’Ecloga 29. Negli ultimi mesi di vita dell’imperatore venne infatti
promulgato uno strumento giuridicamente rivoluzionario, perfezionato
tra il 726 e il 74130, giustamente assunto dalla storiografia quale manife-
sto programmatico di quella dinastia isaurica che Leone III aveva inau-

29 Largamente dedicata al «primo codice legale cristiano» è la ricerca di Humphreys,

Law, Power, and Imperial Ideology, 81-232 (per la definizione, ivi, 128).
30 Seguo, per la datazione della promulgazione dell’Ecloga al 741, V. Grumel, La date de

la promulgation de l’Ecloge de Léon III, in Échos d’Orient s.n. (1935) 327-331.

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34 Le matrici di una critica

gurato nel 717 e che si protrarrà sino alla deposizione di Irene, nell’802.
L’Ecloga è un testo di natura giuridica, una sorta di “manuale operativo”
per giudici (simile alle attuali “procedure”, civile e penale) che, consape-
vole del parametro ormai stabilito dall’opera di Giustiniano I, il grande
sistematore del pensiero giuridico della romanità, fu organizzato assu-
mendo strutturalmente un modello legislativo alternativo: quello del Pri-
mo Testamento.
Eredi di Giustiniano – ma anche di Salomone –, interpreti fedeli dello
ius di Roma – ma anche esegeti ortodossi della Legge mosaica –, difensori
del mos maiorum – ma anche giudici della pietas del popolo di Dio –, i prin-
cipi isaurici potevano rivendicare per il proprio regno una funzione piena-
mente provvidenziale, come gli antichi principi di Roma – ma anche come
i re, Davide in testa a tutti, che YHWH aveva mandato al suo popolo31.
È dentro questo “progetto ideale di potere” che va collocato il dibat-
tito sulle immagini sacre e sulla prassi relativa al loro culto32.

3.2. Costantino V (741-775) e il concilio di Hieria:


l’ impossibilità di un’ immagine «consustanziale» al Logos
Ancor più esplicita sarà la politica religiosa del successore di Leone III
Isaurico, l’imperatore Costantino V (741-775). Fu quest’ultimo un fermo
iconoclasta la cui intransigente politica di rimozione e distruzione delle
immagini – talora condotta con aperta insolenza: rimosse dal Milion di

31 Come afferma Humphreys, Law, Power, and Imperial Ideology, 105: «Il Proemio ‹all’E-

cloga› descrive un mondo in cui gli imperatori sono Mosè e Salomone redivivi, impegnati a
riformare moralmente le loro genti attraverso una giustizia riformata e la sua equa amministra-
zione». L’associazione panegirica tra Leone III e Mosè venne percorsa anche, pur se proiet-
tata sul campo di battaglia, nel resoconto del ruolo svolto dall’imperatore durante il dramma-
tico assedio arabo di Costantinopoli del 717: cfr. Gero, Notes on Byzantine Iconoclasm, 25.
32 Ed è in ragione di questa vocazione già pienamente politica che il dibattito sulle im-

magini divenne immediatamente lo spazio ideale di ogni conflitto di potere: W. Treadgold,


Opposition to Iconoclasm as Grounds for Civil War, in J. Koder - I. Stouraitis (eds.), Byzan-
tine War Ideology between Roman Imperial Concept and Christian Religion: Akten des interna-
tionalen Symposiums (Wien, 19.-21. Mai 2011), Österreichischen Akademie der Wissen-
schaften, Wien 2012 (Philosophisch-Historische Klasse 452 - Veröffentlichungen zur By-
zanzforschung 30), 33-39.

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Alle origini di un equivoco 35

Costantinopoli le raffigurazioni dei sei concili ecumenici sostituendole con


altrettante scene di giochi nell’ippodromo – favorì anche un tentativo di
usurpazione del trono, sostenuto con forza dagli iconoduli 33. Domata la
rivolta nel 742, la repressione nei confronti dei congiurati politici e milita-
ri fu violenta e si rese addirittura sfrontata nei confronti del clero: il patriar-
ca fu umiliato davanti a tutta la popolazione di Costantinopoli, venendo
costretto a compiere un giro dell’ippodromo a cavallo di un somaro34.
L’imperatore, dunque, ritornato sul trono, non solo mantenne i pre-
cedenti intendimenti, ma convocò, nel 754, un concilio a Hieria 35 per
decretare l’incompatibilità tra teologia cristiana e culto delle immagini 36.
A quello che è passato alla storia come il “sinodo iconoclasta” partecipa-
rono trecentotrentotto vescovi – ma nessun patriarca, nemmeno quello
di Costantinopoli, Anastasio, morto da poco e non ancora sostituito37.

33 Questi, dopo aver fatto circolare la notizia della morte dell’imperatore durante una

campagna militare contro gli Arabi, fecero acclamare Artavasde, cognato di Costantino V,
apertamente sostenuto dallo stesso patriarca Anastasio, benché quest’ultimo fosse favorevo-
le a un moderato iconoclasmo. Su Atanasio cfr. I. Rochow, Anastasios (22. Januar 730 - Ja-
nuar 754), in Lilie (hrsg.), Die Patriarchen, 22-29.
34 In realtà le angherie dell’imperatore si indirizzeranno anche verso il successore di Ana-

stasio, il patriarca Costantino II e porteranno sino alla sua esecuzione; una dettagliata disa-
mina di questa ingloriosa fine, corredata dell’apparato documentario che la attesta, si trova in
I. Rochow, Kostantinos II. (8. August 754 - 30. August 766), in Lilie (hrsg.), Die Patriarchen,
30-44, in part. 40-43, che giustamente sottolinea come la gravità delle pene inflitte fosse con-
seguenza dell’accusa di tradimento, non di dissenso religioso (ivi, 43). Al suo posto, l’impera-
tore nominerà Niceta: cfr. Ead., Niketas I. (16. Novembar 766 - 6. Februar 780), in Lilie (hrsg.),
Die Patriarchen, 45-49.
35 Hieria era un palazzo imperiale a Costantinopoli, nella periferia asiatica della capitale.
36 Per la tortuosa vicenda della documentazione di questo concilio, cfr. Brubaker - Haldon,

Byzantium in the Iconoclast Era (ca. 680-850): The Sources, 237-238. L’Enunciato finale (Oros),
per come riferito da Tarasio nella sua refutazione, è edito da T. Krannich - C. Schubert - C. Sode
(hrsg.), Die ikonoklastische Synode von Hiereia 754, Mohr, Tübingen 2002 (Studien und Texte
zu Antike und Christentum 15). La principale documentazione relativa al dibattito iconoclasta
durante il regno di Costantino V è stata presentata da S. Gero, Byzantine Iconoclasm during the
Reign of Constantine V. With Particular Attention to the Oriental Sources, Secrétariat du Corpus
SCO, Louvain 1977 (Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium 384 - Subsidia 52).
37 Come si vedrà infra, p. 49, questo elemento formale giocherà un ruolo rilevante nel-

la contestazione del concilio di Hieria. Anche il nuovo patriarca, Costantino II, non verrà
nominato che in conclusione dei lavori (durante l’ultima sessione conciliare) e dunque, pur
avendo partecipato al concilio di Hieria, non lo fece in veste patriarcale: cfr. Rochow, Kost-
antinos II, 33.

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36 Le matrici di una critica

Dei venti che vennero promulgati, sono gli Anatematismi 8-14 e 1638 a
riguardare direttamente le immagini. Essi stabiliscono diversi punti fermi:
1. l’unità tematica dell’immagine è già stata articolata in categorie:
l’immagine di Cristo (8-14); le immagini della Vergine (15)39; le
immagini dei santi (16). La prima contraddice il nucleo della pro-
fessione di fede cristologica (dunque ha una portata eretica), le al-
tre inquinano il culto della Chiesa;
2. la raffigurazione di Cristo è ipso facto una negazione cristologica:
perché presume di circoscrivere l’incircoscrivibile (9); perché con-
fonde le nature del Logos (10); perché separa l’ipostasi del Logos
dalla carne (11 e 13); perché scinde l’unico Cristo in due ipostasi
(11); perché considera Cristo un semplice uomo (14). Com’è ovvio,
per i padri conciliari non importava stabilire quale tra questi fosse
il presupposto teologico dell’icona, poiché tutti erano eretici;
3. l’immagine è contraria alla preghiera, che è autentica solo se è «con
tutto il cuore e con gli occhi della mente (ommasi noerois)» (8);
perciò cade la pretesa dell’utilità dell’immagine, che anzi è «opera
demoniaca» (16) 40;
4. i testi e la Scrittura mantengono vivi i loro contenuti, mentre le
immagini non sono che idoli muti (16) 41.

38 Seguo la numerazione di Gero, Byzantine Iconoclasm during the Reign of Constantine

V, 88-92. I Canoni iconoclasti sono riportati, con la relativa contestazione, anche negli At-
ti della sesta sessione del secondo concilio di Nicea del 787 (cfr. D.J. Sahas, Icon and Logos:
Sources in Eighth-Century Iconoclasm: An Annotated Translation of the Sixth Session of the Sev-
enth Ecumenical Council (Nicea, 787), University of Toronto Press, Toronto - Buffalo [NY]
- London 1986 [Toronto Medieval Texts and Translations 4], 154-163).
39 Il numero 15, per la verità, non menziona le icone ma si limita a discutere delle moda-

lità dell’intercessione mariana. È chiaro però che il riferimento alla superiorità della Theotokos
a ogni realtà, «visibile e invisibile», voglia evocare il tema dell’inefficacia delle immagini ma-
riane, alle quali ci si rivolgeva appunto per implorare il soccorso della «Madre di Dio».
40 Krannich - Schubert - Sode (hrsg.), Die ikonoklastische Synode von Hiereia, 9, collo-

cano non a caso in Gv 4,23-24 l’autentico fuoco prospettico dell’intero dibattito teologico
di Hieria.
41 Si intravede qui, in filigrana, emergere l’argomento della subalternità dell’immagine

alla parola scritta, contro il quale si espresse Giovanni Damasceno, Discorso apologetico I
(Orazione I sulle immagini) 8; 17; 41-42; 45; 47.

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Alle origini di un equivoco 37

Da un punto di vista strettamente teologico, l’assetto teoretico fonda-


mentale dell’argomentazione dell’Enunciato finale (Oros) e dei Canoni di
Hieria ricalca – perfezionandolo 42 – l’assunto focale delle Questioni (Peu-
seis) di Costantino V:
Ogni icona (eikōn) si riconosce derivante da un prototipo *** solo se ‹lo ri-
spetta› in tutto e per tutto, se anche è consustanziale (omoousion) al figurato ***
affinché il tutto ‹del figurato› sia salvaguardato, altrimenti non è un’icona
(eikōn) 43.

L’affermazione dell’imperatore fornisce, sul piano speculativo, la pre-


messa teologica forse più convincente dell’intera questione iconoclasta:
l’immagine è tale solo se è in grado di restituire il suo prototipo; le im-
magini di Cristo non lo possono fare se non, anzi, tradendo la sostanza,
la natura e l’identità divina di quel prototipo 44.

42 Cfr. E. Fogliadini, L’ immagine negata. Il Concilio di Hieria e la formalizzazione eccle-

siale dell’ iconoclasmo, G d’I - Jaca Book, Vicenza - Milano 2013 (Di fronte e attraverso 1098
- Storia dell’arte 58 - Guardando a Oriente), 20, a giudizio della quale lo scostamento – in-
vero non sempre così sensibile – tra le Questioni (Peuseis) di Costantino V e l’Enunciato fi-
nale di Hieria «rovescia la semplicistica prospettiva di sottomissione del clero a Costantino
V: non solo, infatti, il concilio […] non si limitò a una mera applicazione delle direttive im-
periali, ma l’assise si distinse per la sua speculazione sul tema in questione e l’abilità nell’e-
laborare teologicamente la dottrina iconoclasta». Una discussione dettagliata dell’«ecceden-
za del concilio di Hieria rispetto all’iconoclasmo imperiale» è sviluppata da Fogliadini,
L’ immagine negata, 145-158.
43 Le Questioni di Costantino V ci giungono solo, frammentarie, nella triplice Confu-

tazione (Antirrēsis) di Niceforo di Costantinopoli (patriarca dall’806 all’815). Il frammen-


to citato è riportato, in due parti (le cesure cadono in corrispondenza dei tre asterischi), in
Confutazione (Antirrēsis) 1, 19,9 + 22,14 + 24,17 (PG 100, 216C + 225A + 228D). Cfr. C.
Schönborn, L’ icona di Cristo: fondamenti teologici, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003
(Saggi teologici 3), 152-153; G. Lingua, L’ icona, l’ idolo e la guerra delle immagini. Questio-
ni di teoria ed etica dell’ immagine nel cristianesimo, Medusa, Milano 2006 (Hermes 13), 91-
93; N. Bergamo, Costantino V, imperatore di Bisanzio, Il cerchio, Rimini 2007, 105-108. La
reazione del secondo niceno rilancerà il nesso tra icona e prototipo: si veda il caso delle ico-
ne dei santi analizzato da M.-F. Auzépy, L’ iconodulie: défense de l’ image ou de la dévotion à
l’ image?, in Boespflug - Lossky (éds.), Nicée II, 787-1987, 157-165, in part. 162-165.
44 Il Cristo è tale solo in quanto vero Dio e vero uomo; l’icona, che non può ritrarre se

non l’umanità del Logos incarnato, ne tradisce la divinità, fallendo proprio nel riconosci-
mento della sostanza divina (contesta, insomma, l’omousia nicena). Dunque l’icona di Cri-
sto diventa una negazione implicita dell’ipostatizzazione del Logos. Si dovrà attendere la si-
stemazione teologica di Teodoro lo Studita, con il concetto di “ipostasi composta” (vedi
infra, p. 59, nota 105) per sanare questa obiezione.

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38 Le matrici di una critica

Il concilio di Hieria, è bene ribadirlo, è atto formale di una disputa


che può essere colta pienamente solo nel contesto dell’affermazione poli-
tica di una nuova dinastia imperiale 45. Se in essa l’immagine, da medium
visuale, venne discussa quale pretesto teologico, fu anche per dischiude-
re agli Isaurici l’accesso alla più nobile delle incombenze imperiali: vigi-
lare sulla retta definizione della deità 46.
La controversia sull’icona venne prospettata, in altri termini, come un’ap-
pendice argomentativa del dibattito cristologico sull’incarnazione, secondo
quanto affermarono esplicitamente anche i padri conciliari 47: non si discus-
se la specificità dell’immagine, in quanto figura – in quanto “visuale”, si
direbbe secondo le contemporanee categorie teoretiche –, ma in quanto
tentativo fallimentare di cogliere il Logos divino e l’economia trinitaria 48.
Come si vede, con Hieria, la pretesa di disciplinare il culto delle icone
era ormai già ampiamente travalicata nella volontà di intervenire nella
disputa teologica per eccellenza: quella cristologica e trinitaria 49.

45 Sulla dimensione politica della questione iconoclasta cfr. anche S. Manganaro, Con-

troversia teologica e controversie politiche con il βασιλεύς durante la crisi iconoclastica (726-
843), in G. Larini (cur.), Controversie. Dispute letterarie, storiche e religiose dall’Antichità al
Rinascimento, Libreriauniversitaria, Padova 2013 (Storie e Linguaggi 4), 225-264.
46 Cfr. C. Barber, Figure and Likeness: On the Limits of Representation in Byzantine Icon-

oclasm, Princeton University Press, Princeton (NJ) - Oxford 2002, 11: «La disputa icono-
clasta riguardava la definizione dell’icona stessa come mezzo appropriato per la teologia.
Per svolgere tale funzione, l’icona, prima di diventare strumento teologico e spirituale, de-
ve innanzitutto difendersi, risolvendo il suo statuto di opera d’arte, di manufatto».
47 I primi sette Canoni sono, non a caso, tutti cristologici – essendo i primi due addirit-

tura la citazione dei corrispondenti del quinto Concilio ecumenico. Questa struttura di-
scende da due motivazioni, una di natura politica e una di utilità. Dal punto di vista poli-
tico, va notato che questo era lo schema già impiegato dalle Questioni di Costantino V
(professione di fede cristologica e poi condanna delle icone, come diretta conseguenza del-
la prima: cfr. Gero, Byzantine Iconoclasm during the Reign of Constantine V, 37-52). Dal pun-
to di vista dell’utilità, questa definizione previa è necessaria, dal momento che gli Anatema-
tismi iconoclasti sono comprensibili – per lessico e per contenuto – solo alla luce di una
puntuale contestualizzazione teologica.
48 Come recita il Canone 14: «Se qualcuno tenta, per mezzo di colori materiali, di raf-

figurare Dio, la Parola – che è nella forma di Dio, che assunse la forma di servo nella sua
propria ipostasi e divenne simile a noi in tutto, eccetto che nel peccato –, come se fosse un
semplice uomo, e lo separa dall’inseparata e immutata divinità, e in tal modo, per così di-
re, introduce una quaternità nella santa e vivificante Trinità, sia anatema ».
49 Cfr. Lingua, L’ icona, l’ idolo e la guerra delle immagini, 84-87.

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Alle origini di un equivoco 39

Accanto a quella puramente teoretica, l’incombenza più urgente per que-


sta assise fu presentare la censura delle immagini non come l’introduzione
di una novitas nella teologia o nella prassi della Chiesa ma quale restaurazio-
ne del suo più antico costume50. Di contro, infatti, si affermava che a dover
essere provata fosse la novitas delle icone e per questo, dopo aver introdotto
il tema cristologico dell’impossibilità di un’immagine del Logos, si contestò
il culto delle icone, compilando, in vista del dibattimento, dei florilegi patri-
stici che dimostrassero l’avversione dei “santi padri” per una simile prassi51.
In realtà, i più antichi autori cristiani non si erano mai espressi circa
l’“immagine” in quanto tale, ma circa gli idoli: quei manufatti – ma non
solo –, artistici o meno, che venivano considerati, per lo più dai gentili,
“sacri” e “venerabili”, legati, cioè, a quelle potenze (“divine” per i gentili,
demoniache per i cristiani) che in essi si manifestavano, compiendo pro-
digi52. La strategia alla base della redazione dei florilegi di Hieria fu dun-
que quella di equiparare le immagini cristiane agli idoli pagani.

50 Teologicamente, sin dalle origini cristiane, uno dei “criteri” per marchiare un’idea

con lo stigma di eresia era quello di provarne la “novità”, dimostrando che l’affermazione o
la prassi che essa introduceva erano estranei alla traditio, letteralmente: “Ciò che è stato tra-
mandato”. Ovviamente questa esigenza si rendeva di volta in volta più scottante a seconda
della “forza divisiva” che ciascun dibattito dimostrava: come si è visto, il caso della teolo-
gia iconoclasta animava, nel mondo cristiano antico, violente tensioni centrifughe – inten-
sificate anche dall’uso politico che la corte imperiale stava facendo di questo principio di
politica religiosa: molti degli accusati di iconodulia erano semplicemente nemici o avversa-
ri dell’imperatore regnante, accusati pretestuosamente.
51 Cfr. P.J. Alexander, Church Councils and Patristic Authority. The Iconoclastic Councils of

Hiereia (754) and St. Sophia (815), in Harvard Studies in Classical Philology 63 (1958) 493-505.
La centralità di questo tema è stata correttamente sottolineata da M.-F. Auzépy, La tradition
comme arme du pouvoir: l’exemple de la querelle iconoclaste, in Ead., L’ histoire des iconoclastes, 105-
115. Cfr. anche C. Bordino, I Padri della Chiesa e le immagini, Ph.D. Diss., Viterbo a.a. 2009-
2010, 175-176. Una monumentale storia dei florilegi patristici – da Calcedonia, quando venne-
ro introdotti, sino alla controversia sulle immagini – resta quella tracciata da A. Grillmeier, Gesù
il Cristo nella fede della chiesa, 2,1: La ricezione del concilio di Calcedonia (415-518), Paideia, Bre-
scia 1996 (Biblioteca teologica 24), 91-128. Fu proprio nel contesto di questa disputa e, ancor
più precisamente, nell’ambito della compilazione di questi florilegi che giunse a termine il pro-
cesso di consolidamento dell’idea e dell’ideale di una “tradizione patristica”: Cfr. J.A. McGuckin,
The Formation of the Patristic Tradition, in A. Kaldellis - N. Siniossoglou (eds.), The Cambridge
Intellectual History of Byzantium, Cambridge University Press, Cambridge 2017, 296-312.
52 A giudizio di M.G. Mara, Implicanze biblico-esegetiche della polemica sul culto delle

immagini, in S. Leanza (cur.), Il Concilio Niceno II (787) e il culto delle immagini. Conve-
gno di Studi per il XII Centenario del Concilio Niceno II, Messina, settembre 1987, Sicania,

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40 Le matrici di una critica

Una perfetta triangolazione ideale era stata in questo modo tracciata.


L’argumentum dell’“immagine cristiana” era stato finalmente impostato
attraverso l’isolamento di tre coordinate dalla cui verifica sarebbero di-
pese le sorti dell’“arte cristiana”:
1. il carattere cristologico: se l’“immagine cristiana” possa o meno
raffigurare il Logos (e la deità);
2. il carattere cultuale: se l’“immagine cristiana” potesse essere fatta
oggetto di venerazione;
3. il carattere tradizionale: se l’“immagine cristiana” fosse o meno
correlabile a quell’idolatria che la Chiesa, sin dai suoi primi esordi,
aveva sempre contrastato.
Giova sottolineare sin da subito che nessuno di questi criteri ermeneu-
tici si prova efficace per descrivere la prima cultura visuale cristiana; ma,
su questo, si tornerà.

---

Il clero iconoclasta salutò Costantino V come “il nuovo Costantino”,


mentre gli assertori della causa iconodula si prepararono a un periodo di
intensa repressione. La stagione che seguì si caratterizzò infatti per la si-
stematica rimozione e distruzione delle immagini, per la violenta oppres-
sione degli avversari e per l’oculata espropriazione dei beni; iniziative
inasprite anche dall’obbligo, introdotto nel 764, di assicurare la rinuncia
alle icone tramite un giuramento. Vescovi e funzionari imperiali reticen-

Messina 1994, 5-27, qui 17, è anche possibile osservare uno stile “tipico” del concilio di
Hieria nell’impiego dei testi biblici e patristici di cui si serve, dal quale si discosterà il se-
condo concilio di Nicea del 787: «Sembra […] che, mentre il concilio di Ieria tende ad at-
tualizzare i testi scritturistici grazie a una interpretazione cumulativa di essi, il Niceno II
preferisce collocare i medesimi testi nel contesto della storia di Israele, grazie a una inter-
pretazione attenta alla dimensione cronologica a cui ciascuno può essere ricondotto». Cfr.
anche M. Re, Il secondo Concilio di Nicea e la controversia iconoclasta, in L. Russo (cur.),
Vedere l’ invisibile. Nicea e lo statuto dell’ immagine, Aesthetica, Palermo 20173 (Aestheti-
ca 47), 171-183, qui 180.

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Alle origini di un equivoco 41

ti a questa richiesta furono colpiti da pena capitale o esiliati53; molti mo-


nasteri furono secolarizzati e venduti o trasformati in caserme; i beni dei
monaci furono requisiti e fatti confluire nel patrimonio imperiale; molte
immagini furono distrutte o sostituite con croci – non crocifissi – pura-
mente simboliche, come nel caso celebre dell’abside della chiesa “della
pace” a Costantinopoli54.
Le decisioni assunte dal concilio di Hieria non tardarono a provocare
una forte eco anche nel cristianesimo occidentale55 che, proprio in quegli
anni, stava cercando di consolidare la propria autonomia rispetto al “sacro
palazzo”, sempre meno capace di intervenire in Italia e, soprattutto, sem-
pre meno capace di proteggere Roma dai Longobardi56.
Sotto i papi Paolo I e Stefano III (768-772) […] due sinodi – l’uno a Gentilly
in Francia nel 767, l’altro al Laterano a Roma nel 769 – condannarono la politica
dell’immagine di Costantino V. Gli Atti dell’assise di Gentilly non sopravvivono
[…]. Sappiamo molto più chiaramente che cosa fu effettivamente convenuto nel
sinodo lateranense del 769, di cui si conservano gli Atti […]. Il sinodo ha pun-
tualmente condannato il sinodo di Hieria (questo è il primo riferimento esplicito
nelle fonti occidentali al carattere “ufficiale” e imperiale della legislazione anti-

«Casi noti di persecuzione risalgono tutti al 760. Il famoso anacoreta santo Stefano
53

il Giovane fu messo a morte nel 765. Nel 766 i monaci furono fatti sfilare nell’ippodromo
di Costantinopoli, ognuno con una donna per mano. Nel 768 alcuni importanti monaste-
ri della capitale vennero secolarizzati o distrutti»: C. Mango, Historical Introduction, in
Bryer - Herrin (eds.), Iconoclasm, 1-6, qui 4.
54 Cfr. R. Cormack, The Arts during the Age of Iconoclasm, in Bryer - Herrin (eds.), Icon-

oclasm, 35-44, in part., su Agia Eirēnē, 35; sul celebre mosaico absidale di questa chiesa, cfr.
anche Brubaker - Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era (ca 680-850): The Sources, 19-21.
In generale, sulle arti durante l’iconoclasmo, cfr. ancora Grabar, L’ iconoclasme byzantin
(314-316 per Agia Eirēnē).
55 Cfr. M.-F. Auzépy, Constantin V, l’empereur isaurien, et les carolingiens, in Ead., L’ hi-

stoire des iconoclastes, 303-315.


56 Dal 751 papa Zaccaria (741-752), in occasione della caduta dell’Esarcato, assunse di-

rettamente il controllo del ducato romano (cfr. G.S. Marcou, Zaccaria. Un pontefice di origi-
ne greca, in Il Veltro 27 [1983] 145-152), territorio che poi Stefano II (752-757) formalmente
reclamò alla cattedra di Pietro. Fu in questo contesto storico che vide la luce il celebre falso
del Constitutum Constantini, o “Donazione di Costantino” (per un possibile rapporto tra la
Donazione e Stefano II, cfr. J. Fried, Donation of Constantine and Constitutum Constantini,
De Gruyter, Berlin - New York [NY] 2007 [Millennium-Studien zu Kultur und Geschichte
des Ersten Jahrtausends n. Chr. 3], 3-4), per la quale la Città di Roma sarebbe stata donata
da Costantino I al vescovo dell’Urbe, il papa (i privilegi connessi a questo “apocrifo” furono
citati per la prima volta da Stefano II nel 754, l’anno successivo al sinodo di Hieria).

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42 Le matrici di una critica

iconica a Bisanzio). Da questo momento in poi, papa Stefano III intensificò i le-
gami papali con i Franchi e allentò quelli con l’impero57.

Fu dunque per la sua politica religiosa e per il disinteresse dimostrato


verso le vicende italiane che, sotto il regno di Costantino V, Costantino-
poli perse il controllo su Ravenna, conquistata dai Longobardi, e su Ro-
ma che, minacciata da costoro e trovandosi distante dalla teologia pro-
pugnata dall’imperatore, chiese infine la protezione dei Franchi di Pipino
il Breve, padre del futuro imperatore Carlo Magno.
Dopo la morte di Costantino V, gli scrittori iconoduli si vendicarono
di lui, insolentendone la memoria, affibbiandogli i titoli più offensivi –
come quelli di “Caballino” (kaballinos: “staffiere”) e di “Copronimo” (da
kopros: “sterco”, e onoma: “nome”) –, con i quali passò alla storia. Soprat-
tutto, al suo governo verrà attribuita ogni sorta di orrore e di efferatezza
mentre è ormai comprovato che egli operò come efficace amministratore
del suo impero58: per quel che le circostanze gli concessero, egli difese
validamente i confini bizantini, ne restaurò la capitale decadente e ne
arricchì le finanze. L’iconoclasmo fu solo una delle leve che egli impiegò
nell’amministrazione dello Stato.
Riprova ne sia che, nonostante la damnatio intonata dai suoi avversari,
la memoria di Costantino V rimarrà, nel sentimento popolare, assai posi-
tiva: le vittoriose campagne militari condotte contro i mussulmani e, so-
prattutto, contro i Bulgari faranno sì che, agli esordi del IX secolo, quando
questi ultimi torneranno a minacciare l’impero, la popolazione della capi-
tale accorra alla tomba di Costantino V per invocarne la protezione.

3.3. Leone IV (775-780): la difficile ricerca di un equilibrio


Il governo di Leone IV (775-780) conobbe una sostanziale prosecu-
zione della politica paterna59, anche se esercitata con una molto minore

Brubaker, Inventing, 47.


57

Cfr. P. Speck, “Ich bin’s nicht, Kaiser Konstantin ist es gewesen”: die Legenden vom Ein-
58

fluss des Teufels, des Juden und des Moslem auf den Ikonoklasmus, R. Habelt, Bonn 1990
(Poikila byzantina 10).
59 Un bilancio si può trovare in Bergamo, Costantino V, 121-123.

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Alle origini di un equivoco 43

intensità, soprattutto nell’applicazione delle sanzioni contro gli iconodu-


li 60: l’imperatore tentò di riprendere il controllo dei possedimenti impe-
riali italiani – e, soprattutto, cercò di ripristinare il proprio ruolo rispet-
to alla sede petrina –, ma il sospetto da parte di papa Adriano I finì per
rafforzare ulteriormente i rapporti diplomatici tra la sede romana e il
regno franco.
Alla morte di Leone IV, nel 780, il suo unico figlio, Costantino VI,
benché fosse stato associato all’impero da cinque anni, aveva ancora solo
nove anni (era nato nel 771). Prendeva avvio la lunga coreggenza della
madre, Irene – per la verità, un autentico regno di quest’ultima –, la qua-
le, dopo aver commissionato, nel 797, l’accecamento, la cattura e la de-
posizione del figlio, che morirà per le ferite riportate, diventerà la prima
imperatrice bizantina, assumendo il titolo – maschile – di Basileus dei
Romei 61. Iniziava così il regno di colei che le tradizioni ortodosse vene-
reranno come sant’Irene.

60 E tuttavia le fonti narrano che, essendo ormai prossimo a morire, forse in seguito

a un avvelenamento (cfr. Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6272 [453],
che suggerisce sia rimasto avvelenato per aver indossato la corona di Santa Sofia, che egli
aveva preso per sé), Leone IV abbia fatto giurare al patriarca Paolo IV di mantenere l’i-
conoclasmo (forse per i sospetti di iconodulia che circondavano la figura di Paolo: cfr.
R.-J. Lilie, Paulos IV. (20. Februar 780 - 31. August 784), in Id. [hrsg.], Die Patriarchen,
50-56, in part. 53): al di là della fondatezza della notizia, pare significativo osservare co-
me ormai il tema dell’iconoclasmo fosse raffigurato dalle fonti quale vertice delle preoc-
cupazioni imperiali.
61 La vicenda della prima imperatrice è ovviamente – e giustamente – stata fatta og-

getto di grandissima attenzione (si pensi allo straordinario e severissimo ritratto che ne
stilò – ormai un classico della storiografia – C. Diehl, Figure bizantine, Einaudi, Torino
2007 [Piccola Biblioteca Einaudi 777], 64-89), anche nella prospettiva della c.d. “storia
di genere”; cfr. R. Hiestand, Eirene Basileus. Die Frau als Herrscherin im Mittelalter, in
H. Hecker (hrsg.), Der Herrscher: Leitbild und Abbild in Mittelalter und Renaissance, Dros-
te, Düsseldorf 1989 (Studia humaniora 13), 252-283; R.-J. Lilie, Byzanz unter Eirene und
Konstantin VI (780-802), Lang, Frankfurt am Main - New York (NY) 1996; L. Garland,
Byzantine Empresses: Women and Power in Byzantium, AD 527-1204, Routledge, London
- New York (NY) 1999, 73-94; J. Herrin, Women in Purple. Rulers of Medieval Byzantium,
Princeton University Press, Princeton (NJ) - Oxford 2001, 51-129; D. Barbe, Irène de By-
zance: la femme empereur, 752-803, Perrin, Paris 2006; J. Herrin, Unrivalled Influence:
Women and Empire in Byzantium, Princeton University Press, Princeton (NJ) - Oxford
2013, 194-207.

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44 Le matrici di una critica

4.: LA “PRIMA RESTAURAZIONE” (787-813):


IL SECONDO CONCILIO DI NICEA
E LA RICERCA DI UNA TRADIZIONE “ECUMENICA”

4.1. Irene (780-802), Costantino VI (780-797)


e il secondo concilio di Nicea: Parola e immagine
La coreggenza prima e il regno di Irene di Atene poi rappresentano
un passaggio di inatteso e momentaneo ritorno alla prassi iconodula che,
attaverso il secondo concilio di Nicea, avrà effetti decisivi sulla storia del-
la “teologia dell’icona”. È verosimile che l’abbandono dell’iconoclasmo
– insieme ad altri provvedimenti di tutt’altra natura, come la forte miti-
gazione delle imposte sia interne sia doganali – debba essere letta alla
luce della necessità della sovrana di rafforzare una posizione decisamente
debole, resa ancor più fragile, tra le altre cose, dall’essere Irene la prima
donna ad aver preteso di assurgere, dopo l’assassinio del figlio, al rango
di imperatore bizantino (mantenne infatti il maschile del titolo Basileus).
Per descrivere il ruolo giocato da Irene nella storia della teologia
bizantina dell’immagine, si potrà forse simbolicamente richiamare il luo-
go che Teofane il Confessore afferma Irene lasciò, nel 769, per raggiun-
gere Costantinopoli dove si sarebbe celebrato il fidanzamento (3 novem-
bre) con Leone e, poi, la sua incoronazione (17 dicembre): il distretto di
Hieria 62. Se, infatti, per un verso non si può negare che della complessa
parabola regale di Irene il vistoso abbandono della politica religiosa ico-
noclasta divenne la scelta più nota, va anche detto che, sino al 784, al
momento cioè in cui il patriarca di Costantinopoli Paolo IV si dimise
dalla sua carica, non vi fu traccia di alcuna novità introdotta dalla reg-
gente nella sua politica imperiale 63.

Cfr. Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6261 (444).


62

Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6276 (457-458), riferisce di col-
63

loqui, probabilmente leggendari, tra l’imperatrice, il senato e il patriarca dimissionario, du-


rante i quali quest’ultimo avrebbe professato la propria contrarietà all’iconoclasmo e avreb-
be invocato un concilio che ristabilisse l’ortoprassi, sconfessando Hieria. Sul controverso
passaggio, cfr. Garland, Byzantine Empresses, 78; Herrin, Women in Purple, 83.

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Alle origini di un equivoco 45

La scelta di elevare Tarasio alla successione di Paolo IV si presta a di-


verse possibili interpretazioni 64: egli era laico al momento della sua no-
mina ed era un alto funzionario della corte (egli era prōtoasēkrētis, lette-
ralmente il “proto-segretario” della corte). Egli stesso, per altro, una
volta consultato, stando a quanto riferiscono le fonti, subordinò l’accetta-
zione della dignità patriarcale all’indizione di un concilio ecumenico sul
tema delle icone, esplicitamente invocando il superamento dell’iconocla-
smo 65. La grave debolezza della candidatura di Tarasio – senza una pro-
pria rete di relazioni ecclesiastiche; laico; in aperta rottura con la politica
religiosa che anche Paolo IV, nel 780, aveva giurato di proseguire – è
stata frequentemente letta come una mossa strategica di Irene che, solle-
citando questa elezione, mirava a un patriarca debole, docile strumento
per i desiderata della corte. D’altra parte, la scelta di far ricadere su un
patriarca proveniente dal laicato, assurto per giunta alla cattedra patriar-
cale di Costantinopoli dopo le inedite dimissioni del suo predecessore,
l’onere di revocare l’ormai quarantennale politica iconoclasta dell’impe-
ro 66 richiede di essere motivata con più attenzione.
Irene stava incontrando in quegli anni rilevanti problemi nell’ammi-
nistrazione dell’impero: dal 781 il controllo sulla Sicilia era più incerto,
in seguito alla rivolta del governatore Elpidio; il califfato aveva trionfal-
mente conquistato l’Anatolia, ottenendo una tregua onerosissima per i
Bizantini, costretti a pagare un tributo annuale di centosessantamila no-

Sulla controversa scelta di Tarasio cfr. P. Speck, Kaiser Konstantin VI. Die Legitima-
64

tion einer fremden und der Versuch einer eigenen Herrschaft. Quellenkritische Darstellung von
25 Jahren byzantinischer Geschichte nach dem ersten Ikonoklasmus, Wilhelm Fink, Munich
1978, 67; cfr. anche C. Ludwig - T. Pratsch, Tarasios (25. Dezember 784 - 25. Februar 806),
in Lilie (hrsg.), Die Patriarchen, 57-108, in part. 58-62.
65 Cfr. Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6277 (460).
66 La complessità di questo passaggio può ben essere testimoniata da un episodio che

coinvolse proprio l’avvio dei lavori del Concilio. L’assise si riunì, in prima convocazione,
presso la chiesa degli Apostoli a Costantinopoli, il 17 agosto 786, ma alcune guardie arma-
te, ancora fedeli alla memoria di Costantino V, riuscirono, irrompendo nella chiesa, a im-
pedire lo svolgimento dei lavori. Alcuni vescovi fecero per andarsene – tra questi la delega-
zione romana che fu però intercettata in Sicilia e richiamata in Oriente –, eppure
l’imperatrice non demorse; tuttavia, per garantire il corretto svolgimento dei lavori, il Con-
cilio venne a Nicea dove il 24 settembre del 786 presero effettivamente avvio i lavori.

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46 Le matrici di una critica

mismata per annum; i conflitti con gli slavi si erano spinti sino alla Gre-
cia centrale; Cipro era costantemente saccheggiata da pirati arabi (che nel
783 rapirono il governatore bizantino). In questo contesto, Irene proget-
tava una più forte alleanza con l’Occidente, sia dal punto di vista dina-
stico – con il progettato matrimonio tra una figlia di Carlo, Rotrude, e
l’unicogenito dell’imperatirce, Costantino VI – sia dal punto di vista
religioso, con il superamento dell’iconoclasmo. Proprio su quest’ultimo
fronte, la debolezza ecclesiale del patriarca può essere interpretata come
uno strumento della strategia di Irene, la quale aveva deciso di lasciare
ad Adriano I – e quindi a Roma – la guida teologica di un concilio che
si preannunciava dirompente 67.
Il 24 settembre del 787 il Concilio prese dunque avvio a Nicea, e fu
immediatamente chiaro a tutti quale ne fosse l’esito predeterminato. Do-
po aver deciso, nella prima sessione del 24 settembre 787, che solo i vesco-
vi iconomachici che avessero pubblicamente rinnegato la loro prassi ico-
noclasta avrebbero avuto la possibilità di mantenere la propria carica, il
dibattito teologico vero e proprio entrò nel vivo con la seconda sessione, del
26 settembre, durante la quale venne data lettura della Synodica che Adria-
no I aveva indirizzato a Costantino VI e a Irene, «nuovo Costantino e

67 Adriano I ebbe un ruolo decisivo nella preparazione del secondo concilio di Nicea.

Per coglierlo è necessario richiamare la Lettera (Divalis sacra: “imperiale e sacra”) che, il 29
agosto del 785 (dunque solo pochi mesi dopo la consacrazione di Tarasio al patriarcato di
Costantinopoli [25 dicembre 784]), Irene e Costantino VI indirizzarono al Papa per invitar-
lo al Concilio, di persona o tramite delegati (cfr. Mansi 12, 984-986; F.J. Dölger, Regesten
der Kaiserkunden des oströmischen Reiches, 1: Regesten von 565-1025, C.H. Beck, München
20062, numero 341). Sarà in risposta a questa esplicita richiesta che Adriano I comporrà
una lettera Synodica all’ imperatore Costantino VI e all’ imperatrice Irene. Questo documen-
to verrà letto – seppure omettendo le sue richieste diplomatiche e giurisdizionali e le obie-
zioni circa le modalità di elezione di Tarasio – e approvato, costituendo in tal modo il nu-
cleo dell’Enunciato finale conclusivo del Concilio; cfr. B. Neil, The Western Reaction to the
Council of Nicaea II, in Journal of Theological Studies 51 (2000) 533-552, qui 537-540. An-
che l’ordine di convocazione, riportato dagli Atti, è buon testimone della volontà di ricuci-
re con la Chiesa di Roma: ai primi posti si trovano, infatti, i delegati del vescovo dell’Urbe
(Pietro, arciprete della basilica di San Pietro e l’abate del monastero di San Saba a Roma,
anch’egli di nome Pietro); solo dopo è menzionato il patriarca di Costantinopoli, quindi i
rappresentanti dei patriarcati di Antiochia, Alessandria e Gerusalemme – ma non il patriar-
ca di Aquileia, esponente ecclesiastico riconosciuto con questo titolo sia da Bisanzio sia da
Roma dal 568 – e circa duecentocinquanta altri vescovi.

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Alle origini di un equivoco 47

nuova Elena» 68. La massima parte dello scritto articolava una vivace dife-
sa delle icone, elaborata, ancora una volta, a partire da un florilegio di
scritti, biblici e patristici 69, che aveva la stessa funzione – ma il segno op-
posto – di quelli presentati dagli iconoclasti al Concilio del 754. Interro-
gati Tarasio e i padri conciliari rispetto alla Lettera di Adriano I, l’assem-
blea espresse il proprio pieno assenso, predeterminando in questo modo
l’esito del Concilio, il cui Enunciato finale venne redatto sulla falsariga di
ciò che i delegati pontifici avevano ratificato essere la traduzione conforme
alla Synodica di Adriano I 70. La priorità concessa alla Chiesa di Roma in

68 Mansi, 12, 1058A; si noti: Adriano I adottava la stessa “strategia simbolica” del con-

cilio di Hieria. Su questo scritto, cfr. E. Lamberz, Studien zur Überlieferung der Akten des
VII. Ökumenischen Konzils: der Brief Hadrians I. an Konstantin VI. und Irene (JE 2448), in
Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters 53 (1997) 1-43.
69 Adriano I citò per primi gli Atti di Silvestro – non a caso, direi, il suo florilegio patri-

stico si apriva con la menzione dell’episodio in cui Costantino richiedeva a Silvestro le im-
magini di Pietro e Paolo –; seguivano poi: Gregorio Magno, Lettera a Sereno di Marsiglia;
Gen 1,26a; 2,7a; 4,4; 8,20; 12,7b; 22,9; 28,10-22; 31,13; 47,31b; Eb 11,21; Es 25,17-22 (i
testimonia biblici vengno qui interrotti dalla citazione degli Atti del concilio del Laterano
[769], che richiamavano a loro volta gli Atti del concilio di Roma [731] e Nm 21,8-9); 1Re
6,14-15.18.20-30; Is 19,19-20; Sal 96(95),6a; 26(25),8; 27(26),8; 45(44),13b; 4,7b; segue
poi l’attribuzione ad « Ammonizioni» di Agostino di una breve citazione che ricupera Sal
4,7b («Cos’è l’immagine [eikōn] di Dio se non il volto [prosōpon] di Dio in cui il suo popo-
lo fu segnato [esēmeiōthē]?» [Mansi, 12, 1066A-B]; è probabilmente un’allusione mnemo-
nica ad Agostino, Enarrazioni sui Salmi 66,4,30). Agostino apre una serie di brani da ope-
re patristiche: Gregorio di Nissa, La divinità del Figlio e dello Spirito (PG 46, 572C); Id.,
Commento al Cantico (PG 44, 776A); Pseudo-Basilio di Cesarea, Lettera a Giuliano l’Apo-
stata (PG 32, 1100; Adriano I considerava ovviamente autentico lo scritto); Basilio di Ce-
sarea, Discorso sui quaranta martiri (PG 31, 508D-509A); Severiano di Gabala, Discorso sul
sigillo (che, però, Adriano I cita come Giovanni Crisostomo, Sulla parabola del seme); Id.,
Omelia per la lavanda dei piedi (ancora citato come Giovanni Crisostomo, Per la quinta do-
menica di Pasqua: le due citazioni pseudo-crisostomee erano ancora tratte da una rubrica
degli Atti del concilio del Laterano [769] che citavano a loro volta gli Atti del concilio di Ro-
ma [731]); Cirillo di Alessandria, Commento a Matteo (perduto); Atanasio di Alessandria,
Sull’Incarnazione del Verbo 1,1; 14,1; Ambrogio, Il mistero dell’Incarnazione divina 7; Epi-
fanio di Salamina, Panarion 65,8,10; un Frammento di Stefano di Bostra e uno di Girola-
mo di Gerusalemme.
70 Giustamente Neil, The Western Reaction, 544-545, attira l’attenzione sulla ratifica,

da parte dei delegati pontifici, del testo della Synodica letto di fronte all’Assemblea. La de-
legazione pontificia, del tutto in grado di comprendere la traduzione greca del testo invia-
to da Adriano I (Pietro di San Saba conosceva il greco), confermò infatti che quanto era sta-
to declamato di fronte al Concilio era conforme alla posizione originale del pontefice. Il
dato è rilevante perché, come già sottolineato, ciò che venne letto ai padri conciliari non

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48 Le matrici di una critica

questo Concilio si conferma anche per la funzione attribuita alla Synodica


di Adriano I durante la terza sessione (28 settembre): solo durante questa
convocazione venne letta una seconda lettera Synodica, quella di Tarasio
ai patriarchi di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme; tale scritto, inoltre,
venne “approvato” solo dopo che i legati di Roma lo dichiararono confor-
me alla dottrina della Synodica pontificia 71.
Risolti i problemi ecclesiali, nella quarta sessione (1° ottobre) si affermò
la liceità e l’opportunità della venerazione delle icone a partire da un nuo-
vo ricco florilegio biblico e patristico72, condannando l’iconoclasmo qua-
le ispirazione diabolica – suggerita da ebrei, mussulmani, pagani, sama-
ritani, manichei, fantasiasti e teopaschiti, si preciserà poi 73 –, il cui
fondamento teologico – l’Enunciato finale del concilio di Hieria – verrà
letto e contestato per intero, punto per punto.

coincideva con la Lettera del papa, ma solo con alcune sue sezioni – quelle teologiche. Il che
permette di cogliere più facilmente la struttura della strategia del vescovo di Roma: l’essen-
ziale era di indirizzare il Concilio verso una ben precisa definizione teologica, come avven-
ne, mentre le altre rivendicazioni, più difficilmente recepibili per la corte bizantina, pote-
vano anche essere lasciate cadere, come pure in effetti accadde.
71 Ne verrà letta anche una terza, quella di Teodosio di Gerusalemme: «Così, alla fine

della terza sessione […], era stato raggiunto l’obiettivo di riunificare l’intera Chiesa »: Re, Il
secondo Concilio di Nicea, 179.
72 Sulle modalità di argomentazione del secondo niceno, cfr. P. O’Connell, The Eccle-

siology of St. Nicephorus I (758-828), Patriarch of Constantinople: Pentarchy and Primacy,


Pontificium Institutum Studiorum Orientalium, Roma 1972 (Orientalia Christiana Ana-
lecta 194), 19-20. In apertura di sessione vennero esplicitamente citati i testimonia biblici di
Es 25,17-22, Nm 7,88b-89, Ez 41,1.16b-20, Eb 9,1-5a, e poi venne discusso un florilegio di
autori cristiani, aperto dall’Encomio di Melezio, di Giovanni Crisostomo, e chiuso signifi-
cativamente (ancora una sorta di “priorità romana”) da una serie di scritti di Germano di
Costantinopoli, inaugurati però dalla Lettera inviata a quest’ultimo da papa Gregorio II
(J. Gouillard, Aux origines de l’ iconoclasme: le témoignage de Grégoire II, in Travaux et Mémoi-
res 3 [1968] 243-307, reputa che tale missiva sia un falso, ricavato proprio dalla produzione
di Germano; qui l’elemento è poco rilevante perché il testo venne citato proprio in funzio-
ne apologetica di Roma, come Tarasio stesso affermò, immediatamente dopo la lettura di
questa Lettera: «Cercando di eguagliare Pietro, l’apostolo divino, questo beato padre da Ro-
ma ha cantato per noi la verità »: cfr. Mansi, 13, 100A). Cfr. P. Van Den Ven, La patristique
et l’ hagiographie au concile de Nicée de 787, in Byzantion 25-27 (1955-1957) 325-362; Ma-
ra, Implicanze.
73 Si tratta della discussione della quinta sessione del 4 ottobre 787 (cfr. in part. Mansi,

13, 196D-E).

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Alle origini di un equivoco 49

La sesta sessione (5/6 ottobre)74 rappresenta uno snodo di grande inte-


resse nel dibattito sulle immagini: la gran parte di questa seduta venne
occupata, come si anticipava, dalla lettura e contestazione dell’Enunciato
finale di Hieria. Si trattava della tipica refutatio in cui, sul modello del
commentario, ogni brano del testo contestato era seguito dall’argomen-
tazione confutante75.
I conciliari, però, vollero premettere a questa argomentazione, per così
dire “teoretica”, una valutazione “canonica” di quell’assise che a Hieria si
era proclamata «Santo grande ed ecumenico settimo concilio»76: cosa ren-
deva un concilio ecumenico tale? Il passaggio era di grande lucidità pole-
mica: prima di confutare i contenuti del “concilio acefalo” 77, se ne voleva
screditare formalmente l’efficacia canonica. La soluzione che venne percor-
sa fu triplice: occorreva il concorso «del papa di Roma (tēs Rōmaiōn papan)
o dei suoi prelati, […] tramite suoi delegati [o] con una lettera enciclica
(egkyklis epistolēs)»78; doveva esserci il consenso dei patriarchi orientali (Ales-
sandria, Antiochia, Costantinopoli e Gerusalemme), o di loro delegati;
doveva essere in comunione con i precedenti sei concili ecumenici 79.
Al di là delle motivazioni polemiche che spinsero a percorrere questa
strada argomentativa, mi pare che gli esiti di questa scelta siano di rile-
vante importanza: la disputa sull’immagine venne in questo modo for-
malmente posta nel cuore della tradizione teologica della Chiesa univer-

74 Gli Atti di questa sessione sono stati utilmente studiati e tradotti da Sahas, Icons and

Logos, 47-185.
75 La refutazione avvenne tramite l’argomentazione teologica ma anche sviluppando os-

servazioni di natura formale critica: «Tra i tanti brani letti ‹durante la quarta sessione› (più
di quaranta), va segnalato il caso di una lettera indirizzata da Nilo d’Ancira […] a Olimpio-
doro, poiché di questo testo al concilio di Hieria […] erano stati proposti degli estratti in-
completi; è questa la prova, secondo i padri conciliari, che gli iconoclasti avevano volonta-
riamente falsificato varie opere»: Re, Il secondo Concilio di Nicea, 179.
76 È l’intestazione formale dell’Enunciato finale del concilio di Hieria che verrà letto

all’inizio della sesta sessione del secondo concilio di Nicea (cfr. Mansi, 13, 208C-210C).
77 Così veniva definito il concilio di Hieria dai vescovi iconoduli, per via del fatto che

nessun patriarca era presente a quell’assise, presieduta perciò da Teodosio di Efeso, figlio
dell’imperatore Leone III.
78 Mansi, 13, 208E.
79 Cfr. Mansi, 13, 210A-C.

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50 Le matrici di una critica

sale – non solo bizantina – e, nel contempo, si stabilì che il dibattito


sulle icone non riguardava un momento specifico, una circostanza della
storia di una Chiesa, ma affrontava un argomento connaturato a quella
che, un tempo, si sarebbe definita l’“essenza del cristianesimo” 80.
La quinta sessione si concluse con un gesto altamente simbolico; su propo-
sta dell’arciprete Pietro, legato romano, un’icona venne collocata al centro del-
la sala in cui si celebrava il concilio, dove già, in segno d’onore secondo la tra-
dizione, si trovavano i Vangeli: la Parola e l’Immagine venivano collocate al
medesimo rango 81.

L’Enunciato finale del secondo concilio di Nicea venne approvato du-


rante la settima sessione (13 ottobre) 82 e poi venne presentato a Costantino
VI e Irene, nella capitale, durante l’ottava sessione, conclusiva (23 ottobre):
in questa occasione i sovrani sottoscrissero il documento, assumendosene
in tal modo la paternità politica 83.
Entro l’insistito richiamo alla tradizione («senza introdurre innova-
zione») 84, la difesa delle icone prodotta dal secondo niceno stabilisce che,

80 Più di qualsiasi altro risultato argomentativo, con questa scelta dei padri conciliari

del secondo niceno si affermerà un principio decisivo per la riflessione sull’immagine cri-
stiana: il dibattito dell’VIII secolo sull’icona travalica i confini del proprio Sitz im Leben e
riguarda ogni cristianesimo, ogni fase della sua storia e ogni immagine cristiana. È ovvio
che si tratti di una pretesa pregiudiziale ma, di fatto, questo principio è rimasto vivo sino a
coinvolgere ancora non pochi quadranti del dibattito critico attuale.
81 Re, Il secondo Concilio di Nicea, 180. Sull’«assimilazione del carattere rivelativo dell’im-

magine a quello della parola », cfr. E. Fogliadini, L’ invenzione dell’ immagine sacra. La legit-
timazione ecclesiale dell’ icona al secondo concilio di Nicea, Jaca Book, Milano 2015 (Arte), 151-
170. Un bilancio sulla longevità teologica di questo Concilio si trova in H.G. Thümmel, Die
Konzilien zur Bilderfrage im 8. und 9. Jahrhundert. Das 7. Ökumenische Konzil in Nikaia 787,
F. Schöningh, Paderborn 2005 (Konziliengeschichte. Reihe A: Darstellungen 20).
82 Gli Atti di questa sessione seguono questa scansione: dopo un’Introduzione (Mansi, 13,

204A-204E), viene discusso il legame tra Chiesa e dogma (205A-221A [Libro I]) e tra eresia e
icone (221B-245C [Libro II]). Viene poi dibattuta la teologia dell’icona (245D-268A [Libro III])
e la compatibilità tra icona, Scritture e culto della Chiesa (268B-292B [Libro IV]). Infine viene
presentato un florilegio patristico sul tema (292C-328A [Libro V]: l’elenco degli autori e delle
opere citati è stato stilato da Sahas, Icons and Logos, 189-191) e i decreti sulle icone (Mansi, 13,
328B-364E [Libro VI]). Conclude il volume la pubblicazione della risoluzione finale (373D-380E).
83 Per il testo cfr. anche Conciliorum Oecumenorum Decreta, Istituto per le Scienze Re-

ligiose, Bologna 1973, 133-138.


84 II Concilio di Nicea, Enunciato finale; la traduzione è condotta sul testo riportato da

Conciliorum Oecumenorum Decreta, 135.

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Alle origini di un equivoco 51

stante il presupposto salvifico unico e irripetibile dell’Incarnazione, l’im-


magine è apportatrice di un beneficio identico a quello del racconto evan-
gelico perché pone nella verità della natura umana di Cristo il fondamen-
to della salvezza da lui recata; prova quest’ultima della sua divinità piena
e autentica. Le icone, perciò, devono essere esposte in ogni luogo: quanto
più viene osservata l’icona, tanto più viene ricordato il suo prototipo –
alle icone si può rendere tributo di venerazione ma non autentica adora-
zione, che è dovuta soltanto alla divina natura 85.
Il secondo concilio di Nicea, progettato, presentato, salutato e cele-
brato come il ristabilimento della tradizione, fu, nei fatti, un momento
fortemente creativo. Se, infatti, sul piano religioso, vennero stabilite
qui le premesse formali – ecclesiali e teologiche – per il futuro “trionfo
dell’ortodossia”, dal punto di vista della storia culturale, il secondo con-
cilio di Nicea rappresenta il momento in cui fondamentali coordinate
– anche critiche – che ancora accompagnano la definizione dell’“im-
magine cristiana” vennero definitivamente istituite. L’idea della sacra-
lità della figura cristiana, della sua funzione cultuale, l’idea stessa che
l’immagine cristiana nacque come icona e che tale rimase, pur nella
varietà delle forme artistiche in cui fu espressa, l’idea di una struttura
intrinsecamente teologica (e non didascalica o esegetica) della visualità
cristiana vennero ratificate come teologumeni di tradizione ecumeni-
ca. Di fatto, accettando di assumere quest’univoco lessico ermeneutico
della visualità cristiana, il secondo concilio di Nicea accettò anche di
perimetrare l’ideale dell’immagine cristiana entro le categorie polemi-
camente introdotte a Hieria, imprigionando il dibattito – favorevole o

85 «Quanto più frequentemente si guarda attraverso la conformazione figurativa (eiko-

nikēs anatypōseōs), tanto più quelli che contemplano sono portati al ricordo e al desiderio di
ciò che ‹le icone› raffigurano […]. Non si tratta, certo, di vera adorazione (alēthinēs latre-
ian) […], ma ‹avviene› come per l’immagine della preziosa e vivificante croce, per i santi
evangeli e per gli altri oggetti sacri, onorati (timēn poieisthai) con l’offerta di incenso e di
lumi secondo l’uso devoto degli antichi. L’onore (timē) reso all’immagine, infatti, transita
a ciò che vi è rappresentato e chi omaggia (o proskynōn) l’immagine, omaggia (proskynei) l’i-
postasi di chi vi è raffigurato (ton eggraphomenou tēn ypostasin)»: II Concilio di Nicea, Enun-
ciato finale (Conciliorum Oecumenorum Decreta, 136).

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52 Le matrici di una critica

contrario all’immagine – entro quest’unico sistema di coordinate teo-


logiche, cognitive e critiche.
Per altro verso, nell’immediato, il settimo concilio ecumenico fallì sia
nel tentativo di risolvere la questione iconoclasta – che di fatto di lì a po-
co divamperà nuovamente, per la sua ultima stagione, in tutto l’Oriente
cristiano – sia nel progetto di sanare i rapporti tra Roma e Bisanzio. Ne-
gli ultimi anni dell’impero di Irene (dal 797, dopo il “colpo di mano” che
portò alla morte del figlio, Costantino VI, e alla fine della coreggenza),
infatti, nella notte di Natale dell’800, Leone III incoronò Carlo Magno
“imperatore dei Romani”, conferendogli il titolo sino ad allora appan-
naggio esclusivo del “sacro palazzo” di Costantinopoli e agendo de facto
come se la sede di Bisanzio fosse stata vacante.

4.2. Niceforo I (802-811), Sturacio (811) e Michele I (811-813):


un impero nel caos
Deposta dal trono e costretta all’esilio sull’isola di Lesbo (802), Irene
morì nell’803 e Niceforo I, detto il “Logoteta” (“colui che conta, che calco-
la”), perché fu “gran tesoriere” di Irene, le successe per regnare sino all’811,
quando morì trucidato dai Bulgari dopo la disastrosa disfatta della bat-
taglia di Pliska – «Secondo Teofane, che non era dispiaciuto per la mor-
te di Niceforo, il khan bulgaro usava il cranio ‹dell’imperatore› come
tazza» 86. In quella battaglia venne gravemente ferito anche suo figlio

Brubaker, Inventing, 82. Niceforo, per la verità, ereditò un impero economicamente


86

al collasso, fortemente impoverito dalle numerose esenzioni e riduzioni d’imposta elargite


– soprattutto al clero cittadino e, ancor più, ai cenobi monastici – da Irene, ed esposto al ri-
schio di venire travolto dalle pressioni esterne (si pensi ai fronti aperti con Bulgari, Arabi e
Franchi) o di implodere per la sua oggettiva debolezza e per le numerose divisioni interne.
Nel tentativo di risollevare le finanze imperiali, l’imperatore attuò una radicale riforma fi-
scale: Teofane il Confessore – monaco apertamente ostile a Niceforo I –, nella sua Crono-
grafia (Anno del mondo 6302 [486-487]), compendiò in dieci «diaboliche decisioni» la po-
litica imperiale. È singolare che di queste “dieci piaghe”, ben nove coincidano con
provvedimenti di natura economica, finalizzati a un ampliamento del flusso fiscale. Un bi-
lancio più equilibrato di questo regno è stato tracciato da P.E. Niavis, The Reign of the Byzan-
tine Emperor Nicephorus I (A.D. 802-811), Historical Publications St. D. Basilopoulos,
Athens 1987 (Historical Monographs 3); cfr. anche P. Charanis, Nicephorus I, The Savior
of Greece from the Slavs (810 A.D.), in Byzantina-Metabyzantina 1 (1946) 75-92.

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Alle origini di un equivoco 53

Sturacio, che indossò la corona imperiale solo per pochi mesi, al termine
dei quali, nell’81187, gli successe Michele I Rangabe, elevato alla porpora
imperiale dopo una serie di intrecci politici stretti sollecitamente sotto la
regia del patriarca Niceforo: «L’uomo che ha dedicato tutta la sua vita
adulta e i suoi scritti a una confutazione militante dell’iconoclasmo» 88.
La tendenza di Niceforo I a governare con fermezza le diverse fazioni
che si agitavano al cuore dell’impero, se costituì le basi per una sorta di
“restaurazione bizantina”, gli valse d’altra parte le ire di molti e, di fatto,
alimentò il divampare del malcontento. In ambito ecclesiastico, l’aperta
ostilità che si accese tra il “sacro palazzo” e molti tra vescovi e monaci si
tradusse in un progressivo isolamento della corrente iconofila – per lo più
di estrazione monastica – e nella tacita protezione garantita ad alcuni
esponenti della linea iconoclasta.
Consapevole della fazione a cui doveva il trono, Michele I – l’impe-
ratore che riconoscerà a Carlo Magno la legittimità dell’impiego del tito-
lo imperiale – attuò una costante politica di sostegno del partito icono-
filo, lo stesso che, entrato in contrasto con Niceforo I per via della
repressiva politica fiscale di quest’ultimo, aveva subito una progressiva
marginalizzazione dalla vita di corte.
Quando però, nell’813, dopo la disastrosa sconfitta di Versinikia con-
tro i Bulgari, Michele I capì di essere in una posizione troppo debole per

Su questo anno drammatico va menzionata la Cronaca dell’anno 811, cfr. I. Dujcev,


87

La Chronique byzantine de l’an 811, in Travaux et Mémoires du Centre de Recherche d’Histoi-


re et Civilisation de Byzance 1 (1965) 205-254; cfr. ora P. Sophoulis, Byzantium and Bulga-
ria, 775-831, Brill, Leiden - Boston (MA) 2012 (East Central and Eastern Europe in the
Middle Ages, 450-1450 16), 23-34.
88 P.J. Alexander, The Iconoclastic Council of St. Sophia (815) and Its Definition (Horos),

in Dumbarton Oaks Papers 7 (1953) 35-66, qui 38. Cfr. anche T. Pratsch, Nikephoros I. (12.
April 806 - 13. oder 20. Marz 815), in Lilie (hrsg.), Die Patriarchen, 109-148. Nell’operato
di Niceforo di Costantinopoli, Fogliadini, L’ invenzione dell’ immagine sacra, 227-233, rico-
nosce «la difesa ecclesiastica del secondo concilio di Nicea ». Si trattò di uno dei patriarca-
ti più importanti nella storia di Bisanzio: cfr. i profili – rispettivamente ecclesiologico e teo-
logico – che di esso sono stati tracciati da O’Connell, The Ecclesiology of St. Nicephorus I
(758-828), e da P.J. Alexander, The Patriarch Nicephorus of Constantinople: Ecclesiastical Pol-
icy and Image Worship in the Byzantine Empire, Clarendon, Oxford 1958.

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54 Le matrici di una critica

mantenere il regno saldamente nelle sue mani, decise di abdicare 89, es-
sendo terrorizzato dall’arrivo a Costantinopoli del generale Leone – già
acclamato imperatore dalle truppe –, alla guida di quanto rimaneva
dell’esercito imperiale sconfitto.
Michele I ricevette la tonsura e, con i suoi figli, concluse la sua vita in
monastero, sull’isola di Kinaliada.

5. IL “SECONDO ICONOCLASMO” (813-843):


LA CONDANNA PARZIALE DELL’IMMAGINE
COME RESTAURAZIONE DELL’IMPERO

5.1. Leone V (813-820) e il concilio di Santa Sofia:


«L’ immagine dal nome falso»
Quando, nell’813, Leone V salì al trono90, egli ereditò una nazione
lacerata al suo interno tra diverse correnti, indebolita dalle pesanti – e
umilianti – sconfitte patite sul confine bulgaro e, soprattutto, alla mercè
del khan che non aveva più ostacoli a separarlo dalle porte della capita-
le 91. È in questi mesi concitati dell’813, segnati dalla crescente angoscia
per il timore di un epilogo imminente, che la popolazione di Costanti-
nopoli – e i militari in particolar modo –, accorsero spontaneamente at-
torno alla tomba di Costantino V – colui che gli iconofili avevano sprez-
zantemente definito il “Caballino” o, peggio ancora, il “Copronimo” –,

Cfr. Sophoulis, Byzantium and Bulgaria, 217-245.


89

Sulle origini di Leone V, cfr. ancora N. Adontz, Sur l’origine de Léon V, empereur
90

de Byzance, in Id., Études Arméno-Byzantines, Bertrand, Lisbonne 1965 (Bibliothèque ar-


ménienne de la Fondation Calouste Gulbenkian), 37-46. Su questo regno, cfr. ora anche
J. Signes Codoñer, Nuevas consideraciones sobre el emperador León el Armenio, in Habis 25
(1994) 359-378.
91 Nel poco tempo disponibile, Leone V ordinò di rafforzare le mura di Costantinopo-

li e quando, dopo essere arrivato con il suo esercito alle porte della capitale, il khan Krum
offrì all’imperatore un colloquio di pace, Leone V accettò, tramando di uccidere in quell’oc-
casione il suo nemico, ma fallì. La furia con cui i Bulgari depredarono, deportarono, di-
strussero e devastarono tutto ciò che incontrarono dalle mura della capitale sino alla loro
patria – dove immediatamente iniziarono i preparativi per tornare all’assedio di Costanti-
nopoli – produsse un trauma indelebile nell’immaginario popolare.

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Alle origini di un equivoco 55

invocandone l’intervento: il popolo chiedeva all’ultimo imperatore vitto-


rioso sui Bulgari di riprendere la redini dell’impero.
L’episodio aiuta a capire perché, pur avendo sottoscritto una profes-
sione di fede iconofila per assidersi sul trono92, sin dall’814 Leone V ab-
bia perseguito una politica di “immedesimazione” con Costantino V
(proprio nell’814 associò il figlio Simbatio al trono, facendogli assumere
il nome di Costantino). Leone V fece dell’iconoclasmo l’architrave della
sua scommessa politica e di governo – egli stesso «condivideva la sensa-
zione che le vittorie dei Bulgari fossero una punizione divina per il ripri-
stino ‹del culto› delle icone»93. Naturalmente la scelta dell’imperatore non
era dettata da pura suggestione; con il rilancio della politica iconoclasta,
egli mirava infatti a conseguire diversi obiettivi:
1. consolidare le fila dell’esercito, per lo più iconoclasta (si pensi all’in-
tervento di militari nel 786 per impedire lo svolgimento, a Costan-
tinopoli, del concilio iconofilo poi celebratosi a Nicea);
2. intervenire attivamente nella vita della Chiesa, ricuperando una
posizione di prevalenza che, sin dal tempo di Irene, era stata pro-
gressivamente abbandonata;
3. unificare la pratica della Chiesa imperiale;
4. unificare idealmente e identitariamente l’impero94.

92 Così afferma Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6305 (502). Cfr.

D. Turner, The Origins and Accession of Leo V (813-820), in Jahrbuch der Österreichischen
Byzantinistik 40 (1990) 171-204.
93 W. Treadgold, The Byzantine Revival. 780-842, Stanford University Press, Stanford

(CA) 1988, 204. Per il regno di Leone V, cfr. Sophoulis, Byzantium and Bulgaria, 245-249.
Fino a tutto l’813, Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6305 (497-503), pre-
senta Leone V come un imperatore devotamente iconofilo. Purtroppo la Cronografia di Teo-
fane si interrompe proprio con quest’anno. Un’analisi delle motivazioni che spinsero l’im-
peratore al ritorno all’iconoclasmo è svolta da J. Signes Codoñer, The Emperor Theophilos
and the East, 829-842: Court and Frontier in Byzantium during the Last Phase of Iconoclasm,
Routledge, London - New York (NY) 2014 (Birmingham Byzantine and Ottoman Studies
13), 13-31.
94 Il fattore identitario fu di particolare importanza per un impero che aveva più confi-

ni che terre: si decideva con esso della capacità di resistere alle pressioni – militari ma, so-
prattutto, culturali – che costantemente venivano esercitate sui territori bizantini; cfr. J. Si-
gnes Codoñer, Helenos y Romanos: la identidad bizantina y el Islam en el siglo IX, in Byzantion
72 (2002) 404-448.

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56 Le matrici di una critica

Leone V era del tutto consapevole che l’unica possibilità che realisti-
camente gli si prospettava era quella di un iconoclasmo moderato, quasi
solamente “di principio”, per evitare che una politica più intransigente si
risolvesse nell’ennesima ferita al corpo già indebolito dell’impero.
Quando ancora questa decisione era in gestazione, in fase di sostan-
ziale sperimentazione, avvenne il miracolo: il 14 aprile 814, mentre era in
marcia verso Costantinopoli alla testa di un esercito potentemente arma-
to e dotato di macchine d’assedio imponenti, il khan Krum morì improv-
visamente. Questo evento fu letto da molti come una sorta di “benedi-
zione” divina, concessa a suggello della scelta di abbracciare nuovamente
l’iconoclasmo: «Leone deve aver considerato, comprensibilmente, che i
sovrani iconofili erano stati tutti deposti o morti in battaglia, al contrario
dei successi dei loro predecessori […] iconoclasti»95.
L’imperatore compose dunque una prima commissione teologica, sot-
to la guida del giovane monaco Giovanni, il “Grammatico”, per riesami-
nare la questione e, ottenutone il consueto dossier documentario (biblico
e patristico), lo presentò al patriarca Niceforo, il quale semplicemente
rispose osservando che i passi sottoposti alla sua attenzione condannava-
no l’idolatria, non le immagini sacre.
L’imperatore allora formò una seconda commissione, guidata questa
volta dal vescovo Antonio di Syllaion, che produsse un secondo documen-
to, basato sugli Atti del concilio di Hieria del 754 – assise già condannata
dal Sinodo Lateranense del 769 e dal secondo concilio di Nicea del 787 –,
che fu nuovamente sottoposto al patriarca Niceforo. Con un’importante
postilla: «Questa volta al patriarca fu detto che, dal momento che i solda-
ti incolpavano le immagini per le loro sconfitte per mano dei Bulgari, il
patriarca e l’imperatore avrebbero dovuto scendere a compromessi; Leone
propose ‹quindi› di rimuovere quelle icone appese in basso (τὰ χαμηλά)»96.
Niceforo rifiutò nuovamente di sottoscrivere il documento inviatogli,
non accettò la proposta di compromesso e si rifiutò anche di intrapren-

95 Brubaker - Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era: A History, 367.


96
Brubaker - Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era: A History, 369.

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Alle origini di un equivoco 57

dere un pubblico dibattito sulla questione – era già stato celebrato un


concilio sul tema! –; tentò, adottando la strategia delle “lettere di comu-
nione”, di far schierare dalla sua stessa parte vescovi e abati: ma era ormai
evidente che si stava profilando un nuovo scontro e questo bastò per in-
durre molti alla prudenza.
Leslie Brubaker e John Haldon giustamente sottolineano come la po-
sizione di Leone V fosse assai meno radicale di quella che aveva caratte-
rizzato il primo iconoclasmo: è lecito affermare che egli volesse dichiara-
re formalmente e idealmente la sua contiguità con gli ultimi imperatori
vittoriosi e che impiegasse la questione delle immagini sacre per ribadire
la sua funzione di arbiter et magister Ecclesiae 97.
La crisi che ormai era aperta tra “sacro palazzo” e patriarcato, però,
costringeva entrambi i contendenti a una posizione sempre più intransi-
gente e, com’era inevitabile, ben presto riverberò nella popolazione di
Costantinopoli e soprattutto nelle fila dell’esercito che, guidato dalle
guardie palatine, intonando cori iconoclasti, si radunò sotto la porta di
Chalke per prendere a sassate la stessa icona di Cristo che Irene aveva
fatto ricollocare dopo che, sotto Leone III, era già stata rimossa una pri-
ma volta (725-726)98.
Di nuovo, pur se con il pretesto di sopire il malcontento e proteggere
l’effige del Salvatore dalla violenza popolare, un imperatore ordinò che
l’icona di Cristo fosse tolta dalla porta monumentale del “sacro palazzo”:
dal canto loro, gli iconofili risposero a questa decisione radunandosi nel
palazzo patriarcale e, dopo aver denunciato pubblicamente il documento
sottoposto dall’imperatore al patriarca, proclamarono la loro opposizione
all’iconoclasmo sino al martirio, recandosi infine processionalmente a
Santa Sofia. Era il 24 dicembre 815.

97 Cfr. Brubaker - Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era: A History, 369-370. Sulla

corrispondenza tra “sacro palazzo”, patriarcato, episcopati e monasteri in questa fase del se-
condo iconoclasmo, circa la funzione ecclesiale dell’imperatore, cfr. il prospetto tracciato
da M. Kaplan, Le saint, l’ évêque et l’Empereur: l’ image et le pouvoir à l’ époque du second ico-
noclasme d’après les sources hagiographiques, in Bulletin de l’Institut Belge de Rome 69 (1999)
185-201.
98 Vedi supra, pp. 27-29.

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58 Le matrici di una critica

Dal giorno successivo, imperatore e patriarca iniziarono a incontrarsi


per cercare di delineare una via d’uscita comune prima che lo scontro si
radicalizzasse, ma senza fortuna. La successiva malattia del patriarca Ni-
ceforo e poi le sue dimissioni in polemica con il “sacro palazzo” permi-
sero a Leone V di nominare patriarca Teodoto Melisseno99 – parente di
Costantino V –: a Pasqua dell’815 si erano costituite le condizioni fon-
damentali per l’indizione di un nuovo concilio sul tema delle immagini
sacre.
Subentrato il nuovo patriarca, nell’815 il concilio di S. Sofia venne
immediatamente celebrato. Esso produsse un Enunciato finale accompa-
gnato, come di consueto, da un florilegio patristico volto a comprovarne
le decisioni: la sconfessione del secondo concilio di Nicea (787) e il con-
seguente rilancio dell’Enunciato finale del concilio di Hieria (754)100.
Ciò che appare assai significativo in questo caso è sia la strategia sia la
modalità con cui i padri conciliari cercarono di perseguire le loro decisioni:
1. In tutto l’Enunciato finale, il Concilio si espresse in forma impera-
tiva in un’unica occasione, bandendo la produzione e l’esposizione
nelle Chiese delle «immagini dal nome falso (tōn pseudōnymōn
eikōn)»101; per il resto l’assise si limitò a ribadire decisioni già as-

99 Cfr. T. Pratsch, Theodotos I. (Melissenos “Kassiteras”) (1. April 815 - Januar 821), in Li-

lie (hrsg.), Die Patriarchen, 148-155. Fu uno dei più vivaci sostenitori del ritorno all’iconocla-
smo, come pure sottolinea Signes Codoñer, The Emperor Theophilos, 78. La scelta era da prin-
cipio caduta su Giovanni il Grammatico, ma il senato si oppose, impedendone la nomina.
100 Colpisce osservare come la fase conclusiva della disputa iconoclasta (il “secondo ico-

noclasmo”) si sia di fatto costituita come una competizione tra eredità – quella iconoclasta
e quella iconodula –, più che come una prosecuzione della discussione vera e propria: il con-
cilio di Santa Sofia, infatti, sostanzialmente si limitò a rilanciare Hieria, così come la “gran-
de restaurazione” di Teodora coincise con una nuova sottoscrizione dell’Enunciato finale del
secondo niceno.
101 Concilio di Santa Sofia, Frammento 14. È interessante la scelta lessicale (pseud-ōnymos)

compiuta dal Concilio per definire l’icona: non mi sembra avventato pensare a una dipenden-
za dalla tradizione eresiologica che “nel nome di Cristo” situava solo quanti rientravano nell’or-
todossia. Gli “eretici”, al contrario, stavano “nel nome” dei fondatori dei loro movimento, da
cui, in contrapposizione a “cristiani”, stavano tutte le altre classificazioni – ancora troppo
spesso impiegate in storiografia (“valentiniani”, “marcioniti”, “montanisti”, “ariani”, “dona-
tisti” ecc.). Definire l’immagine degli iconoduli come «immagine dal nome falso» può signi-
ficare, dunque, affermare che l’immagine di Cristo, della Vergine e dei santi è eretica.

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Alle origini di un equivoco 59

sunte. L’obiettivo era quello di presentare il nuovo concilio come


il ripristino di una teologia antica, riconducibile a Costantino V,
imperatore – in quel momento – amato e rimpianto.
2. Come giustamente sintetizzava Paul Julius Alexander: «L’Oros fu
redatto fortiter in modo, fortiter in re theologica sed suaviter in re ec-
clesiastica»102; l’imperatore evitò infatti una contrapposizione fron-
tale con i dissenzienti, limitandosi ad allontanarli dalle loro man-
sioni ed, eventualmente, a esiliarli, ma solo nel caso di una
pubblica contestazione delle decisioni conciliari103.
3. Il Concilio esplicitamente si rifiutò di chiamare le icone “idoli”,
appellandosi al principio della gradualità del male: vi sono diversi
“gradi” di male, gli idoli sono – rispetto alle figure – il grado peg-
giore, certamente non raggiunto dalle figure di Cristo, della Ver-
gine e dei santi, che sono tutt’al più oggetti inutili. Di conseguen-
za nessun riferimento venne fatto alla distruzione delle immagini
(ci si limitò alla loro rimozione).
Il Concilio seppe aggregare, proprio per il suo tono “conciliatorio”104,
un consenso rilevante tra il clero bizantino e anche presso diversi mona-
steri, isolando sia il decaduto patriarca Niceforo sia il campione dell’an-
ti-iconoclasmo, il monaco Teodoro105 – igumeno del monastero costan-

Alexander, The Iconoclastic Council of St. Sophia (815), 41.


102

Cfr. Brubaker - Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era: A History, 380: «Sebbene
103

la venerazione delle immagini sacre non fosse tollerata nei luoghi pubblici di rilievo, le per-
sone potevano effettivamente fare ciò che desideravano in privato, purché riconoscessero la
legittimità del patriarcato iconoclasta ».
104 Cfr. Brubaker - Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era: A History, 374.
105 La teologia sull’icona di Teodoro è straripante, sia per l’argomentazione che la sup-

porta sia per la produzione che essa determinò. Cfr. C. Scouteris, La personne du Verbe In-
carné et l’ icône. L’argumentation iconoclaste et la réponse de saint Théodore Studite, in Boe-
spflug - Lossky (éds.), Nicée II, 787-1987, 121-134; C. Schönborn, La lettre 38 de saint
Basile et le problème christologique de l’ iconoclasme, in Revue des Sciences Philosophiques et
Théologiques 60 (1976) 446-450 (particolarmente importante per la genesi della teologia
dell’“ipostasi composta”: cfr. anche G. Gambino, L’ icona di Cristo come ipostasi composta ne-
gli Antirretici di Teodoro Studita, in A. Musco [cur.], Contrarietas. Saggi sui saperi medie-
vali, Officina di Studi Medievali, Palermo 2002 [Machina philosophorum 5], 31-56, in
part. 33-36, a cui rinvio anche per la bibliografia sul tema: «L’unità divinoumana di Cristo
[…] Teodoro definisce ipostasi composta […]. L’ipostasi non designa il concreto rispetto

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60 Le matrici di una critica

tinopolitano di Studio, costretto all’esilio –, che nell’814 era stato


flagellato per la sua aperta opposizione nei confronti della politica icono-
clasta dell’imperatore.
Le sorti del Concilio, proposto alla popolazione come occasione per
riappropriarsi di una storia bruscamente interrotta nel 787, furono segna-
te dalla battaglia di Mesembria: «La piccola ma molto significativa vit-
toria sulle forze bulgare ottenuta nell’816 fu intesa come una dimostra-
zione del sostegno divino alla politica imperiale e incoraggiò diversi
iconofili ad abbandonare la loro opposizione e a prendere la comunione
con il patriarca Teodoto»106.
Rientrato a Costantinopoli nel giorno di Pasqua, il 20 aprile 816, Leo-
ne V trionfò intestandosi una vittoria – e un accordo di pace trentenna-
le – che interrompeva un lustro di umiliazioni belliche e soprattutto,
com’era ormai uso sin dai tempi della battaglia al Ponte Milvio (312) –
quando Costantino I, il “Grande” vinse «in hoc signo» –, poté provare la
bontà della sua politica religiosa, certificata dal sigillo di una “provviden-
ziale” quanto “prodigiosa” vittoria militare.

5.2. Michele II (820-829): “Costantinopoli val bene un’ icona”


Il regno di Leone V, consolidata la frontiera bulgara, conobbe un raf-
forzamento anche di quella araba (nell’817 fu ricostruita la fortezza di
Camaco) e tuttavia la posizione dell’imperatore non solo non ne uscì raf-

all’astratto dell’ousia (Basilio), ma ciò in cui l’ousia esiste, principio stesso della sua esisten-
za » [ivi, 35]); T.T. Tollefsen, St Theodore the Studite’s Defence of the Icons. Theology and Phi-
losophy in Ninth-Century Byzantium, Oxford University Press, Oxford 2018 (The Oxford
Early Christian Studies), in part. 67-97.
106 Brubaker - Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era: A History, 384. Si trattò per la

verità di un evento bellico di modeste proporzioni (per il suo svolgimento e per la pace tren-
tennale che in seguito ad esso fu siglata, cfr. Sophoulis, Byzantium and Bulgaria, 275-286),
sul quale, tuttavia, l’imperatore aveva ampiamente investito dal punto di vista “program-
matico”. Cfr. anche Treadgold, The Byzantine Revival, 215, circa la “spettacolarizzazione”
di questa campagna, per la quale evidentemente l’imperatore si era molto impegnato già du-
rante la sua preparazione: «Durante i primi due mesi dell’816 […] Leone […] chiamò a Co-
stantinopoli alcuni iconofili […]. Dovevano essere tenuti in custodia nella capitale duran-
te la spedizione, apparentemente nella speranza che il suo successo li convincesse
dell’errore delle loro opinioni».

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Alle origini di un equivoco 61

forzata, ma divenne sempre più precaria. Non a caso la sortita organiz-


zata da Michele, l’Amoriano (dal nome della sua città natale, Amorio),
un tempo cognato dell’imperatore e poi, dopo il divorzio di quest’ultimo,
suo avversario e nemico (venne imprigionato dall’imperatore nell’820),
benché del tutto improvvisato, potè concludersi in modo tanto efferato
quanto clamoroso. Durante la messa di Natale, sostenitori di Michele
entrarono nel “sacro palazzo”, penetrarono sin nella cappella di Santo
Stefano e lì uccisero Leone. Ancora in catene, Michele fu liberato e inco-
ronato in quello stesso giorno dal patriarca107: una nuova dinastia, quel-
la amoriana, vedeva così la luce, nella più bizantina delle posture regali.
Poiché il nuovo imperatore aveva potuto organizzare il suo golpe fa-
cendo leva sulle diffuse e malcelate esitazioni di molti officiali imperiali
non convinti dalla scelta iconoclasta di Leone V, Michele inaugurò il suo
regno proclamando una parziale amnistia per quanti erano stati esiliati
per la propria iconofilia (tra questi Teodoro lo Studita). Ciò non di meno
egli mantenne formalmente l’indirizzo iconoclasta stabilito da Leone108,
cercando di far propria la funzione di garante e arbitro che il suo prede-
cessore aveva cercato di ritagliarsi.
La decisione di proseguire con la politica iconoclasta di Leone V si
capisce meglio tenendo presente che il regno di Michele II fu minacciato
profondamente dalla grave rivolta di Tommaso lo Slavo (821-823), un
commilitone e amico di Leone V, che si rifiutò di riconoscere Michele
come imperatore e fu proclamato, a sua volta, imperatore dal tema (di-

107 Cfr. D.E. Afinogenov, The Conspiracy of Michael Traulos and the Assassination of Leo V:

History and Fiction, in Dumbarton Oaks Papers 55 (2001) 329-338. Cfr. anche Brubaker - Hal-
don, Byzantium in the Iconoclast Era: A History, 385; Pratsch, Theodotos I. (815-821), 154.
108 Dall’altra parte, il fronte iconofilo non solo mantenne la propria posizione, ma rea-

gì alle proposte di mediazione avanzate dall’imperatore, rilanciando la richiesta di assegna-


re il compito di definire la questione o a un concilio – presieduto dal patriarca Niceforo –
o al papa, ben facilmente investibile di un arbitrato finale: non solo si rifiutava il punto di
vista dell’imperatore, ma se ne discuteva anche il ruolo nelle questioni ecclesiali. Fu dun-
que forse per reazione che, quando il monaco Metodio rientrò nell’821 a Costantinopoli
(probabilmente di ritorno da un’ambasciata inviata a Roma da Niceforo I nell’815: ma or-
mai era cambiato il governo patriarcale con la nomina di Antonio) con una definizione di
ortodossia elaborata da papa Pasquale I, l’imperatore ordinò che Metodio fosse arrestato e
incarcerato come un traditore.

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62 Le matrici di una critica

stretto) anatolico già nell’821. «Finché Tommaso lo Slavo si rafforzava e


si atteggiava a vendicatore di Leone, la strategia scelta da Michele fu di
affermare di esser‹ne› il legittimo successore […]; abbandonare l’icono-
clasmo di Leone non avrebbe potuto che minare tale affermazione»109.
Sempre nel tentativo di legittimarsi come sovrano, Michele II decise di
sposare, alla morte della sua prima moglie, Tecla – la madre del futuro
imperatore Teofilo –, Eufrosine, figlia di Costantino VI. Per poterla spo-
sare, però, l’imperatore dovette prelevare la nuova consorte dal monastero
dove era stata reclusa – e dove era divenuta monaca – nel 797, dopo che la
nonna, Irene, aveva ordito l’assassinio del padre, Costantino VI. La scelta
di prelevare forzatamente una monaca dalla sua vita religiosa per sposarla
(823/824), com’è facile immaginare, non dovette giovare alla pretesa
dell’imperatore di venir riconosciuto arbitro delle vicende ecclesiastiche.
La fragilità della posizione di Michele II, costantemente impegnato a
consolidare il suo regno, lo costrinse, insomma, a perseguire la linea ico-
noclasta di Leone V senza però potersi permettere di affrontare apertamen-
te lo scontro con gli iconofili. Furono questa intrinseca debolezza e il ridot-
to spazio di manovra a escludere nell’821, alla morte del patriarca Teodoto
Melisseno, Giovanni il “Grammatico” per la successione – si trattava di
uno dei più fieri promotori dell’iconoclasmo, già incaricato da Leone V di
redigere, nell’814, il primo documento iconoclasta, all’epoca rigettato dal
patriarca Niceforo – (verrà nominato Antonio)110; d’altra parte, non poten-
dolo neppure penalizzare, data la posizione iconoclasta che egli aveva for-
malmente assunto, a Giovanni venne affidato il prestigioso ruolo di pre-
cettore del figlio dell’imperatore – già associato al trono –, Teofilo111.

Treadgold, The Byzantine Revival, 231.


109

Cfr. T. Pratsch, Antonios I. (“Kassymatas”) (24. März 821 - Januar 837, vor 21. Januar
110

837), in Lilie (hrsg.), Die Patriarchen, 156-168. Sarà uno dei più fedeli collaboratori di Mi-
chele II, avallandone ogni decisione, inclusa quella di sposare una monaca, che proprio il
patriarca scioglierà dai suoi voti. Sull’inattesa scelta di Antonio cfr. Signes Codoñer, The
Emperor Theophilos, 78.
111 Durante il regno di Michele II si svolse, nell’825, il sinodo franco di Parigi. L’impera-

tore di Costantinopoli aveva richiesto a Ludovico il Pio di spingere papa Eugenio II, appena
eletto con il determinante appoggio dell’imperatore franco, verso idee iconoclaste. Ludovico,
però, non intese decidere in materia ecclesiastica e anzi chiese al papa di poter sollecitare un

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Alle origini di un equivoco 63

La debolezza dell’imperatore – acuita anche dai malcontenti suscitati


dalla sua opera di riforma dell’esercito bizantino – e l’enorme indeboli-
mento che la rivolta di Tommaso lo Slavo aveva causato alle truppe bi-
zantine che, di fatto, si erano combattute per tre anni, fecero sì che, tra
824 e 827, gli Arabi riuscissero a sottrarre all’impero Creta e Sicilia.

5.3. Teofilo (829-842): l’ iconoclasmo come raison d’État dell’ impero


Il regno di Teofilo rappresentò per molti versi un momento di discon-
tinuità con il passato prossimo di Bisanzio: il nuovo imperatore era giovane,
colto e di gusti raffinati, era stato innalzato al trono senza ordire congiure,
senza spargimenti di sangue e senza neppure dover temere nemici agguer-
riti. La più urgente e scottante prova che lo attendeva era la necessità di
fronteggiare l’espansionismo arabo che minacciava il confine meridionale
dell’impero. Come si vedrà, il suo iconoclasmo si potrà comprendere solo
intrecciando le decisioni che l’imperatore prese su questo “fronte” con l’al-
talenante storia delle ostilità bizantino-arabe negli anni del suo principato.
Già provati dalle incursioni arabe dell’831, i distretti microasiani fron-
teggiarono, in rapida successione, un inverno, tra l’832 e l’833, insolita-
mente freddo e, nella primavera successiva, un’autentica razzia del raccol-
to, predato da un’inconsueta invasione di locuste: l’estate dell’833 si
presentò quindi per gli Arabi del califfo al-Ma’mūn come l’occasione idea-
le per aggredire l’impero, sofferente proprio sulla frontiera che loro inten-
devano violare.
La minaccia era reale e ad essa l’imperatore reagì sollecitando l’alleato
di Bisanzio più potente: Dio. Non disponendo, infatti, né del tempo né
delle risorse necessarie per rivolgere in suo favore la situazione sul terreno

sinodo di vescovi franchi sulla questione. Il sinodo, riunitosi dunque a Parigi nell’825, tentò
di maturare una posizione interlocutoria, condannando gli eccessi iconoduli ma anche, sulla
scorta delle Lettere di Gregorio Magno – già decisive per la definizione della posizione di Car-
lo Magno nel suo Capitulare contra Synodum del 792 –, rifiutando l’iconoclasmo e ratifican-
do quella sorta di “via media carolingia”, che tollerava le illustrazioni nelle parti più alte delle
chiese – dove, cioè, non potevano essere raggiunte dai fedeli, e quindi dove non potevano es-
sere venerate – come strumento pedagogico.

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64 Le matrici di una critica

di battaglia, egli decise di propiziarsi l’appoggio del «Signore degli eserci-


ti», inasprendo le misure contro gli iconofili. Un nuovo sinodo confermò
la condanna delle icone dell’815 e, nel giugno dell’833, Teofilo emanò un
editto che stabiliva l’arresto del clero iconofilo – secolare e monastico – e
la confisca delle sue proprietà: «Poiché, dopo diciotto anni, la maggior
parte dei vecchi vescovi iconofili era morta, il peso principale dell’editto
dell’imperatore ricadde sui monaci iconofili»112. Il 7 agosto di quell’anno,
durante un’avanzata apparentemente inarrestabile, all’altezza di Podandus
(nella parte più meridionale della Cappadocia), il Califfo morì, costrin-
gendo il suo esercito a ripiegare frettolosamente per ritornare, al termine
di una ritirata trafelata, a Baghdad, dove il suo successore, al-Mu‘tasim,
avrebbe potuto consolidare il suo potere:
Per Teofilo, come per qualsiasi iconoclasta convinto, il messaggio di Dio
non avrebbe potuto essere più chiaro. Quando Leone V aveva perseguitato gli
iconofili, era stato in grado di sconfiggere i Bulgari e gli Arabi e godere della
pace. Quando Michele II aveva ucciso Leone e tollerato gli iconofili, era scop-
piata la guerra civile e gli Arabi avevano sconfitto i Bizantini a Creta e in Sicilia.
Perché Teofilo aveva continuato la tolleranza di suo padre, gli Arabi lo avevano
sconfitto e minacciato di distruggere l’impero. Ma nel momento in cui aveva
ascoltato l’avvertimento divino e aveva ricominciato a perseguitare gli iconofi-
li, Dio aveva abbattuto il suo nemico Ma’mūn e fermato l’invasione araba 113.

Ovviamente le fortune bizantine – che erano state determinate dalla


capacità di sorprendere gli avversari più che da vittorie sul campo in con-
fronti diretti – produssero un radicale desiderio di vendetta nel califfo
al-Mu‘tasim, il quale, difatti, predispose un’armata di più di ottantamila
effettivi alla testa dei quali, l’anno successivo, avanzò sino alla conquista
di Amorio, la principale roccaforte bizantina in Asia Minore. Mai un’ar-
mata simile era stata condotta dagli Arabi in territorio bizantino.

Treadgold, The Byzantine Revival, 280.


112

Treadgold, The Byzantine Revival, 281. Contando sulla momentanea situazione di


113

difficoltà del califfato, Teofilo assunse l’iniziativa strategica, lanciandosi in una breve e for-
tunata campagna antiaraba nell’837: colti di sorpresa i suoi avversari, egli invase l’area
dell’alto Eufrate, saccheggiò Sozopetra e Samosata, devastò le terre armene mussulmane e
rese i principi armeni Ashot e il signore di Syspiritis vassalli bizantini. Tornò quindi in pa-
tria quale imperatore trionfante.

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Alle origini di un equivoco 65

L’imperatore replicò la strategia che reputava vincente: il 21 aprile 838,


dopo la morte del patriarca Antonio, nominò patriarca Giovanni VII, il
“Grammatico”114, il più strenue e rigoroso propugnatore dell’iconocla-
smo, intensificò la repressione anti-iconoclasta e, nel sinodo tenutosi nel-
la chiesa di Santa Maria della Blacherne, ottenne l’anatemizzazione degli
iconofili e la rimozione (per strappo o ricopertura) di tutte le pitture e di
tutti i mosaici religiosi.
Sfortunatamente, questa volta le scelte in materia religiosa non valsero
all’imperatore i risultati attesi in campo militare; al contrario, l’avanzata
degli Arabi risultò inarrestabile: il contingente imperiale, diviso e mano-
vrato con decisioni tatticamente scellerate, fu travolto, le offerte di pace
dell’imperatore furono sdegnosamente irrise, la stessa persona dell’impe-
ratore rimase in balia delle scelte dei suoi soldati e gli Arabi, nel mezzo di
questo umiliante tracollo bizantino, poterono raggiungere Amorio – la
città che aveva dato i natali a Michele II, padre dell’imperatore –, che cad-
de il 15 agosto. A frenare l’avanzata e la devastazione che gli Arabi stavano
compiendo nella regione fu solo la notizia di una ribellione in patria, per
sedare la quale il califfo decise di interrompere la sua “guerra santa”.
L’unica perdita duratura prodotta dall’invasione araba fu l’idea che il rigo-
roso iconoclasmo garantisse l’aiuto divino. In questo ambito, le apparenze era-
no ciò che contava, e nulla poteva nascondere il fatto che l’imperatore icono-

114 Cfr. R.-J. Lilie, Ioannes VII. Grammatikos (21. Januar 837 - 4. März 843), in Id.

(hrsg.), Die Patriarchen, 169-182. Si trattava di una figura di primo piano non solo nella vi-
cenda del “secondo iconoclasmo”, ma anche nel panorama culturale della Bisanzio del pri-
mo IX secolo, appartenente alla nobile famiglia dei Morocharzamioi (cfr. P. Lemerle,
Byzantine Humanism: The First Phase. Notes and Remarks on Education and Culture in By-
zantium from its Origins to the 10th Century, Brill, Leiden - Boston [MA] 1986 [Byzantina
Australiensia 3], 156, nota 112; sulla rete di parentele del Grammatico: cfr. Signes Codoñer,
The Emperor Theophilos, 78-81) – suo fratello Arsabero sposò Kalomaria, sorella dell’impe-
ratrice Teodora –, fu parente di Leone il Filosofo o, secondo alcuni, addirittua di Fozio (cfr.
comunque C. Settipani, Continuité des élites à Byzance durant les siècles obscurs. Les princes
caucasiens et l’empire du VIe au IXe siècle, De Boccard, Paris 2006 [De l’archéologie a l’hi-
stoire], 169-172; 340-342), prima di aderire alla causa iconoclasta fu corrispondente già di
Teodoro lo Studita. La sua formidabile cultura, che gli valse sin dalla giovinezza l’appella-
tivo di Grammatico, concorse in modo decisivo a forgiare quella specifica accusa di strego-
neria attorno alla quale verrà articolata la sua damnatio. Una dettagliata biografia di Gio-
vanni è stata tratteggiata da Lemerle, Byzantine Humanism, 153-168.

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66 Le matrici di una critica

clasta aveva subito una sconfitta senza precedenti nella sua umiliazione sin dai
tempi della morte di Niceforo I combattendo i Bulgari. Il risultato […] privò
per sempre gli iconoclasti della loro argomentazione più convincente per gli
indecisi, che l’iconoclasmo avesse vinto le battaglie115.

Per capire l’investimento ideale che l’imperatore aveva affidato al con-


nubio iconoclasmo-buon governo basta considerare la grave depressione
in cui cadde Teofilo dopo la disastrosa campagna dell’838: benché le
sconfitte subite, pur gravi, non fossero state molto diverse da altre già pa-
tite su quella frontiera, l’imperatore considerò quegli eventi un fallimen-
to personale e, soprattutto, la prova dell’inefficacia della sua strategia di
governo116.

6. LA “SECONDA RESTAURAZIONE”
E LA “VITTORIA DELL’ORTODOSSIA” (843): TEODORA

Alla morte dell’imperatore, il 20 gennaio 842, Teodora, la moglie


iconodula di Teofilo – scelta entro una teoria di pretendenti accurata-
mente selezionate da Eufrosine117 –, dopo aver diffuso la notizia di una
conversione dell’imperatore in articulo mortis all’iconodulia, gli subentrò
come reggente del piccolissimo Michele III.
L’anno successivo, nell’843, in seguito al lavoro di una commissione
d’inchiesta presieduta da Bardes, fratello di Teodora, Giovanni VII, il
Grammatico, fu fatto decadere dal soglio patriarcale e fu esiliato. Al suo

Treadgold, The Byzantine Revival, 305.


115

Nemmeno la vittoria contro Abu Sa’id nell’841 – il cui consueto raid fu interrotto e
116

respinto e gli invasori privati delle ricchezze già saccheggiate – né la tregua che, in seguito
a questa vittoria, Teofilo riuscì a sottoscrivere con il califfo al-Mu‘tasim bastarono all’im-
peratore per rilanciare la sua politica religiosa: egli rimase personalmente fedele al suo con-
vinto iconoclasmo ma non ne fece più il fondamento ideale del suo principato – si pensi al-
la moderata reazione contro Eufrosine, sua matrigna, che fu scoperta mentre segretamente
introduceva le figlie dell’imperatore alla prassi iconodula.
117 Sul matrimonio di Teofilo cfr. W. Treadgold, The Problem of the Marriage of the Em-

peror Theophilus, in Greek, Roman and Byzantine Studies 16 (1975) 321-345; M. Vinson,
The Life of Theodora and the Rhetoric of the Byzantine Bride Show, in Jahrbuch der Österreichi-
schen Byzantinistik 49 (1999) 31-60; W. Treadgold, The Historicity of Imperial Bride-Shows,
in Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik 54 (2004) 39-52.

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Alle origini di un equivoco 67

posto venne nominato quello stesso monaco Metodio118 che, di ritorno


da un’ambasciata a Roma, nell’821 era stato incarcerato dal suocero di
Teodora, l’imperatore Michele II, con il consenso del patriarca Antonio,
per via dell’impegno profuso contro la teologia iconoclasta.
Il nuovo patriarca sottoscrisse immediatamente – dopo soli quattor-
dici mesi dalla morte dell’imperatore – l’Enunciato finale del secondo
concilio di Nicea (787), ripristinò la presenza nelle Chiese delle icone e
reintrodusse la venerazione delle immagini di Cristo e dei santi: con una
grande processione le icone vennero riportate in Santa Sofia e, l’11 mar-
zo 843, celebrò solennemente la restaurazione della prassi iconodula dan-
do avvio a quella che il consenso popolare chiamerà da allora in poi la
“Festa dell’Ortodossia”.
Si chiudeva così una storia che, ormai, non aveva più nulla da dire (il
periodo del “secondo iconoclasmo” poco o nulla aggiunse all’impianto teo-
retico determinato dalle dispute del “primo”) e che aveva lacerato e inde-
bolito quello stesso impero a cui aveva preteso di voler dare un’identità 119.
La Vita di Teodora 120 descriverà anche le modalità con cui Dio per-
donò il defunto marito della regnante – di cui era già stata divulgata la

118 Teodora fu senz’altro una figura carismatica (cfr. Diehl, Figure bizantine, 107-124: «“La

prima virtù – scrisse un cronista dell’epoca – è di avere un’anima ortodossa”. Teodora questa
virtù la possedeva ampiamente. Ma di qualità ne aveva anche altre. Gli storici bizantini ne
vantano l’intelligenza politica, l’energia, il coraggio; le attribuiscono parole eroiche, come quel-
le con cui, dicono, ella arrestò un’invasione del re dei Bulgari: “Se trionferai su una donna, la
tua gloria sarà nulla; ma se ti farai battere da una donna, sarai l’oggetto di scherno del mon-
do intero”» [ivi, 116-117]; più recentemente, K.P. Todt, Die Frau als Selbstherrscher: Kaiserin
Theodora, die letzte Angehörige der Makedonischen Dynastie, in Jahrbuch der Österreichischen
Byzantinistik 50 [2000] 139-171, la definisce un’«autocrate»), la cui reggenza provò senza dif-
ficoltà la sua determinazione; cfr. Herrin, Women in Purple, 185-239, in part. 201-218.
119
Tale era la percezione di questa stanchezza, che si volle fare in modo che la fine dell’ico-
noclasmo fosse questa volta definitiva. Una serie di iniziative di forte impatto simbolico ven-
nero intraprese per “sigillare” questa fine irrevocabile: le spoglie di Costantino V vennero ri-
esumate, date alle fiamme e le ceneri gettate in mare; la sua tomba fu distrutta; Irene fu ca-
nonizzata e i suoi resti restituiti al mausoleo imperiale presso la chiesa dei Santi Apostoli; le
spoglie del patriarca Niceforo, quelle del monaco Teodoro lo Studita e degli altri esuli venne-
ro trattate con onore, come reliquie di martiri e di confessori della fede.
120 Cfr. F. Halkin (éd.), Euphémie de Chalcédoine: Légendes byzantines, Société des Bol-

landistes, Brussels 1965 (Subsidia hagiographica 41), 33-34. Cfr. anche cfr. Herrin, Women
in Purple, 205.

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68 Le matrici di una critica

conversione in punto di morte –: il nome di Teofilo era stato, infatti, in-


scritto nel registro degli eretici da condannare, ma esso miracolosamente
sparì da quella lista durante la nottata in cui il volume, come di consue-
to, era stato deposto sull’altare di Santa Sofia, in attesa di vedre l’indo-
mani formalmente ratificati gli anatemi.
Sorte assai peggiore toccò al deposto patriarca Giovanni, il quale,
benché risparmiato, dovette convivere fino alla sua morte con maldicen-
ze di ogni tipo: fu accusato anche di essersi costruito un «ipogeo del ma-
le (ponēron ergastērion)»121, dove avrebbe praticato la negromanzia e ogni
sorta di maleficio; fu inoltre incluso, suo malgrado, nel testo dell’Inno che
il suo successore, Metodio, aveva composto per l’annuale celebrazione
della “Festa dell’Ortodossia” – in esso Giovanni era esplicitamente defi-
nito «il precursore del Satana Anticristo».

7. L’EREDITÀ DELL’ICONOCLASMO
La vicenda iconoclasta, che aveva preso avvio sperando di fare della
riforma della prassi iconodula il cardine di una più ampia strategia di ri-
lancio della politica religiosa del “sacro palazzo” e di costituzione di un’i-
dentità “bizantina”, si tradusse ben presto in un serrato dibattito – più
che sull’immagine in quanto tale, sul suo eventuale culto e sulle moda-
lità di quest’ultimo – sulla possibilità di raffigurare la deità e, per questo,
sulla natura stessa del divino. Se, infatti, per un verso, la vicenda dell’i-
conoclasmo può – e deve – essere letta come uno strumento dell’“offici-
na ideale” del potere imperiale bizantino, d’altra parte essa si inserisce nel
solco aperto dal primo concilio di Nicea e dalla necessità di rivestire di
una struttura sistematica il pensiero cristiano relativo alla definizione di
Dio e al rapporto che con lui può intrattenere l’essere umano.
Ciò posto, è necessario osservare anche che, per quanto concerne elet-
tivamente l’immagine, benché l’esito della controversia sia sostanzialmen-

121 Prosecuzione di Teofane 4,8 (I. Bekker [hrsg.], Theophanes Continuatus, in Id. [hrsg.],

Theophanes Continuatus, Iohannes Cameniata, Symeon Magister, Georgius Monachus, Weber,


Bonn 1838 [Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae 45], 3-211, qui 157).

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Alle origini di un equivoco 69

te coinciso con la ratifica di quella stessa prassi da cui il dibattito aveva


preso le mosse – pur se arricchita di una più meditata costituzione teore-
tica –, sarebbe imprudente archiviare questa intera vicenda come una
sorta di parentesi incidentale a somma zero.
Credo si possa affermare che, limitatamente a quanto concerne la sto-
ria dell’“arte” cristiana, l’esito più incisivo di questa disputa debba essere
ravvisato nella nascita dell’immagine cristiana: non, ovviamente, dal
punto di vista “visuale” – venivano incise, dipinte e scolpite immagini
cristiane almeno dal II secolo – ma da quello “ideale”. La controversia
iconoclasta aveva, infatti, reso necessario ispezionare interamente la gam-
ma di significato che il concetto – prima ancora che l’oggetto – di im-
magine comportava nella sua declinazione cristiana: distinguendo tra
icona e idolo, tra figura e segno, tra somiglianza e assimilabilità, tra Pa-
rola e raffigurazione, tra economia e Verità, il dibattito iconoclasta aveva
teorizzato la possibilità della raffigurazione del divino, di fatto trasfor-
mando una pratica artistica in un esercizio della teologia cristologica o,
per lo meno, della sistematica platonica.
Ovviamente anche in questo caso, come idealmente sempre pretende
l’articolazione della teologia cristiana, doveva essere rispettato il principio
del “nihil refigere, nihil addere”: dal punto di vista dell’ideale ecclesiolo-
gico, infatti, la Chiesa in cui si aggrega il Popolo di Dio può solo tradere,
trasmettere, chiarendolo e propagandolo, quell’intatto depositum fidei che
ha ricevuto e che la costituisce in quanto tale. Questo implica che ogni
affermazione della Chiesa debba essere formulata come un’interpretazio-
ne della storia, anche quando – come in questo caso, pur se per successi-
ve implicazioni logiche – si introduce un nuovo argomento.
L’ideale dell’immagine cristiana, in altri termini, poteva nascere solo
sotto le spoglie di una sintesi di tradizione.
L’impresa di legittimare un passato iconodulo […] va di pari passo con l’af-
fermazione che questo passato è proprio della Chiesa, di cui costituisce la tra-
dizione (paradosis) […]. È interessante l’argomento dei vescovi del secondo ni-
ceno: i padri dei sei concili, dicono, hanno accolto le immagini con il resto di
tutto ciò che forma «la tradizione scritta e non scritta della Chiesa cattolica». Il
patriarca Niceforo sviluppa questo argomento, già presente in Giovanni Dama-

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70 Le matrici di una critica

sceno: la prosternazione davanti alle immagini è un’abitudine della Chiesa che


risale […] alle sue origini. Ora, dice, l’abitudine prevale sul diritto, perché «l’a-
bitudine, rafforzata dalla durata del tempo, assume valore di natura», ed è l’a-
bitudine, per definizione non scritta, che forgia tutto ciò che compone la vita
quotidiana della Chiesa, cioè la liturgia 122.

Il dato appena enunciato non sarebbe particolarmente rilevante se non


per l’implicita pretesa retro-proiettiva: se, infatti, l’immagine che venne
infine definita alla conclusione di questo lacerante dibattito altro non era
che l’interpretazione autentica della tradizione ricevuta e attestata inin-
terrottamente dalla Chiesa, allora in essa si poteva – si doveva! – inten-
dere rispecchiata tutta la tradizione visuale cristiana, sin dai suoi esordi,
nel II secolo. Non è un caso che la vittoria degli iconoduli fu consacrata
tramite l’istituzione della “Festa dell’Ortodossia”, una festa, cioè, che ideal-
mente celebrava il ristabilimento della prassi antica, non un nuovo tra-
guardo speculativo.
Si può dunque affermare che, mentre istituiva e definiva un ideale
dell’immagine sacra cristiana – forse addirittura fondando i presupposti
di un’estetica teologica e di una teologia estetica –, il dibattito iconoclasta
imponeva le proprie categorie su tutta la storia della tradizione visuale
cristiana, anche quella, ben più antica, che poco o nulla aveva a che spar-
tire con i temi, con le categorie e con i principi teoretici che caratterizza-
rono questa vicenda.
Fu per le necessità poste da questo peculiare processo “speculativo re-
trospettivo” che l’argomentazione di entrambe le parti venne fondata su
quei florilegi, biblici e patristici, che dovevano attestare, “per via docu-
mentaria”, l’antichità della posizione che ciascun contendente rivendicava
come propria. Il problema fu, però, che quegli stessi florilegia, circolanti
nel mondo alto medievale, recepiti e trasmessi negli atti conciliari e auto-
revolmente acquisiti nell’officina dei Libri carolini – si pensi al ruolo che
ebbe, in essi, l’opera agostiniana o gregoriana! – e, di qui, dopo la risco-
perta di quest’opera nel 1549, radicati sin nel cuore della Riforma, costi-

122 Auzépy, La tradition comme arme du pouvoir, 111-112.

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Alle origini di un equivoco 71

tuirono poi, quando da Accademie di tradizione riformata sorgeranno i


primi studi storico-critici sulle origini cristiane, il presupposto critico da
cui veniva riguardata l’origine della più antica cultura visuale cristiana.
Per riassumere, il conflitto tra le nostre due fonti documentarie, letteratura
e cultura materiale, è una cortina fumogena. Gli studiosi l’hanno sfruttata co-
me pretesto per giustificare un ritratto […] del cristianesimo delle origini come
una forma di religiosità fondamentalmente e irrevocabilmente aniconica […].
Questa immagine ha poca o nessuna base nelle fonti primarie che ci sono per-
venute. Essa è piuttosto un’immagine del cristianesimo primitivo creato da
polemisti bizantini e della Riforma, e un’immagine portata avanti nel periodo
moderno dai liberali ritschliani. Questo quadro non serve più a nessun utile
scopo storico (dubito che lo sia mai stato) e quindi merita di essere messo a ri-
poso – rispettosamente ma definitivamente – nel mausoleo delle storiografie
obsolete123.

Si può forse concludere affermando che l’ideale di “immagine cristia-


na”, i florilegi e la temperie dell’iconoclasmo – si pensi, sulla scorta del
decisivo ruolo giocato da due donne, Irene e Teodora, alla profonda ra-
dicazione dell’idea per cui l’immagine sia, nel cristianesimo, la risposta
a una domanda sostanzialmente “femminile” – hanno costituito il cano-
ne della coscienza critica riguardo al ruolo dell’immagine nella vita reli-
giosa cristiana. Ciò vale sia per i parametri teologici che qui, da ambo le
parti, furono stabiliti e che verranno ciclicamente ridiscussi e rilanciati
nelle molte storie cristiane sia per la valutazione storico-critica dello spa-
zio concesso e conferibile all’immagine.

123 Corby Finney, The Invisible God, XII.

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II.

IL MEDIOEVO:
IL “VALORE IDEALE” DELL’ARTE DI ROMA

Non è questa la sede per ripercorrere la “storia dell’immagine cristia-


na” nel Medioevo latino: si tratta infatti di un’epoca tanto importante
quanto complessa, che allargherà ancor più la forbice con ciò che costi-
tuiva la prima cultura visuale dei discepoli di Gesù, il Cristo, introdu-
cendo le premesse, tra l’altro, per l’emergere di ideali di “artista” (che, dal
XIV secolo, sostituirà quello di magister) e di “opera” ancor più prossimi
a quanto oggi si implica, più o meno consapevolmente, con il concetto
di “arte”1. Si può forse affermare che il Medioevo latino inizierà a rico-
noscere, di fronte all’“immagine artistica”, ciò che Walter Benjamin
chiamò «aura»2: non certo una sorta di quidditas dell’oggetto – una sor-

1 Come annota D. Ianiro, Dialettica e ontologia nella dottrina carolingia delle immagini:

i Libri Carolini e le loro fonti, Ph.D. Diss., Salerno, a.a. 2010-2011, 139, per i Libri carolini
«il valore delle immagini dipende esclusivamente dalla qualità del lavoro dell’artista che le
ha create» (cfr. Libri carolini 3,16: A. Freeman [hrsg.], Opus Caroli Regis Contra Synodum
(Libri Carolini), Hahnsche Buchhandlung, Hannover 1998 [Monumenta Germaniae Hi-
storica, Concilia, 2, Supplementum 1], 410).
2 «L’hic et nunc dell’originale rappresenta l’idea della sua autenticità, e sulla base di que-

sta, a sua volta, poggia l’idea di una tradizione che ha trasmesso questo oggetto come og-
getto uguale e identico fino a oggi. L’ intero ambito dell’autenticità si sottrae alla riproduci-
bilità tecnica, e naturalmente non soltanto a quella tecnica […]. Questi tratti distintivi
possono essere riassunti nella nozione di aura; e si può dire: ciò che viene meno nell’epoca
della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte è la sua aura. Il processo è sintomatico; il suo
significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione, cosi si potreb-
be formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riprodu-
zione, al posto del suo esserci unico essa pone il suo esserci in massa. E permettendo alla riprodu-
zione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il
riprodotto»: W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [prima ste-
sura], in E. Ganni (cur.), W. Benjamin, Opere complete, 6: 1934-1937, Einaudi, Torino 2004,
271-303, qui 273-274.

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Il “valore ideale” dell’arte di Roma 73

ta di “proprietà intrinseca” del quadro, della statua ecc. –, ma un modo


con cui la società si disponeva a osservarlo.
La nozione di aura di Benjamin è stata spesso fraintesa come una perdita da
parte dell’opera d’arte delle sue caratteristiche di unicità e distanza sotto le mo-
derne tecnologie di riproduzione, ma Benjamin afferma chiaramente […] che
questo è solo un fenomeno «sintomatico» di processi più ampi di cambiamento
sociale. Se per Benjamin l’aura è meno una proprietà delle opere d’arte che del-
le relazioni sociali in cui sono viste, allora il decadimento dell’aura si riferisce
alla dissoluzione delle relazioni sociali attraverso la tecnologia in generale e le
tecnologie di produzione e riproduzione visiva in particolare 3.

Ecco: in questo specifico senso, il Medievo latino, colto nella sua inte-
rezza di epoca complessa, rappresentò la stagione in cui si iniziò a guarda-
re al dipinto, alla statua ecc. come a “opere d’arte”, e al pittore, allo scul-
tore ecc. come a degli “artisti”4.
Mentre è forse sufficiente confinare a questo semplice accenno l’evo-
cazione di tale qualificante difformità con il Sitz im Leben delle origini
cristiane, mi pare utile provare ad affrontare più dettagliatamente il que-
sito circa il destino toccato alla più antica documentazione visuale cri-
stiana, dal punto di vista materiale e dal punto di vista ideale. Il doppio
registro di questa domanda dipende da altrettante circostanze.
Per un verso, infatti, esso tiene conto del fatto che nel “Medioevo lati-
no” gli episodi di distruzione e rimozione del patrimonio iconico cristiano
delle origini furono assai più limitati, per numero e per intensità, rispetto
a quelli che, talora sistematicamente, accompagnarono l’edificazione di
una cultura islamica, l’iconoclasmo bizantino e la finale dissoluzione di
questa stessa tradizione: diventa perciò interessante capire non solamente
come il Medioevo latino abbia descritto teoreticamente quella più antica
produzione visuale cristiana, ma anche quale destino sia “concretamente”
toccato a quegli oggetti, a quelle pitture, a quelle sculture.

3 H. Caygill, Walter Benjamin and Art Theory, in P. Smith - C. Wylde (eds.), A Compan-

ion to Art Theory, Blackwell, Oxford - Malden (MA) 2002 (Blackwell Companions in Cul-
tural Studies), 286-291, qui 289.
4 Cfr. J. Wirth, L’ image à l’ époque romane, Cerf, Paris 1999, 61-72.

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74 Le matrici di una critica

Per altro verso, la speculazione dell’ideale di immagine cristiana rice-


vette, nella stesura dei Libri carolini, un fondamentale contributo sul
quale reputo necessario preliminarmente soffermarsi.

1. I LIBRI CAROLINI
Come noto, i Libri carolini videro la luce in un contesto particolare:
all’indomani del secondo niceno (787), Carlo – escluso dalla preparazio-
ne del Concilio che egli, in quanto «patricius Romanorum» (dal 774),
riteneva di dover concorrere a organizzare, e neppure invitato a parteci-
pare ai lavori – si rifiutò di recepire l’Enunciato finale e i ventidue Cano-
ni elaborati dai padri conciliari. Ne nacque una breve, intricata vicenda
che occupò poco più di un lustro, tra il 7885 e il 793/794 6, e che, anche
tramite il Sinodo di Francoforte del 794, concorse in modo decisivo a
formare un ideale “occidentale” dell’immagine.
La critica ha giustamente riconosciuto nella reazione carolingia al se-
condo niceno un tentativo di perseguire le ambizioni della corte franca
sullo scacchiere internazionale, favorito dall’occasione di rendere una di-

5 Quando la corte di Carlo ricevette la prima traduzione dell’Enunciato finale del II ni-

ceno. La data è solo plausibile. Certamente il terminus ante quem è il 792, quando gli An-
nali di York annotano l’invio da parte di Carlo, in Britannia, di una copia della traduzione
latina dell’Enunciato finale. Ha ragione T.F.X. Noble, Images, Iconoclasm, and the Carolin-
gians, University of Pennsylvania Press, Philadelhia (PA) 2009 (The Middle Ages), 161, a
chiedersi da dove provenisse questa povera traduzione che raggiunse la corte di Carlo. Plau-
sibilmente non dalla sede pontificia, dal momento che non rimane traccia, neppure indi-
retta, di questo eventuale invio nel Codex Carolinus, il volume di cancelleria papale dedica-
to ai rapporti con i Franchi. Probabilmente a Roma non era avvertita la necessità di inviare
ai Franchi la traduzione degli Atti di un concilio saldamente governato dal vescovo di Ro-
ma, dal momento che nel 767 e nel 769, la delegazione episcopale franca aveva sottoscritto
i sinodi di Gentilly e del Laterano, dei quali a Roma Nicea II era considerata un’ulteriore
affermazione.
6 Quando l’Hadrianum o Responsum, la risposta pontificia ai dubbi che Carlo aveva

espresso nel suo Capitulare de imaginibus, portò all’abbandono della redazione dei Libri ca-
rolini. Il Responsum adrianeo è uno dei più estesi documenti pontifici di tutto il Medioevo:
il che può servire a raffigurare la misura della radicalità della risposta romana. Una storia
di questa vicenda è tratteggiata dettagliatamente nel capitolo: «I Franchi e Nicea » da No-
ble, Images, Iconoclasm, and the Carolingians, 158-206. Utile è anche la sintesi di Neil, The
Western Reaction, in particolare 548-552.

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Il “valore ideale” dell’arte di Roma 75

sputa religiosa un’autentica exercitatio regia per accreditare il Rex Franco-


rum et Longobardorum come legittimo erede dei principi della Roma im-
periale7. Sebbene questo elemento sia innegabile, non va d’altra parte
dimenticato che i Libri carolini rappresentano un dispositivo intellettua-
le di ben maggiore portata rispetto alla semplice confutazione del secon-
do concilio di Nicea né la loro ampiezza e accurata redazione possono
essere rubricate a mero espediente politico e diplomatico 8.
Sul piano dell’argomentazione, però, l’occasione della reazione caro-
lingia e di questa imponente architettura era stata parzialmente fondata
su un presupposto purtroppo del tutto inconsistente. Per un difetto di
traduzione, infatti, nella versione latina di cui entrò in possesso, proba-
bilmente nel 788, la corte di Carlo, il concetto di «proskynēsis (“omag-
gio”)» di fronte alle immagini, effettivamente ratificato dal Concilio, era
stato reso con il latino “adoratio”, che ovviamente implicava l’idea dell’i-
dolatria, che è funzione di quella latreia (pure tradotta con “adoratio” nel
testo escusso dai carolingi), esplicitamente esclusa dai padri conciliari
nell’Enunciato finale 9.

Questo argomento è ormai stato largamente accreditato dalla critica: non è dunque il
7

caso di richiamare l’amplissima bibliografia che ne fa menzione. Mi pare rilevante qui ri-
cordare la centralità del tema dell’immagine non solo nella definizione dei rapporti politi-
ci in Bisanzio (e nell’Occidente latino) ma anche nella diplomazia tra i diversi regni: cfr. a
questo proposito M. McCormick, Textes, images et iconoclasme dans le cadre des relations en-
tre Byzance et l’Occident carolingien, in Testo e immagine nell’alto medioevo. 15-21 aprile 1993,
CISAM, Spoleto 1994 (Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioe-
vo 41), 1, 95-158.
8 Sulla funzione anche diplomatica e politica della presa di posizione franca nella dispu-

ta delle immagini, cfr. H.G. Thümmel, Karl der Große, Byzanz und Rom: Eine Positionsbe-
stimmung am Beispiel des Bilderstreits, in Zeitschrift für Kirchengeschichte 120 (2009) 58-70.
È comunque utile ricordare che l’anno in cui si celebrò il secondo concilio di Nicea (787)
fu lo stesso in cui il fidanzamento tra Costantino VI e Rotrude, figlia di Carlo, venne rot-
to, a significare l’inasprimento dei rapporti tra Aquisgrana e Bisanzio.
9 Sia Lingua, L’ icona, l’ idolo e la guerra delle immagini, 221, nota 12 (che si basa su G.

Haendler, Epochen karolingischer Theologie: eine Untersuchung über die karolingischen Gu-
tachten zum byzantinischen Bilderstreit, Evangelische Verlagsanstalt, Berlin 1958 [Theologi-
sche Arbeiten 10], 68-106; J. Wirth, Il culto delle immagini, in E. Castelnuovo - G. Sergi
[curr.], Arti e storia nel medioevo, 3: Del vedere: pubblici, forme e funzioni culturali, Einaudi,
Torino 2004, 3-47, qui 10), sia Ianiro, Dialettica e ontologia, 76, reputano che questo ele-
mento sia sovrastimato dalla critica, sottolineando come il latino “adoratio” costituisca una
traduzione adeguata per restituire appieno il concetto della proskynēsis. Il punto, a me sem-

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76 Le matrici di una critica

Carlo inviò quindi a Roma, nel 792, il suo legato Angilberto con al-
cuni capitula (contenuti nel Capitulare contra Synodum) che raccoglieva-
no i rilievi del re alle conclusioni del concilio di Nicea del 787: il Capitu-
lare era un’anticipazione del contenuto dei Libri carolini, – noti anche
come Opus Caroli regi –, ambiziosa opera in quattro libri che in quegli
anni (790-793)10 Teodulfo di Orléans (o Alcuino di York o Angilramo
di Metz)11 stava redigendo, per essere pubblicata sotto la firma di Carlo.
Il Re convocò infine un sinodo a Francoforte nel 794, formalmente
per contrastare l’adozionismo che si stava propagando in alcune Chiese
della Spagna abbasside12, nei fatti per ratificare il contenuto dei Libri ca-
rolini con cui la corte franca immaginava di stabilire la propria “via terza”
nel contrasto all’idolatria, condannando Costantino VI e la madre Irene.

bra, non è però soltanto quello di valutare l’efficacia della scelta lessicale – a mio avviso nien-
te affatto felice o, per lo meno, per nulla fedele all’intenzione della risoluzione conciliare che
esplicitamente differenziava tra «una prosternazione d’onore (thymetiké proskynesis) ‹e› la ve-
ra adorazione (alethiné latréia) che spetta alla sola natura divina » (Re, Il secondo Concilio di
Nicea, 179) – quanto la confusione che la mancata differenziazione dei due termini introdu-
ceva nel dettato testuale. È dunque difficilmente impugnabile l’incomprensione del Niceno
II che si rileva circa il punto contestato dai critici: là dove i Bizantini volevano sottolineare
una differenza tra i due atteggiamenti, i carolingi presupposero l’identità (se piena o solo so-
stanziale a me pare non muti i termini della questione) tra adorazione e venerazione.
10 Si presume che la stesura dei Libri carolini sia iniziata nel 790 perché nella Prefazio-

ne si afferma che il secondo concilio niceno è stato celebrato da tre anni.


11 La questione è ancora aperta, benché a mio avviso la paternità di Teodulfo (solida-

mente argomentata da A. Freeman, Theodulf of Orléans: Charlemagne’s Spokesman against


the Second Council of Nicea, Ashgate, Aldershot - Burlington 2003 [Variorum Collected
Studies 772]) sia ben difficilmente contestabile. D. de Bruyne, La composition des Libri Ca-
rolini, in Revue Bénédictine (1932) 227-234, ha osservato la dipendenza della redazione dal-
lo pseudo-agostiniano Libro sulle divine Scritture, senza però sbilanciarsi circa l’identifica-
zione dell’autore del testo carolingio. A più riprese viene rilanciato il nome di Alcuino, ma
per questo cfr. il bilancio di D. Dales, Alcuin. Theology and Thought, James Clarke & Co,
Cambridge 2013, 48-58, che reputa non ci si possa spingere oltre l’ipotesi di un coinvolgi-
mento di tale autore (ivi, 55-58).
12 Soprattutto per mezzo del pensiero di Felice di Urgel (già condannato a Ratisbona

[792], dopo un confronto svoltosi, nel 798, con Paolino di Aquileia, Agobardo di Lione e
Alcuino al cospetto di Carlo, sconfitto, compose nell’800 una Confessio fidei in cui ritrat-
tava il suo pensiero cristologico) e di Elipando di Toledo (la cui teologia verrà attivamente
condannata da diverse assise religiose: Ratisbona [792]; Francoforte [794]; Roma [798];
Aquisgrana [800]). Cfr. M.E. Moore, A Sacred Kingdom: Bishops and the Rise of Frankish
Kingship, 300-850, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 2011 (Stu-
dies in Medieval and Early Modern Canon Law 8), 265-268.

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Il “valore ideale” dell’arte di Roma 77

Il sovrano si accingeva dunque a sfruttare l’occasione fornitagli da una


disputa religiosa – quella sulle immagini sacre – per rivendicare il ruolo
di custode e tutore della Chiesa, ruolo che egli sollecitamente intendeva
assumere in modo aperto, correggendo in una materia prettamente reli-
giosa le decisioni assunte da un concilio ecumenico guidato dal papa e
sotto la tutela dell’imperatrice13.
Per la verità, sul piano della disciplina religiosa, nei Libri carolini non
si perverrà a disposizioni molto dissimili dalle determinazioni del secon-
do concilio di Nicea («Lo scopo dei filosofi di Carlo era […] quello di far
emergere razionalmente […] sia la natura imperfetta dell’immagine come
res creata sia, in positivo, la sua non dannosa funzione di decorazione»):
ciò che mutò profondamente fu il modo – ora dialettico e non più assio-
matico – di affrontare e sviluppare il discorso teologico14. D’altra parte,
ciò che è rilevante in questa ricerca, se non l’esito normativo e teoretico
dei Libri carolini, è il giudizio estremamente negativo del secondo conci-
lio niceno che, quando l’Opus Caroli inizierà finalmente a circolare, a
partire dall’età moderna, produrrà conseguenze di fondamentale impor-
tanza per la nascente cultura visuale della Riforma15.
Un punto specifico su cui Carlo prende apertamente le distanze da
quanto effettivamente il Concilio aveva stabilito è l’idea – evocata dalla
III sezione dell’Enunciato finale conciliare – dell’equivalenza tra il valore

13 Si può scorgere qui il sintomo dell’adesione radicale di Carlo a due modelli politici:

quello costantiniano, ovviamente, che attribuiva al principe il patronato della Chiesa, e


quello franco, che rivendicava il carattere sacrale della propria corona e che stabilì il princi-
pio della “necessità provvidenziale” di quel regno, prima, e del sacro romano impero, poi.
Cfr. Moore, A Sacred Kingdom, 244-247; 253-264.
14
Questa la proposta di Ianiro, Dialettica e ontologia, 139-155 (la citazione riportata nel
testo proviene da ivi, 143). A giudizio dell’autore, questo nuovo modo di sviluppare il di-
scorso sull’immagine produsse un’idea del tutto innovativa dell’immagine stessa, come ha
più di recente argomentato in Id., «Res insensata, vero ambigua aut certe inutilis»: l’ imma-
gine artificiale nei Libri Carolini, in K. Mitalaitė - A. Vasiliu (éds.), L’ icône dans la pensée et
dans l’art. Constitutions, contestations, réinventions de la notion d’ image divine en contexte
chrétien, Brepols, Turnhout 2017 (Byzantioς 10), 257-284; cfr. anche J. Marenbon, The
Emergence of Medieval Latin Philosophy, in R. Pasnau (ed.), The Cambridge History of Me-
dieval Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2010, 1, 26-38, in part. 26.
15 Vedi infra, pp. 86-87.

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78 Le matrici di una critica

kerygmatico delle Scritture e quello delle immagini. Il re denuncia aper-


tamente «l’errore, per il quale i libri delle divine Scritture sono equipara-
ti alle immagini (hic error, quo divinę Scripturę libris imagines aequipara-
re nitutur)» e per farlo formalmente introduce l’accusa di una matrice
pagana per l’«impiego delle immagini»: «Perciò, l’uso delle immagini,
che si è diffuso dalle tradizioni dei pagani, né può né deve essere equipa-
rato ai libri della Santa Legge, poiché nei libri, non nelle immagini, ap-
prendiamo l’erudizione della disciplina spirituale16.
L’ampiezza e l’ambizione dell’impianto sistematico di quest’opera (es-
sa pretendeva infatti di definire traditio, ordo e religio cristiane)17, lo stre-
nuo impegno che per redigerla fu richiesto ai migliori intellettuali della
corte di Carlo e la particolare e personale adesione del sovrano al proget-
to rendono lecito affermare che, con la composizione dei Libri carolini,
il re franco abbia iniziato a delineare il suo ideale di governo imperiale18.
Ma improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, giunse alla corte dei
Franchi la risposta di papa Adriano al Capitulare contra Synodum, contenente
la notizia poco credibile che lui stesso, successore di san Pietro, aveva approva-
to le decisioni raggiunte al concilio di Nicea […]. Una cattiva traduzione aveva
sviato Teodolfo e i Franchi (che non conoscevano il greco); questa traduzione
non aveva operato alcuna distinzione tra “venerazione” delle immagini e “ado-
razione” […]. Come conseguenza gli intellettuali della corte carolingia furono
indotti in errore nell’affermare l’idolatria tra i cristiani ortodossi e nel mobili-
tarsi affinché si prendessero provvedimenti per combatterla […]. La mancanza

16 Libri carolini 2,30 (il testo è tratto da A. Freeman [hrsg.], Opus Caroli Regis Contra

Synodum (Libri Carolini), Hahnsche Buchhandlung, Hannover 1998 [Monumenta Germa-


niae Historica, Concilia, 2, Supplementum 1], 303-304).
17 Sfrutto la tripartizione identificata da Noble, Images, Iconoclasm, and the Carolingians,

207-242.
18 Che il tema dell’immagine potesse prestarsi a uno scopo così più vasto del suo argo-

mento specifico qual è la definizione dell’identità politica (e culturale) di un nascente im-


pero – potenziale forse difficile da cogliere per la sensibilità cristiana – lo si può cogliere se
solo si riflette su quali fossero i due principali competitori che i Franchi riconoscevano nel-
la contesa per il predominio sul Mediterraneo: i Bizantini e gli Arabi. I primi avevano pre-
so a rivendicare l’icona come proprio emblema politico e culturale, i secondi facevano dell’a-
niconismo militante la propria bandiera. I Libri carolini furono perciò il tentativo anche
politico di stabilire una via terza. Sulla comparazione del concetto di “rappresentazione” in
questo più ampio orizzonte, cfr. L. Brubaker, Representation c. 800: Arab, Byzantine, Caro-
lingian, in Transaction of the Royal Historical Society 19 (2009) 37,55, in part. 49-52.

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Il “valore ideale” dell’arte di Roma 79

di conoscenza linguistica, l’incomprensione derivante dall’ignoranza di una


tradizione ‹religiosa› altra e l’insufficiente cultura aprirono dunque la strada
alla catastrofe. In queste circostanze, il grande sforzo profuso nella logica, nell’a-
cutezza argomentativa e nell’ironia politica dell’Opus Caroli e la risoluzione del
Sinodo di Francoforte risultarono del tutto vani19.

I Libri carolini ebbero una limitata circolazione nel proprio tempo20:


allorché la corte di Carlo comprese la portata del grossolano errore di
traduzione commesso – per il quale si fraintendeva veneratio e adora-
tio – venne, infatti, deciso frettolosamente di abbandonare la stesura
dell’opus regale e di “dimenticare” quello spiacevole incidente, forse con-
fortandosi con l’idea di aver evitato una figura potenzialmente così im-
barazzante. Né, come già osservato, la posizione che re Carlo voleva ri-
vendicare – contraria alla venerazione delle immagini ma, sulla scorta di
Gregorio Magno, favorevole al loro impiego quali Bibliae pauperum 21 –
avrebbe potuto condurre a esiti particolarmente innovativi sul piano del-
la prassi cultuale.
Ciò posto, l’importanza dei Libri carolini risiede invero in due altri
elementi: da una parte, le specificità della loro argomentazione teologica 22

19 J. Fried, Charlemagne, Harvard University Press, Cambridge [MA] 2016, 320. Iani-

ro, Dialettica e ontologia, 44-69, propone acutamente una ricostruzione difforme, postulan-
do che non sia esistito un Capitulare contra Synodum, ma che a Roma siano stati immedia-
tamente inviati i Libri carolini, i quali sarebbero appunto l’oggetto della risposta di Adriano
I (il Responsum o Hadrianum). L’esito complessivo della vicenda, però, non muta: «Non sap-
piamo con precisione quando e in che modo Carlo abbia ricevuto il Responsum, ma la sua
efficacia è resa evidente dagli effetti sortiti, dei quali proprio il silenzio delle fonti coeve sui
Libri carolini è il più eloquente» (ivi, 69).
20 Ma non ebbe scarsa eco il dibattito che si animò durante la loro redazione: cfr. l’in-

teressante caso della poetica carolingia, nella quale ebbe una grande fortuna la tradizione
dei “carmi figurati”: cfr. G. Polara, Parole ed immagine nei carmi figurati di età carolina, in
Testo e immagine nell’alto medioevo, 245-274.
21 I Libri carolini, com’era costume, definirono il proprio contenuto concatenando nu-

merose allusioni e citazioni bibliche e “patristiche”: cfr. L. Wallach, The Libri Carolini and
Patristics, Latin and Greek. Prolegomena to a Critical Edition, in L. Wallach (ed.), The Clas-
sical Tradition: Literary and Historical Studies in Honor of H. Caplan, Cornell University
Press, Ithaca (NY) 1966, 451-498. Per una discussione delle Bibliae pauperum come cate-
goria critica, vedi infra, pp. 182-185.
22 Cfr. Ianiro, Dialettica e ontologia, 139-155, a cui rinvio anche per la ricca bibliogra-

fia sul tema.

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80 Le matrici di una critica

e, dall’altra, la fortuna che arrise a questo scritto quando, dopo la risco-


perta del miglior codice che lo trasmette, Jean du Tillet finalmente lo
pubblicò, nel 1549, a Parigi, mentre furoreggiava in Europa il dibattito
tra riformati e cattolici 23.
Fu dunque sul proscenio di questa tragedia religiosa e politica europea
che le parole del grande re, capostipite e icona degli ideali nazionali fran-
cese e tedesco, guadagnarono una dirompente e inattesa fortuna. Quan-
do Giovanni Calvino indirizzerà a Francesco I una sintesi organica del
sistema religioso e teologico sul quale si fondava l’istanza riformatrice che
anche lui sosteneva, non a caso, circa il rifiuto delle immagini sacre, citerà
proprio i Libri carolini: «Un tal libro di refutazione composto sotto il no-
me di Carlo Magno»24.
Per questa via, in una sorta di eterogenesi dei fini, il principio che Car-
lo rivendicava 25 nel tentativo di dimostrare la dignità anche teologica del
suo ideale politico di un impero occidentale coeso concorrerà viceversa ad
alimentare quella stagione di violente lotte religiose che solcherà la cultu-
ra “occidentale”, aprendo in essa una delle sue più profonde fratture.
Complessivamente, però, questa intensa stagione speculativa è di gran-
de interesse perché, al di là delle determinazioni “normative” – come
detto, del tutto in linea con quelle del secondo concilio di Nicea –, di-
spiegò un intenso sforzo teoretico attorno al tema dell’immagine. Con

23 Si tratta del ms. vat. lat. 7207, della Biblioteca Apostolica Vaticana, che riporta il te-

sto sotto il titolo di Opus Caroli regis contra synodum. Tale manoscritto fu probabilmente il
brogliaccio di lavoro che Carlo Magno impiegava per seguire la composizione del trattato,
come dimostrerebbero le note marginali al testo (più di tremilaquattrocento interventi!), al-
cune delle quali potrebbero addirittura riportare la trascrizione tachigrafica dei commenti
avanzati dallo stesso imperatore: cfr. A. Freeman, Further Studies in the Libri Carolini III.
The Marginal Notes in Vaticanus Latinus 7207, in Speculum 46 (1971) 597-612.
24 Giovanni Calvino, Institution de la religion chrétienne 1,11,13; cfr. comunque J.R.

Payton, Calvin and the Libri Carolini, in The Sixteenth Century Journal 28 (1997) 467-480.
Su questo passaggio, cfr. E. Fogliadini, Calvino e i Libri Carolini: un tradimento di Lutero?,
in F. Bœspflug - E. Fogliadini, Lutero, la Riforma e le arti. L’articolato rapporto con la pittu-
ra, l’architettura e la musica, Glossa, Milano 2017, 79-97.
25 «Gli arcani misteri non sono nelle immagini ma nelle Sacre Scritture»: Libri carolini

4,21. Il testo è tratto da A. Freeman (hrsg.), Opus Caroli Regis Contra Synodum (Libri Ca-
rolini), Hahnsche Buchhandlung, Hannover 1998 (Monumenta Germaniae Historica, Con-
cilia, 2, Supplementum 1), 539.

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Il “valore ideale” dell’arte di Roma 81

esemplare, ulteriore, eterogenesi dei fini, l’articolato itinerario teologico


dei Libri carolini, però, finì per partorire un’autentica “teologia dello scri-
vere”, nella quale, tra le altre cose, viene formulata una sorta di provvi-
denziale storia della parola scritta 26:
Il cinquantesimo giorno dopo l’immolazione dell’agnello e dopo il passaggio
del Mar Rosso, «il Signore che scendeva sul monte Sinai» consegnò a Mosè una
Legge non dipinta, ma scritta, e sulle «tavole di pietra» non trasmise […] im-
magini, ma lettere.

Ugualmente, «anche i singoli profeti, che hanno scritto libri, non di-
sposero le loro profezie in immagini, ma in scritture»; del resto, «così si
legge che anche il santissimo Davide abbia detto, in luogo di Cristo:
“All’inizio del libro, di me è scritto…”. Dunque non dice: “È dipinto”,
ma: “È scritto”; né dice: “In cima alle pareti”, o: “[In cima alle] Tavole”,
ma: “All’inizio del libro”»27.
«Optime», annotava Carlo Magno di suo pugno a margine di quest’ul-
tima affermazione, in una sorta di regale, mistico dialogo con il prototi-
po della regalità cristiana: Davide.
La minorità dell’immagine rispetto alla scrittura veniva dunque trat-
teggiata come una costante di tutta la storia della salvezza e quasi elevata
al rango di teologumeno dogmatico. In più, l’affermazione di tale dispa-
rità veniva giocata da Carlo come occasione per esprimere l’emancipazio-
ne dell’Occidente dalla subalternità a Bisanzio, alla sua pretesa di essere
l’autentica garante e interprete della tradizione, alla sua capacità di auto-
determinarsi sul piano teologico e identitario. Ed è proprio sul piano
delle ragioni teologiche che va rintracciata, come già si anticipava, la prin-
cipale “novità” della posizione carolingia rispetto alle immagini:

26 Cfr. H.L. Kessler, Schriftlichkeit und Bildlichkeit in der Hofschule Karls D. Gr., in Te-

sto e immagine nell’alto medioevo, 533-584.


27 Le tre citazioni sono tratte rispettivamente da Libri carolini 2,30 (A fol. 100v); ivi (V

fol. 102v); ivi (A fol. 101v) (Freeman [hrsg.], Opus Caroli Regis, 304-305; 306; 307). Il ruo-
lo “ideale” delle Scritture nella definizione dell’immagine all’interno dei Libri carolini è de-
scritto da A. Freeman, Scriptures and Images in the Libri Carolini, in Testo e immagine nell’al-
to Medioevo, 163-188.

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82 Le matrici di una critica

Molto spesso la storiografia moderna sulle crisi iconoclaste stenta a pensare


all’icona in termini difformi da quelli stabiliti dal settimo concilio ecumenico,
che ne ha determinato la lettura rigorosamente cristologica […]. L’icona – inte-
sa come concetto di pensiero e come nozione che definisce l’oggetto di culto –,
talvolta troppo bruscamente “importata” dagli storici moderni dal contesto
greco al mondo latino, è divenuta, nella storiografia, il termine generico per
indicare l’immagine cristiana capace di rappresentare il divino e in tal modo la
cristologia si è imposta come sua ermeneutica obbligata. È certo che questa ca-
tegorizzazione dell’immagine non si adatti alle più rilevanti discussioni latine,
iniziate al tempo dei carolingi, intorno alle immagini, e questo per un semplice
motivo: il ragionamento teologico carolingio, che vuole essere fedele al patri-
monio patristico latino, in particolare ad Agostino, Ilario, Ambrogio e Isidoro,
è interamente trinitario e mai cristologico 28.

Se, come visto, i Libri carolini recupereranno la gran parte dei presup-
posti e degli argomenti con cui il dibattito bizantino aveva cercato di
definire l’ideale dell’immagine cristiana, d’altra parte la scelta di fonda-
re la propria riflessione sul piano trinitario e scritturistico si rivelò deter-
minante per stabilire la subalternità dell’immagine rispetto al testo (bi-
blico). Il Padre aveva infatti parlato a Israele, aveva scritto le dieci parole
e aveva governato quella storia la cui scrittura produsse il Primo Testa-
mento; la Parola incarnata in Gesù, il Cristo, aveva insegnato e si era ac-
creditata secundum Scripturas pressocché in ogni pagina del Nuovo Te-
stamento; lo Spirito Santo aveva ispirato, sin dall’origine, intere
generazioni di profeti e di scrittori che avevano affidato ciò che era stato
insegnato loro ai libri: lo scrivere, il testo e la lettura potevano in tal mo-
do assumere il profilo dei luoghi specifici della religiosità cristiana.
L’ansia di Carlo di provare la legittimità del suo ruolo sullo scacchiere
politico del nascente Medioevo gettava in tal modo le basi, forse senza

28 K. Mitalaitė, Imago et la pensée latine de l’ image, in Ead. - A. Vasiliu (éds.), L’ icône

dans la pensée et dans l’art. Constitutions, contestations, réinventions de la notion d’ image di-
vine en contexte chrétien, Brepols, Turnhout 2017 (Byzantioς 10), 22-32, qui 23-24; cfr. però
anche K. Mitalaitė, Philosophie et théologie de l’image dans les Libri Carolini, Institut d’Études
Augustiniennes, Paris 2007 (Études Augustiniennes, Moyen Âge et temps modernes 43).
Sul ruolo della teologia patristica nella speculazione carolingia, cfr. anche W. Otten, The
Texture of Tradition: The Role of the Church Fathers in Carolingian Tradition, in I. Bakus
(éd.), The Reception of the Church Fathers in the West: From the Carolingians to the Maurists,
Brill, Leiden - New York (NY) - Cologne 1996, 1, 3-50, in part. 44-50.

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Il “valore ideale” dell’arte di Roma 83

rendersene conto fino in fondo, per quel presupposto di eterogeneità


dell’immagine rispetto al kerygma cristiano che, in età moderna, verrà
così assertivamente rilanciato.

2. IL VALORE IDEALE DELLE VESTIGIA


Il Medioevo latino si connotò per una sorta di approccio binario alla
produzione visuale. Accanto alla teoresi di un’immagine ancillare, quan-
do non sostanzialmente estranea al proprium cristiano, si deve infatti
considerare il concetto di vestigia 29.
Se, infatti, l’affermazione della stessa rivendicazione imperiale franca
non poté imporsi per la sola forza delle sue armi ma sottostette alla con-
dizione di innestare il suo nuovo trono nella storia dell’unico impero,
quello di Roma, e se persino le pretese papali di fronte all’orbis christianus
dovevano provare il loro buon diritto, fondandosi simultaneamente
sull’irripetibile dignità e sulla remota antichità della Chiesa di Pietro e

29 Disciplinato già da Codice teodosiano 15,1 (cfr. J.D. Alchermes, Spolia in Roman Cities

of the Late Empire: Legislative Rationales and Architectural Reuse, in Dumbarton Oaks Papers
48 [1994] 167-178), il reimpiego di materiali preesistenti connotò già la più antica architettu-
ra cristiana, sin dall’età costantiniana (cfr. B. Ward-Perkins, Re-using the Architectural Legacy
of the Past, entre idéologie et pragmatisme, in G.P. Brogiolo - B. Ward-Perkins [eds.], The Idea
and Ideal of the Town between Late Antiquity and the Early Middle Ages, Brill, Leiden - Boston
[MA] - Köln 1999 [The Transformation of the Roman World], 225-244; L. Grzesiak, Beyond
Reuse: Spolia’s Implications in the Early Christian Church, MA Diss., Vancouver a.a. 2011-2012,
35-54; ma si tratta di un indirizzo perseguito ovviamente anche in età bizantina: cfr. H. Sa-
radi, The Use of Ancient Spolia in Byzantine Monuments: The Archaeological and Literary Evi-
dence, in International Journal of the Classical Tradition 3 [1997] 395-423). Fu una connota-
zione efficace non solo per via operativa, ma anche dal punto di vista ideale (cfr., per esempio,
Prudenzio, Contro Simmaco 1, 499-505); per il passaggio o, meglio ancora, per le sinergie tra
il processo, ideale e materiale, di ricupero delle spolia e quello della venerazione delle reli-
quie, cfr. J. Elsner, From the Culture of Spolia to the Cult of Relics: The Arch of Constantine and
the Genesis of Late Antique Forms, in Papers of the British School at Rome 68 (2000) 149-184.
L’appropriazione del passato non fu dinamica intrinseca solo al cristianesimo costantinia-
no, ma rimarrà, anche in altri ambiti religiosi, la cifra nobilitante per eccellenza; cfr. M. Ali -
S. Magdi, The Influence of Spolia on Islamic Architecture, in International Journal of Heritage
Architecture 1 (2017) 334-343, in part. 335-341. Più in generale, per l’età medievale, cfr.
L. de Lachenal, Spolia, uso e reimpiego dell’antico dal III al XIV secolo, Longanesi, Milano 1995;
J. Poeschke (hrsg.), Antike Spolien in der Architektur des Mittelalters und der Renaissance,
Hirmer, Munich 1996.

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84 Le matrici di una critica

Paolo, è facile comprendere quanto in profondità l’Antico e le antichità


poterono farsi parametro di quell’epoca nuova che stava sorgendo.
Dal punto di vista monumentale, questa tendenza si tradusse in una
sorta di “sacralizzazione” delle vestigia, di quelle sopravvivenze archeolo-
giche che, in ragione della loro antichità, venivano riconosciute deposita-
rie di un valore direttamente conseguente. Questa premessa portò a una
sorta di inversione logica: non era il valore della storia di un monumento
a qualificare l’importanza della sua antichità (l’essere stato, per esempio,
un sarcofago, la sepoltura di martire o di un santo o di un teologo delle
origini), ma era l’antichità del monumento a determinare a fortiori il va-
lore della sua storia (per il solo fatto di essere antico, un sarcofago doveva
necessariamente essere appartenuto a un martire, a un santo, a un teologo
ecc.). Ne derivò una sorta di corsa alle antichità, nella quale il possesso di
questi venerabili oggetti determinava di per se stesso il prestigio del loro
possessore 30. Lungo una traiettoria che evidentemente intersecava l’ideale
dell’Antico a quello della sacralità della reliquia, il possedere e l’esibire
queste vestigia divenne un modo per ribadire e suffragare la propria aspi-
razione, politica e religiosa, all’affermazione di sé 31.

30 Una discussione dell’impianto ideale di questa appropriazione si trova in M. Fabri-

cius Hansen, The Eloquence of Appropriation. Prolegomena to an Understanding of Spolia in


Early Christian Rome, L’Erma di Bretschneider, Roma 2003 (Analecta Romana Instituti
Danici, Supplementa 33), 247-272.
31 La traiettoria dell’appropriazione dell’antico fu vistosamente perseguita da Carlo Magno

sia nell’impostazione ideale della sua “ fabrica imperii” (valse anche per la propaganda impe-
riale; cfr. J. Fried, Imperium Romanum: das römische Reich und der mittelalterliche Reichsge-
danke, in Millennium 3 [2006] 1-42; J.-Y. Tilliette, Pensers nouveaux et vers antiques: l’ image
du souverain dans l’ épopée carolingienne, in Bulletin de l’Association Guillaume Budé 1 [2016]
92-111) sia nella concretissima apertura dei suoi cantieri come giustamente ricordano B. Brenk,
Spolia from Constantine to Charlemagne: Aesthetics versus Ideology, in Dumbarton Oaks Papers
41 (1987) 103-109, in part. 108-109; J. Story, Charlemagne: Empire and Society, Manchester
University Press, Manchester - New York (NY) 2005, 249; M.A. Tipton, Statements in Stone:
The Politics of Architecture in Charlemagne’s Aachen, MA Diss, Fayetteville (AR) a.a. 2017-2018,
in part. 72-73. Un’interessante ricerca – anche in ragione dell’alto valore simbolico dell’ogget-
to a cui si dedica – è quella condotta da A.G. Doig, Building, Enacting and Embodying Roma-
nitas: The Throne of Charlemagne, in The Actual Problems of History and Theory of Art 5 (2015)
376-382.

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Il “valore ideale” dell’arte di Roma 85

La documentazione visuale delle origini cristiane, dunque, privata di


qualsiasi significato contenutistico, assunse in tal modo una nuova fun-
zione agli occhi di un nuovo pubblico: in una sorta di agiografia monu-
mentale, queste antichissime vestigia illustravano al Medioevo cristiano
i lineamenti dell’antico e, con la loro visibile presenza, legittimavano la
sua pretesa di esserne l’autentico erede.
Per certi versi, si può affermare che con il Medioevo latino la risignifi-
cazione della prima cultura visuale cristiana sia finalmente compiuta: ciò
che era nato, come si vedrà, quale ermeneutica codificata, quale strumento,
cioè, per elaborare dei manifesti di fede, triturato da un prolungato dibat-
tito circa il valore sacrale conferibile all’immagine cristiana – che pure in
origine essa non possedeva –, veniva infine riguardato come puro marca-
tore formale di un passato del tutto idealizzato.
Il passato doveva continuare a “fare la Chiesa” sia nel senso ideale del-
la preservazione della traditio sia nel senso concreto dell’edificazione del-
le chiese. Fu certamente anche grazie a questa “immedesimazione con le
origini” che tanta parte del patrimonio “artistico” dei primi secoli cristia-
ni potè preservarsi in Occidente mentre la conquista araba e le recrude-
scenze iconoclaste bizantine disperdevano così ampie porzioni della pri-
migenia cultura visuale cristiana.

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III.

L’ETÀ MODERNA
IL “VALORE POLEMICO” DI UN’ARCHEOLOGIA

Come si è già anticipato, i Libri carolini esercitarono tutto sommato


una scarsa influenza sul Medioevo, ma determinarono in modo decisivo
la definizione di un intero quadrante della cultura dell’età moderna. Come
si vedrà, infatti, l’argomentazione dell’Opus Caroli, rievocata da Calvino,
costituirà la struttura portante del rifiuto riformato di un’arte cristiana.
Non è possibile in questa sede dettagliare ulteriormente la polimorfa
genesi della censura del visuale nel pensiero dei padri della Riforma. Ad
essa concorse ovviamente anche la più vasta tradizione delle riforme mo-
nastiche prima e cenobitiche poi (si pensi al severo rigore dell’architettu-
ra cistercense1, per limitarsi a un solo esempio) e anche quella intrinseca
tendenza al contenimento, se non apertamente al rifiuto, delle pratiche
di pietà che attorno alle reliquie si erano animate. Il sacro, vertiginosa-
mente assolutizzato nelle sue componenti scritturistica e teologica, dive-
niva il paradigma zenitale chiamato a riscattare l’individuo dalla sua
“misura storica”, proiettandolo in un dialogo non mediato con il divino.
In questo contesto, come si vedrà, la più antica cultura visuale cristia-
na guadagnerà una rilevanza peculiare: quando la notizia della scoperta
delle antiche catacombe romane sorprese l’Europa, la constatazione dell’e-
sistenza di un’antichissima tradizione figurativa cristiana venne impiega-
ta dai cattolici quale monumentale esemplificazione dell’infondatezza
delle pretese riformate.

1 Cfr. gli Istituti generali del capitolo cistercense, del 1130 circa, che apertamente norma-

no l’apparato iconico del culto e dei luoghi della vita cenobitica (§§ 10; 20). Cfr. anche H.
Feld, Der Ikonoklasmus des Westens, Brill, Leiden et alibi 1990 (Studies in the History of
Christian Traditions 41), 69-84.

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Il “valore polemico” di un’archeologia 87

Come nel Medioevo l’appropriazione dell’Antico servì ad affermare le


ragioni della propria identità, ora, sul proscenio di questo nuovo scisma
della cristianità, la prassi dell’Antico veniva chiamata a farsi canone della
legittimità di queste nuove identità cristiane. La coerenza ai primi secoli,
in altri termini, non si limitava più a definire il prestigio del presente, ma,
più radicalmente, stabiliva ormai la possibilità stessa della sua esistenza.

1. LA R IFORMA E IL TEMA DELL’ARTE DEI PRIMI CRISTIANI:


IL RILANCIO DEI FLORILEGI ICONOCLASTI

Il dibattito circa il ruolo dell’immagine nelle confessioni della Rifor-


ma può essere ricondotto idealmente a tre radici:
1. sul piano teoretico, alla disputa iconoclasta, che fornì ai teologi
riformati un repertorio argomentativo assai ampio, a cui essi attin-
sero a piene mani 2;
2. sul piano identitario e politico, ai Libri carolini, che permisero di
aggregare il carattere religiosamente connotante della prima teolo-
gia riformata sull’“arte” 3 alla genesi di nuove nazioni, per lo più
germanofone e mitteleuropee;
3. sul piano ecclesiologico – e ovviamente per antitesi –, alla prima
indulgenza accordata, nel 1216, da Innocenzo III al culto delle
immagini.
L’analisi del ruolo giocato dall’argomento “artistico” nel primo dibat-
tito della Riforma (al suo interno e con la controparte cattolica) può es-
sere sviluppata in una duplice prospettiva: quella dei suoi fondamenti
genetici (sul piano teoretico e dal punto di vista storiografico) e quella
dei suoi sviluppi entro i diversi movimenti e le diverse Chiese eredi della
rivoluzione ecclesiologica che convenzionalmente è fatta risalire a Le no-

Così già osservava Finney, The Invisible God, 6.


2

Cfr. W. van Asselt, The Prohibition of Images and Protestant Identity, in Id. et alii (eds.),
3

Iconoclasm and Iconoclash: Struggle for Religious Identity, Brill, Leiden - Boston (MA) 2007,
229-312.

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88 Le matrici di una critica

vantacinque tesi del 1517 o 1521. In questa sede si rifletterà solo sul primo
di questi argomenti 4.
È preliminarmente necessario fugare l’equivoco, in cui non di rado
cade anche la critica più avveduta, dell’antitesi tra un Cattolicesimo me-
cenate delle arti e una Riforma sostanzialmente iconoclasta5. Lo smenti-
scono, nella sostanza e nella prassi, sia il severo controllo che, da parte
romana, si pretenderà di esercitare sull’immagine – sintomo comunque
di una disciplina delle arti – sia l’imponente tradizione monumentale che
in ogni caso continuerà a essere promossa nelle tradizioni riformate, ca-
pace essa pure di dar vita a una nuova estetica 6. Benché generalizzazione
opposta a generalizzazione, trovo più efficace considerare questo ulterio-
re fronte della dialettica religiosa nella quale nacque l’età moderna come
un corollario della discussione sulla disciplina ecclesiale anziché come un
esito teoretico rivolto al valore intrinseco dell’immagine.
Volendo dare un’origine alla vicenda dell’immagine nella storia della
Riforma, essa andrà simbolicamente riconosciuta nel primo Bildersturm
(letteralmente: la “tempesta [sturm] delle immagini [bilder]”; è questo il
nome con cui si indicano i violenti moti popolari iconoclasti del XVI

4 Su questo tema, cfr. P.R. Masculus, La prière des mains: l’Église reformée et l’art, Je sers -

Labor, Paris - Genève 1938; S. Michalski, The Reformation and the Visual Arts. The Protestant
Image Question in Western and Eastern Europe, Routledge, London - New York (NY) 1993
(Christianity and society in the modern world); A. Joblin - J. Sys (eds.), Les Protestants et la
création artistique et littéraire (des Réformateurs aux Romantiques), Artois Presses Université,
Arras 2008. Cfr. anche il già citato van Asselt, The Prohibition of Images.
5 Una raccolta documentaria relativa al dibattito tra le due parti è stata approntata da

G. Scavizzi, Arte e architettura sacra: cronache e documenti sulla controversia tra riformati e
cattolici: 1500-1550, Casa del Libro, Reggio Calabria - Roma 1981 (Interpretazioni e docu-
menti 2); B.D. Mangrum - G. Scavizzi, A Reformation Debate: Karlstadt, Emser and Eck on
Sacred Images: Three Treatises in Translation, Centre for Reformation and Renaissance Stu-
dies, Toronto 1998 (Renaissance and Reformation Texts in Translation 5).
6 Sul fronte cattolico, oltre al Decreto sull’ invocazione, la venerazione e le reliquie dei san-

ti e le sacre immagini, promulgato dal concilio di Trento (3 dicembre 1563), è impossibile


omettere di menzionare Carlo Borromeo, L’arte sacra (De fabrica ecclesiae). Per il fronte ri-
formato, cfr. la panoramica descritta da B. Reymond, La porte des cieux: Architecture des
temples protestants, PPUR, Lausanne 2015 (poche architecture), 37-94; cfr. anche J. Cottin,
L’ iconoclasme des réformateurs comme modèle de nouvelles formes esthétiques, in Joblin - Sys
(éds.), Les Protestants et la création artistique, 7-20.

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Il “valore polemico” di un’archeologia 89

secolo che distrussero decine di chiese, monasteri e ospitali cattolici) del


10 gennaio 1522 a Wittemberg, che fornirà poi il modello per molti altri
in mitteleuropa, contagiando tutti i principali distretti della Riforma 7.
In quello stesso anno, d’altra parte, Andreas Rudolff Bodenstein von
Karlstadt, il decano dell’Università di Wittemberg – che aveva laureato
nel 1512 Lutero –, pubblicò un radicale trattatello, dal titolo: «Von
Abtuhung der Bylder / und das keyn Bedtler unther der Christen seyen sollen
(«L’abolizione delle immagini / e che non debba esservi alcun mendican-
te tra i cristiani»)», che viene giustamente osservato come l’“atto di na-
scita” della teologia riformata sull’“arte” 8. Per la parte teoretica relativa
all’immagine, quest’opera si limita a inanellare una poderosa raccolta di
testimonia biblici e “patristici”, non sempre del tutto compresi 9, ma che
di fatto, prima ancora degli esiti, ristabilirono in pieno le modalità delle
dispute di VIII-IX secolo.
L’abolizione delle immagini sarà, infatti, solo il punto di partenza di un
ben più vasto movimento d’opinione che connoterà radicalmente gli esor-
di della Riforma. Di lì a poco si assisterà al moltiplicarsi di analoghe prese
di posizione che, per il tramite dell’opera divulgativa di Ludwig Hätzer10,

7 Cfr. N. Schnitzler, Ikonoklasmus - Bildersturm. Theologischer Bilderstreit und ikonoklas-

tisches Handeln während des 15. und 16. Jahrhunderts, Fink, München 1996, in part. 77-80;
S. Michalski, L’expansion initiale de l’ iconoclasme protestant 1521-1537, in C. Dupeux -
J. Jezler - J. Wirth (éds.), Iconoclasme, vie et mort de l’ image médiévale. Catalogue de l’expo-
sition Musée d’Histoire de Berne, Musée de l’Œuvre Notre-Dame, Musée de Strasbourg, Somo-
logy, Paris 2001, 46-51. Cfr. anche la sezione: « Arte, Riforma e iconoclasmo» della miscel-
lanea P. Blickle et alii (hrsg.), Macht und Ohmacht der Bilder: reformatorischer Bildersturm
im Kontext der europäischen Geschichte, Oldenbourg, München 2002 (Historische Zeitschrift:
Beihefte 33), 99-304, che descrive la diffusione del fenomeno iconoclasta nei diversi distret-
ti della Riforma.
8 J.S. Preus, Carlstadt’s ‘Ordinaciones’ and Luther’s ‘Liberty’: A Study of the Wittemberg

Movement 1521-1522, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1974, 35-37. Cfr. anche
N. Schnitzler, Ikonoklasmus - Bildersturm. Theologischer Bilderstreit und ikonoklastisches Han-
deln während des 15. und 16. Jahrhunderts, Fink, München 1996.
9 Cfr. Finney, The Invisible God, 6.
10 «Ein Urteil gottes unsers eegemahels / wie man sich mit allen götzen und Bildnussen halte

soll / uss der heiligen geschrifft gezogë (Un verdetto di Dio sulla nostra unione / Come lo stare con
tutti gli idoli e le immagini dovrebbe / essere tratto dalle Sacre Scritture)», edito a Zurigo
il 23 settembre 1523; cfr. C. Garside, Ludwig Hätzers Pamphlet against Images. A critical
Study, in Mennonite Quarterly 34 (1960) 20-36.

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90 Le matrici di una critica

raggiungerà i principali esponenti della primigenia teologia riformata:


Huldrych Zwingli11 e Giovanni Calvino12.
L’abbinamento dei due temi che, sin dal titolo, caratterizzavano il pam-
phlet di Andreas Rudolff Bodenstein può sembrare singolare, eppure esso è
decisivo per cogliere la prima struttura del rifiuto riformato dell’immagine
religiosa. Accanto alle consuete argomentazioni polemiche, derivate da una
lettura rigorista del secondo comandamento, il testo rilanciava la denuncia
– già medievale e fatta propria anche da Lutero13 – dell’“arte” come lusso
che degradava la Chiesa, rendendola colpevole dell’abbandono del povero
alla sua nudità miserabile per ricoprire i templi di ogni ricchezza: «Per dire
la verità, molte volte si spogliano i poveri per rivestire pietre e legni»14.
Il primo dibattito riformato sull’“arte religiosa”, dunque, abbracciava
un impianto argomentativo fondamentalmente ecclesiologico e morale che
recepiva il tema dell’immagine innanzi tutto per disciplinare e raffinare
la prassi cultuale e caritativa della Chiesa e che, solo in seconda battuta,
ambiva a descrivere la struttura teologica della figura.

11 «Ein Antwort, Valentino Compar gegeben (Una risposta a Valentino Compar)», edito

a Zurigo nel 1525; cfr. L.P. Wandel, Voracious Idols and Violent Hands: Iconoclasm in Refor-
mation Zurich, Strasbourg and Basel, Cambridge University Press, Cambrige 1999, 120-159.
12 Oltre a quanto già segnalato supra, p. 80, nota 24, cfr. Besançon, L’ image interdite, 253-

259; W.A. Dryness, Reformed Theology and Visual Culture: The Protestant Imagination from
Calvin to Edwards, Cambridge University Press, Cambridge 2004, 50; E. Fogliadini, La ri-
flessione sulle immagini religiose di Lutero e Calvino. Continuità e discontinuità di una pratica
spirituale, in F. Ferrario - E. López-Tello García - E. Prinzivalli (curr.), Riforma/riforme: con-
tinuità o discontinuità? Sacramenti, pratiche spirituali e liturgia fra il 1450 e il 1600, Morcel-
liana, Brescia 2019 (Quaderni di Studi e Materiali di Storia delle Religioni 22), 221-241, in
part. 234-241.
13 Sulla “teologia dell’immagine” di Lutero, oltre al recente Bœspflug - Fogliadini, Lu-

tero, la Riforma e le arti, cfr. anche F. Bœspflug, La double intercession en procès. De quelques
effets iconographiques de la théologie de Luther, in F. Muller (ed.), Art, religion and société dans
l’espace germanique au XVIe siècle. Colloque de Strasbourg, 21-22 mai 1993, Presses univer-
sitaires de Strasbourg, Strasbourg 1997, 31-61; Id., Luther et l’ iconographie religieuse. L’art
à l’ épreuve de la théologie, in Ferrario - López-Tello García - Prinzivalli (curr.), Riforma/ri-
forme, 203-220; Fogliadini, La riflessione, 221-233.
14 Così già Ugo di Fouilloy († 1172), Il chiostro dell’anima 1; cfr. anche Pietro Cantore

(† 1197), Parola abbreviata 86. Per le affinità con l’opera di Lutero, cfr. J. Plazaola, Arte cri-
stiana nel tempo. Storia e significato, 2: Dal rinascimento all’età contemporanea, San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI) 2002 (Storia della Chiesa, Nuova Serie), 183-184. Un’antologia in-
troduttiva si può leggere ivi, 207-212. Cfr. Fogliadini, La riflessione, 223-224.

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Il “valore polemico” di un’archeologia 91

A connotare gli esordi della Riforma15 non vi fu né un’integrale ripre-


sa della teologia iconoclasta né la semplice pubblicazione dei Libri carolini;
vi fu piuttosto il perseguimento coerente e radicale di un rinnovamento
ecclesiologico “totale” che, per le sue ambizioni, non poteva certo accon-
tentarsi di arrestarsi sulla soglia delle chiese. Tutto andava ripensato, non
importa al prezzo di quale sacrificio, purché il popolo di Dio fosse rifor-
mato: inutili ad apprendere altro, pericolose per il rischio di idolatria che
intrinsecamente comportano, contrarie alla legge mosaica e certo non de-
finibili un’istituzione evangelica, osteggiate dai padri16, per le immagini
si profilava l’alternativa di essere malvolentieri tollerate o essere rimosse.

2. LA RISPOSTA CATTOLICA: LA RISCOPERTA DELLE CATACOMBE


Non è questa la sede per descrivere analiticamente la reazione cattolica
alla radicale contestazione riformata dell’“arte cristiana”. La Chiesa di Ro-
ma, infatti, dispiegò, se così si può dire, una strategia articolata, che non si
limitò a declinare il dissenso rispetto alle conclusioni a cui erano pervenu-
ti i padri della Riforma, ma rivendicò lo statuto dell’immagine religiosa,
rilanciando anzi la funzione e il ruolo dell’“arte cristiana”, pur se “discipli-
nata” in una nuova “arte militante”. La natura genericamente didascalica
della figura – per come l’aveva descritta Gregorio Magno, quale sorta di
sussidio per gli illetterati17 – venne infatti ripresa e radicalizzata entro un’a-
spettativa dichiaratamente identitaria e confessionale.

15 J. Phillips, The Reformations of Images: Destruction of Art in England 1535-1660, Uni-

versity of California Press, Berkeley (CA) 1973; S.E. Lehmberg, The Reformation of Cathe-
drals: Cathedrals in English Society, 1485-1603, Princeton Legacy Library, Princeton (NY)
2014, 3-122; M. Stirm, Die Bilderfrage in der Reformation, Gütersloher Verlaghaus Mohn,
Gütersloh 1977; C.M.N. Eire, War against Idols. The Reformation of Worship from Erasmus
to Calvin, Cambridge University Press, Cambridge 1986.
16 Il principio fu esplicitamente rivendicato da Calvino, Institution de la religion chrétienne 1,11,12;

sul radicalismo della teologia calvinista dell’immagine, cfr. P. Benedict, Calvinism as a Culture?
Preliminar Remarks on Calvinism and The Visual Arts, in P.C. Finney (ed.), Seeing beyond the World.
Visual Arts and the Calvinist Tradition, Eerdmans, Cambridge 1999, 19-45; D.W. Hardy, Calvin-
ism and the Visual Arts: A Theological Introduction, in Finney (ed.), Seeing beyond the World, 1-16.
17 Sin dal pamphlet di Andreas Rudolff Bodenstein von Karlstadt i teologi della Riforma

contestarono questa aspettativa genericamente “docetica” rispetto alle immagini cristiane,

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92 Le matrici di una critica

L’elemento su cui vorrei sinteticamente soffermarmi è, però, un altro:


la grande “scoperta” delle catacombe e l’uso polemico che venne fatto di
quei monumenti. Non si trattò di una vera e propria scoperta, ma di una
riscoperta: la frequentazione degli ipogei paleocristiani, infatti, benché
in forme sempre più contenute, non era mai del tutto cessata. I pellegri-
naggi tardoantichi, gli Itinerari e le incursioni di visitatori medievali (si
pensi alla firma «Johannes Lonck» datata al 1432), l’azione degli “acca-
demici” dell’Accademia romana degli Antiquari (guidata dal “pontifex
maximus” Pomponio Leto: 1428-1498) o il passaggio di artisti come Pir-
ro Ligorio (ancora alla fine del XV secolo)18, provano che questi siti fu-
rono sempre presenti nella cognizione della Chiesa di Roma19.
Sarà però il clima controriformato – o, come si legge, della “riforma
cattolica” – a promuovere l’uso polemico di tali antichità. Lo stesso Fi-
lippo Neri, come noto, percorse le gallerie della Catacomba di San Seba-
stiano riflettendo su come impiegare quelle vestigia nel contrasto alla
diffusione delle idee riformate 20.
Il 31 maggio 1578 […] l’intero scenario cambiò. Le catacombe erano state
scavate nel sottosuolo friabile formato dal tufo vulcanico lungo le strade che con-
ducevano fuori dalla città di Roma, all’incirca alla distanza di tre miglia dalle
mura aureliane. La maggior parte di questa terra era occupata da vigne e quel
giorno alcuni operai, intenti a piantare delle viti presso la Vigna Sanchez, tre mi-
glia lungo la Via Salaria Nuova a nord della città, scavarono troppo in profondità
e aprirono uno spiraglio che dischiuse un vasto cimitero sotterraneo 21.

considerandola incompatibile con la struttura – a loro avviso – sostanzialmente idolatrica


di ogni forma di arte cristiana.
18 Cfr. C. Occhipinti, Pirro Ligorio e la storia cristiana di Roma: da Costantino all’uma-

nesimo, Edizioni della Normale, Pisa 2007 (Studi 8).


19 Cfr. M. Ghilardi, Le catacombe di Roma dal Medioevo alla Roma sotterranea di Anto-

nio Bosio, in Studi Romani 49 (2001) 27-56.


20 Sull’importanza di Filippo Neri e dell’Oratorio romano nella rivalutazione – pressoché

immediata – delle scoperte archeologiche romane, cfr. C. Cecchelli, Il Cenacolo Filippino e l’ar-
cheologia cristiana, Istituto di studi romani, Roma 1938 (Quaderni di studi romani 3); V. Fioc-
chi Nicolai, San Filippo Neri, le catacombe di S. Sebastiano e le origini dell’archeologia cristiana,
in M.T. Bonadonna Russo - N. Del Re (curr.), San Filippo Neri nella realtà romana del XVI se-
colo, Atti del Convegno di studio in occasione del IV centenario della morte di S. Filippo Neri (1595-
1995). Roma – 11-13 maggio 1995, Società romana di Storia Patria, Roma 2000, 106-130.
21 W.H.C. Frend, The Archaelogy of Early Christianity. A History, Geoffrey Chapman,

London 1996, 13.

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Il “valore polemico” di un’archeologia 93

La scoperta della Catacomba dei Giordani provocò una grande eccita-


zione in ambito cattolico: Cesare Baronio la riconobbe come «una città
sotterranea (subterraneam civitatem)», la “Roma sotterranea” 22, e anzi, pro-
prio per la meraviglia di questa scoperta, egli porrà mano alla redazione dei
suoi Annali ecclesiastici; Sisto V impegnò ingenti risorse per la preservazio-
ne e la messa in sicurezza delle catacombe; alla fine del secolo, Philip de
Winge (1560-1592), Alfonso Ciacconio (1530-1599), Pompeo Ugonio (†
1613) e Jean l’Hereux (1551-1614)23 ripresero l’esplorazione degli ipogei
sotterranei, copiandone i disegni degli affreschi. Dopo di loro spetterà ad
Antonio Bosio24 riprendere l’esplorazione delle catacombe, il cui monu-
mentale esito furono i quattro volumi della sua Roma sotterranea: nasceva
così l’archeologia cristiana.
Benché il valore del lavoro di Bosio non possa essere sovrastimato, la sua
scoperta di un’antica, autentica comunità di cristiani delle origini fu impiegata
dai cattolici come un arsenale per combattere gli eretici protestanti. Le cata-
combe provavano che il cattolicesimo romano era stato là sin dalle origini 25.

La reazione dei riformati fu un misto di incredulità e rimozione: per


limitari a un solo esempio, il vescovo anglicano scozzese Gilbert Burnet,

22 C. Baronio, Annales Ecclesiastici, 2, Romae, Ex Typographia Congregationis Orato-

rii, apud S. Mariam in Vallicella, 1594, 81. Cfr. L. Spera, Cesare Baronio, «peritissimus an-
tiquitatis», e le origini dell’archeologia cristiana, in G.A. Guazzelli - R. Michetti - F. Scorza
Barcellona (curr.), Cesare Baronio tra santità e scrittura storica, Viella, Roma 2012 (Studi e
ricerche. Dipartimento di studi umanistici Università di Roma Tre 29), 393-423.
23 Rinvio alla dettagliata bibliografia prosopografica che è stata raccolta da Spera, Ce-

sare Baronio, 394, nota 2.


24 Su questa straordinaria figura e sul suo Sitz im Leben sono ormai “normativi” i due

volumi di C. Cecalupo, Antonio Bosio, la Roma sotterranea e i primi collezionisti di antichi-


tà cristiane, PIAC, Città del Vaticano 2020 (Studi di antichità cristiana 69), a cui rinvio
anche per il ricchissimo apparato bibliografico.
25 G.F. Snyder, Ante Pacem. Archaeological Evidence of Church Life before Constantine,

Mercer University Press, Macon (GA) 20032, 6. Cfr. anche l’episodio riportato da Frend,
The Archaelogy of Early Christianity, 18: «Nel 1693, il seminario gesuita di Laibach (Ljublja-
na) raccolse lungo le sue mura diverse false iscrizioni latine e paleocristiane […]. Credevano
che ci fosse un legame con il passato, in questo caso il passato classico e paleocristiano: se
pure non fossero stati capaci di rinvenirlo ne avrebbero in ogni caso dimostrato l’esistenza!».
Cfr. ora M. Ghilardi, Propaganda controriformista e uso apologetico delle catacombe romane,
in Id., Gli arsenali della fede. Tre saggi su apologia e propaganda delle catacombe romane (da
Gregorio XIII a Pio XI), Aracne, Roma 2006, 13-72.

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94 Le matrici di una critica

dopo aver visitato Roma, descrisse le catacombe come antiche cave ab-
bandonate e impiegate poi quali sepolture – di pagani e di cristiani –, le
cui decorazioni pittoriche egli reputava di stile gotico.
Non è questa la sede per seguire lo sviluppo di questa vicenda né per
osservarne dettagliatamente la ramificazione nell’Europa dell’età moder-
na. Qui è sufficiente rilevare il principio che accompagnò il rinvenimen-
to e lo studio della primigenia produzione monumentale cristiana. Essa
non venne accolta come un vettore di contenuti, argomenti, affermazio-
ni teologiche di un passato concluso, ma come la prova materiale che l’im-
magine sacra era da sempre stata parte costitutiva della prassi religiosa
cristiana come reclamavano allora i cattolici di età moderna.
---
Come i florilegi patristici erano stati composti facendo ricorso a brani
decontestualizzati dall’opera di antichi autori cristiani per provare assiomi
teologici relativamente recenti, che riguardavano in ogni caso un concetto
di immagine – l’icona – certamente estraneo al pensiero di quei primi scrit-
tori, così ora i resti archeologici della “Roma sotterranea” servivano unica-
mente a provare che quello stesso, relativamente recente, concetto di imma-
gine era originale e tipico del cristianesimo più antico, sin dai suoi esordi.
I cattolici potevano supportare la loro interpretazione dei florilegi pa-
tristici ricorrendo ora a uno sterminato florilegio archeologico.
Nell’interpretazione dell’“arte cristiana delle origini” si cristallizzava,
in questo modo, il ricorso esclusivo a un unico paradigma critico dell’im-
magine cristiana antica, quello di fatto introdotto solo con la disputa
iconoclasta ed efficace perciò unicamente nella discussione dell’icona 26:
l’immagine sacra, esposta alla venerazione dei credenti e finalizzata all’e-
dificazione dei pauperes.

Come già i riformati trovarono nei Libri carolini il loro naturale interlocutore, così i
26

cattolici si appellarono ampiamente all’autorità del secondo concilio di Nicea. Cfr. A. Cha-
stel, Le concile de Nicée et les théologiens de la Réforme catholique, in Boespflug - Lossky (éds.),
Nicée II, 787-1987, 333-338: sia Andrea Gilio di Fabriano nei suoi Due dialoghi (1564) sia
Gabriele Paleotti nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane (1582) attingono ai
florilegi di Nicea II, esplicitamente appellandosi all’autorità di questo Concilio.

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IV.

LA CONTEMPORANEITÀ:
IL DIFFICILE BILANCIO DI UNA STORIA INSIGNE

1. IL MITO STORIOGRAFICO DELL’ANICONISMO PALEOCRISTIANO


Il percorso sin qui compiuto ha mostrato come gran parte delle cate-
gorie impiegate nella discussione sulla genesi della prima immagine cri-
stiana provengono direttamente o sono state fortemente influenzate dai
dibattiti che, in Antico, coinvolsero il tema dell’“icona” – non quello
dell’immagine – e che, in età medievale e moderna, si legarono indisso-
lubilmente a dispute che, del tutto disinteressate alla stori(ografi)a delle
origini cristiane, miravano viceversa alla definizione di nuove identità –
storiche, religiose, nazionali.
Il risultato critico a cui questo vivace itinerario ha condotto è stato ef-
ficacemente definito da Mary Charles Murray la «teoria dell’ostilità»1: la
critica, in altri termini, assevera frequentemente come dato acquisito un
presunto aniconismo paleocristiano, intransigentemente praticato almeno
fino alla fine del II secolo. È merito di Lucien de Bruyne 2 aver per primo
richiamato l’attenzione sull’eccesivo «rigore» con cui la ricerca aveva as-
sunto tale presupposto e, con questa obiezione, aver aperto – almeno sim-
bolicamente – una stagione di revisione critica che però, benché abbia
condotto a risultati convincenti, rimane ancor oggi di fatto minoritaria.

1 Oltre a quanto già osservato in G. Pelizzari, Vedere la Parola, celebrare l’attesa. Scrit-

ture, iconografia e culto nel cristianesimo delle origini, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)
2013 (Parola di Dio 71), 33-58, vedi anche infra, pp. 103-104.
2 Cfr. la risposta di L. De Bruyne all’intervento di T. Klauser, Die Äußerungen der Al-

ten Kirche zur Kunst (Revision der Zeugnisse, Folgerungen für die archäologische Forschung),
in Atti del VI Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana. Ravenna, 23-30 settembre
1962, PIAC, Città del Vaticano 1965, 223-238, che si trova nelle pagine seguenti dello stes-
so volume (239-242).

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96 Le matrici di una critica

Mary Charles Murray attribuisce a Ernest Renan e a Ernst von Dob-


schütz 3 l’introduzione del presupposto del radicale aniconismo paleocri-
stiano; Paul Corby Finney, invece, ne posticipa la “nascita critica” agli
esordi del XX secolo, con l’altchristliche Bilderfrage di Hugo Koch 4. Nei
fatti si rivelò più incisiva la posizione di quest’ultimo autore, sia per la sua
provenienza dalla scuola di Adolf von Harnack sia per lo scarso riguardo
con cui l’enciclopedismo di Ernest Renan venne accolto dalla storiografia
e dalla teologia tedesche 5 e per la diffidenza con cui la sua lezione venne
recepita in ambito cattolico. Accanto all’opera di Hugo Koch è d’altra
parte necessario menzionare anche Ernst von Dobschütz, che pure aderi-

3
Cfr. M.C. Murray, Rebirth and Afterlife. A Study of the Transmutation of Some Pagan
Imagery in Early Christian Funerary Art, BAR, Oxford 1981 (BAR International Series 100),
14. Cfr. E. Renan, Histoire des origines du christianisme, 7: Marc Aurèle et la fin du monde
antique, Calmann Levy, Paris 1883, 540 (sulla posizione di Renan e sull’asserita ipotesi di
una matrice ellenistica e gnostica per l’iconografia cristiana, cfr. anche P.C. Finney, Gnos-
ticism and the Origins of Early Christian Art, in Atti IX Congresso Internazionale di Archeo-
logia Cristiana. Roma, 21-27 Settembre 1975, PIAC, Città del Vaticano 1978, 391-405); E.
von Dobschütz, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen Legende, J.C. Hinrichs’sche
Buchhandlung, Leipzig 1899 (Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristli-
chen Literatur, n.f. 3).
4 Cfr. H. Koch, Die altchristliche Bilderfrage nach den literarischen Quellen, Vanden-

hoeck & Ruprecht, Göttingen 1917 (Forschungen zur Religion und Literatur des Alten und
Neuen Testaments, n.f. 10): il testo, che articolava una raccolta di fonti “patristiche” da Ter-
tulliano a Gregorio I relative al tema dell’idolatria – ma che lo studioso interpretava quale
fondamento della riflessione cristiana sull’“arte” –, fu favorevolmente recensito, già nel 1918,
dallo stesso Ernst von Dobschütz (Theologische Literaturzeitung 43 [1918] 175), concorren-
do non poco all’affermazione di questa ricerca che diverrà, di fatto, un fondamento dell’ar-
cheologia cristiana e un caposaldo della storia della ricerca sull’“arte” cristiana. Cfr. Finney,
The Invisible God, 7-10; l’importanza dello studio di Koch è ovviamente del tutto chiara
anche a Murray, Rebirth and Afterlife, 13. Va, per altro, segnalato che, due anni prima di
Koch, il tema era già stato toccato – con identici esiti – da C. Clerc, Les Théories relatives
au culte des images chez les auteurs grecs du IIme siècle après J.-C., Dissertation, Université de
Paris, 1915, 134-168.
5 Si pensi, per limitarsi a un solo esempio, al giudizio sprezzante che A. Schweitzer, Sto-

ria della ricerca sulla vita di Gesù, Paideia, Brescia 1986 (Biblioteca di storia e storiografia
dei tempi biblici 4), 270-283 (ed. or. Tübingen 1906, 19849), diede della ricerca di Renan.
È d’altra parte merito di Finney, The Invisible God, 7-9, aver sottolineato il rapporto dell’o-
pera di Koch sia con l’impianto teologico di A. Ritschl, Die Entstehung der altkatholischen
Kirche. Eine kirchen- und dogmengeschichtliche Monographie, Adolph Marcus, Bonn 1850,
sia con il modello storiografico di von Harnack, per il quale l’ellenizzazione del cristianesimo
portò alla nascita del dogma e del Cattolicesimo (cfr., per il ruolo dell’“arte paleocristiana”
nell’opera dello storico tedesco ancora Finney, The Invisible God, 13, note 21-23).

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Il difficile bilancio di una storia insigne 97

va all’impostazione critica di von Harnack (meno incisivo, però, per via


del tema assai più limitato a cui si era dedicato: le sole immagini achero-
pite, “non dipinte da mano umana”) 6 e le ricerche, sostanzialmente coeve
a quelle di Koch, di Walter Elliger7. Con questi ulteriori studi, il tema
dell’aniconismo paleocristiano entrava nella coscienza critica del XX se-
colo come un dato sufficientemente documentato e ormai acquisito.
Su questo primo “dato” gli studi edificarono ben presto due ulteriori
esiti analitici, di particolare momento sia sul piano metodologico sia sul
piano della storiografia della crisi iconoclasta: grazie a tali sviluppi l’opi-
nione critica inizialmente tratteggiata da Koch ed Elliger si radicalizzò
ulteriormente, coinvolgendo un quadro analitico ancor più vasto.

Ciò non di meno, nelle «fonti (belege)» che von Dobschütz, Christusbilder, elenca sot-
6

to varie rubriche, vengono raccolti materiali relativi al «divieto dell’arte presso i cristiani»
(100*-104*), al «culto cristiano e culto pagano» (104*-105*), al rapporto tra «immagine e
Vangelo» (110*), alle «prove inattendibili a favore del culto delle immagini» (111*-113*) e
alle «interpolazioni e falsificazioni circa il culto delle immagini» (113*-114*): com’è ovvio,
queste sono tematiche di più ampia portata, che ben si inseriscono nel quadro complessivo
della riflessione generale sul rapporto tra produzione iconica e più antica letteratura cristia-
na. M. Bettetini, Contro le immagini. Le radici dell’ iconoclastia, Laterza, Bari 2006 (Uni-
versale Laterza 869), VII, segue la linea interpretativa inaugurata da von Dobschütz, ricon-
ducendo le origini della sacralità dell’immagine cristiana alla comparsa delle leggende
sulle acheropite.
7 W. Elliger, Die Stellung der alten Christen zu den Bildern in den ersten vier Jahrhunder-

ten nach den Angaben zeitgenössischen kirchlichen Schriftsteller, Dieterich, Leipzig 1930 (Stu-
dien über christliche Denkmaler 20); cfr. anche gli sviluppi di questa ricerca in Id., Zur
Entstehung und frühen Entwicklung der Altchristlichen Bildkunst (Die Stellung der Alten Chris-
ten zu den Bildern in den ersten vier Jahrhunderten, Teil 2), Dieterich, Leipzig 1934 (Studien
uber christliche Denkmaler 23). Gli studi di Koch ed Elliger ebbero un forte impatto sul-
la comuntà scientifica, stimolando ricerche anche non direttamente impegnate a definire il
tema dell’origine dell’“arte cristiana”, ma sollecitate dalla visibilità dimostrata dal tema
dell’idolatria – e dell’“opera d’arte” – nella letteratura cristiana delle origini. Tra questi stu-
di meritano di essere menzionati E. Bevan, Holy Images. An Inquiry into Idolatry and Im-
age-Worship in Ancient Paganism and in Christianity, Allen & Unnwin, London 1940, 84-
112, in part. 84, nota 1; H.F. von Campenhausen, Die Bilderfrage als theologisches Problem
der alten Kirche, in Zeitschrift für Theologie und Kirche 49 (1952) 33-60, e N.H. Baynes, Idol-
atry and the Early Church, in Id., Byzantine Studies and Other Essays, Athlone, London 1955,
116-143. Più di recente, cfr. D. Menozzi, La Chiesa e le immagini. I testi fondamentali sulle
arti figurative dalle origini ai nostri giorni, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995, 11-29;
69-118; H.G. Thümmel, Die Frühgeschichte der ostkirchlichen Bilderlehre: Texte und Unter-
suchungen zur Zeit vor dem Bilderstreit, Akademie Verlag, Berlin 1992 (Texte und Untersu-
chungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur 139).

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98 Le matrici di una critica

Il primo di questi risultati, di rilevanza principalmente “metodologi-


ca”, venne conseguito tramite la serie di nove articoli che Theodor Klau-
ser pubblicò nelle prime nove annate degli Jahrbuch für Antike und Chri-
stentum. Si trattava di un progetto scientifico di vasta portata che si
proponeva di documentare, anche per via archeologica, l’assioma critico
che le antologie di Koch ed Elliger avevano concorso a introdurre 8. Per
cogliere appieno l’orizzonte di questa serie di contributi è necessario ri-
cordare che essi si situarono entro il solco che, dal 1929, aveva iniziato a
tracciare la scuola di Bonn – quella animata inizialmente da Hans Lietz-
mann e Franz Joseph Dölger (da cui poi prese il nome l’Istituto che an-
cora oggi ne prosegue l’attività). Si perseguiva qui un approccio essenzial-
mente comparativo e storico delle religioni che ebbe l’enorme merito di
situare criticamente il cristianesimo delle origini entro il più vasto pano-
rama della storia religiosa del mondo antico, ma che, per ciò che concer-
ne l’ambito che ora si sta sondando, concorse fortemente a rinchiudere la
riflessione sulla prima documentazione visuale cristiana entro il perime-
tro delle “arti sacre” del mondo antico e, perciò, in parallelo allo studio
delle prassi idolatriche dell’Antichità. Nasceva in questo modo il principio
che proiettava sulle antiche comunità cristiane l’esclusiva alternativa tra
l’adozione di un’immagine “sacra”, presenza del divino e perciò veneran-
da di per sé, e il più netto rifiuto di ogni espressione iconica.
Il secondo sviluppo ricevuto dall’assioma dell’aniconismo paleocri-
stiano, non meno rilevante del primo, fu autorevolmente introdotto sul
fronte degli studi bizantinistici da Ernst Kitzinger e divenne ben presto
a sua volta normativo. Si tratta di un’opinione che concorse a “canoniz-

8 Cfr. T. Klauser, Studien zur Entstehungsgeschichte der christlichen Kunst I, JbAC 1 (1958)

20-51; II: Heidnische Vorläufer des christlichen Oransbildes, JbAC 2 (1959) 115-145; III:
Schafträger und Orans als Vergegenwärtigung einer populären Zweitugendethik auf Sarkopha-
gen der Kaiserzeit, JbAC 3 (1960) 112-133; IV: Die ältesten biblischen Motive der christlichen
Grabkunst, JbAC 4 (1961) 128-145; V: Der “Sarkophag des Guten Hirten” in Split, JbAC 5
(1962) 113-124; VI: Das Siren Abenteuer des Odysseus – ein Motiv christlicher Grabkunst?, JbAC
6 (1963) 71-100; VII: Noch einmal zur heidnischen Herkunft des Bildmotives der Orans und des
Schafträgers, JbAC 7 (1964) 67-76; VIII: Vorbemerkungen zu abschließenden Untersuchungen
über das Schafträger-Motiv, JbAC 8/9 (1965/1966) 126-170; IX, JbAC 10 (1967) 82-120.

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Il difficile bilancio di una storia insigne 99

zare” la lezione di Koch ed Elliger per altra via, tramite un’ulteriore, de-
cisiva articolazione argomentativa. Sulla scorta di quanto già abbozzato
da George Florovsky 9, infatti, lo storico tedesco-americano riconosceva
nell’iconoclasmo l’ultima sopravvivenza della primigenia attitudine ani-
conica dei cristiani. L’argomentazione del partito ostile alle immagini
poteva in tal modo “ricevere l’eredità” della più antica tradizione cristia-
na: «Invece di pensare in termini di una semplice alternanza tra periodi
contrari all’immagine (anti-iconic) e altri favorevoli ( pro-iconic), è neces-
sario assumere il modello di un conflitto ininterrotto» nel quale «l’ico-
noclasmo bizantino tende a collegarsi più strettamente alla fase aniconi-
ca delle origini cristiane»10. Si favoriva in tal modo un’oscillazione che è
ancora oggi fin troppo presente negli studi critici: abbracciato il presup-
posto che riconosceva nella tradizione iconoclasta l’eco della più antica
riflessione cristiana sull’immagine, si riteneva di poter dedurre che l’in-
tento e l’argomento di questa prima discussione fossero sostanzialmente
sovrapponibili a quelli rilanciati dagli iconoclasti dell’VIII e IX secolo11.
La critica si allineava così a quella lunga teoria di secoli che, come si è
visto, aveva più volte riproposto una simile – pericolosa – retroproiezione
delle istanze iconoclaste sulla teologia delle origini cristiane12.
Questa prospettiva analitica, dalla quale non si è sottratta nemmeno
la più avveduta critica dedita alla “cultura visuale” delle origini cristiane,

9 Cfr. E. Kitzinger, The Cult of Icons before Iconoclasm, in Dumbarton Oaks Papers 8 (1954)

83-150; cfr. anche G. Florovsky, Origen, Eusebius, and the Iconoclastic Controversy, in Church
History 19 (1950) 77-96. Già N.H. Baynes, The Icons before Iconoclasm, in Harvard Theolog-
ical Review 44 (1951) 93-106, aveva posto la questione della possibilità di considerare l’icono-
clasmo bizantino come l’esito di un processo religioso risalente almeno alla fine del V secolo.
10 Kitzinger, The Cult of Icons, 85.
11 Cfr. B. Kötting, Die religiösen Grundlagen der Volksfrömmigkeit als Quelle kirchlich-re-

ligiöser Kunst, in Id., Ecclesia peregrinans, das Gottesvolk unterwegs: Gesammelte Aufsätze,
Aschendorff, Münster 1988, 2, 9-22 (= Schwarz auf Weiss 9 [1977] 3-14); R. Grigg, Aniconic
Worship and the Apologetic Tradition: A Note on Canon 36 of the Council of Elvira, in Church
History 45 (1976) 428-433.
12 Cfr. J.D. Breckenridge, The Reception of Art into Early Church, in Atti IX Congresso

Internazionale di Archeologia Cristiana. Roma, 21-27 Settembre 1975, PIAC, Città del Vati-
cano 1978, 361-369; L.W. Barnard, The Greco-Roman and Oriental Background of the Icon-
oclastic Controversy, Brill, Leiden 1974 (Byzantina Neerlandica 5), 51-52, e 52, nota 5.

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100 Le matrici di una critica

ha molto sfruttato quale “strategico” correlato argomentativo un dato:


l’assenza di documenti visuali cristiani databili prima del III secolo. Il
dato di fatto, interpretato alla luce del contesto ermeneutico sin qui de-
scritto, ne è divenuto la “prova provata”, venendo ciclicamente richiama-
to quale evidenza del ritardo con cui le comunità cristiane avrebbero
iniziato ad accettare di avere immagini loro proprie.
Se, come si vedrà, per un verso la dimensione di questo preteso ritar-
do può essere già di per sé fortemente ridimensionata 13, per altro verso è
necessario riconoscere che esso si basa esclusivamente sulla mancanza di
documenti “d’arte” cristiani databili a prima del III secolo. In altri ter-
mini, tale osservazione, benché ovvia nei fatti, introduce il dubbio che
tale assenza non per forza debba essere ricondotta a un coerente progetto
“ideale”, come oggi si vorrebbe, delle più antiche comunità cristiane, ma
alla semplice dispersione di reperti più antichi. Benché infatti la critica
tenda a correlare elettivamente la mancanza di prodotti iconici cristiani
di I e II secolo alla – presunta – contestazione teologica dell’immagine,
resta necessario chiedersi se tale censura sia mai stata effettivamente pro-
nunciata (in questi termini) e se, nel caso, essa sia stata condivisa dalla
maggior parte dei cristiani.
Un simile approccio alla discussione della prima tradizione visuale
cristiana è però ancora lontano dall’essere condiviso; lo dimostrano le
avvertenze, che ancora è possibile leggere, rispetto al rischio – del tutto
speculare a ciò che ora si sta denunciando – di sovrastimare criticamente
quelle fonti che possano revocare in dubbio il presupposto «coeso anico-
nismo» dei primi due secoli cristani14. Intendiamo dire che il “dato cri-

Cfr. Murray, Rebirth and Afterlife, 13; cfr. comunque ivi, 13-21.
13

Cfr. Fogliadini, L’ immagine negata, 73-77; 90: «Si mostra imperativa l’urgenza di
14

un’analisi attenta rispetto alle attestazioni di immagini a soggetto religioso fino al IV seco-
lo [sic], che evitino sia l’enfasi storiografica con cui spesso sono state investite tali testimo-
nianze sia la loro elezione teologica a inequivocabili indizi di una elaborazione iconofila in
nuce in un’epoca in cui l’avversione veterotestamentaria alle immagini faceva sentire anco-
ra tutto il proprio peso» (76). Come si può leggere, il rischio speculare a quello ora notifi-
cato dalla studiosa – quello, cioè, di una sovraesposizione critica dei presunti indizi di una
radicale opposizione cristiana all’immagine – non è avvertito dall’autrice.

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Il difficile bilancio di una storia insigne 101

tico” stabilito da Koch, Elliger, Klauser e Kitzinger è ancora largamente


rivendicato dalla critica: «Dobbiamo tener sempre presente che la religio-
ne cristiana, da principio, non permetteva alcuna concessione rispetto al
suo totale rifiuto dell’immagine religiosa, specialmente dell’immagine
che esigeva venerazione»15.
Il processo argomentativo che conduce a questa conclusione è dunque
piuttosto semplice da riepilogare: assunto che i diversi movimenti cristia-
ni si costituirono sul piano esclusivamente religioso, l’immagine che essi
produssero non poteva che essere “immagine sacra” e perciò venerata,
venerabile o, al limite, correlata alla prassi del culto. Siccome la lettera-
tura cristiana delle origini espressamente e ripetutamente si esprime con-
tro ogni ipotesi di idolatria – mettendo all’indice in particolare il culto
prestato a oggetti, d’“arte” e non –, è dunque possibile motivare l’inizia-
le assenza di una visualità cristiana con questa intransigente posizione
teologica che, propugnata dalla gerarchia clericale, entrò in crisi tra la
fine del II secolo e gli inizi del III, per la sempre più diffusa prassi icono-
dula delle più umili componenti delle comunità cristiane e per l’insisten-
za di quanti erano maggiormente legati ai costumi della gentilità. La
ferma posizione iconoclasta di VIII e IX secolo può in questo modo es-
sere riguardata come «l’apice di una tendenza aniconica “connaturata” al
cristianesimo stesso fin dalla sua origine, che nel VI secolo raggiunse la
massima espressione proprio in contrasto con il diffondersi di una raffi-
gurazione materiale del divino»16.
Un simile ragionamento mi pare intrinsecamente fragile, gravemente
indebolito da numerosi elementi di inferenza, dei quali vorrei richiamar-
ne almeno tre.
1. Il paradigma “sacro” delle immagini cristiane. Costituisce la prima
forzatura logica e quella che, a mio avviso, più incisivamente com-

15 H. Belting, Likeness and Presence. A History of the Image before the Era of Art, The Uni-

versity of Chicago Press, Chicago (IL) - London 1994, 144.


16 È quanto annota Fogliadini, L’ immagine negata, 80. L’ipotesi è però ben più risalen-

te: sulla longevità di questo schema interpretativo, cfr. già Murray, Rebirth and Afterlife, 13;
Finney, The Invisible God, 10.

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102 Le matrici di una critica

promette la successiva argomentazione. Stabilire pregiudizialmente


lo statuto “sacro” di ogni immagine cristiana – secondo l’accresci-
mento: immagine cristiana à immagine religiosa à immagine
sacra 17 – costringe, infatti, a una forzatura univoca della prospet-
tiva analitica. Benché comunità religiose, le comunità cristiane
furono prima di tutto parte del mondo antico, un mondo “popo-
lato di immagini”, protagonista di una ricca cultura visuale, che
tramite essa si espresse e che certamente non tutte le immagini
considerò sacre18. In altri termini: ciò che sappiamo del mondo
antico – romano-imperiale soprattutto – dichiara una specifica
attitudine nei confronti dell’“immagine” che sarebbe grave voler
trascurare o (peggio!) correlare esclusivamente all’ambito religioso.
Al contrario, il sistema formale dell’arte romana si costituì innan-
zi tutto e «rapidamente in un sistema di comunicazione visiva dif-

17 Benché in forma non del tutto sistematica e, per certi versi, solo in termini abboz-

zati, il tema è però stato posto all’attenzione della critica da un contributo a mio parere
assai significativo se non per gli esiti puntuali a cui esso è pervenuto, per la definizione di
questo rilevante snodo critico: P. Prigent, Immagini cristiane, immagini sacre. Un proble-
ma storico-teologico del paleocristianesimo, in E. Genre - Y. Redalié (curr.), Arte e Teologia.
Relazioni della «Rencontre des Facultés de théologie protestantes des pays latins», Roma, set-
tembre 1995, Claudiana, Torino 1997 (Collana della Facoltà Valdese di Teologia 21), 59-
71, in part. 70-71. Più lucidamente si è espressa in tal senso E. Brunet, Alle radici dell’ im-
magine cristiana. Considerazioni sulla supposta antinomia tra arte sacra orientale e
occidentale, in Marcianum 9 (2013) 139-165, in part. 141-144: «È utile ricordare che una
considerazione non univoca della natura dell’immagine cristiana, e certamente non mo-
nolitica rispetto alle sue funzioni, è avocata dalla stessa pluralità di livelli problematici che
essa suscita » (141).
18 Questa premessa risente forse dell’attitudine critica di voler considerare il religioso

come categoria “pregiudiziale”: se è argomento religioso, non può che essere comparato a,
o analizzato con, altri argomenti religiosi. E così l’attitudine dei primi cristiani verso l’im-
magine viene comparata a quella documentabile presso le religioni del mondo classico o a
quella dei movimenti giudaici prima, ed ebraici poi. Un simile termine di paragone, ovvia-
mente del tutto legittimo, diventa disfunzionale quando praticato esclusivamente. Ha sen-
so, in altri termini, domandarsi anche se sia possibile l’esistenza di un’immagine cristiana
non sacra, non venerata né venerabile, e se questa immagine non debba essere studiata at-
traverso categorie difformi da quelle impiegate per l’icona. Per altro verso, la distinzione tra
immagine e idolo è del tutto interna al pensiero filosofico antico e, in quanto tale, riverbe-
rava abbondantemente nella polemica anticristiana così come ha dimostrato, con encomia-
bile pazienza, M. Zambon, «Nessun dio è mai sceso quaggiù». La polemica anticristiana dei
filosofi antichi, Carocci, Roma 2019 (Frecce), 123-134.

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Il difficile bilancio di una storia insigne 103

ferenziato e accessibile senza troppe difficoltà; rimase poi in vigo-


re […] in modo piuttosto costante per almeno due secoli a partire
dall’età imperiale. Fu un mezzo informativo la cui validità e chia-
rezza erano comunemente riconosciute»19. Non si può dunque
escludere a priori che le comunità cristiane, essendo parte di questo
mondo, possano aver adottato immagini di questa natura: non
“sacre”, ma didascaliche, non venerande, ma semplicemente da ve-
dere, non intrinsecamente (o necessariamente) religiose, ma con-
divise, non quanto al messaggio ma per la specie di visualità.
2. I contenuti della letteratura cristiana del II secolo. Come ha giusta-
mente sottolineato Mary Charles Murray, «è la mancata osserva-
zione da parte degli studiosi moderni ad aver condotto all’identi-
ficazione tra ciò che nella Chiesa primitiva era un’affermazione,
forse un’esagerazione, contro l’idolatria in generale, e la polemica
bizantina sulla correttezza dell’uso delle immagini per scopi reli-
giosi all’interno della Chiesa»20. Il punto è decisivo: l’argomento
della polemica anti-idolatrica non era avviare la discussione di una
“teoria dell’immagine cristiana”, ma condannare il sistema religio-
so del mito. Del resto, come scrive Piergiuseppe Bernardi: «A es-
sere al centro del dibattito cristiano dei primi secoli non è ovvia-
mente l’immagine in generale […], quanto piuttosto l’immagine
che rischia di trasformarsi in idolo»21. A questo va poi aggiunta
un’ulteriore considerazione: proiettare la presunta staffetta tra ico-
noclasmo (o aniconismo) dei primi due secoli cristiani e iconodu-
lia (o anche solo “visualità”) dal III in poi sulla dialettica tra teo-
logia delle gerarchie ecclesiastiche e spontaneismo (sincretista)
“popolare” implica una preconcetta distorsione clericale delle ori-
gini cristiane. Come si vedrà, inoltre, l’immagine paleocristiana fu

19 T.G. Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana. Un sistema semantico, Einaudi, Torino

20022 (Piccola Biblioteca Einaudi 171), 107.


20 Murray, Rebirth and Afterlife, 19.
21 P. Bernardi, I colori di Dio. L’ immagine cristiana fra Oriente e Occidente, Paravia Bru-

no Mondadori, Milano 2007 (Sintesi), 47.

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104 Le matrici di una critica

tutt’altro che un prodotto digiuno di competenze ermeneutiche e


teologiche o privo di originalità elaborativa 22.
3. La sovrapposizione tra assenza documentaria e dato letterario. Se si
accetta che la più antica tradizione cristiana non fosse interessata a
una polemica contro l’immagine tout court ma soltanto contro il
culto dell’immagine, diventa più difficile impiegare questo argo-
mento per spiegare l’assenza di documenti visuali cristiani risalenti
a prima del III secolo. Com’è ovvio, ciò non nega l’indisponibilità di
documenti visuali cristiani di I o II secolo, ma sollecita a verificare
la possibilità di spiegazioni alternative per interpretare questo dato
di fatto. Benché talora rilanciata, non pare del tutto convincente
l’ipotesi di una committenza cristiana più contenuta, nei primi due
secoli, motivata dalla marginalità di quelle comunità cristiane 23. Al
contrario, mi sembra efficace il richiamo all’incidenza dei sequestri
e delle distruzioni di beni cristiani – mobili (codici e suppellettili di
qualsiasi valore) e immobili – che ebbero luogo durante le persecu-
zioni, certamente durante quelle sistematiche, ma plausibilmente
anche in quelle prima di Decio e Valeriano24. Soprattutto in rela-

Vedi infra, pp. 311-465.


22

Cfr. Finney, The Invisible God, 99-115; R.M. Jensen, Understanding Early Christian Art,
23

Routledge, London - New York (NY) 2000, 13-15. L’elemento più vulnerabile di questa ipo-
tesi coincide con la descrizione delle comunità cristiane antiche quali gruppi di marginali nel
mondo antico. Certamente non si trattò di gruppi “di potere”, ma non è possibile dimentica-
re tutti quei marcatori che suggeriscono di dislocare le comunità cristiane in quote sociali me-
dio-alte. Il possesso di schiavi (cfr. Fm 10-19; Ef 6,5; Tt 2,9), l’ampia alfabetizzazione e la pre-
coce circolazione di manoscritti, la peculiare prossimità agli ambienti filosofici (si pensi ad At
17,16-33 o al dialogo che, sin dalla prima metà del II secolo, l’apologetica cristiana intratten-
ne con la filosofia), il profilo culturale (e biografico) di autori quali Clemente (che al tema del-
la compatibilità tra fede cristiana e ricchezza dedicò il trattaello Quale ricco si salva) e Tertul-
liano, o quali Origene e Cipriano, il primo sostenuto dall’inesauribile supporto finanziario
concessogli da Ambrogio, il secondo erede egli stesso di una delle più ricche famiglie di Car-
tagine ecc. Sul tema della committenza, vedi comunque infra, pp. 287-299.
24 Non disponiamo del testo degli editti, la cui portata però è ben chiaramente documen-

tata dai contemporanei (si pensi all’epistolario ciprianeo o a quanto ne scrive Dionigi di Ales-
sandria o alla sorte dello stesso Origene). Qui è sufficiente richiamare il tema della centralità
giocata dalla publicatio bonorum, la confisca dei beni, prevista per i cristiani (cfr. Cipriano, Let-
tera 80 1-2). Si tratta del provvedimento che conosce il più significativo incremento normati-
vo, nel senso che, mentre sotto Decio bastava l’abiura per sospendere qualsiasi iniziativa repres-

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Il difficile bilancio di una storia insigne 105

zione a quest’ultimo punto, vale la pena osservare, proprio nell’am-


bito della repressione anticristiana dei due editti di Valeriano, l’in-
gresso nel lessico ufficiale imperiale dei «cosiddetti cimiteri (ta
kaloumena koimētēria)»25. Il dato è rilevante perché «l’uso di questa
parola (coemeterium, koimētērion) nel senso di luogo di sepoltura dei
morti, è proprio e caratteristico, nel mondo antico, degli ebrei e dei
cristiani»26. Il termine viene impiegato dalle cancellerie imperiali
per indicare luoghi di riunione e aggregazione, di proprietà comu-
nitaria, distintivamente identificati come cristiani: la connessione
tra le Chiese e questi scrigni di immagini veniva in tal modo perce-
pita e formalizzata dalle stesse autorità inquirenti. A riprova dell’in-
cisività della stagione delle “persecuzioni” 27 nella storia dell’“arte
paleocristiana”, i luoghi di quella primigenia “visualità” (la prima
produzione figurativa cristiana fu principalmente funeraria) vengo-
no posti sotto sequestro e interdetti alle Chiese.
---

La condanna dell’idolatria fu formulata, lungo tutto l’arco della storia


cristiana, senza alcuna esitazione, e certamente tale fu anche la posizione

siva, sotto Valeriano questa avrebbe salvato solo dalla pena capitale, non dalla confisca dei beni:
cfr. P. Keresztes, Two Edicts of the Emperor Valerian, in Vigiliae Christianae 29 (1975) 81-95;
C.J. Haas, Imperial Religious Policy and Valerian’s Persecution of the Church, A.D. 257-260, in
Church History 52 (1983) 133-144, in part. 139; A. Barzanò, Il cristianesimo nelle leggi di Roma
imperiale, Paoline, Milano 1996 (Letture cristiane del primo millennio 24), 46-47.
25 Cfr. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 7,11,10, dove si riporta il decreto prefetti-

zio di Lucio Mussio Emiliano, viceprefetto d’Egitto, applicativo degli editti di Valeriano.
26 U. Fasola, s.v. «Cimitero», in NDPAC 1, 1015-1027, qui 1015.
27 Qui come altrove uso il lemma “persecuzione” – e correlati – tra virgolette (preferen-

dogli ove possibile la locuzione “repressione del cristianesimo”), non per sminuire l’incisi-
vità del fenomeno, ma per non assumere univocamente, rispetto ad esso, la prospettiva cri-
stiana. Giustamente sul tema attira l’attenzione D. Annunziata, «Nomen christianum»: sul
reato di cristianesimo, in Rivista di Diritto Romano 14 (2014) 1-9, qui 9, nota 63: « A ben ve-
dere lo stesso termine utilizzato dalla storiografia tradizionale, “persecuzioni”, non pare cor-
retto […]. Le procedure intraprese contro i cristiani s’inseriscono nell’ordinaria attività im-
periale di repressione criminale, secondo la coscienza giuridica del tempo. Ragion per cui
non si può parlare tecnicamente di “persecuzione”, termine che include un’accezione nega-
tiva sganciata da un modello criminale di riferimento».

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106 Le matrici di una critica

espressa in proposito dai primi autori cristiani, i quali, se pure si distin-


sero in questa tradizione, lo fecero per una sorta di eccesso di zelo, ben
riconoscibile nell’intransigenza con cui argomentarono la loro contra-
rietà 28. Ciò è fuor di dubbio, così come penso debba essere ormai posto
fuori di dubbio che la prima immagine cristiana non abbia esibito alcun
tratto “sacro” né abbia suscitato alcuna prassi idolatrica; come scrive Da-
niele Menozzi: «Nei primi tre secoli i cristiani manifestano, almeno nei
testi letterari che ci sono pervenuti […], una netta opposizione verso le
immagini utilizzate a scopi di culto […]. Questo orientamento di fondo
non implica tuttavia il ripudio totale di immagini per fini non cultuali»29.
È questa la ragione che mi spinge a dubitare della possibilità di analizza-
re questa prima stagione della “visualità” cristiana alla luce delle catego-
rie introdotte nel corso di quel dibattito. Tanto più che, come sottolinea-
to da Bernard Pouderon, presso i più antichi autori cristiani,
la condanna delle arti profane non impediva affatto l’ammirazione della bel-
lezza formale delle opere […]. ‹Il› Rifiuto di un’arte legata al politeismo non era
senza contraddizioni […]. Il miglior esempio che si possa trovare si ricava dal
romanzo clementino. Il suo redattore, un ebreo-cristiano della Siria-Palestina,
critica la frequentazione dei santuari del paganesimo […]. Ma i suoi due eroi,
Pietro e Clemente, vanno come turisti a visitare l’isola di Arado per vedervi un
tempio magnifico e ammirarvi delle statue di Fidia che si suppone rappresen-
tino qualche divinità pagana 30.

Come si vedrà, la cultura visuale cristiana non nascerà per rispondere


all’appassionante ricerca del “bello” né si offrirà al suo spettatore quale
prodotto d’“arte”, per come abitualmente si intendono oggi questi termi-
ni: essa sarà invece innanzi tutto impiego di un codice espressivo ed eser-
cizio ermeneutico applicato alle Scritture. D’altra parte, l’osservazione di

28 Cfr. di recente la panoramica di M. Barasch, Icon. Studies in the History of an Idea,

New York University Press, New York (NY) - London 1992, 95-182.
29 Menozzi, La Chiesa e le immagini, 11-12.
30 B. Pouderon, I primi cristiani e la cultura greca, in J.-M. Mayeur et alii (curr.), Storia

del Cristianesimo. Religione - Politica - Cultura, 1: L. Pietri (cur.), Il nuovo popolo (dalle ori-
gini al 250), Borla - Città Nuova, Roma 2003, 766-825, qui 792. Cfr. Omelie pseudoclemen-
tine 12,12 = Ricognizioni 7,12; cfr. anche Origene, Contro Celso 8,17.

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Bernard Pouderon sottolinea come, nelle opere confezionate entro le cer-


chie ecclesiastiche più formate – tutt’altro, dunque, di un rigurgito di
paganesimo latente nei cristiani meno consapevoli –, si possono rintrac-
ciare i sintomi di una sensibilità educata anche alla considerazione di quel
tema: la bellezza dell’“arte”.

2. IL CASO DELL’ICONOGRAFIA DELLA SINAGOGA


Un rilevante contributo per la ridiscussione dei presupposti teorici
della primigenia produzione visuale cristiana è giunto dalla ricerca, per
certi versi parallela, sulla ricezione dell’immagine presso i giudaismi del
Secondo Tempio, prima, e delle prime aggregazioni dell’ebraismo rabbi-
nico, poi.
Il parametro che questi studi hanno fornito è di straordinario interes-
se, per almeno tre ragioni: innanzi tutto perché era stata proprio la nozio-
ne della matrice giudaica dei primi movimenti cristiani ad aver concorso
a consolidare l’assioma del presunto aniconismo cristiano delle origini 31;
secondariamente perché né gli ultimi giudaismi né i primi secoli dell’e-
braismo rabbinico conobbero nulla di simile a quella crisi iconoclasta che,
per almeno tutto l’VIII secolo, egemonizzò l’agenda teologica cristiana 32;

31 Cfr. G. Sed-Rajna, L’argument de l’ iconophobie juive, in Boespflug - Lossky (éds.), Ni-

cée II, 787-1987, 81-88. Non si dimentichi che gli studi di Hugo Koch e di Walter Elliger si
inseriscono nella stagione scientifica che von Harnack aveva aperto rilanciando il tema della
competizione tra componente giudaica e componente gentile nelle origini cristiane. Come
noto, la soluzione di von Harnack valorizzò grandemente la matrice “giudaico-cristiana”
(un’efficace storia di questa categoria si può leggere in C. Gianotto, Ebrei credenti in Gesù. Le
testimonianze degli autori antichi, Paoline, Milano 2012 [Letture cristiane del primo millen-
nio 48], 14-40), concorrendo a definire una sorta di “paradigma giudaico” delle origini. Nel-
la presentazione del messaggio di Gesù, A. von Harnack, L’essenza del cristianesimo, Bocca,
Torino 1923 (Piccola Biblioteca di Scienze moderne 59), 51-52, suggeriva di non chiedersi più
cosa vi fosse di nuovo in esso, «domandiamo piuttosto: che c’era di puro e di vigoroso in que-
sta nuova religione?». Dunque il cristianesimo e il suo pensiero potevano essere intesi, sul pia-
no del messaggio, come un’“intensificazione” del giudaismo: l’influenza che un simile ap-
proccio critico poté esercitare sul tema del rifiuto dell’immagine presso i cristiani,
considerato che agli inizi del XX secolo l’aniconismo più rigoroso veniva presentato come un
dato auto-evidente della storia del giudaismo e del rabbinismo, è facile da immaginare.
32 Il tema è rilevante perché, come si è visto, in ambito cristianistico l’argomento dell’at-

titudine nei confronti dell’immagine nei primi secoli ha dovuto confrontarsi costantemen-

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108 Le matrici di una critica

infine perché il quadro archeologico emerso ha costretto a rivedere forte-


mente il presupposto di un “aniconismo normativo” di Israele 33.
Volendo partire da quest’ultimo punto, è forse utile iniziare dalla sche-
matizzazione terminologica – e concettuale – su cui mi sembra che gran
parte della letteratura relativa alla cultura visuale dell’Israele tardo-antico
e alto-medievale ancora oggi affondi le proprie radici. Come mostra lo
schema seguente, è necessario innanzi tutto distinguere tra ciò che fu
prassi comunemente perseguita (de facto) da ciò che eventualmente si
espresse attraverso una esplicita normazione. Se sul piano documentario
questa differenza non è percepibile – entrambe le alternative si risolvono
in un’assenza di prodotti visuali –, sul piano ideale essa stabilisce una
soglia assai rilevante. Secondariamente, va ricordata la modulazione, più
attenuata o più severa, con cui uno stesso atteggiamento può esprimersi
storicamente.
In altri termini, l’esito documentario non può essere correlato pregiudi-
zialmente e univocamente a una sola motivazione, ma si deve considerare
una gamma di ragioni neppure necessariamente reciprocamente esclusive.

te con il “parametro teologico” dato dalle diverse posizioni che si fronteggiarono durante la
disputa iconoclasta dell’VIII secolo. L’assenza di questo “parametro” nelle diverse tradizio-
ni di Israele ha permesso agli studi di affrontare più autonomamente l’argomento delle “im-
magini della Sinagoga”. Anche il rinnovato rigorismo rabbinico che si osserva nelle fonti del
VI secolo – una «vague iconoclaste »: P. Prigent, Le Judaïsme et l’ image, Mohr, Tübingen 1990
(Texte und Studien zum Antiken Judentum 24), 349; cfr. anche 32-35 – non ebbe né la por-
tata né gli esiti dell’iconoclasmo cristiano.
33 Per la distinzione tra aniconismo “di fatto” (l’assenza di immagini) e aniconismo “pro-

grammatico” (la teorizzazione del rifiuto delle immagini), dopo H. Gressmann, Die Lade
Jahves und das Allerheiligste des salomonischen Tempels, Kohlhammer, Berlin - Stuttgart -
Leipzig 1920 (Forschungsinstitute für Religionsgeschichte - Israelitisch-Jüdische Abteilung
5), 67-72 (69: «Mosè non adorava le immagini [verehrte keine Bilder], non perché non gli
fosse permesso, ma semplicemente perché non le aveva »), cfr. K.-H. Bernhardt, Gott und
Bild. Ein Beitrag zur Begründung und Deutung des Bilderverbotes im Alten Testament, Evan-
gelische Verlagsanstalt, Berlin 1956 (Theologische Arbeiten 2), 149; O. Keel, Jahwe-Visio-
nen und Siegelkunst. Eine neue Deutung der Majestätsschilderungen in Jes 6, Ez 1 und 10 und
Sach 4, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1977 (Stuttgarter Bibelstudien 84/85), 44; T.D.N.
Mettinger, Veto on Images and the Aniconic God in Ancient Israel, in H. Biezais (ed.), Reli-
gious Symbols and Their Functions. Based on Papers Read at the Symposium on Religious Sym-
bols and Their Functions, Held at Åbo on the 28th-30th of August 1978, Almqvist & Wik-
sell, Stockholm 1979 (Scripta Instituti Donneriani Aboensis 10), 15-29, qui 22.

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Il difficile bilancio di una storia insigne 109

Figura 4: lo schema binario di T.N.D. Mettinger, No Graven Image? Israelite


Aniconism in Its Ancient Near Eastern Context, Almqvist & Wiksell, Stockholm
1995 (Coniectanea Biblica - Old Testament 42), 18. L’intuizione che sorregge
questa classificazione della censura religiosa dell’immagine va rintracciata nel-
la distinzione tra «tradizioni» che si limitano a non recepire alcuna iconografia
e «tradizioni» che invece censurano l’immagine o, peggio, costituiscono la pro-
pria identità sulla sua condanna.

Il vantaggio della schematizzazione introdotta di Tryggve N.D.


Mettinger 34 è duplice: per un verso essa sottolinea come il medesimo
esito – l’assenza di immagini – possa essere ricondotto a una gamma
di circostanze storiche difformi, talora neppure idealmente sovrappo-
nibili; per altro verso essa pone in evidenza la progressività e la fluidità
che, in una medesima tradizione, può portare dall’una all’altra parte
della stessa tabella. Secondo Mettinger, in altri termini, è necessario ab-
bandonare l’univocità nell’approccio al tema della valutazione religiosa
dell’immagine e dedicarsi ad esso da una prospettiva più radicalmente
diacronica. Anziché postulare una priorità dell’aniconismo program-
matico su quello de facto, egli potè in tal modo proporre l’esatto con-
trario: «Mi sembra che il veto sulle immagini sia stato formulato sulla
base di una precedente tradizione di aniconismo praticata convenzio-

Questa fondamentale classificazione della teoresi religiosa dell’immagine descritta da


34

Mettinger, No Graven Image?, 17-18, si basa sugli studi di V. Turner - E.L.B. Turner, Image
and Pilgrimage in Christian Culture. Anthropological Perspectives, Columbia University Press,
New York 1978 (Lectures on the History of Religions - New Series 11), 235, e di B. Gerhardsson,
The Gospel Tradition, CWK Gleerup, Lund 1986 (Coniectanea Biblica. New Testament Series
15), 15-16; centrale appare la distinzione tra «tradizione programmatica» e «tradizione de facto».

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110 Le matrici di una critica

nalmente»35, a riprova di quanto, in quest’ambito, le categorie possano


risultare fuorvianti.
Ben prima di questa matura acquisizione di coscienza critica, an-
che gli studi sulla cultura visuale di Israele dovettero scontrarsi con il
pregiudizio che pretendeva il fermo aniconismo del Tempio, prima, e
della Sinagoga, poi: «Il termine “arte” – lamentava Joseph Gutmann
nel 1961 – […], quando accostato al giudaismo, tende a evocare una
serie di negazioni». La motivazione che veniva identificata per spiegare
questo atteggiamento critico era sorprendentemente simile a quella che
Mary Charles Murray chiamerà in causa, vent’anni dopo, per motivare
la persistenza del medesimo assioma negli studi sulle origini cristiane:
«L’equivoco è sorto in gran parte perché gli studiosi […] hanno citato
indiscriminatamente fonti letterarie come la Bibbia, Giuseppe Flavio e
Filone per corroborare le loro nozioni preconcette (to bolster their pre-
conceived notions), trascurando di considerare che queste fonti derivano
da contesti sociali diversi e da epoche diverse»36. Lo studio di Gutmann
si segnalava per un’importante scelta argomentativa: piuttosto che as-
sumere l’evidenza archeologica (si pensi solo alle celebri pitture della
sinagoga di Dura Europos, ai mosaici di Bet Alpha o alle catacombe
giudaiche di Roma, tutti già noti ai tempi della sua ricerca) per affer-
mare una cultura visuale de facto, interveniva direttamente sul signifi-
cato del secondo comandamento, revocando in dubbio la sua funzione
statutaria.

35 Mettinger, No Graven Image?, 19. Peraltro, l’autore sottolinea anche l’opportunità di

restringere il campo d’impiego del termine “aniconismo”, suggerendo di ricorrere alla lo-
cuzione di «tendenze aniconiche» là dove non siano documentabili severe condizioni di as-
senza dell’immagine («Culti in cui non esiste una rappresentazione iconica della divinità
[…] che funge da simbolo cultuale dominante o centrale, cioè quando si tratta [a] di un sim-
bolismo aniconico o [b] di un sacro vuoto»: ibidem; cfr. anche C. Renfrew, The Archaeol-
ogy of Cult: The Sanctuary at Phylakopi, The British School of Archaeology at Athens, Lon-
don 1985 [The British School of Archaeology at Athens - Supplementary Volume 18],
22-23).
36 Entrambe le citazioni provengono da J. Gutmann, The “Second Commandment” and

the Image in Judaism, in Hebrew Union College Annual 32 (1961) 161-174, qui 161; cfr. an-
che C. Konikoff, The Second Commandment and Its Interpretation in the Art of Ancient Is-
rael, Journal de Genève, Genève 1973; vedi anche supra, p. 90.

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Il difficile bilancio di una storia insigne 111

Lungo questo solco, gli studi si sono dunque indirizzati verso un ap-
profondimento dello “statuto biblico” sul quale si sarebbe fondato l’asse-
rito aniconismo giudaico ed ebraico, discutendo sia l’originale significato
del secondo comandamento (Es 20,4-5.23; Dt 4,15-19.23; 5,8; cfr. anche
Lv 19,4; 26,1; Dt 27,15) sia la sua efficacia nella prassi cultuale e religio-
sa di Israele 37. Non credo abbia molto senso ripercorrere qui la storia di
queste ricerche: sarebbe dispersivo e, in ogni caso, comporterebbe delle
semplificazioni e delle omissioni. Basti sinteticamente affermare che esse
hanno portato a riconoscere il valore identitario attribuito a questa norma
prototestamentaria 38 e, simultaneamente, a constatarne la moderata effi-
cacia nella prassi religiosa del Tempio e della Sinagoga antichi (cfr. alme-
no Es 25,17-22; 26,31; 31,3.6.11). In altri termini: «La conclusione a cui
inevitabilmente si giunge […] è che un atteggiamento rigidamente e uni-
formemente anti-iconico da parte della cultura giudaica resta un mito
tanto quanto quel letto di Procuste su cui la storia dell’arte ebraica è sta-
ta così spesso costretta a giacere»39.
Soprattutto in relazione a quest’ultimo punto, la ricerca ha potuto
spingersi anche oltre, constatando la simultaneità storica di una teologia
che, per quanto plurale, ha costantemente e fedelmente rilanciato il fermo
divieto di ogni forma di idolatria accanto a una diffusa produzione arti-
stica che, pur senza raggiungere volumi comparabili a quelli cristiani, è
certo sufficiente per testimoniare una disinvolta frequentazione dell’im-

37
Oltre al già menzionato Mettinger, No Graven Image?, mi limito qui a citare H. Knut,
Deuteronomy 4 and the Second Commandment, Peter Lang, New York (NY) 2003 (Studies
in Biblical Literature 60); N. MacDonald, Aniconism in the Old Testament, in R.P. Gordon
(ed.), The God of Israel, Cambridge University Press, Cambridge 2007 (University of Cam-
bridge Oriental Publications 64), 20-34, in part. 31-33; A. Schenker, Das Paradox des israe-
litischen Monotheismus in Dtn 4,15-20. Israels Gott stiftet Religion und Kultbilder der Völker,
in S. Bickel et alii (hrsg.), Bilder als Quellen. Images as Sources: Studies on Ancient Near East-
ern Artefacts and the Bible Inspired by the Work of Othmar Keel, Academic Press Fribourg
- Vandenhoeck & Ruprecht, Fribourg - Göttingen 2007 (Orbis Biblicus et Orientalis Son-
derband - Special volume), 511-528. Per una prima introduzione, mi permetto di rinviare
anche a Pelizzari, Vedere la Parola, 28-33.
38 Cfr. S. Pearce (ed.), The Image and Its Prohibition in Jewish Antiquity, Journal of Jewish

Studies, Oxford 2013 (Journal of Jewish Studies Supplement Series 2).


39 Gutmann, The “Second Commandment”, 174.

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112 Le matrici di una critica

magine anche in ambito cultuale 40. Il dato è cruciale perché attesta un


processo di appropriazione dell’immagine e di “coabitazione ideale” tra i
due principi – considerati incompatibili tra loro in ambito cristianistico –
di una matura attitudine iconica, da una parte, e di una ferma teologia
anti-idolatrica, dall’altra 41. Si può persino affermare che tale tensione si
sia protratta così a lungo da divenire essa stessa identitaria e costitutiva
della prassi religiosa ebraica 42.
L’ampiezza della documentazione archeologica disponibile e la radi-
cale rivalutazione del significato e dell’impatto avuto dal secondo coman-

40 Limitandosi alle sole evidenze archeologiche, meritano di essere menzionati: R. Ha-

chlili, Ancient Jewish Art and Archaeology in the Land of Israel, Brill, Leiden et alibi 1988
(Handbuch der Orientalistik. Der Alte Vordere Orient. Abschnitt. Die Denkmäler. Vor-
derasien 4); D. Urman - P.V.M. Flesher (eds.), Ancient Synagogues: Historical Analysis and
Archaeological Discovery, Brill, Leiden - New York (NY) - Köln 1994-1995 (Studia Post-Bi-
blica 47,1-2); R. Hachlili, Ancient Jewish Art and Archaeology in the Diaspora, Brill, Lei-
den - Boston (MA) - Köln 1998 (Handbuch der Orientalistik. Der Nahe und Mittlere
Osten 35).
41 Cfr. a questo proposito il tentativo di ridefinizione della questione proposto da

C. Uehlinger, Beyond “Image Ban” and “Aniconism”: Reconfiguring Ancient Israelite and Early
Jewish Religion\s in a Visual and Material Religion Perspective, in B. Meyer - T. Stordalen (eds.),
Figurations and Sensations of the Unseen in Judaism, Christianity and Islam: Contested Desires,
Bloomsbury, London et alibi 2019 (Bloomsbury Studies in Material Religion), 99-123. Me-
rita di essere segnalata l’osservazione di Bettetini, Contro le immagini, 63, che giustamente at-
tira l’attenzione sulle motivazioni del carattere radicalmente anti-iconico che il testo di Dt
5,7 e Es 20,4 sembra tradire: «Il comando è chiaro ed è sempre stato interpretato dalla cul-
tura ebraica come una proibizione a farsi creatori di cose copiate dalla realtà, per allontanare
la tentazione dell’idolatria, ma anche certamente per non pretendere di imitare l’unico vero
Creatore». Questo secondo aspetto del divieto prototestamentario – non “produrre figure” –
risultò meno efficace del primo – il divieto dell’idolatria –, non impedendo, come già sotto-
lineato, l’ampia diffusione di immagini e simboli nella cultura dell’Israele antico.
42 Ciò vale anche per l’attualità, come efficacemente sintetizza M. Raphael, Judaism and

the Visual Image. A Jewish Theology of Art, Continuum, London - New York (NY) 2009
(Continuum Religious Studies), 19-20: «Il secondo comandamento rimane “significativo
come distintivo dell’identità ebraica” […]. Ma poiché le violazioni del secondo comanda-
mento non provocano più una grande reazione salvo che nelle comunità più ortodosse, Mo-
nica Bohm-Duchen descrive la tradizionale diffidenza ebraica verso l’immagine scolpita co-
me “praticamente obsoleta”. L’interesse intellettuale per il secondo comandamento
potrebbe essere vivo, ma molto meno la sua osservanza » (le citazioni interne sono da M.
Bohm-Duchen, Rebellious Rubies, Precious Rebels, in Ead. - V. Grodzinski [eds.], Rubies and
Rebels: Jewish Female Identity in Contemporary British Art, Lund Humphries, London 1996,
41-59, qui 42; 53). Cfr. anche Y. Feder, The Aniconic Tradition, Deuteronomy 4, and the Pol-
itics of Israelite Identity, in Journal of Biblical Literature 132 (2013) 251-274.

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Il difficile bilancio di una storia insigne 113

damento nelle tradizioni dei giudaismi tardi e dei primi ebraismi rabbi-
nici hanno infine condotto a un vivace dibattito sul simbolismo
dell’“arte” giudaica, ambito nel quale i tredici volumi della monumenta-
le ricerca di Erwin R. Goodenough hanno giocato un ruolo indiscutibi-
le 43. Al di là degli esiti, che qui non importa ripercorrere e che certo sono
incomprimibili in una sintesi unitaria, resta comunque ormai acquisito
il principio che essi hanno stabilito: riconoscere in questa cultura visuale
una spiccata vocazione argomentativa. Le “immagini della Sinagoga”,
infatti, non furono esclusivamente né principalmente fregio e decoro:
furono contenuto e argomento, furono una risorsa lucidamente e scien-
temente impiegata da Israele. Come scrisse Pierre Prigent:
Quest’epoca ‹III-V secolo› è per noi la preziosa testimonianza di una fede
che, senza rinnegare la propria identità ebraica, ha cercato di esprimerla in un
nuovo linguaggio a misura d’uomo, cioè di tutti gli uomini (perché le immagi-
ni superano le barriere linguistiche), e della totalità dell’uomo (perché l’imma-
gine, in rapporto dialettico con il discorso o con il testo, concerne insieme l’in-
telligenza e la sensibilità) 44.

43 Oltre ai volumi di E.R. Goodenough, Jewish Symbols in the Graeco-Roman Period,

Pantheon, New York (NY) 1953-1968 (poi raccolti in una Abridged Edition a cura di J. Neusner
per i tipi di Princeton University Press, Princeton [NJ] 1988), cfr. i due saggi di Prigent, Le
Judaïsme et l’ image; Id., L’ image dans le Judaïsme. Du IIe au IVe siècle, Labor et Fides, Genève
1991 (Le monde de la Bible 24); cfr. anche S. Fine, Art and Judaism in the Greco-Roman
World: Toward a New Jewish Archaeology, Cambridge University Press, Cambridge - New
York (NY) 2005.
44 Prigent, Le Judaïsme et l’ image, 349.

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V.

PER UN APPROCCIO CRITICO


ALLA CULTURA VISUALE CRISTIANA DELLE ORIGINI
(I-IV SECOLO)

Come si è visto, non è sufficiente affermare che la disputa sull’icona, nel


cuore dell’agenda teologica di VII e VIII secolo, si sia limitata a decidere
dell’impiego delle immagini; è più corretto dire che essa pervenne al conio
di un vero e proprio sistema ideale dell’immagine sacra. L’argomento di que-
sto sistema, infatti, non fu genericamente l’“immagine”, ma un certo tipo di
immagine – l’icona1 –, colto nel suo contesto di fruizione – il culto della
Chiesa. Prestando attenzione al solo nucleo teoretico di questa vicenda, in-
fatti, si riconosce che la discussione non sorse quale discussione del concet-
to di “immagine (eikon)”, ma quale risposta alla necessità di disciplinare la
prassi ecclesiale. Da questo dibattito derivò, è vero, un’imponente e com-
plessa teologia dell’icona, ma non fu con questo fine che esso prese avvio.
Scopo di queste pagine non è ovviamente quello di istruire un “pro-
cesso alle intenzioni” di questa storia, ma di valutare se premesse, argo-
mento ed esiti della “questione iconoclasta” possano fornire categorie
utili alla comprensione critica dell’immagine paleocristiana (I-IV secolo)
o se, come reputo necessario, non sia il caso di fondare la conoscenza di
quella primigenia cultura visuale su caratteri distinti e distintivi: trascu-
rare la difformità tra l’oggetto disputato nei “secoli iconoclasti” (l’icona
e l’immagine iconica) e la natura della prima tradizione visuale cristiana,
infatti, espone al concreto rischio di fraintendere quest’ultima.

1 Per la distanza tra “immagine” e “icona” nella cultura latina, cfr. A. Minazzoli, «Ima-

go» / «icona»: esquisse d’une problématique, in Boespflug - Lossky (éds.), Nicée II, 787-1987,
313-316. Più in generale, per la definizione ideale dello scarto tra questi due nuclei argo-
mentativi, cfr. G. Dagron, Décrire et peindre. Essai sur le portrait iconique, Gallimard, Paris
2007 (Bibliothèque illustrée des histoires), 65-83.

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Per un approccio critico 115

1. IL NECESSARIO RITORNO ALLE ORIGINI: PRIMA DELL’ICONA


1.1. Il nodo storiografico. L’icona come crisi: il rischio di una storia a ritroso
Come si è visto, la concettualizzazione teologica del tema dell’imma-
gine è il risultato di un complesso itinerario speculativo che presuppone
e argomenta non la “figura” ma l’“icona”, nel senso già maturo di cui il
termine si era caricato nella tradizione cultuale e teoretica bizantina del
VI-VII secolo2. Radice e alimento di ogni pensiero iconosofico 3, l’ico-
na fu innanzi tutto “simbolo”, nel senso che Paul Evdokímov diede al
termine (ciò che «contiene la presenza di ciò che simbolizza»), non “se-
gno”4 (cioè la figura che si limita a riflettere, a indicare).
Per questa via il discorso sull’icona potè divenire autentica teologia
poiché all’icona veniva attribuita la capacità di attestare il divino, per ope-
ra dello Spirito5: la bellezza divenne in tal modo la sintassi di questa sophia
effusa. Non si parla qui di una bellezza secondo i canoni del vedere, ma
di una bellezza secondo la prassi del contemplare. “L’archetipo della bel-
lezza”6 è infatti il Creatore stesso e l’icona – al di là del soggetto che raf-
figurava, poiché in ogni caso dischiudeva, al credente, il divino – ne era

2 «La pittura delle icone è […] la fissazione delle immagini celesti, l’oggettivazione sul-

la tavola del nugolo vivente di testimoni che aleggia attorno al Trono […]. Sono il Nome di
Dio scritto in colori»: P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’ icona, Adelphi, Milano 2021
(Piccola Biblioteca Adelphi 44), 58-59. Cfr. anche Pseudo-Dionigi l’Aeropagita, La gerar-
chia ecclesiastica 4,1. Cfr. anche L. Uspenskij, La teologia dell’ icona. Iconografia e storia, La
Casa di Matriona, Milano 2009.
3 Con questo lemma si intende indicare ogni logos che mira a descrivere la “sophia

dell’immagine”, dove “sapienza” è inteso in senso prototestamentario, come attributo del-


la divinità; si potrebbe parlare, forse sbrigativamente, di “teologia visiva”.
4
Cfr. P. Evdokímov, La teologia della bellezza. Il senso della bellezza e l’icone, Edizioni Pao-
line, Roma 1971 (Biblioteca di Cultura Religiosa. Seconda Serie 122), 199. Cfr. anche P. Flo-
renskij, Le porte regali. Saggio sull’ icona, Adelphi, Milano 2021 (Piccola Biblioteca 44), 56.
5 Cfr. K. Parry, Depicting the Word. Byzantine Iconophile Thought of the Eighth and Ninth

Centuries, Brill, Leiden - New York (NY) - Köln 1996 (The Medieval Mediterranean 12), 182.
6 Cfr. Pseudo-Dionigi l’Aeropagita, La gerarchia ecclesiastica 3,7; Id., Circa i nomi divi-

ni 4,7. Cfr. A. Tavolaro, Eikon and Symbolon in the Corpus Dionysiacum: Scriptures and
Sacraments as Aesthetic Categories, in F. Dell’Acqua - E.S. Mainoldi (eds.), Pseudo-Dionysius
and Christian Visual Culture, c. 500-900, Palgrave Macmillan, Cham 2020 (New Approaches
to Byzantine History and Culture), 41-75, in part. 48-51.

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116 Le matrici di una critica

il riflesso epifanico, rivelato dalla Chiesa. Dipingere l’icona, contemplare


l’icona, comprendere l’icona furono dunque riconosciuti dalla cultura bi-
zantina quali prerogative della santità; esse diedero vita a una tipologia
artistica peculiare che oggi, sul piano critico, impone di essere compresa
tramite il ricorso a una duplice prospettiva, agiografica e storico-liturgica,
presupponendo per essa una “matrice cristiana” che rivendichi nella teo-
resi teologica il logos caratteristico del proprio pensiero7.
Come noto, però, l’icona non fu la più antica “modalità artistica” cri-
stiana: essa fu piuttosto il risultato della crisi che spense la più antica “ar-
te cristiana”. La remota origine di tale cesura può essere collocata, sia sul
piano storico-ecclesiastico sia su quello storico della produzione visuale,
all’epoca del principato costantiniano, quando ebbe luogo un’autentica
rivoluzione dell’“immaginario religioso cristiano”, stabilendo allora quel-
le premesse che, trionfalmente sviluppate a Bisanzio, condussero a un’au-
tentica «identità iconocentrica» 8.

1.2. Tornare a prima di Costantino


Nel passaggio che portò dalla prima tradizione figurativa cristiana
alle icone si può riconoscere un ulteriore sintomo di quella crisi che, agli
esordi del IV secolo, travolse le forme e le modalità della prassi religiosa
ed ecclesiale cristiana più antica. Il principato di Costantino I se, per un
verso, sospese la repressione anticristiana, per l’altro vincolò le Chiese al-
la vita e al destino del nuovo impero che egli voleva inaugurare, in tal
modo costringendo quelle comunità a plasmare un nuovo ideale di sé e
della storia. Sino ad allora, infatti, molte comunità cristiane si erano ag-
gregate ed erano vissute interpretando la professione di fede in Gesù, il
Cristo, quale annuncio del compimento – apocalittico – della storia mon-
dana; d’un tratto queste stesse Chiese venivano chiamate a spendersi per

7 «La pittura ha soppiantato la scrittura; vi si ritrova non solo l’espressione più diretta e

autentica delle verità della fede, ma l’unico modo possibile per riconoscere l’esistenza di un
soggetto»: Dagron, Décrire et peindre, 66.
8 Cfr. B.V. Pentcheva, Icons and Power. The Mother of God in Byzantium, The Pennsyl-

vania State University Press, University Park (PA) 2006, 2-4.

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Per un approccio critico 117

la continuità del tempo di “questo mondo” 9. La “tolleranza” imperiale


– con cui si inaugurarono, per la verità, i secoli delle intolleranze fratri-
cide tra Chiese, che gareggiarono nell’osteggiarsi e combattersi, sempre
con il volitivo supporto del trono imperiale – non portò un tempo nuovo
di indipendenza e di autonomia, ma un ritorno all’esigente postura della
thrēskeia, quella condizione tipica della pietas del mito, in cui la religio
celebrava e giustificava le insegne della polis e quest’ultime si inchinavano
di fronte ai culti della religio, tutelando e promuovendo quest’ultima,
vincolandosi ad essa. Non oziosamente, a mio avviso, la critica si inter-
roga ormai sul reale significato della così detta “svolta costantiniana”: se
essa abbia significato una conversione dell’impero alla Chiesa o di
quest’ultima all’impero.
Per quanto attiene a questa ricerca, si osserva che, parallelamente al
radicare dell’ecclesiologia costantiniana10, mutò anche “il modo di vede-
re” dei cristiani11: il loro modo di accedere all’immagine e il loro modo

9 Cfr. Pseudo-Barnaba, Lettera 15,8, dove esplicitamente si annuncia l’inizio di un

«mondo altro». Già nell’Editto di Serdica promulgato da Galerio (30 aprile 311), dove an-
cora si biasima la «tanta stultitia» dei cristiani, si stabilisce che, sancita l’«indulgenza » im-
periale («indulgentia nostra »), i cristiani debbano «pregare il proprio Dio per la prosperità
nostra [di Galerio], dell’impero e loro, affinché ovunque l’impero sia vigoroso e incolume»
(Lattanzio, La morte dei persecutori 34,5; cfr. anche Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica
8,17). La struttura ideale dell’Editto galeriano fornirà poi la base per il successivo Rescritto
milanese di Licinio e Costantino (febbraio 313) che infatti pure vincolò l’erogazione del di-
spositivo imperiale a un obiettivo: «Perché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia,
possa essere pacifica e propizia a noi e a tutti coloro che sono sotto la nostra potestà » (Lat-
tanzio, La morte dei persecutori 48,2).
10 Mi limito a rinviare a R. Cacitti, «L’ immagine del Regno di Cristo». La forgiatura dei

materiali escatologici nell’officina della teologia politica di Eusebio di Cesarea, in R. Macchio-


ro (cur.), Costantino a Milano. L’editto e la sua storia (313-2013), Bulzoni, Milano 2017, 165-
204; I. Barbotti - R. Cacitti, A sacerdotibus donata imperia. L’aporetica delineazione di un
fondamento teologico al difficile rapporto tra potere politico e potere ecclesiastico in Ambrogio
di Milano, c.d.s.
11 Sulla rivalutazione critica del “punto di vista” e dell’“osservatore” la ricerca ha recen-

temente investito molto. Sinteticamente si può affermare che l’esito di questa riflessione sia
duplice. Sul piano storico artistico, che qui meno importa, si è compreso che l’“opera” non
si limita a sussistere nella sua fruizione – se la figura è celata smette di esistere; il “setting”
della figura è parte della stessa –, ma da essa viene anche generata (si pensi, per esempio, al-
la distorsione della statua progettata per sovrastare un edificio: se essa viene osservata fron-
talmente parrà sgraziata e goffa; al contrario, quando viene vista nella prospettiva generata

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118 Le matrici di una critica

di concepirla. La figura, dopo essere stata spontaneamente sperimentata


dai cristiani con i primi, perduti tentativi iconici e con raffigurazioni
simboliche su oggetti d’uso (II secolo)12, trovato spazio nei cimiteri e nel-
le catacombe (luogo comunitario) quale strumento espressivo per descri-
vere e perpetuare di fronte alla propria Chiesa la personale professione di
fede del defunto e della sua familia (progettualità privata) (III-IV secolo),
divenne infine progressivamente uno strumento di proselitismo e di ca-
techesi la cui progettazione, gestione e spiegazione vennero vincolate
sempre più esclusivamente alle mani del clero (IV secolo in poi). Da stru-
mento “condiviso” della comunità, l’immagine divenne così una prero-
gativa della gerarchia clericale. «Il potere delle immagini»13 si sposò in-
fine con le “le immagini del potere”.
Sintomo remoto dell’avvenuta “clericalizzazione” dell’immagine cri-
stiana si può riconoscere anche negli esiti del secondo concilio di Nicea (il
settimo ecumenico, del 787). Il IV Anatema, decretato durante l’ottava
sessione, a conclusione dei lavori, stabilì infattì l’equazione fra tradizione
letteraria della Chiesa e “ogni altra”, con allusione evidente alla produzio-
ne visuale: «Se qualcuno rigetta qualsiasi tradizione ( pasan paradosin) ec-
clesiastica, scritta (eggraphon) o non scritta (agraphon), sia anatema»14. La

dalla sua collocazione finale, essa sembra del tutto corrispondente al vero). Sul piano stori-
co culturale e storiografico in senso lato – ed è questa la prospettiva più rilevante per que-
sta ricerca –, si è compreso che le categorie concettuali sollecitate dall’idea di “immagine”,
di “bello” e di “vero” influenzano la visione dell’opera – nel senso che ne pregiudicano la
valutazione e la comprensione – e condizionano l’efficacia con cui quest’ultima sa produr-
re idee e cultura. Se, per rubare all’esegesi neotestamentaria bultmanniana una categoria
critica, si volesse provare a riformulare, credo si potrebbe dire che la mitologia dell’osserva-
tore condiziona la ricezione dell’opera e il modo in cui quest’ultima vive nel tempo.
12 Per questa cronologia alta, vedi infra, pp. 202-237.
13 Richiamo ovviamente le ricerche di D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo

delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Einaudi, Torino 20092 (Piccola Biblioteca Ei-
naudi 474), e di P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino
2014 (Universale Bollati Boringhieri 513). Cfr. anche D. Manconi - F. Catalli (curr.), Le
immagini del potere, il potere delle immagini. L’uso del ritratto ufficiale nel mondo romano da
Cesare ai Severi, F. Fabbri, Perugia 2005; O.D. Cordovana, Segni e immagini del potere tra
antico e tardoantico. I Severi e la provincia Africa proconsularis, Edizioni del Prisma, Cata-
nia 2007 (Testi e studi di storia antica 17).
14 Mansi, 13, 416D.

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Per un approccio critico 119

figura veniva in tal modo riconosciuta quale quota irrinunciabile dell’i-


dentità cristiana (una componente della tradizione della Chiesa), a patto,
però, di intenderla quale prodotto dei «santi padri», come esplicitamente
affermò il diacono Eusebio, durante la discussione della sesta sessione dello
stesso Concilio: «Al pittore compete la tecnica (ē technē monon), ai santi
padri il progetto (ē diataxis)»15. L’immagine cristiana divenne così l’inter-
sezione esclusiva tra un progetto “dei padri”, patristico dunque, e l’arti-
gianato di un esecutore; la spontanea committenza del laico – e le sue
ragioni – non erano più nemmeno in discussione16.
Per individuare le origini di questa nuova idea di immagine è neces-
sario a mio avviso risalire sino all’avvio del IV secolo, quando vennero
delineati i fondamenti ideali della nuova politica religiosa romana pro-
mossa da Costantino. Fu in questo contesto che si innescò la crisi dell’im-
magine cristiana più antica: un processo che, oltre alla menzionata cleri-
calizzazione della figura cristiana (sempre più coerente alle modalità
argomentative della teoresi teologica)17, si caratterizzò per un assorbimen-

Mansi, 13, 252C. Il passo è menzionato anche da Florenskij, Le porte regali, 57.
15

Uno degli esiti della controversia iconoclasta fu quello di vincolare ancora più esclu-
16

sivamente il “controllo” dell’immagine alla componente clericale della Chiesa.


17 Si può dire che la speculazione teologica e la pittura delle icone condivisero lo stesso

obiettivo: garantire ai cristiani l’accesso alla contemplazione di Dio. Se, infatti, l’esito del
logos teologico fu la definizione della deità, la sua descrizione per via logica e dialettica, la
figura iconica venne incaricata di raffigurare, di mostrare Dio. Al disvelamento razionale,
alla “vera gnosi” rivelata – ma anche, di necessità, rettamente argomentata –, perseguita tra-
mite la teologia, si associava la visione, la “perfetta bellezza”, essa pure rivelata – si pensi al
fiorire delle leggende sull’acheropitia delle prime icone, al loro essere realizzate da autori
ispirati (tra tutti, Luca, in un’evidente corrispondenza tra la sua attività letteraria, in quan-
to evangelista, e pittorica) o miracolosamente da Dio stesso –, ed essa pure bisognosa di una
rigorosa disciplina di santità, garantita dall’icona. Sull’acheropitia (letteralmente il “non es-
sere fatto da mano [d’uomo]”) delle prime immagini iconiche, meritano di essere menzio-
nate almeno le leggende sul santo volto del mandilio (“sudario”) di Kamulia e su quello di
Edessa, riconducibili entrambe al VI secolo, e quelle, coeve, relative alla raffigurazione del-
la Vergine con il Cristo bambino sulle ginocchia (da cui poi deriverà il tipo della Vergine
Odighitria – dal monastero di Hodigoi – o “di san Luca”, che rappresenta la Vergine con il
Cristo bambino in braccio). Sul tema, cfr. A. Monaci Castagno (cur.), Sacre impronte e og-
getti “non fatti da mano d’uomo” nelle religioni. Atti del Convegno Internazionale: Torino, 18-20
maggio 2010, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2011 (Collana di Studi del Centro di Scien-
ze Religiose 2), con particolare riferimento al contributo, ivi raccolto, di E. Brunet, Le ico-
ne acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini, 201-230.

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120 Le matrici di una critica

to e un’assimilazione degli stilemi dell’iconografia imperiale. Le due tra-


iettorie – clericalizzazione dello statuto dell’immagine cristiana e impe-
rializzazione della sua iconografia – si spiegano vicendevolmente.

a. Costantino e la clericalizzazione dell’immagine


Il rescritto milanese del 313 è sviluppato lungo due sezioni: nella pri-
ma si accorda la libera e universale facoltà di scegliere la propria religio 18;
nella seconda, con esplicito ed esclusivo riferimento ai cristiani19, viene
stabilita la restituzione alle Chiese («Corpori christianorum»)20 di tutti i
luoghi precedentemente sequestrati: ciò vale sia per i beni confiscati ai
singoli sia per quelli delle comunità, cui i due imperatori riconoscono
formalmente personalità giuridica (« Ad ius corporis eorum id est ecclesia-
rum, non hominum singulorum»)21.
La Chiese, qui colte come «corpora christianorum», vennero pertanto
rese dagli Augusti Costantino e Licinio titolari di tutti i luoghi delle comu-
nità: si noti, benché implicitamente, la componente clericale usciva enor-
memente rafforzata da questa decisione. Essendo interlocutore formale
dell’imperatore (con la sua curia) il vescovo (con il suo clero), fu natura-
le conferire a quest’ultimo, in persona ecclesiae, la piena titolarità di quei
luoghi che prima erano stati di tutta la comunità, pur se già principal-
mente sotto l’amministrazione episcopale: dall’onus della gestione si pas-
sò così al possesso pieno. Questa decisione, se per un verso era destinata
a imprimere una forte accelerazione al processo di clericalizzazione delle
comunità cristiane, d’altra parte, attribuendo alla gerarchia ecclesiastica
la titolarità e il controllo esclusivi dei luoghi comunitari, vincolava d’un
tratto tutto il patrimonio visuale cristiano a vescovi, presbiteri e diaconi.

Lattanzio, La morte dei persecutori 48,2.


18

Lattanzio, La morte dei persecutori 48,7. La sezione si estende, per ciò che interessa
19

qui, sino a 48,10.


20 Lattanzio, La morte dei persecutori 48,8. La definizione di Chiesa come «corpus chri-

stianorum» insiste sul valore di corpus quale “corpo aggregato”, nel senso corporativo di “ag-
gregato di persone”.
21 Lattanzio, La morte dei persecutori 48,9.

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Per un approccio critico 121

Accanto a questa prima forma di clericalizzazione, reputo necessario


sottolinearne una seconda: divenendo titolari dei luoghi – e di ciò che in
essi era contenuto – dei cristiani, ai vescovi era data la possibilità di ge-
stirne anche la futura decorazione visuale. Certo, ai singoli cristiani ri-
maneva la possibilità di scegliere la foggia della propria sepoltura, ma il
“volto delle chiese” era ormai saldamente in mano al clero. Il tutto men-
tre, grazie alla liberalità dell’imperatore, iniziavano a sorgere le imponen-
ti basiliche, rutilanti di (nuove) immagini 22.

b. Un’iconografia cristiano-imperiale
Mentre questo processo di clericalizzazione della cultura visuale cri-
stiana si affermava, l’imperializzazione del “linguaggio artistico” cristia-
no procedette lungo tre traiettorie:

22 Vi è un caso antitendenziale che merita di essere citato: la basilica teodoriana di Aqui-

leia. Qui l’epigrafe commemorativa del vescovo Teodoro di Aquileia, che celebrava il ter-
mine della stesura dei mosaici del pavimento dell’aula Sud, recitava: «THEODORE FELI[X]
| [AD]DIVANTE DEO OMNIPOTENTE ET | POEMNIO CAELITUS TIBI | [TRA]DITUM OMNIA |
[B]AEATE FECISTI ET | GLORIOSE DEDICAS|TI ». Il testo, che può essere tradotto con: «O Teo-
doro Felice, avendoti assistito Dio onnipotente e la mandria che dal cielo ti era stata con-
segnata, hai compiuto tutto santamente e lo hai dedicato con gloria », presenta diverse pe-
culiarità. La prima è la mancata coordinazione della declinazione del participio perfetto
[TRA]DITUM con il sostantivo POEMNIO, «per evidenziare il genere neutro di POEMNIO,
necessario per indicare una mandria mista di animali diversi, in luogo del gregge omoge-
neo» (G. Pelizzari, Il Pastore ad Aquileia. La trascrizione musiva della catechesi catecume-
nale nella cattedrale di Teodoro, Glesie Furlane, Udine 2008 [Trois 4], 119, che riprende
R. Iacumin, Le porte della salvezza. Gnosticismo alessandrino e Grande Chiesa nei mosaici
delle prime comunità cristiane. Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Ga-
spari, Udine 2000, 132): la Chiesa di Teodoro, in altri termini, si pone oltre i criteri di pu-
rità prototestamentari, non proviene più da un solo popolo (cfr., con lo stesso significato,
At 10,9-28). In secondo luogo, «nel testo epigrafico si legge… che il poemnium Theodori
risulta sì traditum Theodoro (caelitus), ma allo stesso tempo anche che è eum adiuvans se-
condo una sintassi che accosta paratatticamente il soccorso dell’Onnipotente a quello del
popolo aquileiese (adiuvante Deo et poemnio)» (Pelizzari, Il Pastore ad Aquileia, 120). In-
fine, lo stesso lemma CAELITUS credo sia qui impiegato con particolare oculatezza, per sot-
tolinearne la valenza religiosa di contro all’abituale impiego giuridico che con questo av-
verbio intendeva sottolineare la provenienza imperiale (cfr. Codice Teodosiano 6,32,2;
10,20,16): la basilica aquileiese, insomma, è provenuta a quella Chiesa da Dio e dal suo
popolo, quest’ultimo consegnato al vescovo Teodoro dal (vero) cielo, quello in cui si pre-
para il Regno.

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122 Le matrici di una critica

1. l’acquisizione del lessico iconografico imperiale, «non nel senso


generico di “arte romana del periodo imperiale”, ma nel senso spe-
cifico di arte strettamente legata alla presentazione della persona
dell’imperatore»23. Si trattò di una cambiamento destinato a rifor-
mulare radicalmente il discorso visuale cristiano sulla deità;
2. la creazione di un nuovo “spazio architettonico cristiano”, mutuato
ancora una volta dal repertorio formale dell’arte ufficiale dell’impero;
3. il mutamento sempre più deciso verso un’iconografia narrativa an-
ziché simbolica 24.
Se, dunque, per un verso, con il IV secolo, la cultura visuale cristiana
si preparava a rinunciare ai suoi esiti contenutistici più autonomi per as-
sumere una postura più subalterna rispetto al dettato testuale del patri-
monio letterario – biblico in primis – dei cristiani, per l’altro essa divenne
lo strumento prescelto per esibire e sigillare la nuova alleanza stipulata tra
trono celeste e regalità imperiale. Il re dei cieli assumeva i lineamenti e
indossava il fasto del principe terreno, mentre la Chiesa entrava in una
casa identica a quella nella quale l’impero era solito ricevere i suoi sudditi.
Si trattò di fenomeni del tutto evidenti, in ogni senso, che, come tali,
sono stati agilmente registrati dalla critica; a partire da quel viraggio les-
sicale dell’iconografia cristiana che, sin dagli esordi del IV secolo, con-
dusse sia alla dismissione di alcuni soggetti sino a quel momento tra i più
presenti nella produzione visuale dei cristiani (si pensi al caso eclatante
del ciclo di Giona) sia all’acquisizione di nuovi, tutti di matrice trionfale:
Alcuni soggetti peculiarmente cristiani furono interpretati con l’aiuto delle
formule iconografiche dell’arte palatina. La più antica iconografia cristiana […]
impiegò frequentemente motivi e formule comuni a più o meno ogni ambito
dell’arte a lei contemporanea; ciò che accadde con il quarto secolo fu simile, ma
distinto. Tutto il “vocabolario” del linguaggio iconografico imperiale o trion-

23 T.F. Mathews, Scontro di Dei. Una reinterpretazione dell’arte paleocristiana, Jaca Book,

Milano 2005 (Di fronte e attraverso 646 - Storia dell’arte 28), 11.
24 Cfr. F. Bisconti, Sull’unità del linguaggio biblico nella pittura cimiteriale romana, in

C. Marcheselli-Casale (cur.), Parola e Spirito. Studi in onore di Settimio Cipriani, Paideia,


Brescia 1982, 731-740, qui 739-740; Snyder, Ante Pacem, 23-26.

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Per un approccio critico 123

fale si riversò nel “dizionario” impiegato dall’iconografia cristiana […]. Il futu-


ro dell’iconografia cristiana fu segnato e ciò che ne derivò è rimasto fondamen-
tale per l’arte cristiana 25.

Con ancor maggiore facilità si possono documentare le resistenze – per


lo meno ideali – che dovette incontrare l’adozione del modello basilicale
quale “schema fondamentale” della nuova architettura cristiana. Giusta-
mente osserva Pasquale Testini «che per ora non è documentata material-
mente alcuna basilica cristiana prima della pace religiosa»26 e che, d’altra
parte, «Basilica entra … con una forte carica nel lessico dei cristiani e, …
almeno per tutto il IV secolo, il termine non sembra essere rimasto immu-
ne da sospetti o perplessità, dovuti forse alla sottesa eredità di paganesimo
che si portava dietro. È una considerazione, questa, che s’impone per l’im-
possibilità di spiegare altrimenti l’uso di un complemento o la cura […] di
apporvi una specificazione»27. Se è vero che «il punto essenziale è proprio
qui. La sola ragione per l’assunzione del termine ‹basilica› e dello schema
generale architettonico per l’edificio di culto cristiano consiste appunto nel
suo implicito significato di “monumentale”, grandioso, pubblico, ufficia-
le»28, d’altra parte le difficoltà sorte da questa duplice adozione dimostrano
come a questa scelta i cristiani non dovettero pervenire al termine di un
processo del tutto autonomo, sedimentale o anche solo pienamente condi-
viso. Nuovi tempi imposero scelte sollecite, forse troppo celeri.
Come il lessico iconografico imperiale fu lo strumento scelto per esi-
bire il senso radicale della nuova posizione assegnata al cristianesimo
nell’architettura del mondo elaborata da Costantino, così lo schema e il

25 A. Grabar, Christian Iconography. A Study of Its Origins. The A.W. Mellon Lectures in

the Fine Arts, 1961, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1968 (Bollingen series XXXV
10), 41; cfr. anche Jensen, Understanding Early Christian Art, 98-103, che propone efficace-
mente la dialettica tra il «Cristo imperiale» del IV secolo e il «Gesù umano» della più an-
tica tradizione visuale cristiana.
26 P. Testini, «Basilica», «domus ecclesiae» e aule teodoriane di Aquileia, in Aquileia nel

IV secolo, Arti Grafiche Friulane, Udine 1982 (Antichità Altoadriatiche 22), 2, 368-398,
qui 372. Cfr. anche L. Crippa (cur.), La basilica cristiana nei testi dei Padri dal II al IV seco-
lo, LEV, Città del Vaticano 2003 (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 32).
27 Testini, «Basilica», 375.
28 Testini, «Basilica», 373.

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124 Le matrici di una critica

lessico della basilica dovettero rispondere all’obiettivo di delineare, per


una nuova Chiesa, un nuovo volto, «“monumentale”, grandioso, pubbli-
co, ufficiale» che, assai simile a ciò che l’impero aveva sempre mostrato
al suo intero regno, si preparava a essere l’insegna della nuova storia che
attendeva queste comunità.
---

Sul piano concettuale, dunque, tornare a prima dell’icona significa ri-


conoscere che l’immagine cristiana è stata idealmente “altro” rispetto a ciò
che concettualmente, teologicamente, cultualmente, artisticamente l’icona
fu. D’altra parte, per capire le radici dell’icona, di questa immagine teo-
retica del divino – in cui la perenne maestà della deità si manifesta come
sapienza piena, immutabile –, è necessario cogliere le premesse che solo
un’iconografia della regalità, della presenza, della potenza poteva stabilire.
È necessario, cioè, riconnettere l’icona a quell’iconografia che iniziò a esse-
re frequentata dai cristiani allorché accettarono di accostare il trono regale
di YHWH e del suo Cristo al trono secolare dell’impero, scorgendo in que-
sta alleanza il presupposto dell’eternità della storia. Il “Dio imminente”,
sulla soglia della storia, la cui «tremenda maestà» (Gb 37,22) era attesa per
«fare traboccare la giustizia» (Is 10,22) cedette il posto al “Dio immobile”,
nel senso platonico del termine, da contemplare, più che da attendere.
Vi è un’ulteriore elemento che reputo meriti essere preso in conside-
razione per cogliere appieno la rivoluzione a cui la cultura visuale cristia-
na andò incontro nel IV secolo, in questo autentico “secolo di transizio-
ne”: il posto dell’osservatore.

1.3. Alle origini: dalla visione al vedere


Nel 1995, con il titolo « Arte e l’osservatore romano. La trasformazione
dell’arte dal mondo pagano alla cristianità»29, Jaś Elsner pubblicò uno stu-

29 J. Elsner, Art and the Roman Viewer. The Transformation of Art from the Pagan World

to Christianity, Cambridge University Press, Cambridge 1995 (Cambridge Studies in New


Art History and Criticism).

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Per un approccio critico 125

dio destinato a divenire, come si dice in questi casi, “fondamentale”. In


esso l’“arte” veniva studiata in quanto oggetto di un’azione – quella del
vedere, appunto –, colta nel contesto storico e culturale dell’Antichità. Da
apportatrice di valore di per sé, l’“opera d’arte” veniva assunta dal ricerca-
tore quale occasione, per l’osservatore, di un’ermeneutica 30; in tal modo,
l’impianto metodologico, da storico-artistico, doveva divenire storiogra-
fico o storico del pensiero. Al cospetto dell’“opera”, il vedere e il suo sog-
getto – l’osservatore – venivano riconosciuti quali apportatori di senso e
di significato, non quali semplici spettatori. Chi vede, questo il presuppo-
sto critico, non è “inerme” di fronte a ciò che osserva: egli impiega come
filtro cognitivo della realtà – e, in essa, dell’arte – un sistema di valori, di
idee, di miti – se è lecito impiegare una categoria bultmanniana –, capace
di generare, quando incontra l’immagine, significati sempre nuovi. L’“o-
pera” e il suo osservatore sono, insomma, corresponsabili di quei valori
che, di volta in volta, connotano ogni singolo oggetto iconico – ma questo
vale anche per il testo, per la musica e persino per l’idea e per l’ideale.
L’intuizione della centralità del vedere e dell’osservatore nello studio
dei significati assunti dall’immagine nelle diverse epoche culturali porta
a concepire il documento visuale quale realtà dinamica, compiuta ed ef-
ficace soltanto nella misura in cui essa “incontra” (o: “ha incontrato”) il
proprio osservatore.
Prestando attenzione a questa coordinata, per cogliere la radicale dif-
formità tra la prima immagine cristiana, quella precostantiniana, che fu
prevalente sino alla metà del IV secolo quando progressivamente si “estin-
se”, e quella bizantina, che le successe, può essere utile riflettere sul “po-
sto” che in queste due diverse stagioni dell’“arte cristiana” venne assegna-
to all’osservatore.

30 In altri termini, l’“opera” e il suo valore non si identificano di per sé, in una sorta di

a priori; la finalità di un’“opera”, la sua dislocazione, la sua storia d’uso, il tempo in cui è
osservata e l’osservatore medesimo (con la sua cultura, visuale e non, le sue aspettative, le
sue capacità ecc.) sono tutte variabili, insieme a molte altre ancora, che concorrono a defi-
nire, di volta in volta, il valore di un’“opera d’arte”. La proposta di Jaś Elsner è di cogliere
il significato del documento visuale entro questo spazio più ampio, a partire dalla relazio-
ne fondamentale tra “opera” e osservatore.

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126 Le matrici di una critica

Per affrontare questo tema, vorrei cogliere quale vettore esemplificativo


il caso della rappresentazione dell’omaggio prestato dai Magi al neonato
Gesù 31.
La più antica attestazione di questa scena proviene dall’“arco trionfale”
della c.d. “Cappella greca” della Catacomba di Priscilla, a Roma. Va pre-
liminarmente ricordato, come segnala Jutta Dresken-Weiland, che «la
raffigurazione dell’omaggio dei Magi e dei Magi dinanzi a Erode è una
creazione autonoma dell’arte figurativa, che non ha alcun modello nei te-
sti scritti»32. Si tratta, in altri termini, di un tema figurativo che permette
di valutare un ambito nel quale l’immaginario paleocristiano si potè espri-
mere con totale libertà.

Figura 5: l’omaggio dei Magi a Maria. Pittura dell’arcone divisorio della “Cap-
pella greca”, Catacomba di Priscilla, Roma (Nestori, Pri39). Si tratta di una pit-
tura generalmente datata tra 230 e 250 (cfr. R. Giuliani, Il complesso di Priscil-
la, in F. Bisconti - R. Giuliani - B. Mazzei, La catacomba di Priscilla. Il
complesso, i restauri, il museo, Tau, Todi 2013 [Ricerche di Archeologia e Anti-

31 Entro la vastissima bibliografia dedicata all’iconografia dei Magi, credo si possano pre-

liminarmente segnalare gli studi di F. Cumont, L’adoration des Mages et l’art triomphal de Ro-
me, in Memorie della Pontificia Accademia Romana di Archeologia 3 (1932-1933) 81-105; C.
Pietri, Imago Mariae. Les origines, in Id., Christiana respublica. Éléments d’une enquête sur le
christianisme antique, École Française de Rome, Roma 1997 (Publications de l’École Fran-
çaise de Rome 234) 1391-1403 (= Imago Mariae: le origini, in Tesori d’arte della civiltà cristia-
na, Roma 1989, 1-6), qui 1395. Volentieri rinvio anche alla ricca voce di F.P. Massara, s.v.
«Magi», in Bisconti (cur.), Temi, 205-211. Da qui in poi, in assenza della specificazione di
provenienza dell’immagine riportata in figura, si intenda che è china realizzata dall’autore.
32 J. Dresken-Weiland, Immagine e parola. Alle origini dell’ iconografia cristiana, LEV,

Città del Vaticano 2012, 216.

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Per un approccio critico 127

chità Cristiane 6], 3-36, qui 19, e, per la bibliografia fondamentale, ivi, nota
52). Si distinguono facilmente le sagome dei diversi personaggi, mentre la mag-
gior parte dei dettagli pittorici è ormai difficile da cogliere. Colpisce la marca-
ta monocromia delle tre figure degli offerenti: il primo è realizzato in gamma
di bianchi, il secondo in scala di rossi, il terzo in modulazione di verdi. Non è
facile comprendere le ragioni di questa scelta peculiare: potrebbe costituire un
richiamo obliquo ad Apocalisse, dove bianco, rosso e verde sono i colori più
attestati (cfr. U. Vanni, L’Apocalisse, ermeneutica esegesi teologia, EDB, Bologna
1988 [Supplementi alla Rivista Biblica 17], 49). Il senso di un simile accosta-
mento tra l’omaggio dei Magi e il tracollo apocalittico andrebbe ricercato in un
coerente intervento esegetico sul testo matteano (Mt 2,1-12). Già nel primo
canonico la nascita di Gesù viene descritta quale prefigurazione della regalità
escatologica del Messia, come testimoniano due indizi eloquenti:
1. l’appellativo di «re dei Giudei» (2,2) che, tolta quest’unica attestazione, è
impiegato esclusivamente nel ciclo della passione (Mc 15,2.9.12.18.26; Mt
27,11.29.37; Lc 23,3.37-38; Gv 18,33.39; 19,3.19.21), là dove si descrive l’o-
ra dell’immolazione-esaltazione del Cristo;
2. la filigrana dell’«oracolo di Balaam» (Nm 24,15-19, in part. 24,17; cfr. E.R.
Brown, La nascita del Messia secondo Matteo e Luca, Cittadella, Assisi 20022,
246-255) che, sciolto dal suo originario riferimento davidico, veniva impie-
gato correntemente nel giudaismo del secondo tempio coevo a Gesù in fun-
zione escatologica (cfr. 4QTest 11-13; 1QM 11,6; si pensi all’appellativo di
«Bar-Kochba [figlio della stella]» che Simone trasse, in chiave messianica,
da Nm 24,17, allorché si pose alla testa della grande insurrezione antiroma-
na del 132; per uno status quaestionis, cfr. H. Eshel, The Bar Kochba Revolt,
132-135, in S.T. Katz [ed.], The Cambridge History of Judaism, 4: The Late
Roman-Rabbinic Period, Cambridge University Press, Cambridge et alibi
2006, 105-127, in part. 109, note 20-22).
Ulteriore elemento coerente all’ipotesi di questo intento ermeneutico per la raf-
figurazione dei Magi della “Cappella greca” proviene dalla presenza, sempre
nella regione dell’“Arenario centrale” della Catacomba di Priscilla, del celebre
“Nicchione della Virgo lactans”, datato abitualmente tra 230 e 250 (Nestori,
Pri10; cfr. F. Bisconti, La Madonna di Priscilla. Interventi di restauro ed ipotesi
sulla dinamica decorativa, in Rivista di Archeologia Cristiana 72 [1996] 7-34;
C.C. Taylor, Painted Veneration: The Priscilla Catacomb Annunciation and the
Protoevangelion of James as Precedents for Late Antique Annunciation Iconography,
in M. Vinzent [ed.], SP 59,7, 21-37, qui 31-33, propone una datazione ben più
risalente, sino al II secolo). In quest’ultima pittura, accanto a Maria che allatta,
si osserva proprio Balaam profetizzare la stella, in una sintesi ermeneutica che
accosta Nm 24,17 al neonato Gesù. In questi due casi, dunque, l’argomento
della nascita di Gesù verrebbe risolto iconograficamente attraverso l’enfatizza-

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128 Le matrici di una critica

zione del carattere escatologico di questo evento storico-salvifico: come i Magi


che si rivolgono al neonato «re dei Giudei» portano in sé il “cromatismo di
Apocalisse”, il gruppo di Maria che allatta Gesù bambino dà corpo a quella
«stella [che] spunta da Giacobbe» e a quello «scettro [che] sorge da Israele».

Sin dal suo primo manifestarsi, poi, i caratteri formali di questo tema
iconografico si presentano già consolidati, come dimostra l’ampia docu-
mentazione visuale che attesta la costanza della resa iconografica di que-
sta scena in ambito sia pittorico sia epigrafico sia plastico.

Figura 6: il ritratto di Severa e l’omaggio dei Magi. “Lastra di Severa”, Musei


Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (ICUR 8, 23279). Questa lastra,
impiegata per sigillare un loculo nella Catacomba di Priscilla, è datata tra la
seconda metà del III secolo (cfr. F. Bisconti - C. Lega, Apparato figurativo, in I.
Di Stefano Manzella [cur.], Le iscrizioni dei cristiani in Vaticano. Materiali e
contributi scientifici per una mostra epigrafica, Tipografia Vaticana, Città del
Vaticano 1997 [Inscriptiones Sanctae Sedis 2] 301-306, qui 302) e l’avvio del
IV (G. Spinola, La lastra di chiusura di loculo di Severa, in A. Donati [cur.],
Dalla terra alle genti. La diffusione del cristianesimo nei primi secoli, Electa, Mi-
lano 1996, 221, numero 70, si spinge sino al 330 e.v.). Si tratta di un documen-
to di grande interesse per diverse ragioni, prima fra tutte l’essere questa l’unica
raffigurazione dell’epifania realizzata su lapide (cfr. D. Calcagnini, Minima
Biblica. Immagini scritturistiche nell’epigrafia funeraria di Roma, PIAC, Città
del Vaticano 2006 [Studi di Antichità Cristiana 61], n. 61 e pagina 112;
Dresken-Weiland, Immagine e parola, 215). Il progetto iconografico di questo
documento mi pare semplice: il ritratto della donna (effigiata con corti capelli
e orecchini ben visibili), accompagnato dall’augurio «Severa, possa tu vivere in
Dio», precede la consueta raffigurazione dei Magi mentre si avvicinano al grup-
po di madre e figlio, dove la puerpera assisa ostende il Salvatore neonato. Alle
spalle di quest’ultima è presente una figura virile stante che viene alternativa-

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Per un approccio critico 129

mente interpretata come il profeta che indica la stella (verosimilmente ancora


da Nm 24,17, benché in ambito iconografico sia stato richiamato anche Is 62,1, di
significato comunque concorde al passo del Pentateuco: cfr. in ogni caso Giu-
stino Apologia [I] 32,12 per la sovrapposizione di Nm 24,17 e Is 11,1; 51,5), o co-
me «un personaggio che estende la mano destra sopra ‹la Vergine›: “La potenza
dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra”; è lo Spirito Santo» (così H. Leclercq,
s.v. «Mages », DACL 10,1, 980-1067, qui 1033). Offrendo il precedente del “Nic-
chione della Virgo lactans” (Nestori, Pri10), la provenienza dalla Catacomba di
Priscilla mi sembra avvalorare la prima ipotesi interpretativa. Il riconoscimento
in questo ultimo personaggio della “lastra di Severa” di un richiamo alla pro-
fezia di Nm 24,17 dimostrerebbe tra l’altro la compatta coerenza del sistema
di Testimonia impiegato da questi primi esperimenti iconici entro gli spazi del-
la Catacomba di Priscilla. Se così fosse, la scena dell’augurio di vita «in Dio»
formulato per Severa assumerebbe una coloritura fortemente messianica (il
Dio-bambino che Maria ostende è il compimento di quel «Regno che sarà esal-
tato» di Nm 24,7) e, perciò, una dimensione propriamente storica: la salvezza
del singolo, l’“augurio di salvazione”, come talora si scrive, risulterebbe qui
vincolato all’orizzonte più ampio dell’attesa del regno di Dio di cui Gesù Cristo
era riconosciuto «stella che sorge», «scettro» (Nm 24,17), «giustizia» e «salvez-
za» (Is 62,1).

Figura 7: la caduta dei protoparenti e l’epifania ai Magi. Frammento di sarco-


fago, San Paolo fuori le mura, Roma (Wp. 32, t. 222,7; Rep. 1, 735). La china
riportata in figura riproduce un documento generalmente datato tra la fine III
secolo e l’avvio del principato costantiniano (cfr. F. Gerke, Die christlichen Sar-
kophage der vorkonstantinischen Zeit, De Gruyter, Berlin 1940 [Studien zur
spätantiken Kunstgeschichte 11], 376). Anche in questo caso è evidente l’inten-
to ermeneutico che ispira l’accostamento tra la scena della caduta dei protopa-
renti e l’omaggio rivolto dai Magi a Gesù bambino, osteso da Maria. La ripresa
della tipologia Eva-Maria, esplicitamente istituita già nella seconda metà del II

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130 Le matrici di una critica

secolo da Giustino, Dialogo con Trifone 100,5-6 («Eva […] generò […] la ribel-
lione e la morte, Maria […] la fede e la gioia»), si interseca qui con il tema del-
la regalità escatologica del Cristo. La tensione ermeneutica sottesa tra le due
donne non si limita dunque a raffigurare genericamente il passaggio dall’eco-
nomia della caduta a quella della reintegrazione, ma insiste piuttosto sul pas-
saggio dalla storia, inaugurata con la caduta genesiaca, al Regno, inteso come
tempo escatologico della ricapitolazione (si pensi allo sviluppo caratteristico che
il collegamento teoretico di protologia ed escatologia ricevette nella teologia di
Ireneo di Lione, che proprio su questo nesso costituì il teologumeno dell’anake-
phalaiōsis, “ricapitolazione”: cfr. almeno M.C. Steenberg, Irenaeus on Creation.
The Cosmic Christ and the Saga of Redemption, Brill, Leiden 2008 [Supplemen-
ts to vigiliae christianae 91], 49-60).

Con la prima metà del IV secolo, la sostanziale stabilità formale di


questo tema iconografico iniziò a oscillare lungo una pluralità di modu-
lazioni grafiche che, superando l’originale articolazione della scena di
profilo, iniziò a proporre il gruppo Maria-Gesù in ritratti di tre quarti,
spesso al centro dei Magi che, viceversa, continuavano a essere raffigura-
ti rigorosamente di profilo.

Figura 8: l’omaggio dei Magi.


Lunetta di arcosolio, parete di
fondo, cubicolo 69, Catacomba
di Pietro e Marcellino, Roma
(Nestori, Lau69). La datazione,
«al più tardi all’ultimo quarto
del IV secolo», della regione Z
– di cui fa parte anche questo
cubicolo che qui si data tra 320
e 340 – è presa da J. Guyon, La
topographie et la chronologie du
cimetière “ inter duos lauros”, in
J.G. Deckers - H.R. Seeliger -
G. Mietke (hrsg.), La catacomba
dei Santi Marcellino e Pietro. Repertorio delle pitture - Die Katakombe „Santi
Marcellino e Pietro“. Repertorium der Malereien, Testo - Textband, PIAC -
Aschendorffsche, Città del Vaticano - Münster 1987 (Roma Sotterranea Cri-
stiana 6), 91-131, qui 125. L’immagine è tratta da Garr. 2, t. 58,2. La pittura
esaminata proviene da un cubicolo di grande interesse per la ricca progettazio-
ne iconica, dominato da una volta che sviluppa un sintetico manifesto cristo-
logico basato sull’associazione tra il Buon Pastore e le quattro scene del ciclo di
Giona, raffigurate qui in alternanza a oranti – maschili e femminili – (Wp. 03,

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Per un approccio critico 131

t. 61). Sulla parete di accesso al locale si trovano, disposti simmetricamente al


profilo dell’ingresso, due fossori intenti a scavare (Wp. 03, t. 59,2). Le due pa-
reti laterali recano soltanto motivi floreali, pelte, canne e ornamenti a ovuli,
mentre l’arcosolio di cui fa parte la lunetta con la raffigurazione dell’epifania
ai Magi sfonda il muro di fondo (cfr., per una veduta d’insieme, Wp. 03, t. 60).
Ai lati dell’arcosolio, sulla stessa parete, si trovano due scene prototestamentarie,
il miracolo della roccia (sulla sinistra, per l’osservatore; cfr. Es 15,22-25.27;
17,5-6; Nm 20,2-11; 21,16-18; l’assenza delle figure di Processo e Martiniano
che si dissetano dalla fonte miracolosa rende sconsigliabile il riferimento all’er-
meneutica petrina dell’episodio) e Noè nell’arca (sulla destra; cfr. Gen 6 - 8); il
sottarco dell’arcosolio (cfr. Wp. 03, t. 45,1) pone, ai lati di un orante, la risur-
rezione di Lazzaro (sulla sinistra; cfr. Gv 12) e la moltiplicazione dei pani (sul-
la destra; cfr. Mc 6,30-44 [anche 8,1-9]; Mt 14,13-21 [anche 15,32-39]; Lc 9,12-
17; Gv 6,1-13); la lunetta di fondo ospita infine la scena che si sta esaminando.
L’articolazione del progetto iconografico di questa parete sviluppa una sorta di
itinerario catechetico che procede lungo le quote di sfondamento (superficie
esterna à sottarco à lunetta):
1. le due scene “esterne”, sulla parete, raffigurano altrettanti testimonia della
Torah (accomunati dal referente battesimale), tramite i quali il piano sacra-
mentario (cfr. 1Pt 2,20-21) assume una dimensione storico-universalistica
(si pensi all’associazione tra diluvio, «baptismum mundi», e giudizio finale,
già lucidamente registrato da Tertulliano, Il battesimo 8,4-5; cfr. però anche
Giustino, Dialogo con Trifone 138,1-2);
2. procedendo, le due scene del sottarco, entrambe neotestamentarie, fanno
riferimento al nesso tra risurrezione e partecipazione alla cena eucaristica,
in perspicua rilettura di Gv 6,51-58;
3. al termine di questo itinerario sta la manifestazione della regalità di Cristo,
raffigurato tramite l’omaggio dei Magi.
Il riconoscimento cristologico della regalità di Gesù (cfr. F. Scorza Barcellona,
L’ interpretazione cristologica dei tre doni e la fede dei magi, in Id., Magi, infanti
e martiri nella letteratura cristiana antica, Viella, Roma 2020 [Sacro/santo 29],
185-196) traguarda, dunque, un progetto teologico di fitta trama scritturistica,
nel quale, dapprima, il tema dell’acqua che salva viene riconnesso al “sistema
delle Alleanze” che ritma tutto il Primo Testamento, e, poi, il fedele (l’orante
del sottarco dell’arcosolio) è posto tra i due caposaldi precipuamente cristiani
della professione di fede: la speranza nella risurrezione che Cristo ha ottenuto
per tutti i suoi fedeli e la cena come partecipazione efficace alla sua Pasqua.
Pare legittimo affermare che la successione delle scene non può essere ricondot-
ta a un affastellarsi casuale di motivi biblici, ma al preciso disegno di un itine-
rario argomentativo, elaborato attraverso la fondamentale strumentazione dell’e-
segesi tipologica (vedi infra, pp. 159-197). Dal punto di vista formale si osserva,
come già sottolineato più sopra, una rotazione ancora parziale del gruppo Ma-
ria-Gesù bambino, che si rivolge ora tanto ai Magi tanto all’osservatore.

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132 Le matrici di una critica

Figura 9: l’omaggio dei Magi. Pittura tra loculi, Catacomba di Domitilla,


Roma (Wp. 03, t. 116,1; Nestori, Dom61). Prima metà del IV secolo. Per la
datazione proposta, cfr. U. Fasola, Die Domitilla-Katakombe und die Basilika
der Märtyrer Nereus und Achilleus, PCAS - Edipuglia, Città del Vaticano - Ba-
ri 1989 (Romische und Italienische Katakomben 2), 71. Questa raffigurazione
dell’omaggio dei Magi, isolata su una parete riccamente decorata a girali d’a-
canto, è qui rilevante per un elemento formale: l’aumento del numero dei Ma-
gi (da tre a quattro), che può essere considerato parallelo alla riduzione (da tre
a due) già osservato sulla lunetta della Catacomba di Pietro e Marcellino (fi-
gura 8). Questi due pannelli pittorici sembrano di particolare rilievo per le
prime avvisaglie, che essi recano, di una riformulazione radicale della scena
che qui si esamina. Se da principio i due gruppi di questo tema iconografico
(Magi e madre-bambino) esprimevano insieme un nucleo contenutistico con-
diviso – l’episodio dell’omaggio al neonato narrato nel Vangelo di Matteo (2,9-
10) –, ora si osserva una scissione: i Magi “decorano” la scena centrale. Nel
caso del pannello della Catacomba di Domitilla, poi, Maria compie il gesto
dell’intensio manum, quello impiegato dall’oratore per indicare al proprio udi-
torio ciò di cui sta parlando (cfr. Quintiliano, Istituzione oratoria 11,3,89; per
l’importanza nella cultura romana della chironomia – la norma, “nomos”, del-
la mano, “cheir”– retorica, dopo la fondamentale monografia di U. Maier-Eich-
horn, Die Gestikulation in Quintilians Rhetorik, Peter Lang, Frankfurt am
Main 1989 [Europäische Hochschulschriften, 15: Klassische Sprachen und
Literaturen 41], cfr. almeno G.S. Aldrete, Gestures and Acclamations in Early
Imperial Rome: Methods of Interactive Communication between Emperor and
Plebs at Mass Public Gatherings, Ph.D. Diss., Ann Arbor [MI] a.a. 1995-1996,
39-47 [Id., Gestures and Acclamations in Ancient Rome, Johns Hopkins Univer-
sity Press, Baltimore {MD} - London 1999]; J. Hall, Cicero and Quintilian on
the Oratorical Use of Hand Gestures, in The Classical Quarterly 54 [2004] 143-
160, in part. 148-159; cfr. anche A. Quacquarelli, Riflessioni sul gesto (actio) di
alcune scene della iconografia evangelica dei primi secoli, in A. Duplex [éd.], Re-
cherches et tradition. Mélanges patristiques offerts à Henri Crouzel, Beauchesne,
Paris 1992 [Théologie Historique 88], 229-238). Attraverso questa semplice
actio retorica, gli osservatori intervengono nella dinamica della scena, venendo
“chiamati in causa” da Maria. Se dunque, per un verso, questa configurazione

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Per un approccio critico 133

sembra compromettere l’“esclusività” dell’interazione tra il gruppo dei Magi e


quello di Maria e Gesù, per l’altro, esso dà forse avvio a una storia che possia-
mo considerare l’esordio dell’icona. Ne scrive N.P. Kondakov, Iconografia del-
la Madre di Dio, 1, Viella, Roma 2014 (I libri di Viella, Arte - Études lausan-
noises d’histoire de l’art 17), 73: «Questa immagine presenta il gruppo della
Madre di Dio con il Bambino non a lato della scena, ma al centro della stessa.
Con ciò, si conferisce all’adorazione solennità e cerimonialità, più tardi dive-
nuta obbligatoria e che ha dato alla stessa raffigurazione il carattere di icona ».
S’inaugura ora, in altri termini, quel “transito” del «soggetto storico» verso
«una raffigurazione iconica » (ivi, 83).

Figura 10: Maria in trono ostende Gesù. Placca decora-


tiva in terracotta, già nella basilica di Pheradi Maius
(Bouficha, Tunisia; H. Leclercq, s.v. «Cartage », in DACL
2,2, 2190-2330, qui 2299-2301, afferma però una prove-
nienza cartaginese), ora presso il Museo Nazionale del
Bardo di Tunisi (cfr. Carthage. L’ histoire, sa trace, son écho.
Catalogue, Musée du Petit Palais, 9 Mars - 2 Juillet 1995,
Association française d’action artistique, Paris 1995, 290,
fig. 1). La datazione di questa mattonella – e di quella
assai simile, di identico soggetto ma non proveniente dal-
lo stesso stampo, accanto alla quale è stata ritrovata –
oscilla tra V e VI secolo. Sarei tuttavia incline a preferire
entro questa forbice una datazione relativamente alta,
alla metà del V secolo, quando, ancora sotto il controllo
vandalico, la qualità della produzione artistica dell’Africa
romana accusò una flessione qualitativa (così anche A.
Merrills - R. Miles, The Vandals, Wiley- Blackwell, Chichester 2010 [The Peo-
ples of Europe], 204-212, che pure ripercorrono la vicenda vandalica in Spagna
e in Africa in termini assai meno severi dell’abitudine della critica). Se la data-
zione proposta è corretta, si tratterebbe di una precocissima icona mariana, di
tipo ieratico (secondo il “triumphale typus” delle Mariae basilissae), affine a ciò
che verrà poi identificato come icona della “Nikopoia” (“apportatrice di vitto-
ria”) o come icona della “Kyriotissa” (“regina”). Senza voler impiegare, però,
classificazioni che, per la metà del V secolo, rischiano di risultare ancora ana-
cronistiche, va sottolineata la sostanziale contemporaneità di queste mattonelle
con il celebre viaggio a Gerusalemme di Eudocia Augusta del 438 (cfr. Teodo-
ro il Lettore, Storia ecclesiastica, presso Niceforo Callisto, Storia ecclesiastica
563,1 [PG 86, 165]), quello che si concluderà con l’invio a Pulcheria dell’icona
“lucana” dell’“Odigitria” (“la guida che mostra la via”), una sorta di “prototipo
leggendario” di tutta la tradizione delle icone. Se, però, la tradizione codifica
secondo le categorie leggendarie e discontinue dell’evento prodigioso le origini
di una fortunata stagione (e tale fu quella dell’icona), compito della storia è

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134 Le matrici di una critica

provare viceversa a indagarne le dinamiche in termini più consequenziali. Co-


me si vedrà, è forse possibile stabilire una parentela tra questo tipo iconografico
e quello dell’epifania ai Magi.

Figura 11: i Magi di fronte alla maestà di Maria e del Cristo bambino. Mosai-
co, Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna. Il pannello raffigurato in china proviene
da una delle sezioni di mosaico di Sant’Apollinare Nuovo riallestite dopo la
conquista giustinianea della civitas (540) e la conseguente attribuzione alla co-
munità nicena di tutte le chiese ariane della città (tra cui questa, già chiesa pa-
latina di Teodorico dedicata a “Nostro Signore Gesù Cristo”, poi, con l’assegna-
zione ai niceni, chiesa di San Martino in Ciel d’Oro e, solo a partire dall’856,
dalla traslazione cioè delle spoglie di Apollinare dall’omonima chiesa del porto
di Classe, Sant’Apollinare Nuovo). Dei tre registri di cui si componeva la son-
tuosa decorazione della navata centrale della chiesa teodoriciana, per certo solo
il terzo e più basso venne riformulato in parte, dando vita alle due celebri pro-
cessioni, convenzionalmente dette di “martiri” e di “vergini” (ma se da una
parte non si trovano solo “martiri” – si pensi a Martino di Tours –, dall’altra non
si susseguono solo figure di sante vergini: numerose sono anche le martiri, tra
cui Perpetua, che pure partorì in carcere). Una splendida descrizione di questi
mosaici e del loro sviluppo iconografico è fornita da D. Mauskopf Deliyannis,
Ravenna in Late Antiquity, Cambridge University Press, Cambridge et alibi
2010, 152-174, in part. 158-160 e 171-172; inoltre, all’indirizzo https://mostre-
virtuali.uniroma1.it/mostra/restaurimusiviravenna/it/10/santapollinare-nuovo
(consultato il 7 gennaio 2022) è possibile osservare dettagliatamente la storia
di tutti gli interventi su questi cicli musivi, dalla prima stesura sino al XX se-
colo. Senza volere ripercorrere qui la dettagliata disamina di Deborah Mauskopf
Deliyannis, basterà forse segnalare che le due teorie si situano all’intersezione
ideale tra la liturgia celeste – che prefigurano, tramite il contesto paradisiaco,
lo sfondo dorato e l’abbigliamento opulento – e la liturgia terrena – che accom-
pagnavano e assumevano su di sé, come perspicuamente osserva anche Mau-
skopf Deliyannis, Ravenna, 170: «Lo stesso Agnello [Liber pontificalis ravenna-
te 23; 36; 67] richiama l’attenzione sul fatto che tradizionalmente il lato
meridionale di una chiesa […] era dove stavano gli uomini, mentre il lato set-
tentrionale […] era destinato alle donne. Così, le processioni dei santi e delle

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Per un approccio critico 135

vergini corrispondono, quanto al genere, ai congregati sottostanti». Anche i


doni offerti nel mosaico, le corone, evocano sia la proclamazione celeste della
maestà di Dio sia la proskynesis della corte all’imperatore, simboleggiata trami-
te la dazione dell’aurum coronarium, un tributo in cui venivano corrisposte
corone, a significare la regalità del principe, sia, secondo O.G. Von Simson,
Sacred Fortress: Byzantine Art and Statecraft in Ravenna, The University of
Chicago Press, Chicago (IL) 1948, 90-103, le specie recate processionalmente
dall’assemblea durante l’offertorio, dette appunto anche coronae (di pane: cfr.
Gregorio Magno, Dialoghi 4,55 [PL 77, 417]). I Magi starebbero dunque nel
mosaico a guidare la processione delle sante, che, non a caso, giunge idealmen-
te al cospetto di Maria in trono (simmetricamente alla processione maschile,
guidata da Martino di Tours – cui era stata dedicata originalmente dai niceni
la chiesa –, che giunge al cospetto del Cristo in trono). Molto si è speculato
circa la presenza dei tre uomini alla guida di una teoria composta soltanto di
sante cristiane. Le soluzioni proposte hanno richiamato:
1. la ben documentata “misoginia patristica” che, soprattutto in questi secoli,
sembra considerare inevitabile una tutela virile per la donna (ma, forse, le
cristiane di Bisanzio furono tra quelle che meglio seppero emanciparsene:
cfr. almeno L. Garland, Byzantine Empresses. Women and Power in Byzan-
tium, AD 527 - 1204, Routledge, London - New York [NY] 1999; J. Herrin,
Women in Purple. Rulers of Medieval Byzantium, Princeton University Press,
Princeton [NJ] - Oxford 2001; Ead., Unrivalled Influence: Women and Em-
pire in Byzantium, Princeton [NJ] - Oxford 2013);
2. la possibile allusione trinitaria data dal numero degli offerenti (così propo-
neva già Agnello, Liber pontificalis ravennate 88 [ma solo incidentalmente!];
Leone Magno, nel Sermone 36, trasforma invece l’epifania in un manifesto
della professione di fede calcedoniese; cfr. comunque Mauskopf Deliyannis,
Ravenna, 169), ma sembrerebbe strano voler assumere questa lettura mec-
canicamente, perché implicherebbe un omaggio della Trinità alla Theotokos
e (ancor più stranamente!) al Figlio, innescando ulteriori – e forse maggio-
ri – problemi trinitari e cristologici;
3. un generico valore anti-ariano della scena, poiché correlata al tema dell’In-
carnazione.
Giova forse richiamare due differenti elementi che potrebbero concorrere a
ripensare le ragioni di questa scelta iconografica. Il primo è la predilezione
dei nuovi dominatori di Ravenna per la raffigurazione dell’omaggio dei Ma-
gi. Quest’ultima scena, come noto, venne inserita anche sul lembo della veste
di Teodora nel celebre ritratto dei mosaici di San Vitale, dove l’Augusta sta
appunto recando un’offerta, come fanno qui le numerose sante in processione
(i mosaici di San Vitale furono realizzati tra 546 e 548; per altro, la scena
della venuta dei Magi si trovava già sul sarcofago ravennate “dell’esarca Isa-
cio”, del V secolo, conservato presso San Vitale [Rep. 2, 378]). Il secondo si
riallaccia alla “storia iconografica” del gruppo dei Magi offerenti: come visto,
esso è stabilmente correlato all’immagine di Maria che ostende il neonato.

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136 Le matrici di una critica

Sin dal suo primo apparire, la raffigurazione di questa scena assunse colori-
ture escatologiche, capaci di enfatizzare questa specifica connotazione teolo-
gica dell’episodio, già propria della narrazione matteana. La storia della tra-
dizione visuale dell’epifania ai Magi fu dunque del tutto congruente
all’intenzione del testo evangelico, da cui prendeva le mosse e nel quale rico-
nosceva ora una ricapitolazione finale della caduta protologica (la trasgressio-
ne di Adamo ed Eva), ora un anticipo del compimento finale e ora, più gene-
ricamente, una professione della regalità del Cristo. Se questi due dati hanno
valore – la preferenza giustinianea per questi personaggi e la loro correlazione al-
la maestà di Maria e del Cristo bambino –, a Sant’Apollinare Nuovo andreb-
bero osservati non già i tre Magi mentre guidano le sante sino al gruppo ma-
riano della maestà, ma un’ulteriore riformulazione del carattere escatologico
di Mt 2,1-12. In questo strepitoso pannello musivo, in altri termini, il rac-
conto del primo canonico sarebbe già traslato nel suo significato escatologico:
le offerte dei Magi non rappresentano la cronaca di uno struggente episodio,
ma il riconoscimento della regalità messianica – e perciò escatologica – del
Cristo. Di conseguenza, ripristinando l’unità della scena dell’epifania di
Sant’Apollinare Nuovo, sarebbe piuttosto Eufemia – la prima della processio-
ne di sante, la martire che compì il miracolo risolutore del concilio di Calce-
donia – a guidare le donne della teoria femminile. Si dirà che questa ipotesi
di lettura viola la simmetria tra le due processioni (quella maschile e quella
femminile), ma è piuttosto la presenza dei Magi a violare lo schema, dal mo-
mento che, comunque li si voglia correlare (alle sante che li seguono o al grup-
po della maestà a quale si rivolgono), questi tre personaggi non hanno un
corrispondente iconico nella serie dei santi.

Figura 12: Maria in trono ostende Gesù bambino, ricevendo l’omaggio dei Ma-
gi. Particolare dai resti di un ambone monumentale, a pianta geminata, in mar-
mo, conservato ora presso il National Museum of Istanbul, proveniente dalla
“basilica della rotonda” di Tessalonica. Ricondotto in origine a un’epoca di po-

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Per un approccio critico 137

co successiva al concilio di Efeso (440-450: cfr. G. Mendel, Musées Impériaux


Ottomans. Catalogue des Sculptures Grecques, Romaines et Byzantines, 2, Con-
stantinople 1914, 393-405), di recente è stato datato, più prudentemente, alla
metà del VI secolo (cfr. R. Warland, Der Ambo aus Thessaloniki. Bildprogramm
– Rekonstruktion – Datierung, in Jahrbuch des Deutschen Archäologischen Instituts
109 [1994] 371-385, qui 385; N. Zchomelidse, The Epiphany of the Logos in the
Ambo in the Rotunda (Hagios Georgios) in Thessaloniki, in N. Suthor - A. Hoff-
mann - M. De Giorgi [eds.], Synergies in Visual Culture / Bildkulturen im Dialog.
Festschrift für Gerhard Wolf, Brill, Leiden 2013, 83-96), alla stessa altezza cro-
nologica, dunque, dei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo. La planimetria (del
solo basamento) è ricavata da Leclercq, s.v. «Mages », 1007, fig. 7466; il dettaglio
della china da Mendel, Musées Impériaux Ottomans, 399; la ricostruzione del
prospetto frontale da Warland, Der Ambo, 379. Il progetto iconografico di que-
sto ambone è sviluppato da otto delle dieci nicchie che rivestono il basamento e
la doppia scalea (BB) di questo straordinario monumento. I due pannelli nume-
rati in pianta con “1” e “10” sono privi di raffigurazioni. Il “2”, come mostra
anche la ricostruzione del prospetto frontale, è occupato dalla figura di un Ma-
go rivolto verso la maestà di Maria e Gesù (pannello “9”). I pannelli “3” e “4”
da altri due Magi che si incamminano. Il pannello “5”, gravemente lesionato,
raffigura un pastore che vigila sul suo gregge, verosimilmente a evocazione dell’e-
pifania ai pastori di Lc 2,8-20 (così propone anche Warland, Der Ambo, 375-376,
che, sfruttando il parallelo con i coevi quattro bassorilievi “della natività” di
Cartagine – dove il racconto dei Magi si interseca a quello lucano dei pastori –,
sostiene l’originale presenza di un angelo di fronte al pastore anche sull’ambone
di Tessalonica). I pannelli “6”, “7” e “8” ritraggono nuovamente i Magi che fi-
nalmente giungono al cospetto di Maria assisa in trono che mostra Gesù bam-
bino (pannello “9”). Se è chiaro il significato complessivo dell’itinerario – che
tale è letteralmente il ciclo figurativo di questo ambone –, d’altra parte meritano
di essere richiamati tre elementi:
1. i pannelli “2” e “9”, che connotano il fronte, sviluppano una sorta di sinte-
si complessiva dell’intero percorso iconografico – quindi il progetto di que-
sto documento visuale prevede due fasi di “lettura”, una dettagliata, che si
sviluppa lungo gli otto pannelli “2” à “9”, e una “riepilogativa”, data dalle
due nicchie del fronte;
2. l’impianto complessivo è evidentemente armonizzante: le Scritture, cioè,
vengono assunte attraverso un processo di aggregazione dei materiali propri
di ciascun Vangelo, a dare una narrazione composita ma unitaria – si pensi
alla Peshitta – di tutto ciò che viene narrato di Gesù dai testi canonici;
3. lo schema iconografico complessivo è del tutto analogo a quello appena
considerato dei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo, dove i Magi giungono
al cospetto di una maestà ritratta ortogonalmente a loro e frontalmente
all’osservatore.

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138 Le matrici di una critica

Ciò che emerge dal confronto di questi due documenti visuali – le raffigura-
zioni dell’epifania ai Magi di Sant’Apollinare Nuovo e dell’ambone di Tessa-
lonica – è l’attestarsi di uno “spazio d’intersezione” tra il tema iconografico
dell’omaggio dei Magi e quello delle maestà mariane che preludono alla storia
dell’icona.

Figura 13: i Magi al cospetto della maestà del Cristo-bambino. Mosaico,


arco trionfale di Santa Maria Maggiore, Roma. I mosaici dell’arco sono cer-
tamente di età sistina (432-440) e perciò provengono della progettazione ori-
ginale dell’edificio. L’immagine è tratta da Garr. 4, t. 213 (particolare). Que-
sto pannello musivo credo permetta di cogliere uno dei primi esperimenti
iconici che determineranno poi la soluzione che qui si sta considerando. L’ar-
co trionfale di Santa Maria Maggiore, infatti, mostra come, sin dalla metà
del V secolo, fosse disponibile all’“arte” cristiana una rilettura visuale dell’e-
pisodio dell’epifania ai Magi che riformulava il gruppo Maria-Cristo in sen-
so regale, secondo il modello delle maestà: «Che poi il divino Infante sia nel-
le scene del nostro musaico raffigurato non seduto sulle ginocchia di sua
Madre, ma sul trono e circondato dagli angelici satelliti e con la stella rivela-
trice della sua nascita sul capo, questo è un motivo ideato dall’artista per me-
glio far risaltare il Messia, Rex regum, adorato dai Magi» (G. Biasotti, L’arco
trionfale di S. Maria Maggiore in Roma, in Bollettino d’Arte [1914] 73-93, qui
81). L’ipotesi che qui si sta proponendo – riconoscere nelle raffigurazioni re-
gali del gruppo Maria-Gesù bambino uno sviluppo, sperimentato compiuta-
mente dal V secolo, del tipo iconografico dell’epifania ai Magi –, avvalorata
per altro da diversi esempi di epoca coerente (si pensi, per esempio, alle am-
polle argentee del tesoro del Duomo di Monza, della fine del V secolo [A.
Grabar, Les ampoules de Terre Sainte. (Monza - Bobbio), Klincksieck, Paris
1958, 7-9; 16-18, 45-47 [e figure 1-4; 54]), collima con quanto già osservato
da Kondakov, Iconografia della Madre di Dio, 1, 77: «Per la storia più genera-
le dei tipi iconografici, il dato più importante è certamente il fatto che sia la
Madre di Dio che il Bambino siano stati rappresentati di profilo rispetto allo

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Per un approccio critico 139

spettatore, e di fronte rispetto ai magi, così come i magi sono anch’essi di


profilo nel rilievo: evidentemente l’arte viva e naturalistica dei primi cinque
secoli dell’era cristiana voleva mostrare, con questo espediente, sia la sincera
fede dei magi che la misericordia viva di Dio. Già nel V secolo si era comin-
ciato, come vedremo, a rappresentare la Madre di Dio con il Bambino in mo-
do iconico con il viso voltato verso lo spettatore, ma allora anche i magi fu-
rono spostati ai due lati, come si vede sull’icona».

Figura 14: maestà di Maria e Gesù tra i Magi e


un angelo; scene della natività. Pannello eburneo
da copertina (di evangelario?), British Museum,
Londra. Immagine da Leclercq, s.v. « Mages »,
1055, fig. 7500. La datazione di questo avorio è
stabilita alla prima metà del VI secolo e la sua
provenienza alle regioni orientali del Mediterra-
neo, con preferenza per la Siria o l’area palestine-
se (cfr. O.M. Dalton, n. 14: «Panel from a Bookcov-
er; The Adoration of the Magi; The Nativity », in
Id., Catalogue of the Ivory Carvings of the Chris-
tian Era with Examples of Mohammedan Art and
Carvings in Bone in the Department of British and
Mediaeval Antiquities and Ethnography of the
British Museum, British Museum - Longmans,
London 1909, 12-14; S.A. Boyd, n. 476: «Plaque
with the Adoration of the Magi and Nativity », in
K. Weitzmann [ed.], Age of Spirituality: Late An-
tique and Early Christian Art, Third to Seventh
Century. Catalogue of the Exhibition at the Metropolitan Museum of Art, Novem-
ber 19, 1977, through February 12, 1978, The Metropolitan Museum of Art -
Princeton University Press, New York [NY] 1979, 531-532; A. Eastmon, n. 3:
«Plaque of the Adoration of the Magi and the Miracle of Salome », in M. Vassila-
ki [ed.], Mother of God: Representations of the Virgin in Byzantine Art, Skira,
Milano 2000, 266-267, propone addirittura Betlemme). Il pezzo, coevo ai mo-
saici di Sant’Apollinare Nuovo ma proveniente da maestranze orientali, dimo-
stra l’ampiezza del processo di ridefinizione del soggetto dell’epifania che, di-
fatti, vedrà ridursi la sua fortuna, cedendo progressivamente il posto alla
multiforme tradizione delle icone mariane. Si pensi al celebre enkolpion aureo
dell’Epifania – datato al 583-584 (cfr. P. Grierson, The Date of the Dumbarton
Oaks Epiphany Medallion, in Dumbarton Oaks Papers 15 [1961] 221-224) e con-
servato presso la Dumbarton Oaks Research Library and Collection –: qui la
maestà del gruppo Maria-Gesù bambino tra gli angeli sovrasta, per dimensione
e posizione, le più piccole scene della natività e dell’omaggio dei Magi. A riba-

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140 Le matrici di una critica

dire il “nesso ermeneutico” tra l’episodio del ciclo dell’infanzia matteano e l’ico-
na della maestà mariana, provvede su questa medaglia aurea la fedele replica-
zione degli stessi marcatori iconografici nella figura superiore, tra gli angeli, e,
nella figura più piccola, nella scena dell’omaggio dei Magi.

Figura 15: Maria con il Cristo bam-


bino in trono tra gli angeli Michele e
Gabriele. “Bassorilievo copto della
Madonna di Efeso” della cattedrale di
Adria. Datato al VI secolo (così A.
Nicoletti, Rilievo copto di Adria, in
Bollettino del Museo Civico di Padova,
63 [1974] 7-23; F. Coden, Ancora
sull’ icona marmorea protobizantina di
Adria (Rovigo), in Atti dell’Accademia
roveretana degli Agiati 268 [2018] 40-
53, qui 51-52, riassume tutte le data-
zioni proposte per questo documento,
dal V secolo al VII), a questo rilievo
venne attribuita un’origine copta da
S. Bettini, Opere d’arte ignote o poco
note. Un rilievo copto in Adria, in Rivista d’arte 16 (1934) 149-168, che spesso
viene ripetuta, anche se a mio avviso ha ragione Coden, Ancora sull’ icona mar-
morea, 52-53, a sottolineare «un’influenza costantinopolitana, effettivamente
molto evidente» che rimetterebbe in gioco «le aree più orientali del Mediterra-
neo come luogo di esecuzione della scultura adriese». In accordo con A. Guillou,
Recueil des inscriptions grecques médiévales d’Italie, École Française de Rome,
Roma 1996 (Publications de l’École Française de Rome 222), 7-8, numero 1, è
possibile sciogliere il dettato epigrafico di questo documento come segue:
1. al di sopra dei tre personaggi, si susseguono le identificazioni di «San Miche-
le (O agiōs Michaēl)», di «San Gabriele (O agiōs Gabrēēl)» e di «Santa Maria
(Ē agia Maria)»;
2. ai piedi del trono del gruppo della maestà alcune lettere che però comples-
sivamente risultano quasi del tutto illeggibili, consunte probabilmente per
via della prolungata esposizione di questo rilievo a piccoli gesti di pietà;
3. sotto il panneggio dell’angelo Gabriele è invece possibile leggere «Madre di
Dio, soccorri […], tuo servitore, e accorda la tua grazia, Signore, ad Abraham
Strothos (Theotoke bōēthi / […….] doulō / kai Ab- / raami- /ou Strōthou /
K(yri)e charin)».
L’identica struttura iconica che si osserva in questo documento e nella formella
eburnea analizzata in figura 14 permette di affermare la palmare sovrapponibi-

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Per un approccio critico 141

lità tra quella riscrittura della scena dell’omaggio reso dai Magi e queste prime
formalizzazioni visuali di maestà mariane. Si tenga, per altro, presente che, se si
accetta quanto osservato da M. Guj, s.v. «Nimbo», in Bisconti (cur.), Temi, 230-
231, qui 230, secondo la quale «nella figura di Maria il nimbo è applicato in
modo limitato sino a tutto il V secolo», sarà forse possibile anticipare alla fine del
V secolo il pannello di Adria, facendone una delle più significative e precoci at-
testazioni di questo tipo mariano.

L’itinerario sin qui percorso credo possa riassumere icasticamente il


passaggio dalla prima “immagine” cristiana all’icona, compiuto il quale
l’osservatore si ritrovò all’“interno” dell’evento storico-salvifico, spettato-
re dell’epifania della regale maestà divina del Cristo e della Theotokos.
L’immagine iconica lo chiamò in causa, invitandolo in tal modo a con-
templare, non più a vedere. Un po’ come nella geniale annunciazione di
Antonello da Messina, dove l’osservatore “entra” nella scena e assume la
prospettiva privilegiata dell’angelo Gabriele, ora l’osservatore si ritrova al
cospetto di Maria che gli ostende il Cristo bambino. In questo incontro,
del tutto nuovo, la complessa rete semantica, che sapientemente la più
antica documentazione visuale cristiana aveva aggregato alla scena dell’e-
pifania ai Magi, si dischiude agli occhi dell’osservatore che, vedendo la
madre e il neonato, contempla la Theotokos 33 e il Re dei re escatologico.
Il “posto dell’osservatore” è dunque radicalmente cambiato ma, per
quanto si diceva da principio, con esso era mutato il suo modo di “vede-

Si noti che fu il concilio di Efeso del 431 a scegliere proprio il tema della generazio-
33

ne di Gesù per affermare la piena divinità del Logos, attraverso l’“espediente” mariano in
ragione del principio della communicatio idiomatum: «La piena umanità di Gesù, unita all’i-
postasi divina, è generata dalla Vergine; il titolo [di Theotokos] stabilisce un fondamento on-
tologico per l’incarnazione e una garanzia soteriologica per il destino dell’umanità. […] Il
concilio di Efeso ha […] stabilito un presupposto fondamentale: Gesù, il Cristo, è l’uma-
nizzazione di Dio e la Theotokos ne è garanzia » (A. Gila, Maria nelle origini cristiane. Pro-
filo storico della mariologia patristica, Paoline, Milano 2017 [Spiritualità del quotidiano],
150). Si può dunque osservare un interessante parallelismo nella storia della documentazio-
ne visuale cristiana antica: anche qui, per significare il passaggio a una nuova cognizione di
Maria – sollecitato da un rafforzamento ulteriore della cristologia –, si scelse di operare sul
ciclo della natività e, ancor più specificamente, sull’episodio al quale la narrazione evange-
lica ha attribuito il compito di illustrare il momento in cui tutte le genti riconoscevano nel
neonato il Re dell’Universo, Cristo in vista del Regno.

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142 Le matrici di una critica

re” e l’ideale dell’immagine che gli si dispiegava dinanzi. Per quanto ri-
guarda la disamina che qui si conduce, questa rivoluzione determinò la
fine di una stagione – la prima, quella delle “immagini ermeneutiche” –,
e l’avvio di una nuova epoca, quella dell’icona. Non si può immaginare
di transitare entro le due epoche che questa soglia distingue impiegando
i medesimi criteri analitici e le medesime categorie interpretative.
Si badi: tale avvertenza non è valida solo da un punto di vista stori-
co-artistico (o storico dello stile, delle tecniche d’arte ecc.). Altro furono,
infatti, anche sul piano concettuale, l’immagine paleocristiana, il suo
“funzionamento”, le sue finalità e il suo “statuto storico”, altro furono
l’icona, il suo ideale e la sua definizione teoretica. In altri termini: i di-
battiti, i concili, le dispute che attorno all’icona si animarono non possono
costituire, in negativo o in positivo, il filtro critico per cogliere il signifi-
cato della cultura visuale paleocristiana. Si tratterebbe di una pericolosa
retroproiezione di categorie e di una(un) “idea(le) dell’immagine” del
tutto antistorica.

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L’APPROCCIO ERMENEUTICO.
L’“ARTE PALEOCRISTIANA”
COME SVILUPPO STORICO
DELL’ESEGESI CRISTIANA ANTICA

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I.

UNA DIVERSA PROSPETTIVA CRITICA


SUL DOCUMENTO VISUALE PALEOCRISTIANO

Il capitolo precedente ha revocato in dubbio la possibilità di conside-


rare l’immagine attestata dall’icona come uno sviluppo senza soluzione
di continuità della più antica immagine cristiana. Tra queste due stagio-
ni, si è visto, sussiste una difformità non solo né principalmente stilistica,
ma che coivolge l’ideale stesso dell’immagine: la prima visualità cristiana
non fu oggetto né di venerazione né di omaggio, poiché non fu riguar-
data quale “mediatrice sacra”, ma fu accolta e impiegata quale “medium
argomentativo”. Servì ad affermare1 e a comunicare tra uomini, non a
mettere gli uomini in relazione con il divino.
Una simile constatazione determina una duplice conseguenza:
1. sul piano genericamente epistemologico, mutare la concezione dell’og-
getto studiato richiede un ripensamento (almeno una verifica) del-
la metodologia con cui lo si indaga. Se infatti le prerogative che si
attribuivano a un oggetto di studio si rivelano inadatte a identifi-
carlo accuratamente, si dovrà anche riconsiderare l’efficacia della
strumentazione critica che era stata predisposta per analizzarlo;
2. nello specifico della vicenda critica relativa all’“arte” paleocristiana,
poi, la scissione tra la prima cultura visuale delle antiche comunità
di discepoli del Signore e quella che le succedette, caratterizzata

Come si vedrà (vedi infra, pp. 276-281), nel mondo romano-imperiale l’immagine ave-
1

va il compito di veicolare l’affermazione di sé, del proprio status e delle proprie idee. In que-
sta più ampia prospettiva rientra anche la funzione decorativa dell’immagine, nell’accezione
etimologica del termine che, risalendo al decus romano, implica sia l’idea dell’ornamento
sia quella della dignità (politica, sociale, familiare e personale). In questo senso, l’immagi-
ne cristiana si rivelò, come si vedrà, uno strumento di grande efficacia.

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146 L’approccio ermeneutico

dall’icona, comporta la necessità di riconsiderare diversi dati criti-


ci e analitici che erano stati acquisiti echeggiando quella tortuosa
riflessione circa la ricevibilità teologica di un’immagine cristiana,
riflessione che ebbe però come suo presupposto dialettico l’icona.
La ridefinizione del presupposto metodologico e dei principali para-
metri critici tramite i quali organizzare l’indagine della documentazione
visuale cristiana più antica rappresenta uno sforzo che può condurre an-
che a un altro risultato. L’immagine infatti costituisce, almeno idealmen-
te, l’intersezione tra due dimensioni di interesse: da una parte vi è il de-
siderio di motivare e interpretare il singolo documento iconico; dall’altra
sussiste pur sempre l’ambizione di poter impiegare anche questa docu-
mentazione, accanto a quella più consuetamente sfruttata (la documen-
tazione letteraria), nella ricostruzione delle origini cristiane.
In altri termini, l’individuazione di una metodologia analitica e di un
profilo critico adeguati non solo permette di cogliere il significato del
singolo oggetto iconico, ma ne sprigiona anche il potenziale documenta-
rio, attivandolo quale fonte per una più approfondita conoscenza dei pri-
mi secoli cristiani: la produzione “artistica” è insomma oggetto dell’in-
dagine storiografica ma può diventarne anche documento per far luce su
altri ambiti 2.

2 L’onere di una discussione metodologica è ciò che segna il passaggio dalla compren-

sione del singolo documento all’acquisizione di un’intera categoria documentaria, favoren-


do per altro la possibilità di un autentico confronto scientifico. Un esempio potrà forse chia-
rire ciò che ora intendo affermare. Se l’indagine parte da un singolo documento iconico,
interpretato sulla base della diversa sensibilità e competenza di ciascuno studioso che gli si
dedica, il suo esito continuerà a rimanere unitario, per quel che attiene la documentazione
(vi sarà al massimo un solo documento interpretato), e soggettivo, per quanto riguarda la frui-
bilità dell’esito analitico (ogni interpretazione fornita dello stesso documento non avrà ca-
rattere sperimentale, poiché non vi sarà alcun parametro di metodo per verificarne il pro-
cesso di definizione). Al contrario, la definizione di un approccio metodologico che possa
risultare condivisibile mira a fornire una prassi analitica che, in quanto tale, potrà applicar-
si a tutta la documentazione consimile (nel caso in esame, la documentazione visuale paleo-
cristiana) entro lo spazio di un dibattito scientifico a più voci, perché non limitato alla sen-
sibilità individuale del singolo interprete. Com’è ovvio, un simile traguardo può essere con-
seguito solo attraverso una discussione metodologica, che in queste pagine si spera di poter
attivare, senza avere l’ingenua presunzione di poterla già esaurire.

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Una diversa prospettiva critica 147

La traiettoria che questa ricerca vuole perseguire mira alla verifica


della fondatezza teoretica e dell’efficacia sperimentale di una metodologia
critica il cui presupposto è che la struttura fondamentale di questa pri-
migenia stagione della cultura visuale cristiana sia di natura ermeneutica.
Sul piano più strettamente teoretico, il presupposto critico che avanzo
teorizza una differenza strutturale non riducibile tra immagine paleocri-
stiana e icona bizantina. Tale difformità emerge comparando il nesso di
natura teologica tra tipo e prototipo che, sin dalla teoresi di Costantino V,
definì il significato dell’icona (può l’immagine farsi tipo di un prototipo
divino?), con quello di carattere ermeneutico tra tipo e antitipo che aveva
fornito alla committenza cristiana lo strumento fondamentale per la com-
posizione dei primi documenti visuali cristiani.
Tale «approccio ermeneutico» alla più antica iconografia cristiana po-
stula, in altri termini, che questi documenti si siano costituiti quali ma-
nifesti di fede elaborati attraverso i meccanismi fondamentali dell’esege-
si cristiana più antica, in special modo quella di natura tipologica, a dare
un’autentica ermeneutica codificata.

Figura 16: l’“arte” paleocristiana come ermeneutica codificata. Diagramma rias-


suntivo (la figura è tratta da Pelizzari, Vedere la Parola, 25). Come mostra lo sche-
ma proposto in figura, sul piano statutario, la definizione della più antica cultura
visuale cristiana come ermeneutica codificata comporta in realtà un duplice sco-
stamento. Da una parte, vi è il passaggio dall’inattuale categoria dell’“opera arti-
stica” a quella della codificazione figurativa; dall’altra, vi è un diverso rapporto tra
la figura e il testo biblico, nel quale l’immagine non si limita a illustrare il testo,
dipendendo da esso, ma lo interpreta, fornendone di fatto un’esegesi. In tal modo
la cultura visuale delle origini cristiane si trasforma in un’ermeneutica in codice,
una riflessione sulle Scritture, cioè, sviluppata attraverso l’immagine.

La proposta che si sta avanzando non vuole arricchire l’antologia di


ipotesi che via via si sono susseguite nel tentativo di identificare il Grund-

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148 L’approccio ermeneutico

prinzip (il “principio ispiratore”)3 a cui tutta l’iconografia cristiana si sa-


rebbe dovuta conformare:
‹Le› Immagini […], di volta in volta, sono state considerate come esplicite
espressioni delle verità dogmatiche, del potere soterico dei sacramenti (Wilpert,
Dassmann), del «mysterium Christi» (Casel, Sauer), della speranza nell’immor-
talità e nella risurrezione (De Bruyne) ovvero più generalmente come argomen-
ti di salvezza (Stommel, «Heilsargumente»), paradigmi di salvazione (Stuiber),
esposizioni narrative («memorative Erzählungen», Styger) di singoli episodi
biblici, segni allusivi […] riconducibili a verità della fede e a principi morali
(Klauser, Fink) o, ancora, come puri e semplici partiti decorativi 4.

In effetti, a ben guardare, ognuno dei tentativi descrittivi elencati da


Carlo Carletti mi pare colga aspetti autenticamente riconducibili alle in-
tenzioni – o, per lo meno, al Sitz im Leben religioso – di questa primige-
nia cultura visuale cristiana; d’altra parte, nessuno di essi è sufficiente per
comprenderne appieno gli esiti. Tale apparente contraddizione può esse-
re forse ricondotta alla pretesa di riconoscere un “nucleo semantico”
(Grundprinzip) unitario: un tema, cioè, al quale tutti i documenti figu-
rativi paleocristiani si sarebbero naturalmente orientati.
A mio giudizio, invece, si possono identificare piuttosto una Grundlogik,
una logica fondante5, e un «Grundgesetz » 6, la “norma fondamentale” che

3 Impiega questa categoria già E. Dassmann, Sündenvergebung durch Taufe, Buße und Mar-

tyrerfürbitte in den Zeugnissen frühchristlicher Frömmigkeit und Kunst, Aschendorff, Münster


1973 (Münsterische Beiträge zur Theologie 36), 45-53. Si useranno nelle prossime pagine que-
ste tre espressioni di lingua tedesca: Grundprinzip, Grundlogik e Grundgesetz. Il lettore spero
potrà perdonare questo debito contratto con la cultura critica tedesca che qui non è onorato
per sfoggio di erudizione ma per sottolineare la puntualità critica dei tre concetti che questo
lessico identifica. Tra il “principio ispiratore” o “tema costante”, la “logica costitutiva” e la
“norma fondamentale” di questa documentazione sussistono infatti differenze specifiche che
il ricorso a un lessico stabile vorrebbe rendere ancor più evidenti.
4 C. Carletti, Origine, committenza e fruizione delle scene bibliche nella produzione figu-

rativa romana del III secolo, in Annali di Storia dell’Esegesi 7 (1990) 455-466, qui 457.
5 Ricupero in parte l’ipotesi di un «approccio tipologico (typologischer Ansatz)» che R.

Suntrup, Präfigurationen des Meßopfers in Text und Bild, in Frühmittelalterliche Studien 18


(1984) 468-528, qui 527, ha proposto, pur se in uno studio di respiro assai più contenuto e
in prospettiva principalmente storico-sacramentaria, per le tipologie di Abele, di Melchise-
dek e di Isacco (quest’ultimo in particolar modo: ivi, 482-516).
6 Assumo questa espressione, rispetto alla costituzione ermeneutica e tipologica della

più antica cultura visuale cristiana, da K. Künstle, Ikonographie der christlichen Kunst, 1:
Prinzipienlehre / Hilfsmotive Offenbarungstatsachen, Herder, Freiburg im Breisgau 1928, 13.

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Una diversa prospettiva critica 149

disciplinava la progettazione di queste “opere”, un metodo compositivo


peculiare. Se con la prima categoria (Grundlogik) si può indicare la natura
ermeneutica di questi documenti, con la seconda (Grundgesetz) si intende
il meccanismo tipologico con cui i diversi temi vengono tra loro aggregati.
In altri termini, si tratta di passare dalla ricerca di un significato unitario
per tutta questa documentazione (il “principio” ispiratore di tutta l’“arte”
paleocristiana), alla definizione della natura di questi documenti (la loro
“logica” ermeneutica) e della sintassi compositiva con cui furono progetta-
ti (la “norma” tipologica).
L’«approccio ermeneutico» proposto in queste pagine comporta un’ul-
teriore flessione analitica: dai diversi temi iconografici al documento nel-
la sua interezza. Si tratta del passaggio dal lessico alla sintassi del docu-
mento. In altri termini, si postula che il singolo tema iconico (i diversi
soggetti dell’iconografia cristiana delle origini: per esempio, il riposo di
Giona, il sacrificio di Isacco, Daniele nella fossa dei leoni ecc.) non abbia
di per sé un valore univoco, ma si definisca di volta in volta, attraverso
il suo impiego, e dunque alla luce del progetto iconografico che concre-
tamente costituì i diversi documenti visuali (per esempio, un intero sar-
cofago, le pitture di tutto un arcosolio, l’apparato figurativo di un’epi-
grafe ecc.).
Si assume, dunque, il presupposto che alla base della scelta dei diver-
si temi iconografici vi fosse l’intenzione di elaborare ben precisi manife-
sti di fede (messaggi, cioè, accuratamente definiti e svolti di volta in vol-
ta dal progetto iconografico di ciascun monumento), che potevano
affrontare argomenti diversi (la soteriologia, la cristologia, la storia della
salvezza ecc.), ma che venivano articolati quali discorsi ermeneutici
(Grundlogik), tramite le regole della tipologia (Grundgesetze).
Data la centralità che l’ermeneutica tipologica rivestirà in questo pro-
cesso di definizione metodologica e di ridiscussione dei presupposti cri-
tici dell’analisi della prima documentazione visuale cristiana, sarà forse
opportuno presentare per sommi capi tale meccanismo esegetico e il suo
ruolo nelle origini cristiane.

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150 L’approccio ermeneutico

1. LA TIPOLOGIA
«Queste cose, per la verità, accadevano a loro in tipologia (typikōs);
furono scritte poi per nostra intelligenza, noi per i quali la fine dei tempi
è giunta» (1Cor 10,11).
Sono state proposte molte definizioni di tipologia. Benché non sia
questa la sede per tentare uno status quaestionis 7, se si volesse provare
almeno a elaborare una sintesi, se pure essa è possibile, si dovrebbe clas-
sificare come tipologia quel meccanismo esegetico che correla sul piano
della verità due racconti “biblici” che, per i cristiani 8, provengono l’uno
dall’economia prototestamentaria (“tipo” o “figurante”), l’altro dal tem-
po che il Cristo ha inaugurato (“antitipo” o “figurato”)9. È importante
osservare che alla base della tipologia non vi è l’elaborazione di una cor-

7 Un bilancio ancora efficace mi pare sia quello offerto da R.M. Davidson, Typology in

Scripture. A Study of Hermeneutical τύπος Structures, Andrews University Press, Berrien


Springs (MI) 1981 (Andrew University Seminary Doctoral Dissertation Series 2), 94-107.
La centralità del tema per la comprensione della più antica scrittura cristiana è stata recen-
temente ribadita da J.-N. Aletti, Senza tipologia nessun vangelo. Interpretazione delle Scrittu-
re e cristologia nei vangeli di Matteo, Marco e Luca, San Paolo - G & B Press, Cinisello Bal-
samo - Roma 2019 (Lectio 12), a cui rinvio anche per l’aggiornamento bibliografico.
8 La precisazione si giustifica con l’analogia ermeneutica tra la tipologia cristiana e quel-

la qumranica, il pesher. Su questa tradizione interpretativa delle Scritture, cfr. almeno E.


Jucci, Il pesher, un ponte tra il passato e il futuro, in Henoch 8 (1986) 321-338; Y. Fisch, “Mi-
drash-Pesher”: A Shared Technique of Interpretation in Qumran, Paul, and the Tannaim, in
Revue de Qumran 32 (2020) 213-233.
9 Come si vedrà meglio anche in seguito, è importante osservare che, per i cristiani,

mentre il tipo è sempre tratto dalle Scritture, l’antitipo può essere riconosciuto tanto nelle
diverse raccolte neotestamentarie quanto nella vicenda storica delle comunità cristiane. Sarà
il caso, per limitarsi a un solo esempio, della vicenda del martirio, nella quale verrà ricono-
sciuto l’antitipo dei tre ebrei nella fornace, di Daniele nella fossa dei leoni ecc.; cfr. J.W. Sa-
lomonson, Voluptatem spectandi non perdat sed mutet. Observations sur l’Iconographie du
martyre en Afrique Romaine, North-Holland Publishing Company, Amsterdam - Oxford -
New York (NY) 1979 (Koninklijke Nederlandse Akademie van Wetenschappen Verhand-
lingen Afdeling Letterkunde 98); C. Valenti, “Vetera fidei exempla”. La teologia del mar-
tirio nell’esegesi dell’ iconografia paleocristiana, M.A. Diss., Milano a.a. 2011-2012. Sul
lessico di typos (e antitypos) in antico, cfr. K.-H. Ostmeyer, Typos: weder Urbild noch Ab-
bild, in R. Zimmermann - H.-G. Gadamer (hrsg.), Bildersprache verstehen: zur Hermeneu-
tik der Metapher und anderer bildlicher Sprachformen, Fink, München 2000, 215-236; Id.,
Typologie und Typos: Analyse eines schwierigen Verhältnisses, in New Testament Studies 46
(2000) 112-131.

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Una diversa prospettiva critica 151

relazione sul piano dell’ immagine 10 (non si considera, cioè, il nesso tra i
diversi episodi come un apporto creativo istituito dall’esegeta), ma, per
l’appunto, la constatazione di un legame sul piano della verità: gli episodi
dell’antica economia ricevono in quelli della nuova la propria conclusio-
ne; questi ultimi, a loro volta, traggono il proprio principio in quegli
eventi antichi che accaddero preordinatamente ad essi11. Sussiste, in altri
termini, la convinzione dell’esegeta di non conferire alcun contenuto al
testo, ma di limitarsi a riconoscere l’unitarietà della storia della salvezza,
ormai giunta in prossimità del suo compimento escatologico12.
Dal nuovo evento – la predicazione, la morte e la risurrezione di Gesù – si
sviluppò una maniera di intendere l’Antico Testamento che differiva radical-
mente da quella del giudaismo […]. L’Antico Testamento non era più letto sot-
to l’aspetto esclusivo della legge, ma in prospettiva storico-salvifica; si vedeva,
cioè, nell’Antico Testamento una rivelazione divina precorritrice dell’apparizio-
ne di Cristo, rivelazione che si risolveva interamente in un preannuncio della
venuta del Signore13.

«Questi fatti avvennero come nostre tipologie (o: “come tipologie di


noi”; typoi ēmōn)14» (1Cor 10,6). Sin dalla primissima generazione cri-
stiana i predicatori del kerygma impiegarono abitualmente l’esegesi tipo-
logica delle Scritture. Il passo paolino citato, tratto da una delle più an-
tiche tra le lettere autentiche dell’Apostolo, attribuisce alla prassi della

10 Con “immagine” si intendono qui le figure retoriche di senso e di pensiero, tra le qua-

li soprattutto l’analogia. Dire che Gesù è l’antitipo di Adamo, in altri termini, non si limi-
ta a constatare dei parallelismi di funzioni, di ruolo, di valore tra quanto accadde ad Ada-
mo e ciò che si è compiuto per mezzo del Cristo; significa bensì affermare che la vicenda di
Adamo si è pienamente compiuta solo in quella di Gesù Cristo e che l’incarnazione del Lo-
gos ha le sue radici negli accadimenti protologici.
11 Una convincente analisi del meccanismo tipologico è stata effettuata da P.J. Cahill,

Hermeneutical Implications of Typology, in The Catholic Biblical Quarterly 44 (1982) 266-


281.
12 Come per il pesher giudaico, anche per la costituzione della tipologia cristiana fu fon-

damentale la convinzione di essere giunti alla fine dei tempi (cfr. 1Cor 10,11). L’avvento del
Regno, infatti, è quella variabile che sia sul piano teologico sia sul piano logico permette di
cogliere del tutto il disegno provvidenziale della salvezza.
13 G. von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, 2: Teologia delle tradizioni profetiche di

Israele, Paideia, Brescia 1974 (Biblioteca teologica 7), 396.


14 Per la traduzione, cfr. Cahill, Hermeneutical Implications, 272.

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152 L’approccio ermeneutico

comunità dei credenti in Gesù, il Cristo, la significazione dei fatti dell’E-


sodo: YHWH preordinò la condotta incostante di Israele affinché la Chie-
sa avesse un monito. Paolo non nega, in altri termini, la fattualità dell’e-
vento storico riportato nelle Scritture, ma afferma che quegli
accadimenti avvennero preordinatamente alla Chiesa, per esprimere in
essa il loro pieno significato. Si tratta, in questo caso, di una tipologia
antitetica 15, attraverso cui Paolo può affermare che nella fedeltà della
comunità cristiana, che deve essere speculare all’infedeltà di Israele, ot-
tiene il pieno compimento ciò che in antico accadde quale profezia di
Cristo e della Chiesa. Benché sia evidente il legame tra le caratteristiche
di questa prima tipologia e la struttura più fluida del mashal giudaico
(non esente da caratteri propriamente allegorici)16, questa iniziale acce-
zione di typos dimostra già una preferenza per quel meccanismo di signi-
ficazione esegetica dell’antico alla luce del suo compimento nel nuovo. In
tal senso, peraltro, si perfeziona l’uso paolino della tipologia, almeno per
quanto si può leggere in Rm 5,1417.
A riprova dell’uniforme e precoce traiettoria di specializzazione lessi-
cale (“tipo” come terminus technicus 18 della primigenia esegesi cristiana),
assai significativa mi pare la comparsa, già entro la fine del I secolo, del
correlato lessicale di “tipo”: l’“antitipo”. «Il che, ‹come› antitipo (anti-
typon), ora salva anche voi ‹nel› battesimo» (1Pt 3,21)19:

Vedi infra, p. 163.


15

Cfr. almeno D. Stern, Rhetoric and Midrash: The Case of the Mashal, in Prooftexts 1
16

(1981) 261-291; I.B. Gottlieb, Mashal le-Melekh: The Search for Solomon, in Hebrew Studies
51 (2010) 107-127. Va in ogni caso ricordato che, secondo una felice definizione di Cahill,
Hermeneutical Implications, 269, la tipologia è un «atto poetico di ermeneutica ( poetic herme-
neutic act)», non un codice interpretativo formalmente normato da un disciplinare stabilito.
17 Su questa tipologia, cfr. le diverse opinioni di O. Davidsen, Adam-Christ Typology in

Paul and Mark: Reflections on a Tertium Comparationis; Preliminary Remarks, in E.-M.


Becker - T. Engberg-Pedersen - M. Mueller (eds.), Mark and Paul. Comparative Essays. Part
II: For and against Pauline Influence on Mark, De Gruyter, Berlin - Boston (MA) 2014
(Beihefte zur Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft 199), 243-272; R.S. Schel-
lenberg, Does Paul Call Adam a “Type” of Christ? An Exegetical Note on Romans 5,14, in Zeit-
schrift für die Neutestamentliche Wissenschaft 105 (2014) 54-63.
18 Cfr. Davidson, Typology in Scripture, 93-94.
19 La formulazione ellittica del passo petrino («ho kai ymas antitypon nyn sō-izei bapti-

sma») rende assai complesso coglierne e restituirne esattamente il senso. Sulla scorta di P.J.

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Una diversa prospettiva critica 153

Sulla scia di Paolo ci riportano […] 1 Petr. 3,21 […] e soprattutto lo Ps.
Barnaba. Il suo paolinismo radicale lo ha portato a sviluppare l’embrionale ti-
pologia paolina […]: e in questo contesto […] il termine di gran lunga predilet-
to è typos, adoperato con valenza ormai tecnica […]. Il termine era destinato ad
acclimatarsi nella tradizione cristiana soprattutto in forza dell’ampio uso che di
esso avrebbero fatto gli scrittori dell’ambiente asiatico (Giustino, Melitone, Ire-
neo, Ippolito)20.

Con la metà del II secolo, dunque, la tipologia cristiana aveva assunto


un profilo sostanzialmente definito, in un certo senso forse anche “disci-
plinato”, benché secondo una prassi non ancora formalmente normata 21.
Pur non essendo questa la sede per descrivere analiticamente la vicenda
della tipologia nelle origini cristiane 22, pare necessario sottolinearne un
esito caratteristico, in grado di giustificare l’ipotesi di una specifica in-
fluenza della tipologia sulla storia delle origini cristiane.
Benché, infatti, si possa affermare che l’ermeneutica tipologica sia, se
non la più antica, certamente tra le prime forme di esegesi praticate dai

Achtemeier, La prima lettera di Pietro, LEV, Città del Vaticano 2004 (Letture bibliche 18),
445-455, considero sia antitypon sia baptisma apposizioni dell’ho introduttivo, pronome neu-
tro singolare che si può riferire o all’intera evocazione del diluvio noachico di 1Pt 3,20 o al-
la sola menzione dell’acqua (come giustamente Achtemeier, La prima lettera di Pietro, 446,
suggerisce in accordo a N. Brox, Der erste Petrusbrief, Benzinger - Neukirchener, Zürich -
Neukirchen-Vluyn 1979 [Evangelisch-Katholischer Kommentar zum Neuen Testament 21],
177) che chiude quel versetto, precedendo immediatamente il v. 21. Sarebbe stato dunque
più accurato proporre: «Il che, ‹come› antitipo (antitypon), ora salva anche voi ‹come› batte-
simo», ma questa formulazione avrebbe forse reso la lettura del testo malagevole.
20 M. Simonetti, Sul significato di alcuni termini tecnici nella letteratura esegetica greca,

in La terminologia esegetica nell’antichità. Atti del Primo Seminario di antichità cristiane. Ba-
ri, 25 ottobre 1984, Edipuglia, Bari 1987 (Quaderni di «Vetera Christianorum» 20), 25-58,
qui 28.
21 Non può stupire questa precoce definizione della prassi ermeneutica in seno alle co-

munità cristiane; significativamente Lc 24,27 identifica, come noto, nel risorto il primo er-
meneuta cristiano; cfr. R. Marlé, Il problema teologico dell’ermeneutica, Queriniana, Brescia
1968 (Giornale di teologia 24), 13-16.
22 Mi limito a segnalare i contributi di J. Daniélou, Sacramentum futuri. Études sur les ori-

gines de la typologie biblique, Beauchesne, Paris 1950 (Études de Théologie Historique); Id.,
Études d’exégèse judéo-chrétienne (Les Testimonia), Beauchesne, Paris 1966 (Théologie Histo-
rique 5); M. Simonetti, Profilo storico dell’esegesi patristica, Augustinianum, Roma 1981 (Sus-
sidi patristici 1); Id., Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, Augu-
stinianum, Roma 1985 (Studia Ephemeridis Augustinianum 23); E. Norelli (cur.), La Bibbia
nell’antichità cristiana, 1: Da Gesù a Origene, EDB, Bologna 1993 (La Bibbia nella storia 15,1).

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154 L’approccio ermeneutico

«discepoli del Signore», d’altra parte, è certo che essa non sia stata l’uni-
ca e che, con l’affermarsi della lezione origeniana, a partire dal III secolo,
gli approcci anche più spericolatamente allegorici ai testi biblici finirono
per prevalere. Si impone, pertanto, con naturalezza la domanda circa lo
spazio storico nel quale collocare l’ipotesi di un’influenza così aperta e
caratteristica della tipologia sulla prima cultura visuale cristiana.
Se, per un verso, si può affermare che la tipologia stia all’origine stessa
dei più antichi scritti cristiani, tra i quali spiccano quei testi che verranno
poi considerati canonici, per altro verso si deve anche osservare che l’ap-
proccio tipologico governò sin da subito le modalità dell’impiego delle
Scritture nel culto cristiano. Già nel racconto lucano dei discepoli di Em-
maus, sulla genesi della cui struttura influì la prassi cultuale cristiana del-
le origini 23, Gesù si incarica di un’autentica ermeneutica tipologica 24: «E
cominciando da Mosè e da tutti i profeti fu ermeneuta per loro (diermē-
neusen autois) di ciò che, in tutte le Scritture, lo riguardava» (Lc 24,27).
La stessa organizzazione del lezionario25, che si compone struttural-
mente attraverso la giustapposizione di testimonia prototestamentari ai

La bibliografia su questo episodio è sterminata; un buon prospetto si può trovare in


23

F. Bovon, Luca, 3: Commento a 19,28 - 24,53, Paideia, Brescia 2013 (Commentario Paideia.
Nuovo Testamento 3,3), 545-550. Sull’influenza del culto paleocristiano sulla genesi di
questo racconto, cfr. R. Orlett, An Influence of the Early Liturgy upon the Emmaus Account,
in Catholic Biblical Quarterly 21 (1959) 212-219; A.A. Just, The Ongoing Feast: Table Fel-
lowship and Eschatology at Emmaus, Liturgical Press, Collegeville (MI) 1993; C. Grappe,
Au croisement des lectures et aux origines du repas communautaire. Le récit des pèlerins d’Em-
maüs, Luc 24,13-35, in Études théologiques et religieuses 73 (1998) 491-501.
24 La matrice tipologica dell’esegesi gesuana nel Vangelo di Luca è esplicitamente affer-

mata da D.S. Russel, Dal primo giudaismo alla chiesa delle origini, Paideia, Brescia 1991 (Stu-
di biblici 96), 78-79; D. Mirizzi, Il Gesù-esegeta di Luca. Analisi narrativa di brani scelti, Cit-
tadella, Assisi 2016 (Studi e ricerche. Sezione biblica). Su Gesù come «grande ermeneuta »,
cfr. G. Gusdorf, Storia dell’ermeneutica, Laterza, Roma - Bari 1989 (Manuali Laterza 7),
47-48.
25 Cfr. A.-G. Martimort, Les lectures liturgiques et leurs livres, Brepols, Turnhout 1992

(Typologie des Sources du Moyen Âge Occidental 64); E. Palazzo, A History of Liturgical
Books from the Beginning to the Thirteenth Century, Liturgical Press, Collegeville (MN) 1998,
83-105; M. Metzger, L’Église dans l’Empire Romain. Le culte, 1: Les institutions, Pontificio
Ateneo S. Anselmo, Roma 2015 (Studia Anselmiana 163 - Analecta liturgica 33), 143-146;
R. Tichý, Proclamation de l’Évangile dans la Messe en Occident. Ritualité, histoire, comparai-
son, théologie, Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma 2016 (Studia Anselmiana 168 - Ana-
lecta liturgica 34), 62-69.

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Una diversa prospettiva critica 155

racconti neotestamentari, costituisce la più visibile prova della peculiare e


duratura influenza che questo modello ermeneutico seppe esercitare sulla
storia cristiana. D’altra parte, è proprio il vettore liturgico a costituire lo
“spazio di possibilità” dell’«approccio ermeneutico» che qui si sostiene per
lo studio della più antica cultura visuale cristiana. Se, infatti, il modo or-
dinario di impiegare le Scritture e di apprenderne il significato, caratteri-
stico del contesto dell’audizione liturgica, era questo, l’ipotesi che esso
connoti anche la documentazione visuale paleocristiana non potrà essere
considerata una forzatura intellettualistica di questa fonte, bensì la sua
coerente contestualizzazione entro il proprio Sitz im Leben.
Il senso di questa osservazione permette dunque di assumere l’«ap-
proccio ermeneutico» come il tentativo di ricondurre l’iconografia paleo-
cristiana all’interno della vita delle comunità antiche, apparentandola
alla circostanza che rese pubblicamente accessibile a quelle generazioni
cristiane la Bibbia: la liturgia.
Nel cristianesimo primitivo, infatti, lo strumento fondamentale dell’e-
segesi liturgica fu l’impiego tipologico delle raccolte di testimonia: i primi
cristiani non utilizzavano i libri delle Scritture ebraiche secondo una cul-
tura letteraria simile alla nostra (non leggevano ciascun libro separata-
mente e continuativamente), ma piuttosto sceglievano, modellavano e
interpretavano alcuni brani, attinti da fonti disparate (da libri e raccolte
diversi: per esempio, un passo di Isaia, un versetto del Salterio e una nor-
ma della Torah), per supportare la propria professione di fede e per con-
solidare la ricevibilità dei suoi diversi teologumeni. Tale approccio può
essere considerato propriamente come la prosecuzione, nelle prime comu-
nità cristiane, di ciò che Jean Carmignac chiamava il «pesher tematico»
di Qumran 26: un’esegesi attualizzante che dispone passi tratti da diversi
libri biblici attorno a un certo tema teologico.

J. Carmignac, Le document de Qumran sur Melkisedeq, in Revue de Qumrân 27 (1970)


26

342-378, qui 360-362. Cfr. anche G. Pelizzari, Manifestos of the Kingdom. Early Christian
Iconography and Biblical Hermeneutics. A New Methodological Approach, in A. Eusterschulte -
I. Helffenstein - C. Reufer (hrsg.), Figurales Wissen. Medialität, Ästhetik und Materialität
von Wissen in der Vormoderne, Harrassowitz, Wiesbaden c.d.s. (Episteme in Bewegung. Beiträge
zu einer transdisziplinären Wissensgeschichte 17).

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156 L’approccio ermeneutico

I primi cristiani, i quali assunsero per le loro cene l’usanza dello shabbat
ebraico di leggere pagine della Legge e dei Profeti, ben presto aggiunsero ad
esse le pericopi dagli scritti degli Apostoli e dei Vangeli: questa prassi – che
si costituì quale pesher cristiano attraverso testimonianze selezionate e fatte
sedimentare entro la coscienza identitaria delle diverse Chiese – diede vita,
tramite un processo spontaneo, corale e non preordinato, ai lezionari 27.
L’«approccio ermeneutico», dunque, senza presupporre la dipendenza
della più antica tradizione visuale cristiana dalla cultura ermeneutica di
certi autori, la riscatta dal pregiudizio che essa si limiti a illustrare dei testi,
fossero essi pure le Scritture (o i lezionari), rivendicando al contrario la con-
tinuità di questa fonte documentaria con il modo di leggere, interpretare e
impiegare le Scritture che caratterizzava la prassi liturgica di tutte le comu-
nità antiche.

Figura 17: confronto tra l’impiego liturgico dei materiali biblici e quello della
prima cultura visuale cristiana. Schema riassuntivo. La tabella riportata offre i
realia fondamentali per la costituzione teoretica dell’«approccio ermeneutico».
In esso gli elementi di continuità tra prassi liturgica e sintassi iconografica ven-
gono assunti come matrici della definizione metodologica.

27 Su questo passaggio, dalla prassi sinagogale a quella ecclesiale, si osservino le precisazioni

offerte da A.B. McGowan, Il Culto Cristiano dei primi secoli. Uno sguardo sociale, storico e teologi-
co, EDB, Bologna 2019 (Studi e ricerche di liturgia), 98-102. Sulla precocità di quest’uso, cfr. al-
meno Giustino, Apologia (I) 67,3-4. Resta d’obbligo il riferimento a M. Metzger, L’Église dans
l’Empire Romain. Le culte, 2: Les célébrations, Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma 2021 (Studia
Anselmiana 184 - Analecta liturgica 38), ove è tracciata una dettagliata storia della prassi cultua-
le cristiana; alle pp. 17-19 sta una sorta di sommario delle informazioni relative alle letture, con
i riferimenti alle trattazioni più ampie nel corso dell’opera (per Giustino, cfr. ivi, 34-42).

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Una diversa prospettiva critica 157

Questa prospettiva di indagine, attraverso la valorizzazione metodo-


logica e critica della tipologia, restituisce in tal modo l’iconografia cri-
stiana al suo contesto, predispone una prassi analitica coerente con il
Sitz im Leben di questa documentazione, ne afferma una Grundlogik
storicamente plausibile e ne reclama un Grundgesetz alla portata di tutti
i membri delle comunità cristiane di quell’epoca.

---

Scopo delle prossime pagine sarà quello di riflettere sui caratteri sa-
lienti dell’«approccio ermeneutico» alla prima documentazione visuale
cristiana, fin qui solo sommariamente enunciato.
Nello specifico, ci si soffermerà sui tre mutamenti di paradigma cri-
tico che definiscono tale approccio.
1. Da un repertorio tematico a una “disciplina sintattica”. Per prima
cosa, si presterà attenzione alla centralità critica della dimensione
unitaria dei diversi documenti figurativi delle origini cristiane, os-
servando il parallelo tra il Grundgesetz tipologico di questa cultura
visuale e l’impiego – liturgico, esegetico e teologico – delle raccol-
te di testimonia.
2. Da un approccio tassonomico a uno di tipo critico-esegetico. Si
rifletterà sulla natura ermeneutica (Grundlogik) della cultura vi-
suale cristiana delle origini e sulla necessità critica che essa deter-
mina di non limitare la comprensione di questi documenti alla
sola descrizione dei soggetti in essi raffigurati, bensì di spingersi
sino all’identificazione dell’intento argomentativo che portò alla
loro scelta e al loro accostamento in ciascun prodotto visuale pa-
leocristiano (il progetto iconografico del documento).
3. Dalla prospettiva “monumentale” alla prospettiva “documentaria”.
Infine, si cercherà di ricondurre questa documentazione al suo
Sitz im Leben, per valutare la congruità dei presupposti critici
dell’«approccio ermenutico», alla luce del contesto storico di questa
documentazione. Il fine di tale operazione è quello di predisporre

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158 L’approccio ermeneutico

l’acquisizione della produzione figurativa paleocristiana quale fon-


te per la storiografia delle origini cristiane accanto – e non più in
subordine – alla letteratura di questi secoli.

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II.

UN MODELLO METODOLOGICO:
LA PRIMA CULTURA VISUALE CRISTIANA
COME SINTASSI ERMENEUTICA

Nel tentativo di presentare l’«approccio ermeneutico» alla più antica


cultura visuale cristiana, reputo necessario partire da quello che, nelle
pagine precedenti, è stato definito Grundgesetz, “norma fondamentale”
di questa stagione “artistica”. La ragione di tale priorità credo si possa
cogliere nel fatto che la progettazione di questi documenti, finalmente
intesi come prodotti di una sintassi tipologica, è forse la caratteristica a
cui si intende prestare maggiore attenzione1.
La cifra tipologica con cui si vuole descrivere la norma secondo la qua-
le venivano progettati questi documenti visuali riveste perciò un ruolo
capitale nella definizione della metodologia critica che qui si propone. Le
pagine che seguono si soffermeranno su tre caratteristiche del Grundgesetz
riconosciuto nella più antica cultura visuale: la sua matrice critica; la sua
sincronia contestuale (l’affinità, cioè, con la coeva prassi, liturgica e non
solo, di impiego delle Scritture); le sue ricadute rispetto alla cognizione
critica di questa documentazione.

1 Per capire quanto appena affermato e la sua rilevanza critica, potrà forse giovare il pa-

rallelo con la documentazione letteraria. Per la decifrazione e comprensione di un testo è


necessario fare ricorso a numerosi strumenti lessicografici e grammaticali (nell’accezione
più generica di “grammatica”, intesa, in senso lato, come disciplina normativa morfologica
e sintattica di una lingua): i primi mirano specialmente a descrivere i significati delle paro-
le impiegate da una lingua; i secondi, invece, si concentrano sui meccanismi che regolano
l’impiego delle parole e la costruzione delle frasi. La proposta metodologica che qui si avan-
za in relazione ai documenti visuali intende prestare particolare attenzione al piano della
costruzione del singolo documento (la “sintassi” della cultura visuale paleocristiana), anzi-
ché alla declinazione del significato delle parti che lo compongono (il “lessico” di quell’i-
conografia). È come se, dunque, rispetto a un documento scritto, si volessero considerare i
principi sintattici che regolano la lingua in cui esso è redatto e non solo il significato delle
parole che esso impiega.

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160 L’approccio ermeneutico

1. «ARTE TIPOLOGICA » (P. BLOCH)


La proposta di un Grundgesetz tipologico non è nuova alla critica del-
la più antica cultura visuale cristiana. L’elemento di originalità di questa
ricerca vorrebbe risiedere piuttosto nel tentativo di derivarne una meto-
dologia analitica per tale documentazione figurativa. In vista di questo
risultato, reputo necessario ripercorrere brevemente i tratti salienti di
questa definizione, per come essa è emersa nella storia degli studi.

1.1. Le origini di una definizione


Agli inizi del XX secolo, Karl Künstle assunse il rapporto tipologico
che lega i Testamenti come il sintomo fondamentale di ciò che egli chia-
mava «il simbolismo letterario (die literarische Symbolik)» della letteratu-
ra cristiana più antica, coordinata decisiva, a suo giudizio, per compren-
dere «l’essenza del simbolismo artistico ‹cristiano delle origini›»:
È di particolare importanza che, secondo l’insegnamento del Nuovo Testa-
mento, l’intera Prima Alleanza con tutte le sue istituzioni sia un simbolo della
Nuova (cfr. Mt 11,13; Lc 18,31; 24,27; At 1,16). La Lettera agli Ebrei sviluppò
quest’idea […] mettendo in parallelo il tabernacolo e i sacrifici del Primo Te-
stamento con la morte sacrificale di Cristo, ponendo così le basi per la Concor-
dia Veteris et Novi Testamenti, una delle regole fondamentali della simbolica
cristiana 2.

Per Karl Künstle il ricorso al principio tipologico rappresentava l’esito


necessario di un criterio, che egli mutuava da Anton Springer, sul quale
aveva informato per intero la sua Iconografia dell’arte cristiana. In esso si
riconosceva l’identità tra «le fonti da cui l’artista traeva i temi della ‹sua›
rappresentazione» e «quelle da cui ebbe origine la formazione dei suoi
contemporanei. Il comune punto di vista (Anschauungskreis) dell’epoca
offre il solido sfondo ai pensieri dell’artista: in esso, innanzi tutto, si de-

2 Künstle, Ikonographie der christilichen Kunst, 1, 13. Identica valorizzazione della Let-

tera agli Ebrei «tra le possibili fonti di ispirazione della più antica iconografica cimiteriale
‹cristiana›» è stata proposta da G. Otranto, Alle origini dell’arte cristiana precostantiniana:
interpretazione simbolica o storica?, in Annali di storia dell’esegesi 7 (1990) 437-454, qui 444.

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Un modello metodologico 161

ve cercare la spiegazione dei soggetti»3. È su queste basi che Karl Künst-


le stabilì, per primo, la centralità del Grundgesetz tipologico per la prima
arte cristiana:
Il carattere simbolico di molte parti dell’Antico e del Nuovo Testamento ha
determinato l’intera peculiarità dell’arte paleocristiana […]. Tutti gli esegeti
concordano sul fatto che il Primo Testamento è un simbolo del Nuovo e tutti
concordano sul fatto che molti passaggi, in entrambi i Testamenti, presentano
un significato mistico accanto a quello letterale […]. Ecco perché alle rappre-
sentazioni pittoriche di tali brani è stato attribuito il significato tipologico o
mistico (typologische oder mystische Bedeutung) che avevano presso i padri 4.

La mozione di principio dello studioso tedesco vedeva significativa-


mente la luce negli anni in cui gli studi sulla tipologia biblica stavano
guadagnando uno spazio sempre più consistente nell’agenda della ricerca.
A partire dall’ipotesi di un «protovangelo prototestamentario»5 – una
sorta di strumento per i primi missionari cristiani, un dossier di passi
delle Scritture di Israele assunti tipologicamente come testimonianze di
Cristo –, si giunse facilmente alla c.d. “ipotesi dei testimonia”, secondo la
quale i Vangeli non sarebbero altro che un’aggregazione narrativa di ti-
pologie tratte dalle Scritture 6. Anche se non sempre integralmente rece-
pita, l’ipotesi di James Rendel Harris (l’“ipotesi dei testimonia”) portò al
centro dell’attenzione della critica il tema dei testimonia e della struttura
tipologica della più antica lettura cristiana delle Scritture.

A. Springer, Iconographische Studien, in Mitteilungen der K.K. Zentral-Kommission für


3

Erforschung und Erhaltung Kunst- und Historischen Denkmale 5 (1860) 29-33, 67-75, 125-
134, 309-322, qui 31, ripreso da Künstle, Ikonographie der christilichen Kunst, 1, 15.
4 Künstle, Ikonographie der christilichen Kunst, 1, 14.
5 Così K.A. Credner, Beiträge zur Einleitung in die biblischen Schriften, 2: Das alttesta-

mentliche Urevangelium, Waisenhaus, Halle 1838. Cfr. anche, benché si esprimano in mo-
do più sfumato, E.C. Selwyn, The Oracles in the New Testament, Hodder & Stoughton, Lon-
don - New York [NY] - Toronto 1912; A.F. von Ungern-Sternberg, Der traditionelle
alttestamentliche Schriftbeweis De Christo und De Evangelio in der alten Kirche bis zur Zeit
Eusebs von Caesarea, Niemeyer, Halle 1913.
6 Cfr. E. Hatch, Essays in Biblical Greek, Clarendon, Oxford 1889, e, ovviamente, J.R.

Harris, Testimonies, Cambridge University Press, Cambridge 1916-1920; su quest’ultima


fondamentale pagina della ricera neotestamentaria, cfr. ora A. Falcetta, The Testimony Re-
search of James Rendel Harris, in Novum Testamentum 45 (2003) 280-299.

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162 L’approccio ermeneutico

Ancora negli anni dell’Iconografia di Karl Künstle, videro la luce due


ricerche di grande interesse – di George H. Box e di Lucien Delporte –,
a riprova dell’attualità che questo tema aveva assunto nel dibattito scien-
tifico dell’epoca 7. Benché questi studi sull’origine tipologica dei Vangeli
non trovino posto nei riferimenti bibliografici elencati dallo studioso te-
desco, pare innegabile che essi abbiano concorso a rafforzare l’opinione
che la tipologia fosse – come pure credo si possa ancora affermare – la
primigenia forma di ricezione delle Scritture in seno ai gruppi di disce-
poli del Signore e che, dunque, essa fosse il “modo ordinario” della prima
ermeneutica cristiana.
Un fondamentale passo avanti in questa direzione fu compiuto nel
1961 da André Grabar, il quale richiamò l’importanza della tipologia per
la comprensione della prima cultura visuale cristiana. Pur se limitatamen-
te alla descrizione dell’impiego dei diversi temi iconografici (studiati co-
me «espressione dei dogmi» sul duplice versante dei «singoli soggetti» e
delle «immagini giustapposte») 8, in una lezione destinata a segnare in pro-
fondità la storia della critica alla prima “arte” cristiana, lo studioso natu-
ralizzato francese riconobbe «l’inizio del metodo ‹tipologico› […] nell’ar-
te paleocristiana». Egli, pur dando atto di questa matrice ermeneutica
– che però trovava compiutamente espressa solo nell’arte medievale 9 –,
affermava infatti: «Vedremo alcuni antichi esempi di tale iconografia in
una forma molto complessa, osservando allo stesso tempo, non senza sor-
presa, che i creatori cristiani di immagini (christian image-makers) della
tarda antichità rimasero indietro di diversi secoli rispetto ai teologi»10.

7 Il secondo volume dell’opera di Künstle uscì nel 1926, prima del primo volume, edi-

to solo nel 1928. Sono di questi anni le ricerche di G.H. Box, The Value and Significance of
the Old Testament in Relation to the New, in A.S. Peake (ed.), The People and the Book: Es-
says on the Old Testament, Clarendon, Oxford 1925, 433-467, e soprattutto di L. Delporte,
Les principes de la typologie biblique et les éléments figuratifs du Sacrifice de l’Expiation (Lev
16), in Ephemerides theologicae lovanienses 3 (1926) 307-327.
8 Cfr. Grabar, Christian Iconography, rispettivamente 112-127 e 128-146.
9 Come farà anche Peter Bloch, già Grabar considerò il modello tipologico quello più

caratteristico dell’arte medievale, nella quale portò «i più ricchi risultati» (Grabar, Christian
Iconography, 111).
10 Cfr. Grabar, Christian Iconography, 111.

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Un modello metodologico 163

Colpisce la nettezza del giudizio con cui il grande iconografo affermò


la subalternità dell’esegesi visuale a quella teologica. Tale opinione appa-
re ormai, a giudizio di chi scrive, difficilmente surrogabile dai dati: se la
Grundlogik e il Grundgesetz tipologici caratterizzarono da subito la cul-
tura visuale cristiana e se quest’ultima iniziò a esprimersi con il II secolo11,
essa ben difficilmente potrà aver scontato un ritardo addirittura pluri-se-
colare rispetto alla produzione teologica.
Tre anni dopo la lezione di André Grabar – ma ancora all’oscuro di essa12
– Hans-Jürgen Geischer problematizzò esplicitamente e sistematicamente, per
primo, il Grundgesetz tipologico della prima “arte” cristiana in una fonda-
mentale tesi di dottorato (discussa nel 1964), purtroppo solo in anni del tut-
to recenti finalmente pubblicata13. Tra i numerosi meriti di questa ricerca vi
è senz’altro quello di aver sostanziato la propria riflessione sulla natura tipo-
logica della prima cultura visuale cristiana tramite un’ampia discussione di
questo meccanismo ermeneutico e attraverso la classificazione in tre modelli:
1. la «tipologia antitetica (antithetische)» (quella che giustappone un
tipo negativo a un antitipo positivo; si pensi al celebre caso Adamo
- Gesù);
2. la «tipologia sintetica (synthetische)» (quella che accosta due eventi
«intesi nella loro intima corrispondenza», come quando la figura
di Mosè viene accostata a quella di Pietro);
3. la «tipologia rappresentativa (stellvertretende)» (dove il tipo si sosti-
tuisce in toto all’antitipo, rappresentandolo e riassumendolo nello
stesso tempo, come nel caso del ciclo di Giona che, nell’iconografia
cristiana più antica, sostituisce – non si accosta a – il ciclo pasqua-
le gesuano)14.

Per la discussione di questa datazione, vedi infra, pp. 201-237.


11

La celebre lezione che Grabar tenne, sul tema dell’origine dell’iconografia cristiana,
12

alla National Gallery of Arts di Washington D.C. nel 1961, nell’ambito delle prestigiose
A.W. Mellon Lectures in the Fine Arts, verrà infatti pubblicata solo nel 1968.
13 H.-J. Geischer, Das Problem der Typologie in der ältesten christlichen Kunst: Studien

zum Isaak-Opfer und Jonaswunder, Lit, Berlin 2018 (Bibelstudien 17).


14 Cfr. rispettivamente Geischer, Das Problem der Typologie, 3-17; 19-29; 31-49.

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164 L’approccio ermeneutico

L’ultimo caso menzionato è a mio avviso il più interessante per quel


che concerne la prima documentazione visuale cristiana15, dove non di
rado manca l’alternanza tra temi proto- e neotestamentari (tale alternan-
za è fondamentale per gli altri due modelli tipologici, che pure sono do-
cumentabili nella prima iconografia cristiana), ritrovandosi viceversa
solo cataloghi di figure e scene tratte dal Primo Testamento.
Al termine della descrizione di questo modello, largamente influen-
zato dall’impostazione critica di Rudolf Bultmann16, Hans-Jürgen Gei-
scher isola due funzioni della «tipologia rappresentativa». Essa serve in-
nanzi tutto a sollecitare la professione di fede «nell’azione salvifica di Dio
[…]: l’evento ‹il tipo› è l’anticipo della stessa volontà salvifica di Dio che,
ora ‹nell’antitipo›, si è resa visibile»17; la sua seconda funzione è invece
quella di «permettere di comprendere l’evento della salvezza cristiana.
Qui il typos è, per così dire, pedagogicamente correlato all’antitypos: è uno
strumento per la comprensione dell’evento salvifico»18. In altri termini,
la «tipologia rappresentativa» – quella più attestata nella più antica ico-
nografia cristiana – servirebbe a riportare la fede dei singoli credenti alla
sua dimensione universale, storico-salvifica – e non solo individuale – il-
lustrandone allo stesso tempo il disegno storico-provvidenziale comples-
sivo: «Caratterizza la tipologia l’essere una trattazione della storia»19.

15 Cfr. la categoria consimile di «tipologia sostitutiva (substituierende)» coniata per i sar-

cofagi paleocristiani da E. Stommel, Beiträge zur Ikonographie der konstantinischen Sarkophag-


plastik, Hanstein, Bonn 1954 (Theophania Beiträge zur Religions-und Kirchengeschichte
des Altertums 10), 37-42.
16 Cfr. R. Bultmann, Ursprung und Sinn der Typologie als hermeneutischer Methode, in

Theologische Literaturzeitung 75 (1950) 205-212.


17 Geischer, Das Problem der Typologie, 45-46; si chiede ancora l’autore: «Le immagini

tipologiche dell’arte paleocristiana […] coinvolgono la fede ‹del credente› tramite la sua con-
fessione dell’evento che esse raffigurano? Qui la domanda è particolarmente rivolta al con-
testo in cui, quasi esclusivamente, incontriamo le più antiche immagini cristiane: le tombe
e i sarcofagi. Che significato ha questo ambito ‹funerario› per l’interpretazione tipologica
delle scene del Primo Testamento?».
18 Geischer, Das Problem der Typologie, 46.
19 Geischer, Das Problem der Typologie, 45; cfr. anche E.F. Ohly, Typologie als Denkform

der Geschichtsbetrachtung, in V. Bohn (hrsg.), Typologie: Internationale Beiträge zur Poetik,


Suhrkamp, Frankfurt am Main 1988 (Edition Suhrkamp 451), 22-63.

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Un modello metodologico 165

A giudizio di Hans-Jürgen Geischer, questo modello tipologico di-


schiude sul piano critico tre questioni rilevanti, soprattutto se si imma-
gina di poter considerare il lessico iconografico prototestamentario della
prima cultura visuale cristiana quale «tipologia rappresentativa».
1. Data l’assenza degli antitipi, «la questione che si pone è se ogni
scena veterotestamentaria raffigurata ‹debba› essere interpretata
tipologicamente, dal momento che la sua spiegazione è lasciata
esclusivamente all’interpretazione dello spettatore. È proprio ri-
spetto a questa difficile ‹questione› che si devono trovare criteri di
[…] demarcazione»20. In altri termini: è necessario presupporre che
ogni raffigurazione di Giona, per esempio, sussista in tutto o in
parte in ragione del suo antitipo gesuano oppure vi sono casi in cui
il ciclo di Giona fu scelto per narrare la vicenda del profeta proto-
testamentario?
2. Nel caso, poi, si accerti la funzione di tipologia rappresentativa per
un soggetto prototestamentario, tale valore andrà considerato esclu-
sivo o potrà sussistere, accanto ad esso, anche l’evocazione degli
antichi episodi biblici? In altri termini: il nuovo travolge l’antico o
queste due dimensioni di significato delle scene prototestamentarie
poterono in qualche misura coesistere nell’osservazione dello spet-
tatore? 21. Per esempio: Mosè che si scioglie i calzari stava a raffigu-
rare esclusivamente la tipologia della Nuova Allenza o voleva richia-
mare anche l’episodio di Esodo 3?
3. Il significato tipologico di una scena prototestamentaria esaurisce
l’ermeneutica dell’episodio biblico o si potranno ammettere anche
altri piani di riflessione esegetica accanto ad esso? 22. In altri termi-
ni, passando ora dal referente biblico alla sua interpretazione: la

Geischer, Das Problem der Typologie, 48.


20

Cfr. Geischer, Das Problem der Typologie, 47: «Da qui la domanda […] se non ci si
21

debba aspettare che l’evento dell’Antico Testamento sia presentato come vivo e intero, ‹im-
piegato› come un typos nel suo insieme e non per i singoli dettagli, intesi allegoricamente».
22 Cfr. Geischer, Das Problem der Typologie, 48: «L’evento, che si conserva nella sua sto-

ricità, non porta sempre con sé altri possibili significati della sua tradizione (per esempio
quelli che gli erano stati attribuiti dall’interpretazione ebraica)?».

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166 L’approccio ermeneutico

lettura tipologica di un brano prototestamentario ne esclude, per


esempio, ulteriori implicazioni allegoriche? Quando si osservano i
tre fanciulli ebrei trasformarsi nei Magi 23, e qui l’intento tipologi-
co è innegabile, con esso si sono esauriti i piani di significato o è
legittimo immaginare, accanto ad esso, anche un intento parene-
tico, con l’invito agli spettatori di questa scena a farsi imitatori
della fermezza dei tre ebrei?
I dubbi che lo studioso solleva lo conducono a cogliere con lucidità il
problema più rilevante che, in sede di analisi critica, questo modello in-
terpretativo potrebbe porre allo storico: la soggettività ermeneutica.
Ciò significa che non è lecito sperare di potersi spingere più in là di nume-
rose interpretazioni, tutte plausibili, o forse il contesto interpretativo dato for-
nisce indicazioni per l’interpretazione ‹delle immagini›? Per l’interpretazione
delle scene del Primo Testamento nell’arte paleocristiana si pone in ogni caso
il problema se si possa uscire da questa incertezza. Ciò vale in particolare per il
tentativo di indagare sul significato tipologico di alcune scene del Primo Testa-
mento. Qui il contesto “ideale” che emerge dalla prassi e dalla tradizione della
Chiesa delle origini gioca un ruolo non irrilevante.

Dal punto di vista teoretico, a mio giudizio, il principale (forse il solo)


limite del modello critico proposto da Hans-Jürgen Geischer è di essere
stato finalizzato alla comprensione del significato dei singoli temi – viene
sperimentato sui casi di studio del sacrificio di Isacco e del ciclo di Giona,
per altro magistralmente analizzati 24 –, anziché essere stato assunto qua-
le chiave interpretativa dei modelli compositivi – per la scelta e la disposi-
zione dei diversi temi iconografici nel corpo dei vari documenti visuali –
di questa prima iconografia cristiana 25.

Vedi infra, pp. 315-329.


23

Cfr. rispettivamente Geischer, Das Problem der Typologie, 51-190 e 191-284. Sul te-
24

ma iconografico del sacrificio di Isacco, letto in prospettiva tipologica, cfr. già E. Fascher,
Isaak und Christus. Zur Frage einer Typologie in Wort und Bild: Bild und Verkündigung, in
J. Schüffler (hrsg.), Bild und Verkündigung. Festgabe für Hanna Jursch zum 60. Geburtstag,
Evangelische Verlagsanstalt, Berlin 1962, 38-53.
25 Passando, infatti, dall’indagine del singolo soggetto a quella dei singoli documenti,

di volta in volta si potrà, per esempio, rispondere alle tre questioni che lo studioso tedesco
poneva nel caso della tipologia rappresentativa. Sarà il progetto iconografico nel suo com-

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Un modello metodologico 167

Il merito di aver coniato la definizione di «arte tipologica» spetta però


a Peter Bloch, in un saggio apparso nel 1969, nel quale egli sperimentò
questa classificazione in riferimento all’arte medioevale:
Un’arte tipologica (typologische Kunst) presuppone l’idea di un’unica storia
della salvezza ‹che si snoda› attraverso entrambi i Testamenti, con il Primo qua-
le annuncio del Nuovo e il Nuovo come compimento del Primo […]. “Tipo” o
“prefigurazione” come termini storico-artistici indicano una persona, una cosa
o un evento del Primo Testamento attraverso i quali, secondo il Nuovo Testa-
mento o secondo gli esegeti successivi, sono prefigurati Cristo e il suo destino
[…]. Così, nel Medioevo non c’è alcuna raffigurazione storica (Historienmalerei)
nel senso moderno ‹dell’espressione›, ‹mentre› la storia è sempre presente come
sacramentum, ecco perché si può parlare anche di un’arte sacramentale. Per la
comprensione e l’interpretazione delle connessioni ‹tra le diverse figure› non è
tanto l’evento in sé che conta, ma ciò che vuole significare sul piano storico-sal-
vifico […]. Emerge così un’arte tipologica che ha conosciuto accentuazioni del
tutto diverse nelle singole epoche […]. Finora l’arte tipologica non è mai stata
presentata nella sua interezza […]: ‹ciò sarà possibile› solo coordinando la ricer-
ca storico-artistica e quella teologica 26.

L’intuizione di un’«arte tipologica», per come viene delineata da Peter


Bloch, non si limita a cogliere gli aspetti di affinità tra la struttura fon-
damentale della più antica tecnica ermeneutica cristiana e la cultura vi-
suale che in essa si animò, ma ne sottolinea l’esplicita struttura teologica.
L’immagine, in altri termini, codifica un messaggio che non è semplice-
mente espressione di una tradizione figurativa e iconografica, ma che
riassume ed esprime una pre-cognizione teologica: ciò che si osserva non
è l’illustrazione di un testo ma la raffigurazione di un pensiero teologico
elaborato attraverso l’ermeneutica tipologica 27.

plesso a dichiarare se quella specifica riproposizione di un tema prototestamentario abbia o


meno valore tipologico e, nel caso, se questo sia esclusivo del significato letterale del raccon-
to evocato o di suoi ulteriori sviluppi ermeneutici.
26 P. Bloch, Typologische Kunst, in P. Wilpert (hrsg.), Lex et sacramentum im Mittelalter,

Berlin, Walter de Gruyter 1969 (Miscellanea mediaevalia 6), 127-142, qui 127-128.
27 Va segnalato, però, che Bloch, Typologische Kunst, 128, pur osservando che «anche le

prime testimonianze dell’arte cristiana nei dipinti delle catacombe, sui sarcofagi e sui pro-
dotti delle arti minori utilizzano un numero limitato di temi del Primo Testamento come
metafore della speranza della risurrezione (Metaphern der Auferstehungshoffnung): la storia
di Giona, Daniele nella fossa dei leoni, i giovani nella fornace ardente, Noè nell’arca», è con-

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168 L’approccio ermeneutico

Il contributo di Peter Bloch rimase purtroppo circoscritto a quella che


si può definire più una mozione di intenti che non una riflessione siste-
matica. D’altra parte, come ricordato, il suo interesse prioritario era ri-
volto alle arti del Medioevo28, rispetto alle quali la cultura visuale delle
origini cristiane assumeva un valore assai meno consistente di quello che
oggi gli viene correntemente attribuito.

1.2. Verso il progetto iconografico


Se, per un verso, è possibile affermare che con il convegno e la mostra
«Era della spiritualità. Arte tardoantica e paleocristiana: III-VII secolo
(Age of Spirituality. Late Antique and Early Christian Art. Third to Seventh
Century)»29 – ben presto divenuti determinanti nella cultura archeologica e
iconografica statunitensi e non solo – si tornò al pregiudizio di un’arte cri-
stiana letta, alla luce del suo preteso floruit costantiniano, come «composi-
zioni individuali ieratiche o serie di storie bibliche per l’edificazione dei
credenti – letterati e illetterati»30 – per l’altro, l’ipotesi di una matrice tipolo-
gica di quella cultura visuale non venne neppure allora del tutto abbandonata.
In anni ancora relativamente recenti, Sabine Schrenk ha rilanciato il
tema della matrice tipologica dell’“arte” paleocristiana, pur limitando
drasticamente l’ampiezza di questa valutazione:

vinto che le aggregazioni di questi temi avvengano in modo casuale, senza una struttura ar-
gomentativa: «Fin dai periodi costantiniano e teodosiano, da entrambi i Testamenti sono
stati creati elaborati cicli pittorici, che sono stati casualmente aggregati o giustapposti».
28 Sulla tipologia nell’arte medievale, rimane di grande importanza anche il contributo

di H.G. Thümmel, Typologische und Anagogische Argumentation in der Christlichen Kunst,


in Teologische Versuche 4 (1972) 195-214. In anni più recenti, T. Fabiny, Figura and Fulfil-
lment. Typology in the Bible, Art and Literature, Wpf & Stock, Eugene (OR) 1992, è torna-
to sull’argomento sviluppando, sino a una misura propriamente sistematica, i presupposti
che Bloch e Thümmel avevano posto.
29 Cfr. K. Weitzmann (ed.), Age of Spirituality. Late Antique and Early Christian Art,

Third to Seventh Century. Catalogue of the Exhibition at the Metropolitan Museum of Art, No-
vember 19, 1977, through February 12, 1978, Metropolitan Museum of Art - Princeton Uni-
versity Press, New York (NY) 1980; Id. (ed.), Age of Spirituality. A Symposium, Metropoli-
tan Museum of Art - Princeton University Press, New York (NY) 1980.
30 K. Weitzmann, Introduction, in Id. (ed.), Age of Spirituality. Late Antique, XIX-XXVI,

qui XIX.

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Un modello metodologico 169

Scopo del presente lavoro è dare risposta alla domanda su come sia stata
illustrata la comprensione tipologica ‹delle Scritture› […]. Occorre anzitutto
definire l’espressione “rappresentazione tipologica (typologische Darstellung)” su
cui essa si basa: in questo genere di rappresentazioni si rende visibile (!) che una
specifica scena prototestamentaria è impiegata come “pre-figurazione (Vorab-
bildung)” di un episodio neotestamentario o legato al Cristo (quale “compimen-
to [Erfüllung]”). Questa definizione non implica che altre immagini, per le
quali non è possibile isolare corrispondenti dettagli iconografici, non possano
essere basate anch’esse sull’interpretazione tipologica 31.

Queste ultime casistiche, d’altra parte, «vengono escluse […] poiché


non consentono alcuna conclusione»32. La scelta della studiosa, in altri
termini, prevede di limitare lo studio esclusivamente a quelle tipologie che
appaiono conclamate nella documentazione visuale, evitando in tal mo-
do di postulare una “matrice” (Grundlogik) tipologica o, a maggior ragio-
ne, una consimile “norma” (Grundgesetz) per questa primigenia stagione
visuale. Naturalmente, l’adozione di questo criterio analitico rende la
ricerca di Sabine Schrenk particolarmente solida, per la stabilità dei ri-
sultati a cui può giungere avendo discriminato la documentazione eligi-
bile in modo così restrittivo. D’altra parte, una simile scelta finisce a mio
avviso per presentare il limite di rinunciare a una definizione più ampia.
È ovvio, infatti, che un tentativo metodologico più ampio possa pre-
stare il fianco a eccezioni e, in alcuni casi, alla possibilità di sovrastimare
l’apporto contenutistico di questa documentazione; d’altra parte, l’esclu-

S. Schrenk, Typos und Antitypos in der frühchristlichen Kunst, Aschendorff, Münster


31

1995 (Jahrbuch für Antike und Christentum. Ergänzungsband 21), 25. L’autrice precisa
con un esempio la distinzione tra ciò che considera oggetto della sua indagine e ciò che,
pur non potendo escludere un’intenzione tipologica, programmaticamente tralascia: «Per
tornare all’esempio del passaggio del Mar Rosso ‹scolpito› sui sarcofagi: il committente o
l’artista può benissimo aver scelto la storia del passaggio degli Israeliti attraverso il Mar
Rosso (come typos) per descrivere il battesimo (come antitypos). Tuttavia, non ci sono pro-
ve visibili di questa ipotesi né sotto forma di un’evidenza iconografica né nella forma di
una scena neotestamentaria che potesse assumere la funzione di antitipo» (ivi, 25-26). La
sua tesi è stata riassunta anche in Ead., «Erneuerung des Alten»: biblisch-typologische Dar-
stellungen frühchristlicher Zeit, in B. Brenk (ed.), Innovation in der Spätantike: Kolloquium
Basel 6. und 7. Mai 1994, Reichert, Wiesbaden 1996 (Spätantike, Frühes Christentum,
Byzanz 1), 409-422.
32 Schrenk, Typos und Antitypos, 26.

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170 L’approccio ermeneutico

sione della maggior parte delle «tipologie rappresentative» iconografiche,


per richiamare ancora una volta una categoria di Hans-Jürgen Geischer,
rappresenta a mio avviso un rischio di ben maggior entità critica.
Nello stesso anno in cui Sabine Schrenk pubblicava il suo Typos e An-
titypos nell’arte paleocristiana, un ulteriore, importantissimo passo di que-
sta vicenda storiografica è stato compiuto da Jaś Elsner. Lo studioso lon-
dinese, riconosciuto nella «genesi dell’esegesi visuale cristiana» il sintomo
più proprio del nuovo immaginario cristiano33, finalmente attirò l’atten-
zione sulla definizione tipologica del progetto iconografico che, di volta
in volta, aveva costituito i diversi documenti visuali della prima “arte”
cristiana 34: «Il valore simbolico ed esegetico di oggetti come la lipsanote-
ca di Brescia stava compiendo un lavoro immensamente significativo nel
trasmettere non tanto particolari interpretazioni, quanto piuttosto quel
particolare metodo dell’interpretazione cristiana chiamato tipologia»35.
L’arte, illustrando eventi biblici e poi combinando tali eventi in programmi
tipologici, ha fatto molto per tradurre i dogmi più complessi della religione più
colta e testuale dell’antichità in un linguaggio visivo che potesse essere compre-
so sia da chi sa leggere sia da analfabeti. Formulando combinazioni tipologiche
di immagini, basate strettamente o vagamente sul commento patristico […],
l’arte cristiana ha reso ampiamente disponibile un’esegesi scritturale di altissimo
grado di complessità. Il profondo progetto cristiano di promuovere un senso
coeso di identità legato alla Scrittura è stato così reso accessibile anche a coloro
che non hanno la capacità di leggere la Scrittura 36.

La sintesi elaborata da Jaś Elsner è probabilmente tra le migliori spe-


rimentate dalla ricerca. In essa vi sono solo due punti che, a mio avviso,
andrebbero riconsiderati: il presupposto di una dipendenza di questa ico-

Cfr. Elsner, Art and the Roman Viewer, 249-287.


33

In realtà, già E.S. Malbon, The Iconography of the Sarcophagus of Junius Bassus. Neo-
34

fitus Iit Ad Deum, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1990 (Princeton Legacy Li-
brary), 42-44; 129-136, purtroppo limitandosi al solo sarcofago di Giunio Basso, aveva già
sottolineato la centralità del «pensare tipologico» (ivi, 42): esso, infatti, «offre la chiave per
lo schema (pattern) delle connessioni iconografiche sul sarcofago» (ivi, 129). Cfr. anche, per
l’arco di Costantino, C.S. Jungman, The Christian Context of the Late-Antique Frieze on the
Arch of Constantine, M.A. Diss., Tallahassee (FL) a.a. 1971-1972, in part. 83.
35 Elsner, Art and the Roman Viewer, 283.
36 Elsner, Art and the Roman Viewer, 251.

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Un modello metodologico 171

nografia dalla produzione c.d. “patristica” (in evidente continuità critica


con André Grabar) e l’affermazione univoca del valore “didattico” o “do-
cetico” di questa tradizione visuale.
Si postula, in altri termini, che la Grundlogik tipologica della prima
“arte” cristiana altro non sia che lo “stratagemma” che fece dell’immagi-
ne una sorta di sussidiario catechetico. Ne emerge il ritratto di una cul-
tura visuale univocamente “discendente”, tramite la quale cioè contenu-
ti alti, elaborati dall’élite delle Chiese, venivano proiettati su quella base,
per lo più analfabeta, che certo doveva costituire la larga maggioranza di
quelle comunità.
Questa prospettiva, però, pur cogliendo senz’altro un tratto del poten-
ziale di questa produzione iconografica, se assolutizzata, si dimostra inef-
ficace di fronte a quei monumenti paleocristiani, di evidente carattere
spontaneo, che pure attestano una buona dimestichezza con i meccanismi
fondamentali dell’ermeneutica tipologica. Né questa circostanza potrà
stupire ove, come si vedrà meglio nella presentazione del Grundgesetz ti-
pologico, si constati la piena sincronia tra questa documentazione visuale
e la prassi liturgica, questa sì il luogo in cui le Scritture venivano trasmes-
se e interpretate in vista della formazione di generazioni di cristiani.
Vero è, come afferma Jaś Elsner, che questa iniziale “arte” fu un’au-
tentica «esegesi visuale»37 e vero è anche che l’oggetto analitico di chi
studia questa cultura iconografica deve essere il progetto iconografico dei
diversi monumenti e non solo la gamma di significati che il singolo tema

37 Il concetto critico di «esegesi visuale» è oggi oggetto di un consistente ampliamento

d’uso. Esso, infatti, non si riferisce più esclusivamente alla capacità delle immagini di ela-
borare un’ermeneutica delle Scritture – così come si propone in questa ricerca –, ma ha as-
sunto almeno altri due significati. Per prima cosa, in relazione alla costruzione retorica di
un testo, con «esegesi visuale» si intende il modo con cui le immagini retoriche (per lo più
di senso: metafora, parabola, iperbole ecc.) possano essere state impiegate per costruire
un’interpretazione – dei testi biblici o di un concetto. Secondariamente, in riferimento al-
la strumentazione critica, con «esegesi visuale» si è inteso il ricorso alle evidenze della cul-
tura materiale del Sitz im Leben di un testo per comprenderne il contenuto (per esempio,
l’archeologia degli spettacoli gladiatori per comprendere Ef 6,10-17). Una raccolta di saggi
che mira a ispezionare questi tre paradigmi dell’«esegesi visuale» è stata recentemente cu-
rata da V.K. Robbins - W.S. Melion - R.R. Jeal (eds.), The Art of Visual Exegesis. Rethoric,
Texts, Images, SBL Press, Atlanta (GA) 2017 (Emory Studies in Early Christianity 19).

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172 L’approccio ermeneutico

poteva esprimere. D’altra parte, tali documenti visuali non possono esse-
re classificati prioritariamente come “strumenti catechetici”: essi diedero
corpo a una tradizione ampia e diversificata ma coerente che, dal più
semplice graffito sino al più complesso sarcofago, attesta tenacemente
l’adesione fondamentale alla stessa lettura delle Scritture, quella tipologi-
ca. In altri termini: quest’“arte” documenta la partecipazione condivisa
alla stessa cultura esegetica. La visualità che ne nacque, dunque, non può
essere ridotta a mero espediente di una parte di queste comunità, ma va
riconoscuta quale linguaggio condiviso, esito coerente del modo di leg-
gere, di celebrare e di comprendere le Scritture praticato dai cristiani di
II, III e IV secolo.

---

Il breve itinerario qui percorso intendeva, per un verso, restituire i


presupposti critici dell’«approccio ermeneutico» che qui si teorizza, per
l’altro, giustificare l’urgenza di assumere la cifra tipologica come caratte-
re generale (Grundlogik) di questa prima cultura visuale cristiana e come
regola fondamentale (Grundgesetz) della progettazione di queste opere.
Rispetto a questo secondo argomento, infatti, la rassegna degli studi
presentati ha mostrato l’insufficienza critica della scelta di applicare sol-
tanto ai temi dell’iconografia paleocristiana la definizione tipologica 38.
Attribuire un valore tipologico esclusivamente all’interpretazione delle
singole scene impiegate da questa tradizione visuale può rivelarsi una for-

38 In questa linea si deve collocare anche Jensen, Understanding Early Christian Art, 64-

93, che ricupera da Elsner, Art and the Roman Viewer, le categorie di «tipologie pittoriche»
e di «esegesi visuale», ma pur sempre in relazione ai singoli soggetti. Più di recente, cfr. an-
che R.M. Jensen, Early Christian Images and Exegesis, in J. Spier (ed.), Picturing the Bible:
The Earliest Christian Art, Yale University Press, New Haven (CT) 2007, 65-85; R.M. Jen-
sen, Early Christian Visual Art as Biblical Interpretation, in P.M. Blowers - P.W. Martens
(eds.), The Oxford Handbook of Early Christian Biblical Interpretation, Oxford University
Press, Oxford 2019, 315-327; anche in questi due saggi la studiosa statunitense si concen-
tra principalmente sui singoli temi e non sulla loro associazione (di cui pure riconosce l’im-
portanza: cfr. almeno ivi, 325); introduce, per altro, interessanti riflessioni circa la fattibi-
lità del confronto tra esegesi «verbale» e «visuale».

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Un modello metodologico 173

zatura e, in ultima analisi, determinare un impoverimento della cogni-


zione critica di questa prima “arte” cristiana; al contrario, considerare
“tipologica” l’intenzione generale di questa stagione storico-artistica e il
meccanismo di aggregazione dei diversi soggetti consentirà di definire
una metodologia interpretativa per questa documentazione, senza vinco-
lare il significato di ogni scena a un’univoca valenza.

2. IL PARALLELO CON LE RACCOLTE DI TESTIMONIA


Se la critica ha dichiarato di essere sostanzialmente disponibile a sot-
toscrivere una valutazione genericamente tipologica della prima cultura
visuale cristiana, l’«approccio ermeneutico», con cui si vorrebbe puntua-
lizzare tale valutazione, fa leva sugli elementi di coerenza che sussistono
tra un’“arte” paleocristiana così intesa e il suo Sitz im Leben storico.
Nello specifico del Grundgesetz tipologico, un vistoso elemento di in-
tersezione può essere certamente ravvisato nel parallelo, quasi palmare,
tra la nascita e l’impiego delle raccolte di testimonia in ambito letterario
e liturgico e la genesi e le modalità d’uso del lessico iconografico nella
prima cultura visuale cristiana.
Come già ricordato, sin dalla prima missione cristiana, la struttura
tipologica con cui venne concepito e predicato il Vangelo rese necessario
isolare un repertorio di brani scritturistici adeguati a dimostrare come il
kerygma annunciato fosse secundum Scripturas 39. Tale processo di “giu-
stificazione scritturistica” obbediva a una rivendicazione teologica che si
riscontra già alla radice della predicazione di Gesù 40: non esiste alcuna

39 È necessario citare la ricerca, ancora fondamentale sul tema, di C.H. Dodd, Secondo

le Scritture. Struttura fondamentale della teologia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1972
(Studi biblici 16). Per una panoramica introduttiva, cfr. anche A. George - P. Grelot (curr.),
Introduzione al Nuovo Testamento, 5: Il compimento delle Scritture, Borla, Roma 1983.
40 Oltre al fondamentale articolo di H.J. Schoeps, Jésus et la Loi juive, in Revue d’ histoire

et de philosophie religieuses 33 (1953) 1-20, cfr. R.T. France, Jesus and the Old Testament: His
Application of Old Testament Passages to Himself and His Mission, Tyndale, London 1971.
Sul Sitz im Leben in cui operò Gesù, rimane a mio avviso fondamentale P. Grelot, La spe-
ranza ebraica al tempo di Gesù, Borla, Roma 1981 (Collana di cristologia), in part. 117-165.

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174 L’approccio ermeneutico

verità che possa contraddire «ciò che è stato scritto» 41 né la Parola ha


ancora rivelato appieno il suo senso (cfr. Is 55,10-11). Coesistono dunque,
e senza contraddirsi, un parametro dato per definire la verità e lo spazio
ideale perché qualcosa di vero possa essere ancora detto. Il tracciamento
di queste coordinate dimostra la coincidenza, nelle origini cristiane,
dell’ambito proprio della teoresi teologica con quello dell’ermeneutica:
un teologumeno può essere professato solo nella misura in cui se ne di-
mostra la coerenza alle Scritture 42.
Disporre di un prontuario di testimonianze bibliche capaci di accre-
ditare autorevolmente la predicazione e la professione di fede cristiane
costituì dunque un’esigenza fondamentale, non un onere accessorio, del-
le prime generazioni cristiane 43.
Nelle Eglogae che ‹Melitone› scrisse, già all’inizio, nel Proemio, ‹egli› enu-
mera la raccolta dei libri del Primo Testamento da tutti riconosciuti […] ‹e›
scrive: «Melitone al fratello Onesimo, salute. Dal momento che, per la tua pas-
sione per la dottrina, più volte hai chiesto che componessi per te degli estratti
(eklogas) dalla Legge e dai Profeti a riguardo del Salvatore e circa tutta quanta
la nostra fede […], essendomi recato in Oriente, là dove fu predicata e redatta

41 Si tratta di una qualifica formulare di uso frequente già dal Nuovo Testamento, im-

piegata per segnalare esplicitamente la matrice scritturistica – e dunque tipologica – della


vicenda di Gesù; per una classificazione di questi luoghi, cfr. K. Berger, Forme e generi nel
Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2016 (Biblioteca del Commentario Paideia 1), 205-211.
42 A giudizio di Daniélou, Études d’exégèse judéo-chrétienne, 15-49, già nella redazione

dei principali passaggi della prima scrittura cristiana, parte della quale darà vita alla raccol-
ta neotestamentaria, è da presupporsi la regola che qui si è descritta e che costituisce, per
l’appunto, il tratto dominante di quell’«esegesi giudeo-cristiana » che lo studioso francese
riconobbe persistere proprio nell’uso dei testimonia.
43 Cfr. G.I. Gargano, Il formarsi dell’ identità cristiana. L’esegesi biblica dei primi Padri

della Chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010 (Parola di Dio 201), 14: «Nella letteratura
cristiana antica si possono trovare qua e là liste più o meno ampie di Testimonia analoghi a
quelli citati da Luca negli Atti degli Apostoli. Molto indicativi […] sono i testi raccolti dal-
la Lettera di Barnaba (Pseudo) e quelli presenti nelle opere di Giustino martire». Sull’uso
dei testimonia nella Lettera di Barnaba, cfr. ancora P. Prigent, Les Testimonia dans le chri-
stianisme primitif. L’Épître de Barnabé I-XVI et ses sources, Lecoffre - Gabalda, Paris 1961
(Études Bibliques). Più in generale, mi pare che E. Norelli, Il dibattito con il giudaismo nel
II secolo. Testimonia; Barnaba; Giustino, in Id. (cur.), La Bibbia nell’antichità cristiana, 1:
Da Gesù a Origene, EDB, Bologna 1993 (La Bibbia nella storia 15,1) 199-233, qui 199-224,
abbia descritto in modo esemplare la progressiva diffusione, nella più antica vicenda cristia-
na, dei testimonia.

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Un modello metodologico 175

‹la Scrittura› ed essendomi informato con cura dei libri del Primo Testamento,
ti mando l’elenco che ne ho redatto […]; da questi scritti ho fatto degli estratti
(eklogas), distribuendoli in sei libri» 44.

Come mostra anche l’iniziativa di Melitone di Sardi 45, la prassi di re-


digere – e di sollecitare la redazione di – raccolte di testimonia si consoli-
dò già nel corso del II secolo, l’età in cui è lecito immaginare l’emergere
di una prima cultura visuale cristiana 46. A favorire questa tendenza con-
corse probabilmente anche la necessità di stabilizzare questi repertori, sia
in ordine a una loro più immediata fruibilità sia per garantire un annun-
cio che preservasse caratteri quanto più uniformi possibile 47.
Se si pone mente al lessico della prima cultura visuale cristiana, credo
sarà impossibile non osservare il parallelismo strutturale che sussiste tra
esso e le più antiche raccolte di testimonia: la prima iconografia cristiana,
infatti, selezionò una serie di episodi biblici – ai quali plausibilmente ve-

44 Melitone di Sardi, Eglogae, Proemio, presso Eusebio, Storia ecclesiastica 4,26,12-14. La

stessa circostanza – la sollecitazione a raccogliere un “prontuario” di testimonianze scrittu-


ristiche (testimonia) – ritorna, per esempio, già in Cipriano, A Quirino, Prologo; Id., A For-
tunato 1 (dove la raccolta di testimonia è esplicitamente osservata quale “preparazione al
martirio”, impartita «alla fine e alla conclusione del mondo»), ma rimarrà una costante di
questo strumento anche molto più a lungo: cfr. ancora Rufino di Aquileia, Spiegazione del
Credo 16,3; 18,1; 20,4; 27,4; 28,3; 32,1.
45 A Melitone di Sardi viene attribuita, sin dal IV secolo, una Chiave delle Scritture (cfr.

P.G. Di Domenico [cur.], Melitone di Sardi, Clavis Scripturae, LEV, Città del Vaticano 2001
[Visibile parlare 4]), di evidente struttura tipologica. Sull’adozione di questo approccio er-
meneutico in tutta la produzione di Melitone – a partire, com’è ovvio, dall’omelia Sulla Pa-
squa –, cfr. J. Daniélou, Figure et événement chez Méliton de Sardes, in Neotestamentica et pa-
tristica. Eine Freundesgabe O. Cullmann zu seinem 60. Geburtstag überreicht, Brill, Leiden
1962 (Supplements to Novum Testamentum 6), 282-292; H.A. Blair, Allegory, Typology and
Archetypes, in E.A. Livingstone (ed.), SP 17, Pergamon, Oxford 1982, 263-267.
46 Vedi infra, pp. 201-237. Per una breve storia della tipologia nelle origini cristiane, cfr.

Daniélou, Sacramentum futuri, X-XVI.


47 Un bilancio di straordinaria lucidità circa l’uso, la forma e la funzione delle raccolte

di testimonia nelle origini cristiane si può trovare in M.C. Albl, “And Scripture Cannot Be
Broken”. The Form and Function of the Early Christian Testimonia Collections, Brill, Leiden
- Boston (MA) - Köln 1999 (Supplements to Novum Testamentum 96), in part. 7-69. La
stessa genesi dei lezionari liturgici può essere letta come un esito di questo processo di con-
solidamento nell’uso e nella definizione di raccolte di testimonia. Pur senza mezionare espli-
citamente questi libri, Daniélou, Sacramentum futuri, XII, scrive che «gli scritti liturgici ci
restituiscono la tipologia comune della Chiesa, quella che faceva parte dell’insegnamento
iniziale (élémentaire)».

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176 L’approccio ermeneutico

niva riconosciuto un valore notevole – che codificò in un repertorio fi-


gurativo di eccezionale stabilità.
È forse necessario sottolineare la peculiarità di questo tratto dell’ico-
nografia paleocristiana: non si tratta semplicemente della ripetizione del-
le stesse tematiche o di analoghi soggetti, restituiti di volta in volta pecu-
liarmente, a seconda del talento, della perizia e della sensibilità di ciascun
artigiano – il che è un tratto comune alla maggior parte delle epoche
storico-artistiche –; diversamente da quanto accadrà in seguito, nel caso
specifico delle origini cristiane, si constata, infatti, la replicazione dei
medesimi temi secondo i medesimi schemi figurativi, al punto che l’os-
servatore non si limita a riconoscere lo stesso soggetto, pur se in diverse
fogge, ma ne osserva ogni volta la stessa postura, gli stessi caratteri soma-
tici, lo stesso abbigliamento ecc.
Tale lessico, più prossimo a un prontuario di codici che a una raccol-
ta tematica, è come tale riconosciuto dalla critica che, non a caso, ha po-
tuto elaborare una ricca strumentazione, organizzata proprio attorno a
questa caratteristica della più antica iconografia cristiana 48.
La fissità di questo lessico iconografico e l’ampiezza del suo impiego
sono tali da rendere legittima la definizione di raccolta di testimonia vi-
suali: una simile constatazione, oltre a sottolineare la piena congruità di
questa documentazione con la vicenda storica delle origini cristiane 49,
fornisce il “sistema” dell’«approccio ermeneutico»50. Come i singoli

Si pensi, a partire dai trenta tomi DACL, ai sette volumi di H. Aurenhammer (hrsg.),
48

Lexikon der christlichen Ikonographie, Hollinek, Wien 1968-1974, agli otto di E. Kirschbaum
- W. Braunfels (hrsg.), Lexikon der christlichen Ikonographie, Herder, Freiburg - Basel - Wien
1968-1976, o, in tempi più recenti ai Temi curati da Fabrizio Bisconti, o a Dresken-Weiland,
Immagine e parola, o, ancora, all’EEECA edita da Paul Corby Finney.
49 Per questo vedi infra, pp. 189-197.
50 Impiego il concetto di “sistema”, mutuandolo da W. Kemp, Medieval Pictorial Systems,

in B. Cassidy (ed.), Iconography at the Crossroads. Papers from the Colloquium Sponsored by
Index of Christian Art. Princeton University, 23-24 March 1990, Department of Art and
Archeology, Princeton University, Princeton (NJ) 1993, 121-133. Con esso si intende la dina-
mica che governa il rapporto tra le parti e le opere compiute in una tradizione storico-artisti-
ca. Si tratta quindi di qualcosa di difforme tanto dalla Grundlogik, intesa come “carattere pre-
valente” di una cultura visuale, tanto dal Grundgesetz, inteso come “norma o meccanismo
compositivo”.

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Un modello metodologico 177

estratti scritturistici composero raccolte di testimonia predisposte in vista


del loro impiego tipologico nell’elaborazione delle più disparate afferma-
zioni teologiche (di argomento escatologico, cristologico, soteriologico
ecc., a seconda della finalità dei singoli contesti e dei documenti che li
attestarono), così i diversi temi iconografici, stabiliti formalmente e con-
tenuti numericamente a dare il lessico visuale della prima “arte” cristiana,
vennero impiegati tipologicamente in vista della definizione dei singoli
documenti visuali, per i quali è dunque lecito presupporre una comples-
siva finalità argomentativa.
Come si può vedere, dunque, il Grundgesetz che qui si sta proponendo
non va considerato come un dispositivo normativo declinato in una serie
di “leggi” – per evocare un’utile, ma forse troppo ottimistica, ricerca di
Lucien de Bruyne51 –, quanto piuttosto come un meccanismo fonda-
mentale entro il quale va innanzi tutto ricercato il senso e il significato
delle diverse scene impiegate in questa documentazione e, soprattutto, il
motivo del loro accostamento.
Per capire tale distinzione, sarà forse utile richiamare per un’ultima
volta il parallelo con la produzione letteraria. Qui il meccanismo tipo-
logico motivò tanto la definizione delle raccolte di testimonia quanto il
loro concreto impiego – in ambito liturgico o negli scritti degli autori
cristiani –, senza pregiudicarne ulteriori sviluppi ermeneutici e senza
escludere che dei testimonia, acquisiti alla cultura cristiana per la loro
efficacia tipologica, venissero poi impiegati con valore anche o esclu-

51 Mi riferisco qui ovviamente ai due fondamentali articoli: L. de Bruyne, Les «lois» de

l’art paléochrétien comme instrument herméneutique, in Rivista di Archeologia Cristiana 35


(1959) 105-186; 39 (1963) 7-92. Ad essi è stato imputato, a mio avviso con eccessiva legge-
rezza, di aver generato un’impalcatura disciplinare per questa tradizione iconografica fin
troppo dettagliata e per certo troppo “moderna” rispetto allo spontaneismo dell’artigiana-
to del mondo antico. Queste osservazioni colgono senz’altro nel vero, ma a me sembra che
omettano di riflettere sull’argomento fondamentale che il de Bruyne aveva identificato: i
rapporti che ciascun documento visuale paleocristiano istituisce tra i diversi soggetti che
raffigura. Questi rapporti non possono essere riduttivamente classificati come una mera
giustapposizione ma devono essere indagati per il possibile incremento e puntualizzazio-
ne semantici che conferiscono a quei medesimi temi iconografici che organizzano. Analo-
go sforzo “normativo” si ritrova per molti versi in J. Engemann, Deutung und Bedeutung
frühchristlicher Bildwerke, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1997.

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178 L’approccio ermeneutico

sivamente allegorico o parenetico ecc. Allo stesso modo, nella cultura


visuale cristiana operò il Grundgesetz tipologico che qui si è proposto:
globalmente, esso favorì la definizione di questo lessico iconografico e,
di volta in volta, concorse a orientarne l’impiego, ma questo non signi-
fica che non si possano proporre anche ulteriori piani di valore nell’uso
e nell’interpretazione di quei temi.

3. “PARADIGMI DI SALVAZIONE” O “MANIFESTI TIPOLOGICI”?


Ha ragione Pierre Prigent ad affermare che «queste immagini non
sono destinate a illustrare la Bibbia proponendone agli analfabeti una
lettura immediata. Esse trasformano i dati dei testi»52 ed è corretto af-
fermare che il Grundgesetz tipologico di questa primigenia cultura visua-
le, tramite il parallelo contestuale con le coeve raccolte di testimonia, può
offrire un’efficace descrizione di tali processi trasformativi, situando nel
progetto iconografico di ciascun documento la loro chiave interpretativa:
è per queste ragioni che è lecito affermare che ormai la cognizione critica
di questi monumenti deve necessariamente mutare.
L’unità documentaria, alla luce di questo Grundgesetz, diventa infatti
il vero nucleo argomentativo della primigenia cultura visuale cristiana,
assorbendo su di sé il baricentro di questo intero «sistema»53 “artistico”.
In altri termini, quindi, il vero obiettivo sul quale dovrà concentrarsi lo
sforzo interpretativo non sarà più dato dal singolo tema ma dall’intero
documento. Emerge pertanto la necessità di definire un paradigma cri-
tico attraverso il quale cogliere il significato della dimensione unitaria di
questi documenti visuali.
Ancora una volta, può essere utile riconsiderare quanto scriveva Karl
Künstle: «L’arte ‹cristiana›, per quanto […] ci riguarda, non è altro che
una teologia monumentale (monumentale Theologie)»54. Volendo, dun-

52 P. Prigent, L’arte dei primi cristiani. L’eredità culturale e la nuova fede, Arkeios, Roma

1997 (La via dei simboli), 241.


53 Vedi supra, p. 176, nota 50.
54 Künstle, Ikonographie der christilichen Kunst, 1, 13.

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Un modello metodologico 179

que, riflettere sull’intenzione monumentale55 di queste “opere”, si può


dire che esse si costituirono quali «manifesti tipologici». Furono «mani-
festi»56 poiché questi “monumenti” si proponevano di rendere patente
un pensiero; furono «tipologici» perché il pensiero che essi volevano tra-
smettere si costituì secondo il Grundgesetz tipologico.
Come si può notare, sul piano analitico, questa definizione di «ma-
nifesti tipologici» comporta due scostamenti rispetto ai più tradizionali
approcci critici:
1. essa rivendica la priorità del progetto iconografico sul singolo tema
impiegato;
2. essa si fonda su un meccanismo compositivo (Grundgesetz) invece
di presupporre un tema unificante (Grundprinzip) per tutta la pro-
duzione iconografia paleocristiana.
Questa transizione dal significato del tema all’intenzione progettuale
che ha motivato e organizzato la costituzione del singolo monumento
rompe per altro la dicotomia interpretativa lucidamente individuata da
Giorgio Otranto, che rintracciava nella critica a questa cultura visuale
due tendenze, l’una «simbolico-docetica», l’altra «storico-narrativa»57.
La prima, ricondotta esemplarmente ai lavori di Joseph Wilpert, inten-
deva questa iconografia fondamentalmente quale strumento divulgativo,

55 Già altrove ho richiamato l’urgenza di distinguere tra “intenzione monumentale” del

documento visuale e sua “efficacia documentaria”, a partire da quanto J. Le Goff, s.v. «Do-
cumento/Monumento», in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino 1978, 5, 38-43, qui 38, af-
fermava, sottolineando giustamente che i «materiali della memoria possono presentarsi sot-
to due forme principali: i monumenti, eredità del passato, e i documenti, scelta dello
storico» (cfr. G. Pelizzari, L’adozione critica dei documenti visuali paleocristiani nella ricostru-
zione delle origini cristiane. Presupposti metodologici e prassi esegetica, in Adamantius 26 [2020]
16-31, qui 17). Si tratta, in altri termini, di distinguere tra due aspetti forse attigui del do-
cumento iconico, ma certo non coincidenti. Da una parte, alle origini dell’“opera”, si tro-
va, infatti, l’intenzione per cui essa fu realizzata, la sua finalità monumentale, ciò che essa
avrebbe dovuto eternare; dall’altra, nello sguardo dello storiografo, vi è viceversa ciò che es-
sa riesce a documentare del passato – e interverrano ora molteplici argomenti d’interesse
critico, da quelli materiali al “negativo documentario”, dai riflessi dell’originale contesto
storico-artistico a quelli di natura storico-religiosa ecc.
56 Per questa definizione, cfr. Pelizzari, Manifestos of the Kingdom.
57 Otranto, Alle origini dell’arte cristiana, 447.

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180 L’approccio ermeneutico

e dunque, in ultima istanza, materiale didattico, per esprimere la speran-


za di salvezza che, principalmente in considerazione dell’ambiente fune-
rario di questa “arte” cristiana delle origini, si presumeva fosse ubiqua in
questa documentazione. La seconda, esemplificata dal lavoro di Paul
Styger 58, comprimerebbe drasticamente il valore simbolico di questo lin-
guaggio visuale, enfatizzandone al contrario la funzione di mera
illustrazione delle Scritture.
A mio avviso, l’ipotesi di considerare questa prima come una «stagio-
ne ermeneutica» dell’iconografia cristiana elude l’antitesi, sin qui fin
troppo frequentata dalla critica, tra questi due modelli interpretativi,
consentendo per altro di valorizzare i caratteri più rispondenti di entram-
bi. Questi «manifesti tipologici» intesero infatti illustrare un aspetto del-
le Scritture – non quello narrativo, ma la loro valenza ora profetica ora di
ricapitolazione – per elaborare, secondo una Grundlogik ermeneutica e
un Grundgesetz tipologico, discorsi non privi di valore docetico e certo
non refrattari al tema della salvezza.

---

Se la Grundlogik tipologica di questa primigenia “arte” cristiana dovrà


essere intesa come la naturale espressione del Sitz im Leben storico-reli-
gioso in cui questa cultura visuale ebbe origine, il Grundgesetz che strut-
turò i progetti iconografici di questi monumenti ne scaturisce quale più
immediata conseguenza. Infine, l’acquisizione di questa documentazione
come raccolta di «manifesti tipologici» determina il presupposto meto-
dologico per l’adozione di questa fonte in vista di una più ampia descri-
zione storiografica delle origini cristiane.

58 Cfr. P. Styger, Die altchristliche Grabeskunst: ein Versuch der einheitlichen Auslegung,

Kosel & Pustet, München 1927.

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III.

I DOCUMENTI VISUALI PALEOCRISTIANI


COME ERMENEUTICHE CODIFICATE

Come ha sottolineato Paul J. Korshin, «la tipologia è un sistema dell’ese-


gesi (Die Typologie ist ein System der Exegese)»1. In altri termini, la tipologia
non può essere ridotta soltanto a una tecnica – che pure essa comporta –,
poiché concorre a definire più globalmente un approccio alla lettura, all’im-
piego e alla significazione dei testi biblici: «un sistema», dunque, di appro-
priazione della Parola. Ci si può spingere sino ad affermare che la tipologia
costituisca un modello teologico fondato su una tecnica esegetica 2. Si può
capire dunque la necessità di considerare, anche per la più antica iconografia
cristiana, il duplice livello di una Grundlogik, come più globale approccio
alla letteratura scritturistica, e di un Grundgesetz, come tecnica esegetica.
L’ipotesi di una fondamentale logica tipologica per la più antica cul-
tura visuale cristiana potrà essere forse contestualizzata più facilmente
prendendo le mosse dai termini ai quali è ricorsa Frances M. Young per
delineare la differenza tra esegesi tipologica e allegorica nelle origini cri-
stiane. A giudizio della studiosa è infatti possibile affermare che, rispetto
alla narrazione biblica,
l’allegoria cessa d’essere racconto e si fa assertiva; la tipologia, d’altro canto,
conserva racconto e consequenzialità […]. La differenza consiste in una diversa
concezione del modo in cui il testo si rapporta a ciò che si pensa si riferisca [sic]:
quella che qui viene definita esegesi iconica ‹la tipologia, cioè› richiede che nel
testo, considerato un tutto coerente, si rifletta quello che si suppone sia il senso

P.J. Korshin, Typologie als System, in Bohn (hrsg.), Typologie, 277-308, qui 277.
1

Come afferma, sin dall’avvio del Contro i giudei, Tertulliano (1,1-2), l’argomento che
2

sul fronte tipologico veniva conteso era duplice: per un verso riguardava l’“ispezione” dei
testi biblici, per l’altro comportava la possibilità di rivendicare la Legge e, con essa, l’intera
economia della salvezza.

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182 L’approccio ermeneutico

più profondo, mentre l’allegoria implica l’uso delle parole come simboli o segni
che si riferiscono arbitrariamente ad altre realtà […] e quindi ‹comporta› la di-
struzione della coerenza narrativa 3.

In altri termini, dunque, l’esegesi tipologica, fondandosi sull’unità prov-


videnziale delle Scritture, è naturalmente portata a considerare le parti di
questa biblioteca in costante relazione, come un tutto organico: non vi è al-
cuna soluzione di continuità tra i diversi testi, tra le diverse parti; tutto cor-
rela perfettamente, in special modo attorno alla dinamica fondamentale tra
prefigurazione (tipo) e compimento (antitipo). L’allegoria, al contrario, tra-
sferisce i contenuti del testo al di fuori di esso – per lo più nell’attualità dell’e-
segeta e della sua comunità o nella definizione di principi teoretici e nella
speculazione teologica –, facendo, in un certo senso, del testo un pre-testo.
Questo carattere «iconico», per riprendere ancora il lessico di Frances
M. Young, della tipologia cristiana antica credo si rispecchi efficacemen-
te in quella Grundlogik tipologica della più antica cultura visuale cristia-
na 4, in ragione della quale questa iconografia si costituì quale vivace
intersecarsi dei due Testamenti, dei loro diversi protagonisti e delle loro
pagine più significative, nel contesto di uno sperimentalismo esegetico
quanto mai vivace e originale.

1. DA “ILLUSTRAZIONI” DELLE SCRITTURE (BIBLIAE PAUPERUM)


A “ERMENEUTICHE” DELLE SCRITTURE:
L’AUTONOMIA DELLA PRIMA ICONOGRAFIA CRISTIANA

Uno dei pregiudizi che più spesso ricorrono circa le diverse culture
visuali delle molte storie cristiane è che esse non siano altro che Bibliae

3 F.M. Young, Esegesi biblica e cultura cristiana, Paideia, Brescia 2014 (Introduzione al-

lo studio della Bibbia. Supplementi 61), 157-158. L’autrice dichiara il debito che, sul piano
concettuale, contrae con N. Frye, The Great Code: The Bible and Literature, Routledge, Lon-
don 1982, 85. Su questo tema, cfr. anche Cahill, Hermeneutical Implications, 273.
4 Analogamente a Young, anche Cahill, Hermeneutical Implications, 276-278, riscontrò

una struttura iconica della tipologia, argomentata in questo caso con alcuni parallelismi
con i modi del “figurare le Scritture”. Non dunque una matrice tipologica dell’iconografia
cristiana, ma un parallelo nella concezione dei testi biblici.

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Ermeneutiche codificate 183

pauperum 5, illustrazioni delle Scritture chiamate innanzitutto a mostrare


ciò che i testi narrano a coloro che, per incapacità culturale, quei testi
non potevano decifrare. Affermare che la prima iconografia cristiana è
connotata da una Grundlogik tipologica determina un forte scostamento
da questo paradigma, per almeno due ragioni:
1. i monumenti delle origini cristiane divengono documentazione di
una cultura tipologica, dunque attestano l’ampiezza del ricorso al
sistema esegetico che la tipologia comportava; non illustrazioni
delle Scritture, dunque, ma cultura dell’esegesi;
2. un simile presupposto critico comporta di necessità che anche il
pubblico di questa “arte” disponesse delle competenze necessarie
per accedere al significato di simili ermeneutiche visuali; la defi-
nizione tipologica della prima cultura visuale cristiana, dunque, si
riflette sulla cognizione storiografica del suo pubblico 6, riscattan-
dolo da una postura interamente passiva e facendone, anzi, un in-
terlocutore competente, capace del “dialogo ermeneutico” che
questi manifesti tipologici presuppongono7.

5 La categoria di Biblia pauperum è, peraltro, propria della produzione del Medioevo e de-

riva dal titolo di un’opera la cui struttura tipologica è già stata ampiamente sottolineata (cfr. A.
Henry, Introduction, in Id. [ed.], Biblia Pauperum. A Facsimile and Edition, Scolar Press, Alder-
shot 1987, 3-46; un’ottima contestualizzazione della Biblia pauperum si trova in Fabiny, Figu-
ra and Fulfillment, 93-103: il quarto capitolo di questo volume – «Leggere le immagini» [ivi,
78-110] – elenca una serie di esempi medioevali di tipologia visuale ). Viene però impiegata, in
riferimento alle origini cristiane, con il significato più lasso di “illustrazione della Bibbia per gli
analfabeti”, rilanciando non di rado affermazioni di autori “patristici” (cfr. Paolino di Nola, Li-
bri in lode di san Felice [“Natalicia”], Natalicium 9 [= Carme 27 Hartel] 514-515; Gregorio Ma-
gno, Lettere 9, 209,12; 11,10,22.44). Già per quanto concerne l’impiego di questa categoria cri-
tica, relativamente alle iconografie del Medioevo, la sua utilità è stata opportunamente
contestata da L.G. Duggan, Was Art Really the “Book of the Illiterate”?, in Word and Image 5
(1989) 227-251; cfr. anche Id.,: Reflections on “Was Art Really the ‘Book of the Illiterate’?”, in M.
Hageman - M. Mostert [eds.], Reading Images and Texts: Medieval Images and Texts as Forms of
Communication. Papers from the Third Utrecht Symposium on Medieval Literacy, Utrecht, 7-9 De-
cember 2000, Brepols, Turnhout 2005 (Utrecht Studies in Medieval Literacy 8), 109-119.
6 La stessa cognizione dell’iconografia cristiana antica attraverso la categoria di Biblia

pauperum presuppone la valutazione storiografica dei suoi spettatori come, appunto, pau-
peres culturali.
7 Sulla competenza esegetica di questo pubblico, cfr. anche Jensen, Understanding Early

Christian Art, 181-182.

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184 L’approccio ermeneutico

Il quadro storiografico che in questo modo si descrive non determina


una forzatura critica del panorama storico delle origini cristiane, dal mo-
mento che, come visto, poggia su una corretta valutazione della comune
prassi liturgica: «L’emergere di un ministero liturgico della Parola […] è
la chiave per comprendere come in generale i primi cristiani conoscesse-
ro e accogliessero la stessa Scrittura» 8. D’altra parte, è possibile anche
sottolineare, come fatto da Antonio Quacquarelli, l’unitarietà della cul-
tura ermeneutica dei primi secoli cristiani:
La catechesi del II e III secolo spiega l’unità dei due Testamenti, facendo
ognora riferimento al Cristo. Era la esegesi di tutta la Sacra Scrittura operata
dalla comunità cristiana. Non si avevano due esegesi, una di specialisti e l’altra
popolare. L’esegesi era una 9.

La Grundlogik della prima iconografia cristiana determina, dunque,


sul piano critico, l’acquisizione di questa documentazione quale pagina
della storia dell’esegesi antica e comporta di riconoscere in questi monu-
menti degli elaborati originali. Il dato mi pare significativo, perché sottrae
l’analisi all’onere di “giustificare” ogni proposta interpretativa di questi
prodotti visuali sulla base della dipendenza da un referente testuale10.

McGowan, Il Culto Cristiano dei primi secoli, 127.


8

A. Quacquarelli, L’unità dei due Testamenti nell’ iconografia del II e III secolo, in Id., Re-
9

torica e iconologia, Istituto di Letteratura cristiana antica, Bari 1982 (Quaderni di «Vetera Chri-
stianorum» 17), 219-240, qui 223. Benché M. Dulaey, I simboli cristiani. Catechesi e Bibbia
(I-IV secolo), San Paolo, Cinisello Balsamo 2004 (Guida alla Bibbia), 51, non si spinga oltre a
una definizione genericamente “ermeneutica” di questa prima cultura visuale e nonostante ne
enfatizzi soprattutto la capacità didascalica, condivido la sua opinone circa la piena sincronia
di questo carattere con il Sitz im Leben delle origini cristiane: «La testimonianza dell’arte pa-
leocristiana, della liturgia e dei testi antichi convergono: l’insegnamento cristiano dei primi
secoli si fonda soprattutto sull’Antico Testamento, di cui viene fatta una lettura simbolica.
Molti fattori hanno contribuito a questo fatto e il valore pedagogico delle immagini non è il
minore di essi. Quale mezzo migliore poteva essere immaginato per fissare nella memoria l’es-
senziale della dottrina che quello di collegarla alle antiche figure?».
10 Per la teorizzazione della “prevalenza” della produzione letteraria su quella visuale, cfr.

F. Bisconti, Letteratura patristica ed iconografia paleocristiana, in A. Quacquarelli (cur.), Com-


plementi interdisciplinari di patrologia, Città Nuova, Roma 1989, 367-412; Id., Arte e artigia-
nato nella cultura figurativa paleocristiana. Altre equivalenze tra letteratura patristica e icono-
grafia paleocristiana, in A. Quacquarelli (cur.), Res christiana. Temi interdisciplinari di
patrologia, Città Nuova, Roma 1999, 23-108; sul tema, cfr. anche G. Otranto, Per una storia
dell’Italia tardoantica cristiana, Edipuglia, Bari 2009 (Biblioteca Tardoantica 3), 489-492.

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Ermeneutiche codificate 185

Se, infatti, questa prima “arte” cristiana non fu lo strumento docetico


con cui le guide delle comunità si proponevano di formare gli incolti11,
ma fu l’espressione di quel condiviso sistema esegetico che, più di ogni
altra caratteristica, definì il Sitz im Leben culturale di questi primi seco-
li cristiani, allora non vi è ragione di ipotizzare una predeterminazione
del messaggio di questi monumenti. In altri termini, se si affranca questa
iconografia da una funzione meramente divulgativa, restituendo i suoi
prodotti alla categoria di manifesti tipologici e il suo carattere generale a
quello della Grundlogik tipologica, i suoi esiti documentari dovranno es-
sere riguardati come espressione autonoma di contenuti originali elabo-
rati spontaneamente, senza alcuna subalternità a quelli recati dalle fonti
letterarie.

2. DA “TEMI ICONOGRAFICI” A “CODICI VISUALI”:


LA STABILITÀ DEL LESSICO ICONOGRAFICO PALEOCRISTIANO

Si è già sottolineato il parallelo tra la definizione del primo lessico vi-


suale cristiano e la messa a punto dei diversi cataloghi di testimonia che,
come si è visto, liturgicamente e teologicamente incisero così in profon-
dità nella storia delle antiche Chiese di credenti in Gesù, il Cristo.
Vorrei ora richiamare nuovamente quel definito repertorio iconogra-
fico di temi che compose il primo immaginario cristiano per riflettere
sulla sua più vistosa caratteristica, la quale mi sembra possa conclusiva-
mente rafforzare l’ipotesi di una Grundlogik tipologica all’origine della
prima cultura visuale cristiana: la stabilità della resa figurativa dei diver-
si soggetti impiegati da questa primigenia tradizione “artistica”.
Il carattere codificato del più antico lessico iconografico cristiano, che
si manifestò attraverso un’«omogeneità nella scelta dei simboli raffigura-
ti, che rientrano in schemi divenuti tradizionali e che si ripetono, certo

11 Si tratta di un approccio di “lunga durata”: cfr. A.-G. Martimort, L’ iconographie des

catacombes et la catéchèse antique, in Rivista di Archeologia Cristiana 25 (1949) 105-114; L.


de Bruyne, L’ initiation chrétienne et ses reflets dans l’art paléochrétien, in Revue des sciences
religieuses 36 (1962) 27-85; Dulaey, I simboli cristiani ecc.

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186 L’approccio ermeneutico

con delle varianti, ma secondo uno stile convenzionale e seguendo cano-


ni che evolveranno considerevolmente in seguito, tanto in Oriente che in
Occidente»12, è infatti un tratto distintivo di questa primigenia cultura
visuale, destinato a non perdurare nel prosieguo della storia dell’“arte”
cristiana.
I caratteri peculiari di questa codificazione – nella sorprendente fissi-
tà dei suoi modelli figurativi, ma anche nella selezione dei temi preferiti
da questa primigenia stagione13 – mi sembra conferiscano a questo les-
sico una funzione tutto sommato “strumentale”.
Sino al tramonto dell’arte figurativa, si parla opportunamente del
“soggetto” di un’opera artistica, intendendo con questa espressione ciò
che l’opera vuole raffigurare: il “soggetto” è ciò che l’“arte” desidera eter-
nare in figura. Vi è, in altri termini, un intento figurativo fondamentale
supportato da un meccanismo argomentativo organizzato attorno al po-
tenziale mediatico dell’immagine. Ove, però, la figura fosse data, cioè
non fosse l’esito del processo figurativo ma la premessa alla realizzazione
del monumento, sarebbe ancora possibile parlare propriamente di “sog-
getti”? Non si dovrebbe piuttosto parlare di “contenuti codificati”? E di
fronte a questa produzione per codici, sarebbe ancora possibile parlare di
una Grundlogik figurativa o anche solo artistica?
Potremmo affermare che il codice occupi uno spazio ibrido sospeso tra
l’alfabeto, che cifra tramite segni privi di qualsiasi valore immaginifico, e

G.-H. Baudry, Simboli cristiani delle origini. I-VII secolo, Jaca Book, Milano 2009, 11.
12

La peculiarità anche tematica del primo lessico iconografico cristiano ha permesso, co-
13

me noto, di distinguere tra una stagione pre-costantiniana e una post-costantiniana. Molti sog-
getti, tra quelli che da principio erano tra i più frequentati (si pensi ai casi del Buon Pastore,
del Ciclo di Giona, dei racconti di Daniele, per limitarsi agli esempi più clamorosi) vennero
progressivamente accantonati quando non bruscamente sostituiti da un lessico figurativo più
prossimo al codice espressivo della regalità imperiale. Cfr. Grabar, Christian Iconography, 42;
J.G. Deckers, Kostantin und Christus. Der Kaiserkult und die Entstehung des monumentalen
Christusbildes in der Apsis, in G. Bonamente - F. Fusco (curr.), Costantino il Grande. Dall’An-
tichità all’Umanesimo. Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico. Macerata 18-20 Dicembre
1990, Università degli Studi di Macerata, Macerata 1992, 1, 357-362; Dresken-Weiland, Im-
magine e parola, 292-293. Sulla “nuova” iconografia cristiana, da Costantino in poi, cfr. la re-
cente miscellanea L.M. Jefferson - R.M. Jensen (eds.), The Art of Empire. Christian Art in Its
Imperial Context, Fortress, Minneapolis (MN) 2015.

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Ermeneutiche codificate 187

l’immagine figurativa, che tramite il simbolo e la visione cerca di cogliere


– al pari della parola, ma iuxta propria principia – porzioni del reale14.
Ora, la codificazione del primo immaginario cristiano è di contenuto
prevalentemente biblico e, più ancora nello specifico, di carattere proto-
testamentario15. Questa prima osservazione basta già di per sé per affer-
mare la natura latamente “scritturistica” di un simile linguaggio visuale.
Tale lessico figurativo veniva poi impiegato prevalentemente in acco-
stamenti molteplici di temi tratti da racconti e contesti letterari diversi,
quando non del tutto eterogenei. L’indagine contestuale documenta l’e-
sistenza anche in ambito letterario di una strumentazione del tutto affine
(le raccolte di testimonia), impiegata in modo analogo (l’accostamento di
brani biblici tratti da scritti eterogenei) entro il più vasto orizzonte della
cultura ermeneutica tipologica delle origini cristiane16.
Se tale parallelismo può risultare efficace, allora le caratteristiche co-
stitutive del codice iconografico proprio della prima cultura visuale cri-
stiana rivelano la Grundlogik di questo immaginario, quella struttura
fondamentale che, già prima del concreto impiego di questi temi, ne mo-
tivò la selezione e la fortuna: la natura ermeneutica del dire, dell’essere e
del credere cristiani17.

14 Ciascun termine di questa proposta sintetica meriterebbe una discussione la cui am-

piezza trascende i limiti della presente ricerca: se ne accetti il carattere evocativo, volto qui
solo a puntualizzare in che modo la natura codificata del repertorio iconografico paleocri-
stiano comporti l’esigenza critica di postulare una struttura metodologica complessivamen-
te difforme da quella storico-artistica per questa prima cultura visuale cristiana.
15 Su questo punto, oltre ai numerosi lessici iconografici dell’“arte” paleocristiana, cfr.

F. Monfrin, La Bible dans l’ iconographie chrétienne d’Occident, in J. Fontaine - C. Pietri


(éds.), Le monde latin antique et la Bible, Beauchesne, Paris 1985 (Bible de tous les temps),
207-241.
16 Questa sincronia tra la Grundlogik ricapitolativa qui proposta per questa prima tra-

dizione visuale e la cultura biblica dei cristiani di II-III secolo è fondamentale per presup-
porre la possibile intelleggibilità di queste opere: «Una completa comprensione dei sogget-
ti e dei contenuti di un’opera ‹artistica› sarebbe garantita solo se lo spettatore si trovasse
allo stesso livello culturale dell’autore»: Engemann, Deutung und Bedeutung, 23.
17 C. Kannengiesser, Scripture as a Legacy of the Fathers, in L. DiTommaso - L. Turce-

scu (eds.), The Reception and Interpretation of the Bible in Late Antiquity. Proceedings of the
Montréal Colloquium in Honour of Charles Kannengiesser, 11-13 October 2006, Brill, Leiden
- Boston (MA) 2008, 529-541, qui 536, riconosce nelle origini cristiane una «testimonian-
za unanime e indefettibile […] che rivendica per la Scrittura il significato di una permanen-

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188 L’approccio ermeneutico

In altri termini, la Grundlogik tipologica o ricapitolativa di questa pri-


migenia cultura visuale cristiana è deducibile a partire da tre elementi
fattuali del tutto evidenti a chiunque osservi questa produzione icono-
grafica:
1. il più antico immaginario cristiano è codificato. Si compone, cioè,
di un numero limitato di figure che si ripetono in forma sostan-
zialmente costante;
2. questo codice attesta in modo prevalente un’origine biblica; evoca
prioritariamente, cioè, episodi scritturistici;
3. questo repertorio codificato viene impiegato generalmente attra-
verso l’accostamento di più temi iconografici.
Se questi tre elementi si combinano ai dati raccolti dal Sitz im Leben
storico di questa produzione visuale, se ne può ricavare la fondamentale
struttura ermeneutica attraverso il parallelo con l’elaborazione dei reper-
tori di testimonia e, di più ancora, con il loro impiego. Poiché infatti noi
disponiamo di monumenti realizzati replicando il lessico iconografico
paleocristiano, ci è dato accesso a questa cultura visuale non tramite una
classificazione del suo lessico, ma attraverso l’osservazione della sua per-
formance, attraverso cioè il suo impiego nell’elaborazione di questi mani-
festi tipologici18.

te novità di interpretazione». Si può affermare che la prima cultura visuale cristiana è pie-
namente parte di queste origini, esercitando con costanza questa stessa fondamentale
aspettativa ermeneutica nei confronti delle Scritture.
18 « Anche l’immagine può sviluppare ermeneutica tipologica », afferma, in relazione ai

mosaici di San Vitale a Ravenna, Jensen, Early Christian Visual Art as Biblical Interpreta-
tion, 322, per concludere, su un piano più generale: «La varietà della rappresentazione visi-
va ‹delle scene bibliche› trovava un corrispondente nella miriade di modi in cui queste sto-
rie venivano interpretate nelle omelie o nei commenti scritti come profeticamente o
tipologicamente significative. […] L’arte paleocristiana utilizzava metodi affini a quelli de-
gli esegeti verbali. Tuttavia, mentre le immagini e i testi utilizzavano strategie ermeneuti-
che simili, sarebbe sbagliato concludere che l’esegesi visiva replicasse l’esegesi verbale. Seb-
bene entrambe le modalità di interpretazione derivino da un contesto culturale e religioso
comune, avevano valori e scopi diversi. ‹L’esegesi visuale› Obbediva a una sua logica […], che
dipendeva dalla familiarità dello spettatore sia con la storia ‹biblica› sia con la sua tradizio-
ne esegetica ».

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IV.

LA CULTURA VISUALE DELLE ORIGINI CRISTIANE


COME “DOCUMENTO”
NELLA STORIA DEL « CRISTIANESIMO LATINO »
(J. DANIÉLOU)

Com’è noto, nella descrizione delle origini cristiane è stato per lungo
tempo operante uno schema binario che teorizzava i primi secoli di dif-
fusione e propagazione del Vangelo quale risultante dinamica della ten-
sione scaturita tra due polarità: la tendenza conservatrice di gruppi “giu-
deo-cristiani”1 e quella, sempre più incline alle modalità della teoresi
filosofica greca, caratteristica delle comunità e tradizioni ellenizzate.
A disinnescare l’antitesi tra questi due paradigmi, concorse in modo
decisivo l’introduzione di una terza luce prospettica che Jean Daniélou
riconobbe nel «cristianesimo latino»2. Ovviamente lo studioso france-
se non pretendeva di scoprire la teologia e, più in generale, i cristianesimi
in lingua latina, ma ebbe la lucidità di constatare come le Chiese dell’A-
frica romana, per le loro caratteristiche religiose e per le modalità e i con-
tenuti della loro produzione teologica, non fossero né aggregabili alla

1 Il violento dibattito che, attorno a questa categoria storiografica, si è animato in anni del

tutto recenti, mi costringe all’impiego delle virgolette alte. Se, com’è noto, questa classifica-
zione è un prodotto interamente storiografico non esente da limiti anche puramente formu-
lari (perché non parlare di “giudaismi cristiani”?), d’altra parte credo che esso mantenga an-
cora un nucleo di efficacia soprattutto in relazione a una ideale storia della teologia cristiana
delle origini. In altri termini, si utilizzeranno qui “giudeo-cristianesimo” e derivati esclusiva-
mente per indicare quegli argomenti che i discepoli di Gesù, il Cristo, professavano traendo-
li direttamente dalle tradizioni giudaiche del secondo tempio (come, per altro, J. Daniélou -
W.J. Quinn, A New Vision of Christian Origins: Judaeo-Christianity, in CrossCurrents 18 [1968]
163-173, qui 166, esplicitamente affermavano). Un’efficace storia di questo dibattito, nei con-
fronti della quale ben volentieri esprimo il mio debito e alla quale rinvio per una più ampia
bibliografia, è stata delineata da C. Gianotto, Introduzione, in Id. (cur.), Ebrei credenti in Gesù.
Le testimonianze degli autori antichi, Paoline, Milano 2012 (Letture cristiane del primo mil-
lennio 48), 7-212, qui 9-50.
2 Cfr. J. Daniélou, Le origini del cristianesimo latino, EDB, Bologna 1991 (Collana di

studi religiosi) (ed. or. Paris 1978).

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190 L’approccio ermeneutico

costellazione delle teologie “giudeo-cristiane” né riducibili a movimenti


cristiani ellenizzati 3. Ne emergeva il ritratto di un terzo e nuovo paradig-
ma religioso, naturalmente propenso a disporre la propria agenda attorno
alle tre polarità della storia, intesa come autentica dimensione universale
dell’essere, della legge, quale principio distintivo di ogni ethnos, e della
politica, quale definizione dei modi della cittadinanza – e, per suo tra-
mite, di ogni individualità.
La tradizione cristiana che su queste coordinate si costituì poté rap-
presentare l’intersezione naturale tra i presupposti identitari della trion-
fale prosopopea romano-imperiale e il lascito dei giudaismi del secondo
tempio. Due storie che rivendicavano la propria esclusiva provvidenzia-
lità – quella di Roma e quella degli eredi del popolo eletto da YHWH –,
pur se indirizzate verso mete opposte, si intersecarono sullo stesso tragit-
to ideale 4. Due leggi, ma più ancora due ideali di giustizia, animarono il
confronto fra altrettante nazioni, l’una impegnata a garantire e a norma-
re l’eternità del mondo, l’altra rivolta verso la venuta di un Regno e di un
giudizio che avrebbero soppiantato la storia5. Due cittadinanze concor-
renti, l’una erede della più gloriosa storia umana, l’altra paradossalmente
anticipatrice del tempo escatologico, definivano l’alternativa fondamen-
tale per l’identità di ogni essere umano 6.
Come si vedrà, questo complesso reticolato ideale venne definito at-
traverso una lettura fondamentalmente tipologica delle Scritture: postu-
lato metodologico e critico di queste pagine è che la primigenia cultura
visuale cristiana debba essere considerata alla luce di questo paradigma
storiografico.

3 Non a caso la ricerca sul cristianesimo latino fu terza entro la sua trilogia sulla Storia

delle dottrine cristiane prima di Nicea, accanto a Id., La teologia del giudeo-cristianesimo,
EDB, Bologna 1980 (Collana di studi religiosi) (ed. or. Tournai 1958) e a Id., Messaggio
evangelico e cultura ellenistica, EDB, Bologna 1975 (Collana di studi religiosi) (ed. or. Tour-
nai 1961).
4 Cfr. Daniélou, Le origini, 241-248.
5 Cfr. G. Aragione, Les chrétiens et la loi. Allégeance et émancipation aux IIe et IIIe siècles,

Labor et Fides, Genève 2011 (Christianismes antiques), 79-86.


6 Cfr. Daniélou, Le origini, 381-403.

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La cultura visuale come documento 191

1. LO SVILUPPO STORICO DELL’ESEGESI


COME OFFICINA DEL PIÙ ANTICO PENSIERO CRISTIANO:
IL RUOLO DELL’« ERMENEUTICA CODIFICATA »

Non di rado si tralascia di considerare che l’esegesi, e in special modo


quella di natura tipologica, fondò per i cristiani anche la possibilità di affer-
mare la natura provvidenziale della Chiesa, nel senso del ricondurne l’origi-
ne direttamente al disegno divino e del ritenere preordinato ad essa e al suo
tempo tutto il creato e tutta la vicenda storico-salvifica.
L’uso dei testimonia, tratti dall’Antico Testamento, dipende dal postulato
fondamentale che la Chiesa è il vero e definitivo popolo di Dio, l’erede di Israe-
le e della sua storia guidata da Dio, nata dalla crisi in cui Dio visitò il suo po-
polo per giudicarlo e salvarlo. Da questa convinzione deriva tutta la dottrina
cristiana della Chiesa 7.

L’esegesi tipologica, in altri termini, non rappresentò solo lo strumen-


to fondamentale con cui venne articolata la prima riflessione cristiana,
ma definì la natura intrinseca del nuovo popolo e l’identità di questi “di-
scepoli del Signore”.
Tale affermazione, vera di per sé, assume particolare validità per la tra-
dizione del cristianesimo latino 8: «Se infatti Adamo restituisce la figura di
Cristo, il sonno di Adamo lo era del Cristo, destinato a dormire nella mor-
te, così che fosse raffigurata ‹anche› la vera madre dei viventi, la Chiesa,

7
Dodd, Secondo le Scritture, 117. Cfr. anche Cahill, Hermeneutical Implications, 279-
281.
8 Cfr. B. De Margerie, Introduzione alla storia dell’esegesi, 2: I primi grandi esegeti lati-

ni, Borla, Roma 1984 (Cultura cristiana antica), 52-59, riconosce giustamente negli esordi
dell’ermeneutica latina la prosecuzione delle modalità di quella apostolica. Su questi esordi
cfr. T.P. O’Malley, Tertullian and the Bible: Language, Imagery, Exegesis, Dekker & Van de
Vegt, Nijmegen - Utrecht 1967 (Latinitas christianorum primaeva 21); M.A. Fahey, Cyprian
and the Bible: A Study in the Third-century Exegesis, Mohr, Tübingen 1971 (Beiträge zur
Geschichte der biblischen Hermeneutik 9). Circa la definizione ermeneutica della Chiesa
si osservi che, benché caratteristica dei cristianesimi dell’Africa romana, naturalmente l’ec-
clesiologia anti-tipologica (la Chiesa come antitipo delle Scritture) non fu loro esclusiva; si
consideri, per esempio, alla frequenza con cui Ambrogio di Milano impiega la locuzione
tecnica di «typus ecclesiae »: cfr. per esempio Esamerone 4,8,32; Circa Abramo 1,5,38; Espo-
sizione del Vangelo di Luca 2,1245; 3,376; 4,608.823; 7,1918; Lo Spirito Santo 1,16,166; 2,
Prologo 14; Lettera 68 5; Lettera 74 24; Lettera “extra seriem” 1a 24.

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192 L’approccio ermeneutico

‹che proviene› dalla trafittura del suo fianco»9. Attraverso questa definizio-
ne tipologica della prima teologia della Chiesa, le Scritture potevano dive-
nire, nella coscienza cristiana, «nostra figura e tipologia della Chiesa»10.
Come si è visto, per la prima cultura visuale cristiana, a un Grundgesetz
tipologico, che ne scandisce la prassi progettuale, restituendone la norma
fondamentale, si è potuta accostare una Grundlogik ricapitolativa, che inve-
ce qualifica il tenore generale di questa più antica iconografia. Rivolgendoci
ora a una prospettiva più ampia, è possibile ravvisare un parallelo generale
con la storia della più antica teologia cristiana. Le prime comunità, infatti,
impiegarono meccanismi esegetici per articolare il proprio pensiero e al con-
tempo si considerarono esse stesse compimento e ricapitolazione – e dunque
innanzi tutto esegesi – delle Scritture: «Sono nostre tipologie (Figurae nostrae
fuerunt) – noi infatti siamo templi di Dio e lampade e vasi ‹sacri›»11.
Ne deve derivare una considerazione radicalmente mutata dell’esege-
si rispetto alle più antiche teologie cristiane: il “perimetro ideale” dell’er-
meneutica scritturistica diventa, infatti, la misura di tutto lo “spazio di
possibilità” della speculazione teologica cristiana più antica12:
È stato detto che la storia del dogma è storia dell’esegesi, in quanto tutta
l’elaborazione della dottrina cristiana si fonda su un certo numero di passi scrit-
turistici, interpretati alla luce di determinate esigenze; ma lo stesso si può affer-
mare di ogni altro aspetto della vita della Chiesa, organizzazione disciplina
culto, ecc. Per tale motivo lo studio della Sacra Scrittura costituì nella Chiesa
dei primi secoli l’autentico fondamento di tutta la cultura cristiana 13.

Tertulliano, L’anima 43,10. Questa tipologia della Chiesa ebbe una grande importan-
9

za nella definizione dell’ecclesiologia antica. Ancora nel Trattato sui misteri di Ilario di Poi-
tiers – per molti versi, un autentico manuale di ermeneutica tipologica – il nesso tra la crea-
zione di Eva e la Chiesa viene rilanciato, arricchito di un’esplicita connotazione escatologica
(cfr. G. Pelland, Le thème biblique du Règne chez saint Hilaire de Poitiers, in Gregorianum 60
[1979] 639-674).
10 Agostino, Enarrazioni sui Salmi 50,22. Cfr. comunque Daniélou, Le origini, 290-296.

Sul tema delle “figure” della Chiesa resta ancora fondamentale lo studio di H. Rahner, Sim-
boli della Chiesa. L’ecclesiologia dei Padri, San Paolo, Cinisello Balsamo 19942 (Reprint) (ed.
or. Salzburg 1964), il quale, va pur detto, non si occupa soltanto della definizione tipologi-
ca dell’ecclesiologia più antica.
11 Tertulliano, La corona 9.
12 Cfr. ancora Cahill, Hermeneutical Implications, 275-276.
13 Simonetti, Lettera e/o allegoria, 9-10.

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La cultura visuale come documento 193

Una simile rivalutazione dell’esegesi cristiana antica determinerà, co-


me si può bene immaginare, rilevanti ricadute anche per quanto concer-
ne l’approccio critico alla tradizione visuale cristiana delle origini. Se,
infatti, si rivelerà fondata l’ipotesi che questa più antica produzione mo-
numentale abbia risposto a una logica complessiva di ordine tipologico e
sia stata governata da una consimile norma progettuale, allora essa, al
pari della documentazioe letteraria14, dovrà essere acquisita quale auten-
tico prodotto teologico.
D’altra parte, lo sforzo metodologico e critico che si sta sperimen-
tando riguarda un ulteriore obiettivo: esso, infatti, è volto a permettere
l’acquisizione di questi materiali quali fonte documentaria in vista di
una più consapevole ricostruzione delle origini cristiane. Se infatti si
troverà condivisibile l’ipotesi qui formulata di un Grundgesetz e di una
Grundlogik tipologici, non ci si potrà accontentare della rivalutazione
teologica del messaggio affidato a questi manifesti visuali, ma si vor-
rà anche integrarlo con quella coeva letteratura c.d. “patristica”, dalla
quale ancora esclusivamente si fa discendere la descrizione delle origini
cristiane.

2. L’ESEGESI TIPOLOGICA TRA « GIUDEO-CRISTIANESIMO »


E « CRISTIANESIMO LATINO »

Come tu hai richiesto, per mezzo di una sintesi che rendesse più agile il tut-
to (compendio breviante) è stato composto un discorso e messo in ordine un
breve libretto (sermo… et libellus) […] per raccogliere il necessario ‹dalle Scrit-
ture›, estraendo dei brani e raccogliendoli insieme (excerptis capitulis et adnexis);
sembrerà così che noi non abbiamo trattato l’argomento ma che abbiamo pre-
disposto i materiali per chi lo tratterà 15.

S. Prickett, The Bible in Literature and Art, in J. Barton (ed.), The Cambridge Com-
14

panion to Biblical Interpretation, Cambridge University Press, Cambridge et alibi 1998


(Cambridge companions to religion), 160-178, qui 160, propone di riconoscere ai prodot-
ti delle “arti” la capacità di suscitare ermeneutiche, di essere la fonte di un ripensamento dei
testi biblici.
15 Cipriano, A Quirino, Prologo.

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194 L’approccio ermeneutico

Con queste parole si apre la raccolta di testimonia che Cipriano di


Cartagine indirizza a Quirino: si tratta di un repertorio di estratti bibli-
ci ordinati e raggruppati per tituli (rubriche tematiche), pensato per esse-
re impiegato quale strumento versatile in vista di ogni necessità apologe-
tica, teologica, parenetica ecc. che il destinatario di questa ampia
selezione di brani scritturistici si fosse trovato a fronteggiare. L’A Quirino
– con l’A Fortunato ciprianeo e il Contro i giudei di Tertulliano – rappre-
senta una delle raccolte di testimonia africane pervenuteci e, insieme con
esse, documenta la fortuna che questi prontuari riscossero, sin da princi-
pio, nelle tradizioni del cristianesimo latino16.
Jean Daniélou riconobbe proprio nell’impiego dei testimonia il carat-
tere più arcaico della prima tradizione teologica latina; nel campo dell’er-
meneutica e della teologia biblica, infatti, «sono i latini, Tertulliano e
Cipriano, che ereditano la tradizione tipologica del cristianesimo primi-
tivo e la sviluppano, mentre i greci saranno tentati dallo studio letterario
della Bibbia, ad Antiochia, e dall’allegorismo, ad Alessandria»17.
Se l’approccio tipologico alle Scritture diviene, per un verso, conno-
tato della tradizione latina e, per altro verso, il sintomo più vistoso della
sua matrice “giudeo-cristiana”18, tramite esso si possono affermare sia
l’arcaicità del cristianesimo latino19 sia la sua identità conservativa.

16 Cfr. anche P. Monat, Les testimonia bibliques de Cyprien à Lactance, in Fontaine - Pie-

tri (éds.), Le monde latin antique et la Bible, 499-507.


17 Daniélou, Le origini, 250.
18 Oltre ai già menzionati studi di Daniélou (vedi supra, p. 190, nota 3), cfr. anche Id.,

That the Scripture Might Be Fulfilled: Christianity as a Jewish Sect, in A. Toynbee (ed.), The
Crucible of Christianity: Judaism, Hellenism and the Historical Background to the Christian
Faith, Thames & Hudson, London 1969; Id., Herméneutique judéo-chrétienne, in Archivio
di Filosofia 2 (1963) 255-261.
19 Vere e proprie raccolte di testimonia si trovano già a Qumran (cfr. 4Q174; 4Q175),

ma si può certo affermare che questo tipo di strumentazione ermeneutica debba aver carat-
terizzato le più diverse tradizioni esegetiche giudaiche che, pure, manterranno la loro in-
fluenza diretta anche sugli autori cristiani, non solo per il tramite delle predicazioni gesua-
na e apostolica (cfr. almeno A. Kamesar, I Padri della Chiesa e il midrash rabbinico, in
Vetera Christianorum 44 [2007] 257-282). Questa comune radice ermeneutica, per altro,
determinò profonde linee di continuità pur se tra tradizioni cristiane antiche diverse: si pen-
si alle fortissime affinità tra l’esegesi africana e quella quartodecimana, per limitarsi a un
solo esempio: cfr. O. Perler, Typologie der Leiden des Herrn in Melitons Peri Pascha, I, in

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La cultura visuale come documento 195

Osservata da questa prospettiva, non potrà stupire la fermezza con cui


il cristianesimo dell’Africa romana reagì contro il sistema teologico di
Marcione e contro la pretesa, sua caratteristica, di affermare la scissione
tra le Scritture e, anzi, la necessità di una sostanziale dismissione della
Prima Alleanza 20. Affermazione quest’ultima che, nell’ambito di una
consuetudine tipologica, implica la perdita dei tipi e dunque l’abbandono
di questo stesso approccio al pensiero teologico.
Questo fronte polemico offre un’ulteriore occasione per comprendere ap-
pieno quella funzione sistemica che la tipologia svolse entro le tradizioni che
qui si stanno esaminando21. Nella tradizione giudaico-cristiana e in quella
latina, il nesso tipologico tra le due economie non si limitava a definire un
generico criterio di elaborazione teologica, ma determinava la possibilità stes-
sa della professione del kerygma (l’affermazione «Gesù è il Cristo» è infatti
essa stessa una esegesi tipologica della figura prototestamentaria del Cristo
applicata a Gasù di Nazareth) e dunque definiva la “forma ordinaria” del
Vangelo e dell’appartenenza alla Chiesa 22.

P. Granfield - J.A. Jungmann (hrsg.), Kyriakon. Festschrift Johannes Quasten, Aschendorff,


Münster 1970, 256-265.
20 La centralità dell’ermeneutica tipologica, per via della decisiva valorizzazione del Primo

Testamento che essa comportava, è a mio avviso uno degli elementi fondamentali della rea-
zione anti-marcionita di Tertulliano. Il Cartaginese, peraltro, recepì numerosi argomenti dal-
la tradizione della “nuova profezia” – che gli eresiologi etichetteranno “montanismo” –, tra i
quali vi è la “successione carismatica”, che postula una Chiesa profetica in ideale continuità
non solo con gli Apostoli, ma con tutti i Profeti del Primo Testamento. Sulla centralità dell’ar-
gomento biblico nella “gestione” della figura di Marcione, cfr. D.W. Deakle, The Fathers
against Marcionism: A Study of the Methods and Motives in the Developing Patristic anti-Mar-
cionite Polemic, Ph.D. Diss., Saint Louis (MO) a.a. 1991-1992, 205-208; J.M. Lieu, Marcion
and the Making of a Heretic: God and Scripture in the Second Century, Cambridge University
Press, Cambridge - New York (NY) 2015, 71-75.
21 Vedi supra, pp. 189-190.
22 Vale la pena di essere sottolineato anche il fatto che una connotazione “giudaico-cri-

stiana” può essere esplicitamente affermata pure per parte della documentazione visuale cri-
stiana delle origini (non mi riferisco ora al quadro d’insieme – ormai sostanzialmente ab-
bandonato dalla critica – fatto emergere dagli studi di E. Testa, Il simbolismo dei
giudeo-cristiani, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1961 [Studium Biblicum Francisca-
num. Collectio Maior 14], I. Mancini, L’archéologie judéo-chrétienne, Franciscan Printing
Press, Jerusalem 1977 [Studium Biblicum Franciscanum. Collectio Minor 10] e B. Bagatti,
The Church from the Circumcision. History and Archaeology of the Judeo-Christians, Franci-
scan Printing Press, Jerusalem 1970 [Studium Biblicum Franciscanum. Collectio Minor 2],

Gabriele Pelizzari • L’ICONOGRAFIA CRISTIANA DELLE ORIGINI COME STORIA DELL’ESEGESI • Un’ermeneutica codificata
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196 L’approccio ermeneutico

La tipologia e il suo strumento fondamentale e caratteristico – le rac-


colte di testimonia – rappresentano probabilmente il più vistoso trait d’u-
nion tra la prima struttura teologica dell’annuncio del Vangelo e il pro-
prium della più venerata tradizione paleocristiana d’Africa. L’opinione che
pervade i quattro volumi della Storia letteraria dell’Africa cristiana di Paul
Monceaux, secondo il quale i latini non erano in grado neppure di pen-
sare senza applicare alla realtà il filtro delle Scritture, esprime in termini
forse più incisivi un concetto che teologicamente si può raffigurare sot-
tolineando la centralità del principio argomentativo del «secundum Scrip-
turas». Il dire cristiano, in altri termini, fu per i latini di per se stesso un
dire sulle Scritture (non poté essere altro, non poté sussistere fuori da que-
sto rapporto insieme costitutivo e vincolante con le Scritture), fu un in-
tervento teologico sul patrimonio biblico conservato e trasmesso da Israe-
le, operato assumendo il Cristo e la Chiesa come chiavi ermeneutiche di
tutto ciò che «è stato scritto». Per altra via – non più per urgenza missio-
naria, ma per prassi teologica – veniva rilanciato questo approccio alla
professione di fede in Gesù, il Cristo, e, con esso, trovavano nuova vita le
modalità che avevano costituito La teologia del giudeo-cristianesimo.
È significativo, in conclusione, richiamare un passo del testo che pro-
babilmente rappresenta il più antico documento cristiano in lingua latina
pervenutoci e che, dunque, segna di fatto l’atto di nascita del cristianesi-
mo latino: gli Atti dei martiri di Scilli. Qui, durante il breve interrogatorio
del proconsole Saturnino ai martiri cristiani, si trova una domanda, po-
sta dal clarissimus, relativa al contenuto della «cassetta (capsa)» che i mar-
tiri portavano con loro: «I libri e le lettere di Paolo, uomo giusto (Libri et
epistulae Pauli, viri iusti)»23, risponderà Sperato, certo senza immaginare

duramente contestati da J.E. Taylor, Christians and the Holy Places. The Myth of Jewish-Chris-
tians Origins, Clarendon Press, Oxford 1992, saggio quest’ultimo pure non esente da alcu-
ne radicalizzazioni critiche delle obiezioni che muove ai suoi interlocutori scientifici). Si
considerino alcuni esempi nei quali coesistono iconografie cristiane e giudaiche, come la la-
stra di Calevio (cfr. Bagatti, The Church from the Circumcision, 201, figura 87; vedi anche
infra, p. 254, nota 27) o a quella di Siracusa (cfr. H. Leclercq, s.v. «Chandelier a sept bran-
ches », in DACL 3,1, 215-220, qui 219, figura 2471).
23 Atti dei martiri di Scilli 12. Cfr. A. Rossi, “Mysterium simplicitatis”: escatologia e li-

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La cultura visuale come documento 197

le ansie che creerà alla critica, ancora oggi tutta protesa a capire se il ge-
nitivo “paolino” fosse da riferire esclusivamente a «epistulae » (e dunque:
“Alcuni libri più le lettere di Paolo”) o anche a «libri» (e quindi: “I libri
e le lettere composti da Paolo”). Qui non è necessario sciogliere tale dub-
bio; basta osservare che, in questa risposta, nel momento in cui si costi-
tuisce documentariamente la tradizione ecclesiale latina, questo modo di
professare la fede appare già connotato dai suoi due caratteri più forti: il
martirio e l’ubiqua presenza delle Scritture.

---

Affermare la matrice tipologica della primigenia cultura visuale cristia-


na significa dunque attribuirle caratteri di profonda arcaicità. L’ipotesi at-
torno alla quale si struttura questa proposta critica, in altri termini, non
solo diffida del modello critico che classifica il primo immaginario cristia-
no come un prodotto tardivo e allotrio, esterno, ai caratteri propri della più
antica teologia e religiosità cristiane, ma afferma l’esatto contrario: la prima
cultura visuale cristiana fu un prodotto tipicamente e propriamente “cri-
stiano”, teologicamente affine alle più arcaiche forme argomentative impie-
gate dei discepoli di Gesù, il Cristo, e, simultaneamente, profondamente
“latino”. Proprio come avvenne nell’Africa romana, dove una tradizione
cristiana radicalmente conservativa, sotto il profilo tanto religioso quanto
teologico, potè sfruttare appieno i suoi caratteri culturalmente e idealmen-
te romani (fu proprio il primo teologo di questa tradizione, Tertulliano, a
coniare il termine “romanitas”!), così la prima cultura visuale cristiana potè
elaborare ed esprimere contenuti rigorosamente cristiani – addirittura teo-
logicamente conservativi, come si vedrà – pur facendo ricorso a uno stru-
mento, quello della visualità, così largamente e abilmente sfruttato dalla
cultura politica dell’Impero di Roma.

turgia battesimale negli “Acta Scilitanorum”, in Annali di Scienze Religiose 9 (2004) 227-270,
in part. 263-265.

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IL SITZ IM LEBEN
LE ORIGINI DELLA CULTURA VISUALE CRISTIANA

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I.

IL QUADRO CRONOLOGICO.
QUANDO SI DEVE DATARE
LA PRIMA ICONOGRAFIA CRISTIANA?

Non sono pervenuti documenti visuali cristiani databili prima della


fine del II secolo se non addirittura, come più prudentemente si suole
affermare ormai, prima degli inizi del III secolo. Questo dato, già più
volte richiamato, è spesso impiegato per datare gli esordi della prima ico-
nografia cristiana: «Fu solo alla fine del II secolo che iniziarono ad appa-
rire espressioni scolpite o dipinte di credenze religiose distintamente cri-
stiane e a fornire alle generazioni successive testimonianze materiali e
artistiche dei primi credenti – dati visivi che amplificano e bilanciano la
documentazione relativa ai primi secoli altrimenti di natura unicamente
testuale»1.
In effetti, però, come già ricordato, la datazione dei più antichi pezzi
superstiti non può essere fatta meccanicamente coincidere con la nascita
di un’iconografia cristiana tout court 2: in altri termini, è necessario chie-
dersi se sia possibile documentare, direttamente o indirettamente 3, l’e-
sistenza di un’arte cristiana anche in tempi che precedono la cronologia
dei più antichi pezzi pervenutici.

1 Jensen, Understanding Early Christian Art, 9. Cfr. anche A. Besançon, L’ image inter-

dite. Une histoire intellectuelle de l’ iconoclasme, Fayard, Paris 1994 (L’esprit de la cité), 151-
152.
2 Così Finney, The Invisible God, 100-101.
3 Merita di essere preliminarmente riportata un’osservazione di Bernardi, I colori di Dio,

21, che, al di là di ogni altra considerazione, “ri-valuta” (attribuisce un significato diverso


a) i testi “patristici” più intransigenti nei confronti dell’immagine (idolatrica, però): «Essi
infatti, almeno per opposizione, segnalano come l’attenzione cristiana per l’arte pittori-
ca nel corso del II secolo, lungi dall’essere poco rilevante, si configurasse invece come un
fenomeno tanto ampio da costringere gli oppositori dell’immagine a contrastarlo dura-
mente».

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202 Le origini della cultura visuale cristiana

Scopo delle prossime pagine è di sondare la documentazione, lettera-


ria e archeologica, negativa e positiva, che possa fornire informazioni per
datare la nascita della cultura visuale cristiana.

1. LA DOCUMENTAZIONE LETTERARIA
Quanto appena osservato circa lo stato della documentazione dispo-
nibile rende ovviamente necessario rivolgere prioritariamente l’attenzione
alla documentazione letteraria precedente al III secolo per verificare se
sia possibile rintracciare materiale che permetta di dissolvere quel «mi-
stero» che, secondo Piergiuseppe Bernardi 4, avvolge ancora l’origine di
un’immagine propriamente cristiana, non prioritariamente per soggetto
o per stile, ma per uso.

1.1. Il “negativo documentario”: il Discorso veritiero di Celso


Il documento da cui vorrei prendere le mosse è un brano tratto dal Di-
scorso veritiero di Celso, polemista anticristiano del II secolo, la cui opera è
pervenuta tramite la confutazione che Origene ne compose – il trattato
Contro Celso 5 –, intorno alla metà del III secolo (245-249), su esplicita ri-
chiesta del suo benefattore Ambrogio. Va detto che sia il profilo biografico
dell’autore del Discorso veritiero, sia il Sitz im Leben – storico e geografico –
del suo trattato risultano ancora non del tutto definiti. Escluso con sicu-
rezza il Celso epicureo, amico di Luciano di Samosata – al quale l’Adaman-
tino sembra talora riferire l’opera a cui controbatte 6 –, si può dire con cer-

Bernardi, I colori di Dio, 23-28.


4

Fortunatamente l’Alessandrino improntò la sua risposta al genere del commentario,


5

premettendo, quindi, allo svolgimento della propria argomentazione la citazione in extenso


dei diversi brani dell’opera a cui reagiva. Per la plausibilità della ricostruzione, cfr. oggi J.
Arnold, Der Wahre Logos des Kelsos: eine Strukturanalyse, Aschendorff, Münster 2016 (Jahr-
buch für Antike und Christentum. Ergänzungsband 39).
6 Cfr. per esempio Origene, Contro Celso 1,8, dove si afferma per la prima volta il pre-

sunto epicureismo di Celso (ma dal quinto libro Origene non toccherà più l’argomento). Si
tratta probabilmente di un’eco della notizia che attribuiva al dedicatario dell’Alessandro un
trattato Contro i maghi (cfr. Luciano di Samosata, Alessandro 21), o, forse, di una “confu-
sione” indotta dalla memoria dell’altro Celso epicureo, nominato da Galeno, I propri libri

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Il quadro cronologico 203

tezza soltanto che il Discorso veritiero, il più antico scritto di critica al


cristianesimo di cui si abbia conoscenza 7, sia stato redatto da un autore
medioplatonico, verosimilmente sul finire degli anni ’70 del II secolo 8,
forse a Roma, forse ad Alessandria 9, forse a Pergamo10.
L’opera del “Celso polemista” rappresenta un documento assai rilevan-
te, sia per la sua alta datazione sia per l’impianto argomentativo che in
esso viene dispiegato. Invece di pronunciare un’invettiva contro i cristiani,
infatti, l’autore sceglie di provare a persuadere i propri interlocutori, inta-
volando con loro un articolato dialogo per convincerli a riprendere il posto
che è loro e che hanno abbandonato nella storia: «Sostenete l’imperatore
con ogni vostra forza», «impegnatevi insieme con lui», «servite nel suo
esercito», «combattete con lui», «accettate di governare la Patria»11. L’o-

17 (cfr. P. Ressa, Introduzione, in Id. [cur.], Origene, Contro Celso, Morcelliana Brescia 2000
[Letteratura cristiana antica, Testi], 11-79, qui 17: «Risulta chiaramente […] che, se Orige-
ne non avesse avuto conoscenza per sentito dire di un Celso epicureo, non sarebbe giunto a
definire [...] il suo avversario un seguace di Epicuro»).
7 S. Galli, Il Discorso vero di Celso: una risposta alla dottrina escatologica cristiana, in

Nuova Rivista Storica 85 (2001) 599-618, qui 600.


8 Cfr. uno status quaestionis in K. Pichler, Streit um das Christentum. Der Angriff des Kel-

sos und die Antwort des Origenes, Peter Lang, Frankfurt am Main - Bern 1980 (Regensbur-
ger Studien zur Theologie 23), 94-97. Per l’Italia cfr. in ogni caso Ressa, Introduzione, 19;
G. Lanata, Prefazione, in Ead. (cur.), Celso, Il discorso vero, Adelphi, Milano 19942 (Picco-
la Biblioteca 206), 9-38, qui 15; S. Rizzo, Premessa al testo, in Id. (cur.), Celso, Contro i cri-
stiani, Rizzoli, Milano 20065 (BUR), 19-20.
9 Così sembrano preferire Lanata, Prefazione, 14: «La tradizione culturale in cui il Cel-

so del Discorso vero si inserisce è totalmente greca; la sua familiarità con l’Egitto e con am-
bienti mediorientali, la mancata distinzione fra cristianesimo ortodosso ed eresie gnostiche,
sembrano rimandare a un ambiente alessandrino» e G. Rinaldi, La Bibbia dei pagani, 1:
Quadro storico, EDB, Bologna 1997 (La Bibbia nella storia 19), 111, nota 88.
10 Così ora S. Goranson, Celsus of Pergamum: Locating a Critic of Early Christianity, in D.R.

Edwards - C.T. McCollough (eds.), The Archaeology of Difference: Gender, Ethnicity, Class and
the “Other” in Antiquity: Studies in Honor of Eric M. Meyers, American Schools of Oriental Re-
search, Boston (MA) 2007 (Annual of the American Schools of Oriental Research, 60-61),
363-369.
11 Celso, Discorso veritiero 8,73-75; è fin troppo facile osservare il dialogo con le pagine

che delineano il modello dell’ascesi cristiana; cfr. per esempio Tertulliano, Apologetico 37.
Si tratta, come giustamente osserva Galli, Il Discorso vero, 615, di una risposta all’escato-
logia cristiana, prioritariamente colta come l’affermazione di un’alterità politica: «Celso at-
tacca il cristianesimo [...] a partire da un ben strutturato modello di pensiero che lo porta a
muoversi dal piano ontologico a quello politico».

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204 Le origini della cultura visuale cristiana

biettivo e l’approccio che qualificano l’opera comportano perciò una stra-


tegia argomentativa peculiare: Celso non si accontentò di attingere ai ben
rodati luoghi comuni della polemica religiosa (le accuse di ateismo, di
incestuosità e di praticare cene tiestee)12, poiché in tal modo egli non
avrebbe potuto persuadere i suoi avversari polemici ma tutt’al più compia-
cere quanti già erano convinti dell’assurdità del cristianesimo. A tal punto
Celso confidava nella speranza che la sua ricusazione potesse indurre i
cristiani a “rientrare nei ranghi” da progettare una seconda opera, di cui
non è rimasta traccia, nella quale dimostrare «come debbano vivere quan-
ti vogliono e sono capaci di farsi convincere»13: una sorta di “istituziona-
lizzazione” dello status di apostata e, insieme, un “inno” alla bona mens.
Celso capì inoltre che, per tagliare il traguardo che si era dato, era ne-
cessario conoscere approfonditamente gli argomenti religiosi e teologici
che strutturavano l’identità cristiana dei suoi interlocutori. Così sottile e
attento fu il suo lavoro di preparazione e di ricerca da aver convinto la
critica, a partire da Marc Lods in avanti, del possibile discontinuo riaf-
fiorare, in alcune delle pagine più acute del polemista pagano, di una
filigrana proveniente dalla polemica giudaica anticristiana14. «L’impres-
sione che si ha, leggendo nel suo complesso il Discorso veritiero, è che
Celso avesse una conoscenza non superficiale dei suoi avversari cristiani
e delle loro dottrine fondamentali»15.

12 Sono i cliché già impiegati da Tito Livio per biasimare i druidi galli, quelli che ven-

nero rivolti dai Romani contro i cristiani e che poi questi ultimi sfruttarono con eretici ed
ebrei e che, in tempi del tutto recenti, hanno dimostrato di funzionare anche nei confron-
ti dei comunisti; cfr. R. Cacitti, « Athei in mundo». Il carattere della diversità cristiana nel
giudizio della società antica, in Id. - G.G. Merlo - P. Vismara Chiappa (curr.), Il cristianesi-
mo e le diversità: studi per Attilio Agnoletto, Biblioteca Francescana, Milano 1999 (Studi di
Storia del cristianesimo e delle Chiese cristiane 1), 37-68.
13 Celso, Discorso veritiero 8,76.
14 Cfr. M. Lods, Étude sur les sources juives de la polémique de Celse contre les chrétiens,

in Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses (1941) 1-33; cfr. anche L. Alexander, The
Four among Pagans, in M. Bockmuehl - D.A. Hagner (eds.), The Written Gospel, Cam-
bridge University Press, Cambridge - New York (NY) 2005, 222-237, qui 217, e, ancor più
radicalmente, L.H. Blumell, A Jew in Celsus’ True Doctrine? An Examination of Jewish An-
ti-Christian Polemic in the Second Century C.E., in Studies in Religion (Sciences Religieuses)
36 (2007) 297-315.
15 Ressa, Introduzione, 39.

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Il quadro cronologico 205

Questa particolare considerazione assume una rilevanza critica stra-


ordinaria poiché pone nel patrimonio teologico dei cristiani la “pilotina”
della strategia polemica di Celso: in altri termini, pur se in modo solo
riflesso e distorsivo, il Discorso veritiero è tuttavia un testimone attendi-
bile della produzione documentaria16 e della vicenda storica cristiane del
II secolo.
Partendo da questo condiviso presupposto critico, vorrei attirare l’at-
tenzione su un passaggio ben preciso, dedicato dal polemista gentile alla
stigmatizzazione del tema della morte in croce di Gesù.
Dato che desideravate innovare, quanto sarebbe stato meglio, per voi, se vi
foste rivolti a qualcun altro tra coloro che sono morti in modo eroico e hanno
potuto meritare di diventare l’argomento di un mito divino! Se non Eracle e
Asclepio […], avevate Orfeo […], Anassarco […], Epitteto […]. Potevate piut-
tosto proporre la Sibilla […], che già alcuni di voi impiegano […]. E invece
considerate Dio un uomo dalla vita infame e dalla morte ugualmente depreca-
bile: quanto più adeguato [...], per voi, sarebbe stato allora Giona “presso la
zucca” (epi tē-i kolokyntē-i) o anche Daniele che è fuggito dalle belve o altri
ancora, ben più portentosi ‹di Gesù›!17

Per prima cosa è necessario porre attenzione allo spazio e alla rilevan-
za che Celso concede complessivamente alla morte di Gesù. Si tratta di
un elemento non sorprendente, a giudizio di Lovedey Alexander, il qua-
le, riferendosi a questo specifico argomento, osserva perspicuamente che
«per molti versi la dialettica tra l’apologetica cristiana e quella pagana nei
primi tre secoli può essere letta come una linea di battaglia in movimen-
to di carica e contro carica attorno a tale questione, in bilico tra i due
poli del culto e della croce, il punto più alto e quello più basso sul conti-

16 Cfr. Lanata, Prefazione, 17: «La strategia di Celso punta al massimo effetto di natu-

ralezza persuasiva quando egli occulta il carattere letterario dell’argomentazione afferman-


do di aver tratto i propri materiali unicamente dagli scritti degli avversari». Va detto, però,
che Celso attinse da più registri documentari, tra i quali anche quello iconografico (vedi in-
fra, la nota 21 a p. 207), sia per “conoscere le ragioni” della sua controparte sia per racco-
gliere strumenti polemici contro di essa: cfr. in proposito O.L. Yarbroug, The Shadow of an
Ass. On Reading the Alexamenos Graffito, in A.C. Niang (ed.), Text, Image, and Christians
in the Graeco-Roman World: A Festschrift in Honor of David Lee Balch, Pickwick, Eugene
(OR) 2021 (Princeton Theological Monograph Series 176) 239-254, qui 239.
17 Celso, Discorso veritiero 7,53.

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206 Le origini della cultura visuale cristiana

nuum onore-vergogna»18. D’altra parte va ricordato che, nel terzo quarto


del II secolo, il teologumeno del sacrificio perfetto di Cristo, offerto
nell’innalzamento sulla croce (cfr. Gv 12,20-36), rappresentava senza
dubbio il nucleo di quel Vangelo di quella Pasqua che, predicata e pro-
fessata dai cristiani in tutto il mondo antico, anche etimologicamente era
considerata un derivato di “passione”19.
Se, dunque, non stupisce che Celso dedichi così tanto spazio a questo
argomento, più interessante è cogliere la struttura e le fonti della sua ar-
gomentazione nel brano citato. Benché infatti Celso abbia colto il ruolo
giocato dal tema della morte di Cristo nella religio dei cristiani, con ogni
evidenza non ne comprese il valore – sacrificale ed espiatorio –, determi-
nante per cogliere la centralità teologica di quell’argomento. Non per nulla
nel brano in esame Celso si sofferma, per refutarli, sui caratteri di novità
(kainotēs) e di meraviglia (teratōsia) della morte di Gesù, sottolineando lo
scandaloso profilo di quella fine miserabile; scandalo che, d’altra parte,
era del tutto interno al principio kenotico della teologia cristiana: «Es-
sendo di natura divina […], abbassò se stesso, facendosi obbediente fino
alla morte, e alla morte di croce» (Fil 2,6-11).
Eppure, pur partendo da questo ben comprensibile fraintendimento
del sistema cristologico, dopo la galleria di “alternative” tratte dal mito20,
con sorprendente puntualità Celso presenta ai cristiani due proposte ti-
pologiche, quella di Daniele tra i leoni (Dn 6,17-24) e quella di Giona
«presso la zucca» (Gn 4,6LXX), che sembrerebbero dimostrare, al contra-

Alexander, The Four among Pagans, 225 (cfr. anche ivi, 224-228).
18

Cfr. almeno R. Cantalamessa, La Pasqua della nostra salvezza. Le tradizioni pasquali


19

della Bibbia e della primitiva Chiesa, Marietti, Genova 1997, 165. Cfr. anche Celso, Discor-
so veritiero 6,10c: «I cristiani dicono a chi li accosta: “Prima di tutto credi che quello che ti
mostro è figlio di Dio: anche se è stato incatenato in modo disonorevole, anche se è stato
punito con onta e anche se […] è stato trascinato da una parte all’altra sotto gli occhi di tut-
ti nel modo più oltraggioso. Anzi, proprio per questo, ancor di più credi”».
20 Cfr. L. Troiani, Celso, gli eroi greci e Gesù, in Ricerche Storico Bibliche 4 (1992) 65-76;

A. Van den Hoek - J.J. Herrmann, Celsus’ Competing Heroes: Jonah, Daniel, and Their Ri-
vals, in A. Frey - R. Gounelle (éds.), Poussières de christianisme et de judaïsme antiques: Études
réunies en l’ honneur de Jean-Daniel Kaestli et Eric Junod, Zèbre, Lausanne 2007 (Publications
de l’Institut Romand des Sciences Bibliques 5), 307-339.

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Il quadro cronologico 207

rio di quanto sottolineato sin qui, una frequentazione meditata con la più
consapevole esegesi della Pasqua cristiana.
Escluso, con la critica, sia che Celso abbia conosciuto i due libri pro-
fetici prototestamentari – ai quali alluderebbe solo in questo passo21 – sia
che la menzione di Giona gli sia provenuta dal famoso “segno di Giona”
(Mt 12,38-41 || Lc 11,29-32, che, in effetti, non cita il dettaglio della
zucca), si pone la domanda se l’origine di questa menzione debba essere
considerata per forza “testuale”.
Accanto all’ignoranza dei due libri di Daniele e di Giona, sussistono
almeno altri due argomenti che sconsigliano, a mio avviso, di insistere
sul presupposto che Celso abbia letto questi due profeti o a loro riguardo:
«In che modo Giona sotto la zucca può essere incluso entro quella teoria
di decessi e sofferenze eroiche che Celso menziona? 22. Perchè di tutto il

21 È opinione comune che la “Bibbia” di Celso fosse, pur se assai più vasta di quella de-

gli altri polemisti anticristiani, di per sé limitata: vi si trovava Genesi, parte di Esodo (Rinal-
di, La Bibbia dei pagani 1, 116, ipotizza che conoscesse sostanzialmente tutta la Torah, con
la sola assenza di Levitico; cfr. anche G.T. Burke, Celsus and the Old Testament, in Vetus Te-
stamentum 36 [1966] 241-245) e probabilmente il solo Vangelo di Matteo; cfr. G. Lanata,
Nota informativa, in Ead. (cur.), Celso, Il discorso vero, 39-57, qui 49-50; Rizzo, Premessa,
16; Ressa, Introduzione, 39-41. Di grande aiuto è anche il contributo di E. Norelli, La tra-
dizione sulla nascita di Gesù nell’AΛΗΘΗΣ ΛΟΓΟΣ di Celso, in L. Perrone (cur.), Discorsi
di verità. Paganesimo, giudaismo e cristianesimo a confronto. Atti del II convegno del Gruppo
di ricerca su «Origene e la tradizione alessandrina», Institutum Patristicum Augustinianum,
Roma 1998 (Studia Ephemeridis Augustinianum 61), 133-169.
22 Cfr. Burke, Celsus and the Old Testament, 244-245: «D’altra parte, Celso non sembra

aver ricavato la storia di Giona e la zucca leggendo il libro di Giona, perché egli sta specifi-
camente riferendosi a storie “incredibili” che raccontano i Giudei e, per un gentile, Giona
e la balena sarebbe stato molto più impressionante di Giona con la sua zucca ». L’osservazio-
ne di Burke mi pare del tutto condivisibile, a maggior ragione se si ricorda che racconti si-
mili a quello di Giona erano noti anche presso la cultura religiosa del mito (si pensi alle at-
testazioni archeologiche raccolte da J.K. Papadopoulos - R. Ruscillo, A Ketos in Early Athens:
An Archaeology of Whales and Sea Monsters in the Greek World, in American Journal of Ar-
chaeology 106 [2002] 187-227). Van den Hoek - Herrmann, Celsus’ Competing Heroes, pro-
pongono come possibili fonti di Celso gli Oracoli sibillini 2,238-251 (che però menziona-
no Giona e Daniele tra gli altri [e senza nulla specificare a proposito dei due profeti]: Mosè,
Abramo, Isacco, Giacobbe, Elia…), il Terzo libro dei Maccabei 6,6-8 (dove la discendenza
di Abramo, la prole di Giacobbe, l’uscita dall’Egitto, i tre fanciulli ebrei, Giona e Daniele
vengono evocati nella preghiera di Eleazaro, sacerdote arrestato e condotto nello stadio di
Alessandria per subire il martirio; qui, però, Daniele e Giona sono menzionati come me-
moria della potenza di YHWH: «Daniele, che per invidie e calunnie fu gettato nel cuore del-

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208 Le origini della cultura visuale cristiana

racconto fantastico del profeta Giona ‹Celso› coglie un dettaglio che, nel-
la narrazione biblica, non conclude un episodio, ma è funzionale all’essi-
cazione del pergolato e al conseguente dialogo risolutivo con YHWH?»23.
Varie spiegazioni sono state proposte per capire da dove Celso abbia saputo
di questi due personaggi ‹Giona e Daniele›, partendo dai rispettivi libri del Pri-
mo Testamento sino a Giustino e all’arte cristiana. L’ultima tra queste è proba-
bilmente l’ipotesi più efficace, dal momento che queste scene erano due entro
quella dozzina abitualmente dipinta presso le tombe paleocristiane 24.

L’ipotesi di Gary T. Burke è di particolare efficacia perché permette


di motivare sia la natura non letteraria del metodo di citazione (i due epi-
sodi sono solo, come ricordato, porzioni di racconto) sia di conciliare la
puntualità della citazione (effettivamente del tutto legittima sul piano
tipologico) con l’incomprensione di fondo del suo significato nell’impie-
go che ne fa Celso: l’immagine aveva mediato il tema e il suo valore, ma
per cogliere quest’ultimo era necessario conoscere il metodo esegetico

la terra ai leoni, in pasto alle bestie feroci, tu hai ricondotto alla luce, illeso. E Giona, depe-
rendo nel ventre di un enorme mostro nato dal mare, tu, Padre, hai vegliato e restituito
illeso a tutta la sua famiglia »: ivi, vv. 7-8; si noti il caso di Giona, qui ovviamente colto non
per il riposo sotto il qiqajon, ma per il prodigioso transito nel ventre del mostro). L’associa-
zione tra Daniele e Giona torna anche nella grande preghiera di Costituzioni apostoliche 7,37
(ma anche qui vengono menzionati «Daniele nella fossa dei leoni» e «Giona nel ventre del
mostro marino»: ivi, ll. 24-25). Nessuno dei casi citati da Van den Hoek e Herrmann mi
sembra possa rappresentare la “fonte” di Celso che, come si vede, cita solo i due esempi di
Daniele e di Giona e, rispetto a quest’ultimo, sottolinea singolarmente il momento del ri-
poso sotto il pergolato anziché l’episodio favoloso del mostro del quale, perciò, è lecito im-
maginare che il polemista greco non avessa alcuna nozione, diretta o indiretta.
23 Pelizzari, Vedere la Parola, 37.
24 Burke, Celsus and the Old Testament, 244; lo segue Y.-M. Duval, Le Livre de Jonas

dans la littérature chrétienne grecque et latine. Sources et influences du Commentaire sur Jonas
de saint Jérôme, 1, Institut d’Études Augustiniennes, Paris 1973 (Collection des Études au-
gustiniennes, Antiquité 53), 19, nota 34; cfr. anche Rinaldi, La Bibbia dei pagani, 1, 116:
«Celso conobbe […] le vicende di Daniele e di Giona molto probabilmente da raffigurazio-
ni artistiche» (così anche in Id., La Bibbia dei pagani, 2: Testi e Documenti, EDB, Bologna
1998 [La Bibbia nella storia 20], 247: «Ben difficilmente Celso ha potuto derivare la cono-
scenza di questi due episodi biblici da una lettura diretta dei rispettivi libri. Forse […] bi-
sogna ipotizzare che il pagano sia rimasto colpito da raffigurazioni artistiche cristiane»).
Vale la pena di richiamare qui quel «diagramma (diagraphē)» che Celso descrive con dovi-
zia di particolari in Discorso veritiero 6,25 (non a caso nell’edizione di Salvatore Rizzo [pa-
gina 211], alla descrizione di questo disegno viene premesso «[Ho avuto occasione di osser-
vare un loro] diagramma ») e che, per quanto importa qui, illustra un grafico figurativo.

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Il quadro cronologico 209

tipologico. Questa ipotesi, dunque, risolve la contraddizione interna al


testo che più sopra è stata rilevata. Fedele al suo modus operandi, il pole-
mista avrebbe indagato l’argomentazione dei suoi interlocutori (non solo
tramite fonti testuali; per certo anche dialogando con cristiani o con
apostati del cristianesimo)25 e, di fronte all’accostamento tra la vicenda
pasquale di Gesù, il ciclo di Daniele nella fossa dei leoni e l’episodio del
riposo di Giona, non comprendendo il meccanismo tipologico che lo
motivava, si limitò a coglierne l’aspetto più appariscente (una galleria di
supplizi “straordinaria”), la sua dimensione “fantastica”, che egli pronta-
mente assunse come cifra saliente di quella “religione della morte di
Gesù” che reputava i cristiani professassero.
Come anticipato già da Gary T. Burke e come meglio si vedrà nel
prosieguo di questo capitolo, la plausibilità di questa riflessione si fonda
sulla documentazione archeologica che testimonia, sin nei più antichi
prodotti visuali cristiani superstiti, la frequenza dell’accostamento dei
temi del profeta Daniele nella fossa dei leoni e del riposo di Giona sot-
to la zucca 26, in contesti iconici, per altro, di prioritario significato cri-
stologico.
L’interesse del quadro così emerso è però ovviamente cronologico: «Se,
come ritengo, Burke riconosce la chiave di lettura corretta per questo
passaggio, allora Celso è testimone indiretto fondamentale per la ricostru-
zione della cronologia delle origini dell’iconografia cristiana: accettando
questa coordinata, si dovrà ricavare che presso i cristiani il ricorso a un
linguaggio figurato era già “comune” nell’ultimo quarto del II secolo»27.

25 Cfr., infatti, quanto segnala Rizzo, Premessa, 30, «Nell’indagine celsiana, sono am-

mirevoli i contatti, le interviste e le discussioni con i rappresentanti della nuova fede, pic-
coli e grandi. Celso ha avvicinato gruppi cristiani diversi».
26 Cfr. il catalogo descrittivo di R. Ferrario, Il riposo di Giona. Analisi di un motivo ico-

nografico nel cristianesimo delle origini, M.A. Diss., Milano a.a. 2003-2004, dove tale abbi-
namento è elencato ventisei volte (cfr. anche il più dettagliato repertorio di N. Bonansea,
Simbolo e narrazione. Linee di sviluppo formali e ideologiche dell’ iconografia di Giona tra III
e VI secolo, CISAM, Spoleto 2013 [Istituzioni e Società 18], 169-245). Cfr. anche
Dresken-Weiland, Immagine e parola, 99.
27 Pelizzari, Vedere la Parola, 37-38.

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210 Le origini della cultura visuale cristiana

1.2. Il “positivo documentario”:


Ireneo, Clemente di Alessandria e Tertulliano
È possibile identificare almeno tre brani, provenienti da altrettante
opere redatte tra la seconda metà del II secolo e gli inizi del III, che espli-
citamente attestano l’impiego cristiano dell’immagine: si tratta della no-
tizia – inspiegabilmente assai poco frequentata dalla critica – riportata
dal trattato in cinque libri Contro le eresie di Ireneo di Lione (1,25,6) e
dei celebri casi del Pedagogo di Clemente di Alessandria (3,59,1 - 60,1) e
de La pudicizia di Tertulliano (7,1). La rilevanza di questi documenti, in
due casi già ampiamente sottolineata dalla critica 28, è accresciuta dal
fatto che i loro rispettivi autori avevano chiaramente espresso, a più ri-
prese, la propria ferma condanna dell’idolatria 29: non è possibile, in altri
termini, dubitare della loro ferma ortodossia, almeno su questo punto.
Da subito si potrà dunque osservare – ove mai se ne sentisse realmente la
necessità – la possibilità della coesistenza dell’adozione di un lessico ico-
nico e di un radicale rifiuto degli idoli.
Come si vedrà, l’utilità di questa documentazione è duplice: in prima
istanza perché attesta l’impiego di un lessico iconico cristiano in decen-
ni che precedono la datazione delle più antiche evidenze archeologiche
cristiane superstiti, secondariamente perché offrono rilevanti informa-
zioni circa le modalità con cui l’immagine era impiegata nelle comunità
cristiane.

a. Ireneo di Lione, Contro le eresie 1,25,6


Il passo di Ireneo è tratto da una rubrica del Contro le eresie dedicata
alla stigmatizzazione di Carpocrate e dei suoi discepoli. Non è questa

28 I brani di Tertulliano e di Cipriano costituiscono ormai due autentici “luoghi comu-

ni” della ricerca sulle origini dell’“arte” cristiana.


29 Cfr. almeno Ireneo di Lione, Contro le eresie 1,22,1 (dove “eresia” cristiana e “idola-

tria pagana” sono equiparate); Clemente di Alessandria, Protrettico ai greci 4,46-63; Tertul-
liano, L’ idolatria 1,1 («Il principale crimine [Principale crimen] del genere umano, il reato
sommo [summus reatus] del secolo e l’intera ragione del giudizio è l’idolatria [tota causa iu-
dicii idololatria]»).

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Il quadro cronologico 211

la sede per approfondire il profilo religioso di questo movimento, che


Ireneo classifica come gnostico e che per certo percepiva come avver-
sario30. Qui basti ricordare, secondo quanto riporta Clemente Alessan-
drino31, che Carpocrate, originario di Alessandria e padre di Epifane,
dovette essere attivo nella prima metà del II secolo. Dati i caratteri non
così marcatamente gnostici che Clemente evoca, pare plausibile imma-
ginare che il ritratto tracciato da Ireneo di Lione possa risentire degli
sviluppi a cui il suo movimento andò incontro, plausibilmente dopo la
morte del fondatore.
Altri, per la verità, contrassegnano, marchiandoli a fuoco dietro la sporgenza
dell’orecchio destro, i propri discepoli […]32. Si definiscono “gnostici” e possie-
dono delle immagini (imagines […] habent), alcune dipinte altre realizzate anche
con altro materiale, che dicono corrispondere all’immagine di Cristo fatta da
Pilato nel tempo in cui Gesù era con gli uomini (formam Christi factam a Pilato
illo in tempore in quo fuit Iesus cum hominibus). E le coronano e le espongono con
le immagini dei filosofi del mondo, cioè con l’immagine di Pitagora, di Platone,
di Aristotele e degli altri e, presso di esse, come i gentili, compiono quanto resta
del culto (et reliquam observationem circa eas similiter ut gentes faciunt)33.

La notizia riportata da Ireneo presenta numerosi motivi di interesse.


Il primo risiede ovviamente nel soggetto dell’immagine menzionata: il
brano, infatti, attesta, già alla metà del II secolo, la circolazione di una
«figura Christi» realizzata, per altro, con la pretesa di documentare un

30 Dopo la tradizionale monografia di H. Liboron, Die karpokratianische Gnosis. Unter-

suchungen zur Geschichte und Anschauungswelt eines spätgnostischen Systems, Jordan & Gram-
berg, Leipzig 1938, cfr. oggi I. Jurasz, Carpocrate et Épiphane: chrétiens et platoniciens radi-
caux, in Vigiliae Christianae 71 (2017) 134-167.
31 Cfr. Clemente di Alessandria, Stromati 3,5-9.
32 La notizia di quest’uso è attestata anche in un Frammento greco, conservato presso

Ippolito, Elenchos 7,32: cfr. A. Pousseau (éd.), Irénée de Lyon, Contre les Hérésies. Livre I, 2:
Texte et traduction, Cerf, Paris 1979 (SCH 264), 98; 343. Cfr. comunque G. Rota, «Body
mod»: alcune note sulla cauterizzazione auricolare dei Carpocraziani (Iren. Haer. 1,25,6), in
Paideia 70 (2015) 341-352.
33 La traduzione proposta è fortemente debitrice delle osservazioni di P.C. Finney, Ima-

ges on Finger Rings and Early Christian Art, in Dumbarton Oaks Papers 41 (= Studies on Art
and Archeology in Honor of Ernst Kitzinger on His Seventy-Fifth Birthday) (1987) 181-186, e
di J.A. Francis, Clement of Alexandria on Signet Rings: Reading an Image at the Dawn of Chri-
stian Art, in Classical Philology 98 (2003) 179-183.

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212 Le origini della cultura visuale cristiana

ritratto di quello che oggi si chiamerebbe “il Gesù storico” (si tratterebbe,
infatti, di copie di un originale commissionato addirittura da Pilato)34.
D’altra parte, si deve notare anche che, pur essendo il testo caratteriz-
zato da uno scoperto intento polemico, l’autore non si spinge sino a formu-
lare esplicitamente un’accusa di idolatria, limitandosi al contrario alla sola
stigmatizzazione dell’adempimento del culto presso le immagini («circa
eas»)35. Certo, l’originale greco dell’opera di Ireneo è andato perduto e quel
che leggiamo di questa notizia proviene in realtà solamente da una versione
latina; d’altra parte, proprio perché si tratta di una pagina polemica, è ve-
rosimile presupporre un inasprimento dei toni, non una loro mitigazione 36.
Sussiste inoltre almeno un aspetto del testo che allontana il tema dell’ido-
latria, nonostante quell’accenno polemico ai culti profani («come i gentili
[ut gentes]»): il ritratto di Gesù starebbe, infatti, insieme a quello dei filoso-
fi, in un contesto, quindi, non prioritariamente religioso né idolatrico37.

34 Le notizie di una precoce “ritrattistica cristiana” si moltiplicheranno nelle fonti testua-

li. Una tra le più prococi è quella ricavabile dal racconto di Atti di Giovanni 26-29 (seconda
metà del II secolo), dove Licomede, discepolo miracolosamente risuscitato con la moglie per
intercessione dell’apostolo Giovanni, fa ritrarre quest’ultimo, omaggiandone poi l’effigie al-
lo stesso modo descritto dal brano di Ireneo: «Licomede, che aveva per amico un abile pit-
tore, andò in fretta da lui e gli disse: “[…] Vieni presto a casa mia e dipingi, a sua insaputa,
l’uomo che ti indicherò […]. Il pittore, dunque, il primo giorno tracciò il profilo e se ne an-
dò; il giorno successivo lo dipinse con i suoi colori e consegnò il ritratto a Licomede, con sua
grande gioia. Licomede […] mise ‹il ritratto› nella sua camera da letto e lo decorò con ghir-
lande» (26-27). Seguirà poi il duro scambio tra l’Apostolo e Licomede nel quale, pur aven-
do constatato la straordinaria rassomiglianza del ritratto («Licomede gli portò uno specchio;
quando ‹l’Apostolo› si vide allo specchio e dopo aver fissato il ritratto, disse: “Come ‹è vero
che› il Signore Gesù Cristo vive, il ritratto è come me!”» [28]), Giovanni inviterà il suo in-
terlocutore a dipingere con i colori della virtù la propria somiglianza con Dio. Cfr. Thümmel,
Die Frühgeschichte der ostkirchlichen Bilderlehre, numero 5. Come scrive Grabar, Le vie dell’ico-
nografia cristiana, 72: «È […] molto interessante possedere una simile testimonianza scritta
su un ritratto […] ripreso dal vivo, anche se fu eseguito da un pittore che non sembra aver
conosciuto il santo. Non è meno istruttivo leggere che uno dei discepoli dell’apostolo, che si
considerava un cristiano, ritenesse logico possedere un ritratto del maestro e persino farlo
oggetto di quella venerazione che […] era tributata alle immagini dei benefattori».
35 Come si vedrà in seguito (vedi infra, pp. 374-375), sussiste un legame privilegiato tra

la prima documentazione visuale cristiana e i luoghi della performance del culto.


36 Per altro, il già menzionato Frammento conservato in Ippolito, Elenchos 7,32, prova

una buona fedeltà della traduzione latina di questa pagina.


37 Va d’altra parte ricordato che nel mondo antico le scuole filosofiche si caratterizzava-

no per aspetti affini a ciò che oggi si definisce propriamente “religioso” e che la biografia

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Il quadro cronologico 213

La notizia di Ireneo, dunque, pur se interna alla polemica che connotò


la frontale dialettica che non di rado si accese tra movimenti cristiani an-
tagonisti, attesta la precoce (metà del II secolo?) circolazione di immagini
del Cristo realizzate con pretesa commemorativa e non con finalità idola-
trica, in stretta connessione con il culto delle comunità. Il dato è di estremo
interesse anche perché sovverte la frequentata ipotesi per cui «all’inizio, cioè
verso la fine del II secolo […], ‹i cristiani› si limitavano a scegliere nel re-
pertorio funebre del tempo immagini neutre alle quali poteva essere attri-
buito un significato cristiano […]. Dal secolo III in poi i cristiani hanno
creato un loro repertorio, quasi interamente ispirato alle Scritture»38.

b. Clemente di Alessandria, Pedagogo 3,59,1 - 60,1


Il passo di Clemente è probabilmente il più frequentato dalla lettera-
tura critica tra quelli presentati in questo capitolo. Il brano proviene da
una sezione del Pedagogo nella quale l’Alessandrino espone una sorta di
“guida pratica” allo stile di vita cristiano39, articolando una serie di nor-
me che chiaramente situano la vita dei cristiani di Alessandria in uno
spazio urbano anziché rurale e in un quadrante sociale alto piuttosto che
basso 40. Nell’eterogenea codificazione di questo prontuario, per ben due
volte l’autore affronta il tema dei sigilli: la prima volta in esclusivo riferi-
mento alle donne 41, la seconda in termini universali. È rilevante osserva-
re che, da subito, Clemente distingue tra gli anelli, che sono esplicitamen-
te vietati, e i sigilli, la cui utilità è motivata dal fatto che non tutti hanno

dell’eponimo dei diversi insegnamenti poteva essere coinvolta in processi mitizzanti. Si pen-
si, su tutti, al caso di Pitagora; cfr. G. De Cesaris, Iamblichus’ Investiture of Pythagoras, in
Méthexis 30 (2018) 175-196.
38 Così – tra i più, per la verità – si esprime Dulaey, I simboli cristiani, 32-33.
39 La definizione di: «Veloce puntata (Epidromē kephalaiōdēs) sulla migliore vita » inti-

tola la sezione di Clemente di Alessandria, Pedagogo 3,53,1 - 83,4.


40 Cfr. R. Soaje de Elías, Urbanidad y moralidad en El Pedagogo de Clemente de Alejan-

dría: el aporte de la sabiduría bíblica, in Scripta Mediaevalia 11 (2018) 39-69, che analizza
il contributo che le Scritture diedero alla progettazione dell’ideale del cristiano, nel conte-
sto della raffinata élite della scuola catechistica di Alessandria, per lo più di origine greca e
ispirata al modello della paideia ellenistica.
41 Cfr. Clemente di Alessandria, Pedagogo 3,57,1.

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214 Le origini della cultura visuale cristiana

ricevuto l’educazione del Pedagogo, nel qual caso «non ci sarebbe nep-
pure bisogno di sigilli (sphragidōn), essendo onesti allo stesso modo tan-
to i servi tanto i padroni» 42. Il sigillo, dunque, e l’immagine che esso
reca non hanno funzione decorativa, aderendo Clemente radicalmente a
quella postura antisuntuaria che riconosceva nelle ricercatezze della mo-
da e nello sfarzo del lusso altrettanti sintomi di fragilità morale. Le im-
magini che Clemente evoca, perciò, in nessun modo possono essere in-
terpretate come concessioni a presunte vanità delle donne o alla moda del
tempo o, a maggior motivo, a nostalgie idolatriche.
Che i nostri sigilli (sphragides ēmin) siano una colomba o un pesce o una nave
sospinta da venti favorevoli o una lira musicale, come quella usata da Policrate, o
l’ancora nautica, come quella che Seleuco aveva inciso sulla sua pietra ‹del sigillo›.
E se ‹la figura› dovesse essere un uomo che pesca, ‹l’immagine riportata sul sigil-
lo› ricorderà alla mente ‹di chi lo indossa› l’apostolo e i fanciulli tratti fuori dall’ac-
qua (tōn ex ydatos anaspōmenōn paidiōn) 43. Noi, a cui è proibito il legame con gli
idoli, non dobbiamo incidere ‹sui sigilli› il loro volto ‹letteralmente: “Il volto degli
idoli” (eidōlōn prosōpa)› né la spada né l’arco, perché seguiamo la via della pace,
né le coppe, perché siamo sobri. Tra i dissoluti molti hanno inciso i propri aman-
ti e le concubine, come per non dimenticare mai […] le loro passioni erotiche con
questo promemoria della loro lussuria 44.

42 Si osservi anche che Clemente di Alessandria, Pedagogo 3,57,1, autorizza l’uso del si-

gillo «d’oro (ek chrysiou) […] per la cura delle esigenze domestiche». Se ne deduce tanto la
disponibilità economica necessaria all’acquisto dell’oggetto prezioso tanto la proprietà di
beni il cui possesso va amministrato severamente (il sigillo aveva una funzione simile a quel-
la delle nostre chiavi).
43 Altra traduzione possibile è: «E se qualcuno ‹cioè chi calza il sigillo› è un pescatore,

si ricordi dell’apostolo e dei fanciulli tratti fuori dall’acqua » (così in Italia, per esempio, D.
Tessore [cur.], Clemente Alessandrino, Il pedagogo, Città Nuova, Roma [Collana di Testi
Patristici 181], 308), ma, come giustamente osserva Francis, Clement of Alexandria on Si-
gnet Rings, 180, «è chiaro che il Pedagogo fosse destinato a un pubblico di una certa cultu-
ra letteraria, mezzi sociali e posizione: l’opera abbonda di allusioni e citazioni dall’epica gre-
ca, dal dramma e dalla filosofia. Prima e dopo aver espresso la sua opinione sugli anelli,
Clemente […] chiarisce che gli uomini che li indossano […] sono persone coinvolte nell’am-
ministrazione civile, uomini d’affari e proprietari terrieri. Non sarebbe, d’altronde, in pri-
mo luogo, insolito, per un pescatore, avere bisogno e possedere un anello con sigillo scolpi-
to?». Cfr. anche L. Eizenhöfer, Zum Satz des Clemens von Alexandrien über das Siegelbild des
Fischers, in Jahrbuch für Antike und Christentum 6 (1963) 173-174.
44 La traduzione proposta è fortemente debitrice delle osservazioni di Finney, Images on

Finger Rings, e di Francis, Clement of Alexandria on Signet Rings. Sul documento cfr. anche L.
Eizenhöfer, Die Siegelbildvorschläge des Clemens von Alexandrien und die älteste christliche Li-

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Il quadro cronologico 215

Senza voler ripercorrere la rassegna delle menzioni critiche di questo


brano, penso si possa dire che l’argomento che ne è stato più sfruttato in
sede di analisi sia l’elenco dei sei (o cinque) simboli “leciti”, stilato da
Clemente 45.
Il dato merita di essere qui ripreso e, in qualche misura, precisato. Per
prima cosa, giova sottolineare ancora una volta la coralità della prescri-
zione che qui viene affermata: Clemente a più riprese parla dell’iconogra-
fia dei sigilli ricorrendo alla prima persona plurale, in termini, perciò,
inclusivi 46. D’altra parte, il brano si sviluppa attorno a due polarità: dap-
prima vengono elencate le immagini lecite, di seguito quelle proibite. A
ben guardare, però, l’antitesi tra i sigilli «nostri» e quelli “profani” è fon-
damentalmente asimmetrica: mentre l’iconografia cristiana, pur se nella
polivalenza del simbolo, rinvia, come si vedrà, ad archetipi biblici, quella
“altra” presenta esclusivamente i caratteri dell’immoralità 47. Se ne può

teratur, in Jahrbuch für Antike und Christentum 3 (1960) 51-69; H.-D. Altendorf, Die Siegel-
bildvorschläge des Clemens von Alexandrien, in Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft
58 (1967) 129-138; Thümmel, Die Frühgeschichte der ostkirchlichen Bilderlehre, numero 7.
45 Una significativa eccezione è da menzionare: Klauser, Studien zur Entstehungsge-

schichte, IV, propose per primo (ma l’ipotesi ebbe fortuna: cfr., per la storiografia italiana,
Carletti, Origine, committenza e fruizione, 463-465) che la successiva iconografia biblica
cristiana, giudicata estremamente riduttiva («Vereinfachung [semplificazione]» la definisce
Klauser, Studien zur Entstehungsgeschichte, IV, 142), fosse tale per la sua origine glittica – re-
lativa all’incisione di gemme e pietre dure – e di oreficeria. Il pochissimo spazio concesso
dalla dimensione del sigillo avrebbe imposto la genesi di motivi iconici estremamente sin-
tetici, e in tal modo si sarebbe originato il primo lessico dell’iconografia cristiana. La tesi
non pare essere più seguita dalla critica che, semmai, impiega oggi il passo del Pedagogo per
documentare il transito da un’iconografia del simbolico a un’iconografia descrittiva.
46 Non si tratta cioè di un’accusa polemica, ma di una prescrizione che l’autore condi-

vide e che, quindi, ancor più delle testimonianze di Ireneo e di Tertulliano, direttamente
documenta la prassi cristiana.
47
La prioritaria menzione degli idoli, in apertura dei divieti citati dall’Alessandrino, po-
trà forse sembrare incoerente con quanto affermato nel corpo del testo; non si dimentichi,
però, che anche nella mentalità profana la venerazione degli idoli era descritta come una
forma deteriore della prassi religiosa, distintiva di persone incolte e frequentemente corre-
lata a stili di vita non conciliabili con la ricerca del bene e della verità. F. Bisconti, Introdu-
zione, in Id. (cur.), Temi, 252-258, 9-86, qui 13-14, ravvisa in questo passo clementino un
parallelo con la «cultura giudaica »: «Questo eloquio figurativo di tipo segnico sembra sor-
gere nell’ambito della cultura giudaica e sembra utile a rappresentare gli elementi fonda-
mentali della liturgia ebraica, dall’aron alla menorah, dal coltellino per la circoncisione alla
torah della legge».

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216 Le origini della cultura visuale cristiana

forse ricavare che non sia riconducibile direttamente a Clemente la defi-


nizione di questo codice che egli, infatti, sembra attestare in modo più
meccanico che spontaneo.
Per quanto concerne l’iconografia lecita, si tratta di sei temi che, ben-
ché impiegati dalla cultura visuale gentile, avevano già ricevuto a quest’al-
tezza una connotazione cristiana:
1. la colomba, oltre a rinviare all’episodio del battesimo di Gesù (cfr.
Mc 1,10 || Mt 3,16 || Lc 3,22; cfr. Gv 1,32), deve essere correlata
anche al valore di “emblema dell’anima”, che assumerà stabilmen-
te e peculiarmente nella tradizione iconografica paleocristiana48.

Figura 18: l’anima di un de-


funto professa la fede nel Cri-
sto. Graffito su frammento di
lastra funebre, Catacomba di
Callisto, Roma. Abitualmente
si ritiene che questa incisione
sia stata completata tra gli ini-
zi e la prima metà del IV seco-
lo. L’immagine è tratta da
ICUR 4, 4a2 (Antonio Ferrua
osserva qui [pagina 213], un
«uccello ‹che›, mentre tiene
con la zampa sinistra uno stile
[o un pennello?: penicillum],
scrive un chrismon»). Un buon esempio della peculiare versatilità con cui la sim-
bologia dell’avifauna si imporrà nel lessico iconografico cristiano si può rico-
noscere nel documento appena proposto in figura. La toccante raffigurazio-
ne graffita su questo frammento è l’esito di almeno tre passaggi compositivi:
la diversa profondità dei canali incisi, l’incostante qualità del ductus e alcune
incoerenze formali inducono a credere che a una prima, generica figura di co-

Tale significato, per altro si riscontra già nella letteratura cristiana delle origini; cfr.
48

per esempio già Martirio di Policarpo 13,2 (sull’originale significato di questo segno, cfr. R.
Cacitti, Grande sabato. Il contesto pasquale quartodecimano nella formazione della teologia del
martirio, Vita e Pensiero, Milano 1994 [Studia Patristica Mediolanensia 19], 71-72, nota
119); Origene, Omelie sul Cantico 2,12. Su questo simbolo e sul suo impiego in ambito pro-
fano si tornerà in seguito: vedi infra, pp. 485-486.

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Il quadro cronologico 217

lomba 49 siano stati poi accostati il monogramma cristologico e, infine, pur de-
terminando una parziale sovrapposizione con la colomba, lo stilo. Colpisce di
questa figura la calibrata architettura iconografica. Com’è noto, il kerygma cri-
stiano è espresso da un semplice predicato nominale: “Gesù è il Cristo”; l’appel-
lativo di “Cristo” perciò poteva da solo bastare ad affermare la propria profes-
sione di fede. Il cristogramma, pur in tutta la varietà delle sue configurazioni
(cfr. il “classico” V.E. Gardthausen, Das alte Monogramm, Hiersemann, Leipzig
1924; cfr. anche K. Wessel, s.v. «Christusmonogramm», in Id. - M. Restle [hrsg.],
Reallexikon zur byzantinischen Kunst, 1, Hiersemann Hauswedell, Stuttgardt
1966, 1047-1050; P. Bruun, The Victorious Signs of Constantine: A Reappraisal,
in Numismatic Chronicle 157 [1997] 41-59), si costituì dunque come uno dei più
efficaci equivalenti strumenti iconici per indicare la professione di fede. Con
tale fondamentale connotazione del chi-rho poteva interferire l’uso trionfale di
questo monogramma, ampiamente sfruttato dalla corte costantiniana. Nel caso
qui esaminato, la presenza dello stiletto che attribuisce alla colomba, simbolo
dell’anima, l’iscrizione delle due lettere greche riscatta l’intera scena da questa
possibile interferenza di significato. Cfr., per riferimenti bibliografici, anche Pe-
lizzari, Vedere la Parola, 73-74.

2. Benché il pesce richiami, in prima battuta, l’acrostico Ichtys (Iēsous


Christos, Theou Yios, Sōtēr: “Gesù Cristo, figlio di Dio, salvato-
re”)50, esso è tuttavia correlato anche ai numerosi luoghi biblici
– proto- e neotestamentari – che lo menzionano. In particolare, in
ambito cristiano, va sottolineata la qualificazione eucaristica che

49 Non è ovviamente possibile determinare se la colomba preceda il monogramma o vi-

ceversa. L’unico dato ricavabile con maggiore sicurezza mi pare essere quello della seriorità
dell’aggiunta dello stiletto, che logicamente presuppone le due figure da correlare. Il mono-
gramma è l’unico elemento che possa fornire qualche parametro cronologico, diffondendo-
si in ambito cristiano più largamente a partire dal IV secolo. L’ipotesi della priorità della co-
lomba, dunque, consente di datare l’avvio di questo graffito anche all’ultimo quarto del III
secolo.
50 Cfr. almeno Tertulliano, Il battesimo 1,3; Oracoli sibillini 8, 217-250. È ancora aper-

to il dibattito circa l’uso iconografico del pesce in ambito cristiano: se questo abbia porta-
to all’escogitazione dell’acrostico o se la circolazione di quest’ultimo abbia determinato la
fortuna del simbolo. L. Gambassi, s.v. «Pesce », in Bisconti (cur.), Temi, 252-258, qui 252,
propone di «riferire la pratica di far uso, in ambito letterario e figurativo, dell’immagine
del pesce, a quel più ampio contesto culturale creatosi nell’impero romano sulla scorta del-
le filosofie ellenistiche, specialmente di ascendenza platonica ». Resta ovviamente necessa-
rio richiamare la monumentale ricerca di Franz Joseph Dölger che portò ai cinque volumi
del suo ᾿Ιχϑύς, das Fischsymbol in frühchristlicher Zeit (1909-1940).

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218 Le origini della cultura visuale cristiana

questi animali ricevettero dai racconti delle miracolose moltiplica-


zioni (Mc 6,30-44 || Mt 14,13-21 || Lc 9,10-17 || Gv 6,1-13; Mc
8,1-9 || Mt 15,32-39)51.
3. La nave è un tema classico della tradizione teologica e iconografica
cristiana. Si tratta, come noto, di un soggetto largamente attestato
nell’iconografia della gentilità che assumerà nel ricupero cristiano
un valore prioritariamente ecclesiologico52. Pur nella sostanziale
fissità del modello formale, tale rivalutazione semantica si presterà
a interessanti sviluppi ermeneutici, caratteristici questi ultimi – per
ampiezza e diversificazione – della cultura visuale cristiana.

Figura 19: l’apostolo Paolo conduce la nave Tecla. Bassorilievo, Musei Capito-
lini, Roma. Inizi del IV secolo. La china è tratta da H. Leclercq, s.v. «Paul
(saint)», DACL 13,2, 2567-2700, qui 2695-2696, figura 10000. Questo famo-
so pannello reca un peculiare impiego della tradizionale iconografia dell’im-
barcazione «sospinta da venti favorevoli» (Clemente Alessandrino, Pedagogo
3,59,1): pur tra le molte ipotesi avanzate, io credo si debba riconoscere qui la
trascrizione iconografica di quel processo, documentato in ambito “patristico”,
di sovrapposizione delle categorie ecclesiologiche all’agiografia di Tecla (cfr. M.

51 L’esempio forse migliore di questa qualificazione può essere riconosciuto nei c.d. “pe-

sci eucaristici” del cubicolo doppio X-Y della Regione di Lucina nella Catacomba di Calli-
sto, che verranno esaminati di seguito, vedi infra, pp. 224-233.
52 Cfr. almeno E. Peterson, La nave come simbolo della Chiesa nell’escatologia, in Id., Chie-

sa antica, giudaismo e gnosi. Studi e ricerche (1959), Paideia, Brescia 2021 (Scritti scelti di
Erik Peterson 10), 249-258; J. Daniélou, I simboli cristiani primitivi, Arkeios, Roma 1990,
69-81 (ed. or. Paris 1961); Rahner, Simboli della Chiesa, 397-966.

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Il quadro cronologico 219

Pesthy, Thecla among the Fathers of the Church, in J.N. Bremmer [ed.], The Apo-
cryphal Acts of Paul and Thecla, Pharos, Kampen 1996 [Studies on Early Chri-
stian Apocrypha], 164-178, qui 177). A motivare questa scelta vi fu probabil-
mente la volontà di riconoscere in Tecla l’eponima di un paradigma cristiano,
paolino per ispirazione, ma distintivo per esiti: «Qui, insomma, Tecla è la Chie-
sa di Paolo» (G. Pelizzari, La discepola ribelle. Tecla di Iconio nel ciclo agiografi-
co degli Atti di Paolo, Paoline, Milano 2017 [Saggistica Paoline 79], 86-87;
rinvio a queste pagine anche per la bibliografia archeologica e storico-artistica
dedicata a questo pezzo).

4. La lira è probabilmente il soggetto più singolare tra quelli elencati


da Clemente: esso non conobbe una grande fortuna nel repertorio
iconografico cristiano, ricorrendo pressoché esclusivamente nel più
articolato tema dell’Orfeo citaredo53. D’altra parte, si tratta di una
menzione assai rilevante perché, in ambito cristiano e nell’opera
dello Stromateo, la figura della lira assunse uno speciale significa-
to. Nella riflessione sulla profezia e sui carismi dello Spirito, infat-
ti, si affermò ben presto la metafora che riconosceva nello strumen-
to musicale l’immagine del profeta, le cui corde venivano fatte
risuonare dal plettro dello Spirito54. Così recita uno dei celebri
“oracoli montanisti”: «Montano afferma: “Ecco, l’uomo è come
una lira e io passo su di lui come un plettro. L’uomo dorme e io
veglio. Ecco, è il Signore che caccia i cuori degli uomini e dà agli
uomini un ‹altro› cuore”»55. Pur se nel più generale contesto del

Cfr. P.C. Finney, Orpheus-David: A Connection in Iconography between Greco-Roman


53

Judaism and Early Christianity?, in Journal of Jewish Art 5 (1978) 6-16; F. Bisconti, Un feno-
meno di continuità iconografica. Orfeo citaredo, Davide salmista, Cristo pastore, Adamo e gli
animali, in Augustinianum 28 (1988) 429-436.
54 Cfr. J.H. Eaton, Music’s Place in Worship: A Contribution from the Psalms, in J. Bar-

ton (ed.), Prophets, Worship, and Theodicy. Studies in Prophetism, Biblical Theology, and
Structural and Rhetorical Analysis, and on the Place of Music in Worship: Papers Read at the
Joint British-Dutch Old Testament Conference Held at Woudschoten, 1982, Brill, Leiden 1984
(Oudtestamentische Studiën 23), 85-107; P. Siniscalco, Profezia e storia nei primi secoli cri-
stiani, in Id., Il senso della storia: studi sulla storiografia cristiana antica, Rubbettino, Sove-
ria Mannelli 2003 (Armarium 11) 315-330, qui 322.
55 Il testo oracolare è conservato presso Epifanio, Panarion 48,4,1. Su questo oracolo,

cfr. M. Dell’Isola, L’ultima profezia. La crisi montanista nel cristianesimo antico, Il pozzo di
Giacobbe, Trapani 2020 (Oi christianoi 30), 45-46.

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220 Le origini della cultura visuale cristiana

confronto con la cultura classica e pur senza menzionare gli esiti


estatici a cui la tradizione della “nuova profezia” si riferiva, lo stes-
so Clemente impiega questa immagine per significare la novità
apportata dal cristianesimo:
Colui che nacque da Davide e tuttavia era prima di lui, il Logos di
Dio, ha disprezzato la lira e l’arpa, strumenti senza vita. Per mezzo dello
Spirito Santo ‹egli, il Logos› ha accordato armoniosamente il cosmo
grande e anche il cosmo piccolo, l’uomo, il suo corpo e la sua anima insie-
me, e su questo strumento polifonico fa musica a Dio e canta con lo stru-
mento umano. «Poiché tu sei la mia arpa e il mio flauto e il mio tempio»:
«arpa» per l’armonia; «flauto» per lo Spirito; «tempio» per il Logos;
perché ‹il plettro la› suoni (krekē-i), perché ispiri, perché riceva il Signore56.
Si noti che nel brano riportato Clemente impiega il predicato krekō,
distintivo dell’azione del plettro sulle corde: pur senza menzionar-
lo, dunque, nel testo dell’Alessandrino ritorna anche quest’ultimo.
5. L’ancora è senza dubbio uno dei soggetti più frequentati dall’ico-
nografia cristiana delle origini, specialmente per ciò che riguarda
gli apparati figurativi del materiale epigrafico. Come ricorda Lau-
ra Gambassi: «Sulle numerose iscrizioni funerarie in cui compa-
re è […] frequentemente associata ai termini elpis/spes e, dalla fine
del II sec., anche all’immagine del pesce, abbinamento assimila-
to dal Kirsch57 all’acclamazione Spes in Christo, identificando
Cristo nel pesce, mentre studi più recenti identificano nei pesci i
fedeli stessi, leggendovi anche un […] riferimento eucaristico»58.
È impossibile non ricondurre questo primo impiego della simbo-
logia dell’ancora a quanto si legge in Eb 6,19-20, dove la speranza,
fondata su «promessa […] ‹e› giuramento» di YHWH (6,13-18), è
«ancora dell’anima, sicura e salda, che affonda fin nell’interno del
velo ‹del santuario›».

Clemente di Alessandria, Protrettico ai greci 1,6: la fonte della citazione interna di


56

Clemente non è stata riconosciuta. Sull’uso di questa immagine in Clemente, cfr. T. Hal-
ton, Clement’s Lyre. A Broken String, a New Song, in The second century 3 (1983) 177-199.
57 Cfr. J.-P. Kirsch, s.v. « Ancre », DACL 1,2, 1999-2031, qui 2000-2010.
58 L. Gambassi, s.v. « Ancora», in Bisconti (cur.), Temi, 105-106, qui 106; rinvio a que-

sta voce anche per una più ampia bibliografia.

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Il quadro cronologico 221

Figura 20: l’ancora, le palme, i pesci e le colombe. In-


taglio su calcedonio, British Museum, Londra. III se-
colo. La china è tratta da Kirsch, s.v. « Ancre », 2021,
figura 577. Questo piccolo intaglio, acquistato nel
1872 dal British Museum di Londra, raduna la mag-
gior parte dei simboli di cui Clemente aveva autorizza-
to l’impiego al principio del III secolo. Pare interessan-
te osservare come, pur nelle modeste dimensioni della
gemma (1,8 cm di altezza), le immagini qui raffigura-
te riescano a precisare il valore con cui esse, altrimenti
simboli polisemici, ricorrono su questo sigillo. L’anco-
ra è qui l’asse portante dell’intero gruppo e, dal punto
di vista dello sviluppo del significato, essa sembra as-
solvere la duplice funzione di indicare ciò che fonda
e rende salda la fede (cfr. Eb 6,19) e di dissimulare
l’immagine di una croce, salutata trionfalmente dalle palme e sulla quale le due
colombe, figure dell’anima, si sono posate fiduciose nella salvezza (cfr. anche
J. Spier, Late Antique and Early Christian Gems, Reichert, Wiesbaden 2007
[Spätantike-frühes Christentum-Byzanz, Studien und Perspektiven 20], 264).

6. La conclusiva menzione del pescatore59 è particolarmente rilevan-


te perché introduce un soggetto che, pur se già circolante nella
cultura visuale romana imperiale, recepito in ambito cristiano,
consentì la diretta evocazione di diversi luoghi biblici, sia proto- (si
pensi, per limitarsi a un solo esempio, al racconto favoloso della
pesca di Tb 6) sia neotestamentari (cfr. almeno Mc 1,17 || Mt 4,19
|| Lc 5,10; cfr. anche Mt 13,47-50; 17,24-27). È necessario d’altra
parte sottolineare come tale figura avesse ricevuto nella pagina
prototestamentaria anche una forte caratterizzazione apocalittica;
in Ger 16,16 si legge infatti della maledizione che YHWH pronun-
cia su Israele a sanzione della trasgressione dei padri e a punizione
di Israele, “peggiore dei propri avi”: «Ecco – dice YHWH – io man-
do molti pescatori ed essi li pescheranno e dopo manderò molti
cacciatori ed essi li cacceranno».

59 Per le difficoltà poste dal testo in ordine all’identificazione di questa scena, vedi su-

pra, le note 43-44 alle pp. 214-215.

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222 Le origini della cultura visuale cristiana

Figura 21: il pescatore pesca l’Ichthys. Intaglio su


cornalina, proveniente dalla collezione Vallarsi. La
datazione proposta è generalmente quella del III se-
colo. La china è ricavata dal logo del Franz-Joseph
Dölger-Institut, a sua volta tratto dal disegno di
Garr. 6, t. 477,18 (cfr. anche H. Leclercq, s.v. «Gem-
mes », DACL 6,1, 794-864, qui 821-822, figura
4960). Questo piccolo intaglio, di cui si sono pur-
troppo perdute le tracce, raffigura un pescatore che
sta traendo dall’acqua un pesce, già pronto a riporlo
nel suo cestino (per un parallelo di questa scena, si
osservino il c.d. “sarcofago di Giona” e quello del Ny
Carlsberg Glyptotek, che verranno trattati di segui-
to alle pagine 424-428, e il mosaico teodoriano del
presbiterio dell’Aula Sud di Aquileia, cfr. Pelizzari, Il Pastore ad Aquileia,
114-126). Ciò che connota questo sigillo è la “glossa” dell’Ichthys, capace di
riscattare la figura da qualsiasi ambiguità semantica. Non potendosi trattare
di un “pescatore di uomini”, poiché l’acrostico identifica il pesce pescato co-
me il «Figlio di Dio, salvatore», è necessario riconoscere in questa gemma la
sintetica anticipazione dell’ermeneutica che Ambrogio, Esposizione di Luca
4,72, proporrà là dove, nell’evocazione dell’unica menzione evangelica della
pesca a canna e del prodigio della moneta d’argento (cfr. Mt 17,24-27), rav-
viserà un’immagine della passione di Cristo.

---

Conclusivamente, si può affermare che il passo di Clemente fornisce


due tipi di informazione: un primo elenco di temi iconografici cristiani,
sì, ma anche la traccia di un processo di assimilazione dell’immagine che
non aveva certo preso avvio con questa pagina, ma che in essa semplice-
mente si riflesse.

c. Tertulliano, La pudicizia 7,1


Il passo di Tertulliano è tratto anch’esso da un’opera polemica, questa
volta indirizzata dall’autore africano alla comunità cartaginese, rea, a giu-
dizio di quest’ultimo, di avere tradito quella «stessa Chiesa ‹che› è propria-
mente e principalmente lo Spirito stesso (proprie et principaliter ipse est

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Il quadro cronologico 223

Spiritus)» 60. Non è rilevante in questa sede approfondire le ragioni e gli


sviluppi di questo dibattito – che si deve osservare, però, muoversi tra uno
spazio ideale perimetrato entro ortodossia e radicalismo –; è sufficiente
notare che quanto Tertulliano afferma circa le «figure ‹che ritornano› sui
vostri calici» non può in alcun modo essere correlato alla dialettica con la
gentilità o a presunte interferenze di quest’ultima nella vita delle Chiese.
Puoi iniziare con quelle parabole dov’è descritta la pecora smarrita, ricerca-
ta dal Signore e riportata sulle sue spalle. Si presentino le stesse figure ‹che ri-
tornano› sui vostri calici (ipsae picturae calicum vestrorum), se pure in esse riful-
ge l’interpretazione di quella pecora (si vel in illis perlucebit interpretatio pecudis
illius), sia che si applichi a un cristiano peccatore sia ‹che la si riferisca› a un
pagano in materia di redenzione 61.

Vorrei richiamare tre aspetti di questo passaggio che mi sembra possano


fornire le fondamentali coordinate dello spazio concesso al linguaggio fi-
gurativo nella tradizione cristiana dell’Africa romana. Per prima cosa si
deve osservare che la menzione della gentilità non è in alcun modo corre-
lata all’uso delle immagini, sebbene il caso citato da Tertulliano potesse,
per l’ampia diffusione del tema del Buon Pastore nelle culture visuali pro-
fane della Roma imperiale e del tardo ellenismo, prestarsi a un simile in-
cremento polemico. Tertulliano, al contrario, pur assegnando ai suoi av-
versari la proprietà dei calici figurati, non si sofferma sull’argomento, che
anzi è solo incidentalmente menzionato nel prosieguo della sua requisitoria.
Il secondo elemento, troppo spesso trascurato dalla critica, è la natu-
ra plausibilmente liturgica degli oggetti menzionati: Tertulliano, impe-
gnato ora in uno dei passaggi più tesi del suo trattato, sta evidentemente
richiamando degli oggetti che sa essere in possesso dei suoi interlocutori,
i cristiani della Chiesa cartaginese. Trovo assai difficile pensare che egli
potesse qui limitarsi a ipotizzare l’eventualità che alcuni dei suoi lettori

Tertulliano, La pudicizia 21,16; non si tratta di un mutamento d’avviso per il Carta-


60

ginese, ma soltanto di una radicalizzazione teologica del tutto coerente con il debito con-
tratto da Tertulliano con Ireneo di Lione (cfr. almeno Contro le eresie 3,24,1).
61 Tertulliano, La pudicizia 7,1; a questo brano ha dedicato specifica attenzione H.G.

Thümmel, Tertullians Hirtenbecher, die Goldgläser und die Frühgeschichte der christlichen
Bestattung, in Boreas 17 (1994) 257-265.

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224 Le origini della cultura visuale cristiana

disponessero di generiche coppe con raffigurazione del Buon Pastore: il


caso contrario, infatti, avrebbe reso questo passaggio disfunzionale al rit-
mo della sua argomentazione incalzante. Se quest’osservazione è perti-
nente, la notizia tertullianea non si limiterà a menzionare un tema figu-
rativo che i cristiani d’Africa sfruttavano abitualmente, ma ne fornirà
anche il contesto d’uso: la prassi cultuale. Come avviene nella polemica
ireneana, dunque, anche qui l’impiego delle immagini si colloca nello
spazio liturgico, al cuore dell’esperienza ecclesiale.
Infine, vi è l’aspetto che reputo più significativo di questo documen-
to. Tertulliano chiama in causa un’immagine, considerandola esclusiva-
mente in ragione del suo potenziale ermeneutico: «Se pure in essa rifulge
l’interpretazione di quella pecora (interpretatio pecudis illius)». Il Buon
Pastore sui calici della Chiesa cartaginese è dunque rilevante solo nella
misura in cui è «interpretatio», riflessione ermeneutica, non semplice il-
lustrazione («perlucebit »), della parabola neotestamentaria (Mt 18,12-14
|| Lc 15,3-7). Quest’ultima osservazione mi pare di estremo interesse,
perché concorre a disgregare quel modello critico che considera la docu-
mentazione qui esaminata come la prova di una prima stagione della
cultura visuale cristiana, di forte vocazione simbolica, alla quale sarebbe
dovuta succedere una pagina contraddistinta da un nuovo, qualificante
rapporto con i materiali scritturistici. Al contrario, mi sembra che questo
brano situi già l’uso della figura in uno spazio che, come si è visto sopra,
credo possa essere riconosciuto quale “storia dell’esegesi cristiana”, cioè
quale esercizio speculativo sul significato – non illustrazione dei raccon-
ti – di quegli scritti tramite i quali venne definita l’identità di questa
plurale, prima storia cristiana.

2. LA DOCUMENTAZIONE ARCHEOLOGICA.
LA R EGIONE DI LUCINA DELLA CATACOMBA DI CALLISTO:
IL CUBICOLO X-Y

Tra la fine del II secolo e gli inizi del III o, al più tardi, entro un arco
cronologico compreso tra l’episcopato di Callisto († 222) e la fine della

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Il quadro cronologico 225

dinastia dei Severi (235) 62, viene generalmente collocato l’allestimento


del cubicolo doppio X-Y nella Regione di Lucina della Catacomba di Cal-
listo 63. Si tratta di un documento “incipitario” come, con felice defini-
zione, Fabrizio Bisconti ha voluto denominare la «piccola nebulosa» del-
le più antiche tracce superstiti della visualità cristiana 64.
Non è questa la sede per una dettagliata descrizione formale di tutti i
motivi che illustrarono questi spazi né per una loro puntigliosa analisi
iconografica 65. Al contrario mi sembra più utile soffermare l’attenzione
su altri due elementi:

62 Sulla datazione di questo monumento il confronto è tuttora aperto e vivace. Un arco

cronologico più “prudente” – tra il terzo e il quarto decennio del III secolo –, non insisten-
do su una forbice particolarmente ampia, viene talora assunto preferenzialmente; nel disco-
starmene, a favore di una datazione più prossima allo scavo dei cubicoli, segnalo però an-
che l’inesorabile, progressivo abbassamento cronologico che, in tempi del tutto recenti, ha
fatto slittare la pittura di questi cubicoli dal primo al quarto decennio del III secolo. Riten-
go del tutto condivisibile quanto risolutivamente ha scritto L. Spera, Il paesaggio suburbano
di Roma dall’antichità al medioevo: il comprensorio tra le vie Latina e Ardeatina dalle Mura
Aureliane al III miglio, L’Erma di Bretschneider, Roma 1999 (Bibliotheca Archaeologica
27), 124: «Sono ottimi indicatori cronologici tutto l’apparato epigrafico e la decorazione di
alcuni vani, in particolare del cubicolo Y […], collocabile tra il 180 e il 220» (similmente
anche P.M. Barbini, Catalogo ragionato, di ipogei e catacombe romane [entro il VI miglio], in
P. Pergola, Le catacombe romane, Carocci, Roma 1997 [Quality Paperbacks 46], 107-243,
qui 199). Diversamente, esprime una tra le posizioni più “prudenti” F. Bisconti, Prime de-
corazioni nelle catacombe romane. Prove di laboratorio, invenzioni e remakes, in V. Fiocchi
Nicolai - J. Guyon [curr.], Origine delle catacombe romane. Atti della giornata tematica dei
Seminari di Archeologia Cristiana (Roma - 21 marzo 2005), PIAC, Città del Vaticano 2006
[Sussidi allo Studio delle Antichità Cristiane 18], 65-89, qui 65, che riconduce in toto il
«primo linguaggio figurativo cristiano, così come si affaccia allo scenario catacombale ro-
mano» alla «prima metà del secolo III», agli «anni Trenta del secolo» (segue Bisconti,
Dresken-Weiland, Immagine e parola, 297).
63 Questo cubicolo fa parte di una delle Regioni della Catacomba di Callisto che venne

scavata tra le prime – se non è la prima in assoluto – di tutto il complesso catacombale (insie-
me all’“Area I”; cfr. ora V. Fiocchi Nicolai - J. Guyon, Relire Styger: les origines de l’Area I du
cimetière de Calliste et la crypte des papes, in Iid. [curr.], Origine delle catacombe romane, 121-
161). Fu proprio per la spontaneità dello scavo e la conseguente confusione planimetrica, che
M.S. de Rossi, Analisi geologica ed architettonica del Cemetero di Callisto, in G.B. de Rossi, Il
cimetero di Callisto presso la Via Appia, Cromo-Litografia Pontificia, Roma 1867, con nuova
numerazione, qui 22, definì la Regione di Lucina un «inextricabilis error ».
64 F. Bisconti, Conclusioni, in Id. (cur.), Le pitture delle catacombe romane. Restauri e in-

terpretazioni, Tau, Todi 2011, 301-305, qui 301.


65 Per questa discussione, mi permetto di rinviare a quanto ho annotato in Pelizzari, Ve-

dere la Parola, 46-58; Id., «Vedere» la Parola: alle origini dell’ iconografia cristiana. Appunti

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226 Le origini della cultura visuale cristiana

1. la compattezza e la coerenza del progetto iconografico che queste


due camere sviluppano. Il dato è di decisiva importanza, perché
implica che, già a questa altezza cronologica, l’“arte cristiana”
fosse un “linguaggio sintattico”, non un semplice repertorio di
temi;
2. il fatto, poi, che il progetto iconografico di questi piccoli ambien-
ti è sviluppato in modo da sfruttare al meglio la sua interazione
con il volume e con l’alternanza degli spazi che la peculiare costi-
tuzione architettonica di questo cubicolo doppio rendeva disponi-
bile. Com’è ovvio, questo risultato non può essere considerato ca-
suale, ma è sintomo di una già acquisita dimestichezza con la
gestione dei codici figurativi.

Figura 22: l’area della galleria U, in prossimità del cubicolo doppio X-Y, Re-
gione di Lucina, Catacomba di Callisto, Roma (Nestori, Cal1-2). Fine II secolo
- inizi III. Pianta e spaccato longitudinale, ricavati da L. Reekmans, La tombe
du pape Corneille et sa région cémétériale, PIAC, Città del Vaticano 1964 (Roma
Sotterranea Cristiana 4), 52-53, figure 31-32. Le planimetrie riportate illustra-
no lo sviluppo delle due camere ipogee, scavate longitudinalmente all’incrocio
fra la galleria U e la galleria V, in posizione riscattata anche dalla scala numero
4. Quello che stiamo esaminando è dunque un cubicolo non realizzato tramite
il recupero di spazi di risulta, ma progettato da subito come ambiente rilevante,
forse in vista di sepolture destinate a personaggi di spicco (per estrazione socia-

per la riconsiderazione di una fonte documentaria, in Cristianesimo nella Storia 35 (2014) 715-
745, qui 723-740.

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Il quadro cronologico 227

le o per importanza nella comunità). Con questa ipotesi collimano sia l’appa-
rato iconografico che si dispiega in questi due locali sia lo sfondamento dei
pavimenti di entrambe le camere per creare altrettanti ambienti sepolcrali, in
evidente continuità d’uso, come spesso accade nella moltiplicazione delle sepol-
ture presso le tombe dei martiri.

L’apparato visuale della camera X presenta una serie di figure a carat-


tere prevalentemente decorativo 66: qui l’unica immagine univocamente
cristiana, sovrastante il passaggio alla camera Y, raffigura il battesimo di
Gesù nel fiume Giordano. Che si tratti specificamente dell’episodio
neotestamentario (e non di una generica scena battesimale) lo provano
i dettagli figurativi della colomba e dell’abbigliamento del Battista,
per quanto se ne può riconoscere. Quella della Regione di Lucina è
la più antica raffigurazione del battesimo di Gesù – e, benché i due te-
mi non siano del tutto coincidenti, di un battesimo cristiano 67 – perve-
nutaci.

Figura 23: il battesimo di Gesù al


Giordano. Pittura su intonaco, camera
X, cubicolo doppio X-Y, Regione di
Lucina, Catacomba di Callisto, Roma
(Nestori, Cal1). Inizi III secolo. La chi-
na è tratta da Pelizzari, Vedere la Paro-
la, 52, figura 10 (cfr. Wp. 03, t. 29,1;
cfr. anche R.M. Jensen, Living Water.
Images, Symbols, and Settings of Early
Christian Baptism, Brill, Leiden - Bo-
ston [MA] 2011 [Supplements to Vi-
giliae Christianae 105], 13). Questo

66 Nestori, Cal1, elenca questi soggetti: sulla volta, distrutta per la maggior parte, un

«personaggio maschile, uccelli in volo, fiori stilizzati» (cfr. Wp. 03, t. 24,1); sulla parete di
ingresso, a destra, «colombe affrontate a un cespo»; sulla parete di sinistra, un «vaso con
fiori»; sulla parete di fondo, altri «vas‹i› con fiori» e un «personaggio del quale rimane dal-
la cintola in giù» (su questa parete, sopra l’ingresso alla camera Y, si trova la scena del bat-
tesimo di Cristo); sulla parete di destra, «motivo ornamentale, uccello alla pastura ».
67 Sulla non sovrapponibilità tra battesimo di Gesù e battesimo cristiano, mi limito a

rinviare alle osservazioni di G. Barth, Il battesimo in epoca protocristiana, Paideia, Brescia


1987 (Studi Biblici 79), 21-45.

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228 Le origini della cultura visuale cristiana

piccolo pannello dipinto restituisce la più antica raffigurazione biblica neote-


stamentaria pervenutaci. La scena che qui è stata realizzata non coincide esat-
tamente con alcuno dei racconti evangelici del battesimo (Mc 1,9-11 || Mt 3,13-17;
cfr. anche Lc 3,21-22; Gv 1,29-34): mai, infatti, si afferma che il Battista abbia
aiutato Gesù a uscire dal fiume Giordano. D’altra parte il dettaglio su cui si
sofferma la pittura – la fuoriuscita dall’acqua del Giordano – è rilevante, giacchè
per Marco e Matteo (cfr. Mc 1,10 || Mt 3,16) esso coincide con l’epifania divi-
na della colomba e della «voce dal cielo». È plausibile affermare che la forzatu-
ra del dettato neotestamentario messa in atto da questo pannello sia volta pro-
prio a richiamare con precisione tale momento – la manifestazione dello
Spirito e la proclamazione di Gesù quale «figlio prediletto» –, poiché in esso
vennero precocemente riconosciuti «gli elementi distintivi del battesimo della
Chiesa: l’acqua “per la remissione dei peccati”, lo Spirito e il riconoscimento
della figliolanza nel momento in cui si segue Dio» (G. Kretschmar, Die Ge-
schichte des Taufgottesdienstes in der alten Kirche, Stauda, Kassel 1970, 16; cfr.
anche Barth, Il battesimo in epoca protocristiana, 21-28; P.-R. Tragan, Le origini
del battesimo cristiano: problemi e prospettive, in Id. [cur.], Alle origini del batte-
simo cristiano. Radici del battesimo e suo significato nelle comunità apostoliche.
Atti dell’VIII Convegno di Teologia Sacramentaria. Roma, 9-11 marzo 1989,
Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma 1991 [Studia Anselmiana 106 - Sacramen-
tum 10], 9-42, qui 18-19). Questa figura si dischiude su due “dimensioni” del
racconto sinottico del battesimo: quella descrittiva dell’episodio biografico di
Gesù e quella paradigmatica, che rinvia al battesimo impartito dalle Chiese.
Ancora una volta, l’immagine cristiana impiega i testi biblici, non li raffigura.

Molto più ricco e marcatamente cristiano è invece l’impianto icono-


grafico della camera Y, a partire dalla volta, anch’essa realizzata a schema
circolare, dove si trovano «teste ornamentali, geni, uccelli in volo, fiori» 68
disposti attorno a due raffigurazioni del Buon Pastore e due oranti fem-
minili, a loro volta attorno alla figura di Daniele tra i leoni 69:

Nestori, Cal2.
68

Per l’iconografia della volta della camera Y, cfr. Wp. 03, t. 25; Pelizzari, Vedere la Pa-
69

rola, 56, figura 13. Molta bibliografia è stata dedicata al tema di Daniele nella fossa dei leo-
ni, a partire da G. Wacker, Ikonographishe Untersuchungen zur Darstellung Daniels in der
Löwengrube, Ph.D. Diss., Marburg a.a. 1954-1955; cfr. anche Salomonson, Voluptatem
spectandi, 55-90; C. Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”. The Recep-
tion of Daniel “Tales” in Early Christianity (II-IV Century), Ph.D. Diss., Milano a.a. 2014-
2015. Si noti la valenza ecclesiologica di questa tipologia, chiaramente imperniata sull’espo-
sizione ad bestias di molti martiri: cfr. A. Carfora, I cristiani al leone. I martiri cristiani nel
contesto mediatico dei giochi gladiatori, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2009 (Oi christianoi

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Il quadro cronologico 229

Daniele “rinasce” dal “lacus dei leoni”, come il cristiano rinasce dal batte-
simo o, meglio ancora, come il martire cristiano rinasce dal suo secondo batte-
simo “di sangue”. Così, attraverso un semplice intervento iconografico, il tema
di Daniele si distacca […] dal contesto storico del Primo Testamento, per esse-
re interpretato, su base puramente simbolica, nello spirito del Nuovo Testamen-
to – come esempio di “sacrificio” e “liberazione” 70.

Del resto, il progetto iconografico che qui aggrega Daniele salvo tra i
leoni (cfr. Dn 6,17-24; 14Vulgata [= Bel e il DragoLXX],31-42), il Buon Pasto-
re e gli oranti codifica nel complesso una densa ermeneutica. Nella figura
del profeta, infatti, si intersecavano tanto la tipologia cristologica quanto
quella martirologica, ambiti questi ultimi che, a loro volta, erano già sta-
ti fatti coincidere sul piano della teologia sacrificale. L’equazione tra Cristo
e martire era infatti già stata sperimentata da Ap 7,13-15, proprio facendo
leva sull’unico sangue effuso: «Uno tra gli anziani mi disse: “Questi, av-
volti in bianche stole, chi sono e da dove vengono?”. E io gli dissi: “Mio
signore, tu sai”. E mi disse: “Questi sono coloro che provengono dalla
grande tribolazione e che hanno mondato le loro stole e le hanno rese can-
dide nel sangue dell’agnello. Per questo stanno di fronte al trono di Dio
[…] e colui che sta assiso […] porrà la tenda su di loro”». L’alternanza tra
effigi del Buon Pastore e figure di oranti rende con efficacia questo dupli-
ce piano ermeneutico – cristologico e martiriale –: Daniele è qui profezia
tanto del Buon Pastore immolato quanto del suo gregge martire.
Anche il sistema delle decorazioni che viene distribuito lungo le pare-
ti rivela una grande coerenza progettuale: sulla parete d’ingresso stanno
personaggi virili e scene pastorali (pecore, uccellini e vasi); sulle pareti
laterali stanno figure di pesci e il riposo di Giona; sulla parete di fondo
si trovano i celebri “pesci eucaristici”, di cui si dirà fra poco71.

10); Pelizzari, «Vedere» la Parola: alle origini dell’ iconografia cristiana, 730-740. Cfr. anche
Jensen, Understanding Early Christian Art, 27.
70 Salomonson, Voluptatem spectandi, 71.
71 Per Giona, vedi infra, pp. 496-501; per i “pesci eucaristici”, vedi infra, pp. 231-233.

Per le pecore e il vaso di latte, vedi infra, pp. 248-253. Cfr., per l’elenco delle pitture di que-
sta camera, Nestori, Cal2. Per la parete di ingresso, cfr. anche Wp. 03, t. 24,2; per la pare-
te di destra, cfr. Wp. 03, t. 26,1; per la parete di fondo, cfr. Wp. 03, t. 27,1.

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230 Le origini della cultura visuale cristiana

Figura 24: il cubicolo doppio X-Y: dislocazione delle pitture. Lo schema è rica-
vato disponendo sulla planimetria di Reekmans, La tombe du pape Corneille, 52,
figura 31, i dati catalogati in Nestori, Cal1-2. Lo schema appena proposto permet-
te di apprezzare la congruità della dislocazione dei materiali figurativi di questo
cubicolo nello spazio architettonico delle due camere che lo compongono. Come
si sottolineava al principio della descrizione di questi ambienti ipogei, uno degli
elementi che più colpisce del loro progetto iconografico è l’efficacia con cui esso
interagisce con lo spazio volumetrico in cui è inserito. Si pensi all’osservatore,
“costretto” dalla conformazione di queste camere e dalla dislocazione delle figu-
re a percorrere una sorta di breve “tragitto” in queste stanze72. Appena entrato nel
cubicolo (camera X), il visitatore non vedrà che motivi paradisiaci (i numerosis-
simi fiori) e simbologie già efficacemente impiegate dall’iconografia classica per
alludere all’anima (le diverse colombe), finalmente libera di pasturare gioiosamen-
te; sulla volta, forse, un’effigie del Buon Pastore73 avrebbe iterato questa sintesi
del “giardino” (paradeisos in greco). Per accedere al secondo ambiente gli sarà ri-
chiesto di “passare attraverso” il battesimo di Cristo, dipinto sovrastante il pas-
saggio alla camera Y. Una volta entrato – giunto sotto l’effigie di Daniele nella

Vedi infra, pp. 232-233.


72

Non stupirebbe; così accade sei volte nella Catacomba di Callisto (su 15 volte deco-
73

rate e leggibili [di tre di queste, però, si conservano solo marginali frammenti]): in Nesto-
ri, Cal3-4; 14; 21-23.

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Il quadro cronologico 231

fossa dei leoni, solenne tipologia della Chiesa martire –, egli osserverà finalmen-
te Giona che si riposa, tipologia della glorificazione pasquale del Cristo (vedi infra,
pp. 496-501), l’Ichthys, le pecore e il vaso del latte munto (cfr. Wp. 03, t. 24,2;
l’immagine della mungitura delle pecore è impiegata anche da Passione di Perpe-
tua e Felicita 4,8-9 come visione del paradiso) e, infine, i celebri “pesci eucaristi-
ci” (cfr. Wp. 03, t. 28,1-2). Il percorso tracciato dall’iconografia dalle camere X e
Y della Regione di Lucina riassumeva e dispiegava, dunque, l’itinerario «dell’e-
sperienza cristiana; se il battesimo era sphragis, il martirio diveniva taxis ineludi-
bile per accedere al Regno». D’altra parte, «Va anche sottolineato il fatto che
queste coordinate – battesimo, eucaristia, martirio, Regno – vengono enfatizzate
proprio dal fatto di essere espresse entro il contesto catacombale: quanto di reto-
rico esse recano, infatti, cade nella misura in cui il loro discorso è “consacrato” da
quello spazio prima di tutto reliquario e, quindi, cultuale in cui esso trova formu-
lazione» (Pelizzari, «Vedere» la Parola: alle origini dell’ iconografia cristiana, 730).
In queste camere, insomma, la disposizione delle figure non è prodotto casuale o
irrilevante per la comprensione delle immagini; al contrario è esso stesso “fattore
semantico”, padroneggiato con maestria.

Come si è osservato, l’iconografia dispiegata in queste due camere arti-


cola un progetto iconografico il cui culmine è riconoscibile nei due celebri
“pesci eucaristici” 74 della parete di fondo della camera Y, dipinti in asse sia
con l’ingresso al cubicolo sia con il passaggio dalla camera X alla successiva.

Figura 25: il “pesci eucaristici”. Pittura su intonaco, camera Y, cubicolo doppio


X-Y, Regione di Lucina, Catacomba di Callisto, Roma (Nestori, Cal1). Inizi III
secolo. Le immagini sono tratte da Wp. 03, tt. 28,1-2. Questi celebri dipinti
occupano un posto speciale nella storia della cultura visuale cristiana: oltre a
essere –a buon diritto! – tra le figure più citate nei manuali, sono anche quelle

74 Solo Styger, Die altchristliche Grabeskunst, 45-50 e nota 61, ritenne questo gruppo una

«natura morta », in evidente de-semantizzazione della figura.

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232 Le origini della cultura visuale cristiana

che per prime permettono di attestare la peculiare attitudine dei cristiani alla
gestione del rapporto tra documento testuale e documento iconico. Com’è evi-
dente, il prototipo immediato di queste figure è dato dai due racconti di mol-
tiplicazione dei pani e dei pesci (il primo: Mc 6,30-44 || Mt 14,13-21 || Lc 9,10-
17 || Gv 6,1-13; il secondo Mc 8,1-9 || Mt 15,32-39; sull’impiego di questi
materiali nella genesi del tema iconografico della moltiplicazione dei pani, cfr.
anche J. Wybo, Du texte à l’ image. Vers une proposition visuelle du récit de la
multiplication des pains (Mc 6,36-44), in Lumen Vitae 35 [1980] 387-464). D’al-
tra parte, ancora una volta, l’immagine cristiana non si limita a illustrare un
passo del testo biblico – in questo caso raffigurandone l’elemento saliente degli
alimenti moltiplicati –, ma lo interpreta, per precisare di volta in volta il signi-
ficato con cui lo richiama. Come si è visto, l’esegesi cristiana delle origini, sia
orientale sia occidentale, programmaticamente moltiplicò i piani semantici del
testo biblico, elaborando, di conseguenza, per le stesse pericopi bibliche solu-
zioni ermeneutiche quanto più difformi tra loro (un fenomeno, questo, che, nel
caso del racconto della moltiplicazione dei pani, opera già in fase redazionale
dei Vangeli, da Marco in poi; cfr. ora almeno J.-M. Van Cangh, Le thème des
poissons dans les récits évangéliques de la multiplication des pains, in Revue Bibli-
que 78 [1971] 71-83; R.D. Aus, Feeding the Five Thousand. Studies in the Judaic
Background of Mark 6:30-44 par. and John 6:1-5, University Press of America,
Lanham [MD] et alibi 2010 [Studies in Judaism]; P. Auffret - C. Berton, Les
deux multiplications des pains dans l’ évangile de Marc. Etude structurelle, in Ri-
vista Biblica 66 [2018] 373-390). Richiamare un brano scritturistico, dunque,
equivaleva a evocare una gamma di significati: per questo motivo, esattamente
come avveniva nell’esegesi letteraria, anche le prime immagini cristiane dovet-
tero affrontare il problema di spiegare di volta in volta in quale accezione im-
piegavano ciascun episodio biblico. Anche nelle pitture che ora si stanno esa-
minando l’inclusione del tassello rosso al centro delle due ceste (nella
restituzione in bianco e nero questo elemento si identifica più facilmente nel
“pesce eucaristico” di sinistra, ma si ritrova anche nell’altro) precisa puntual-
mente sia la fonte di queste pitture sia il significato sacramentale (eucaristico)
di questa menzione figurativa. È, infatti, solo nella duplice spiegazione di Gv
6,22-59 che per due volte (6,35.53) si menziona, accanto al nutrimento, anche
la bevanda. Dunque l’accezione eucaristica della citazione dell’episodio della
moltiplicazione dei pani e dei pesci nella camera Y di questo cubicolo viene
puntualizzata precisandone la matrice giovannea. Nel complesso, poi, la scelta
di questa ermeneutica si inserisce perfettamente nel progetto iconografico svi-
luppato lungo queste antichissime celle ipogee, del quale anzi essa amplifica
efficacemente il senso complessivo. Per il cristiano avere accesso, dopo il batte-
simo, alla partecipazione alla cena significa sia esser parte della Chiesa martire
sia pregustare la salvezza (cfr. almeno 1Cor 11,23-26; Mc 14,25 ecc.).

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Il quadro cronologico 233

La complessità e la compattezza contenutistiche del progetto icono-


grafico del cubicolo doppio X-Y e la sua acutezza nel gestire l’interazione
tra immagini e spazi architettonici sconsigliano di riconoscere in queste
antiche immagini le prime cristiane: sembrano al contrario prodotti già
maturi, che tradiscono cioè una buona dimestichezza con il medium fi-
gurativo. Più che “primi esperimenti”, queste immagini testimoniano
dunque una stagione già inaugurata da tempo.

---

I dati sin qui raccolti, negativamente e positivamente, da fonti testua-


li e visuali, suggeriscono concordemente di datare al più tardi entro gli
anni ’40 del II secolo i primi esperimenti iconici cristiani 75. Alla fine del
II secolo, infatti, i cristiani avevano già sviluppato una caratteristica e
articolata cultura visuale – come si è visto: un immaginario «già perfet-
tamente codificato»76 –, non caratterizzata per lo stile ma definita dalle
modalità – ermeneutiche – di impiego della figura.
Guidano a questa conclusione le fonti, convergendo tra loro in due
modi. Il primo, probabilmente più vistoso, osserva la coerenza “tematica”:
i brani escussi – Celso, Clemente e Tertulliano prioritariamente – evoca-
no simboli e soggetti che si ritrovano puntualmente nella più antica do-
cumentazione visuale pervenutaci. D’altra parte le affinità non si limitano
a questo piano: anche gli abbinamenti tra i diversi temi coincidono negli
elenchi dei testi e nella più antica iconografia cristiana 77. In particolare,

75 Per un’ipotesi di datazione affine, benché argomentata su basi di probabilità, cfr. Sny-

der, Ante pacem, 2.


76 Pergola, Le catacombe romane, 70. Vedi supra, pp. 185-188.
77 Proprio il fatto che la documentazione raccolta offra, già per il II secolo, la possibili-

tà di riconoscere programmi iconografici complessi mi induce a riconsiderare l’opportuni-


tà di vincolare univocamente la testimonianza del Pedagogo a «un linguaggio estremamen-
te sintetico, fatto di segni criptici […], suscettibili di scioglimenti semantici diversi e di
cumuli significativi complessi e stratificati» (Bisconti, Introduzione, 3), da intendersi come
premessa a un secondo momento, a partire dal III secolo, che vedrà l’iconografia cristiana
iniziare a dotarsi di immagini “narrative”. Secondo questa ipotesi, una prima fase, coinci-
dente con la fine del II secolo, sarebbe stata caratterizzata dalla prima circolazione di alcu-

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234 Le origini della cultura visuale cristiana

l’accostamento delle due tipologie bibliche che Celso presenta, caratteriz-


za da subito numerosi documenti visuali cristiani tra i più antichi 78.

3. UN PARALLELO CONTESTUALE.
LA PIÙ ANTICA DOCUMENTAZIONE DELLA STORIA CRISTIANA
Il quadro emerso nelle pagine precedenti può essere riassunto in que-
sti termini: la documentazione escussa suggerisce di situare entro il primo
terzo del II secolo i primi esperimenti visuali cristiani mentre resta salda
tra la fine del II e gli inizi del III secolo la datazione dei più antichi re-
perti pervenutici.
Le implicazioni di questa cronologia più risalente credo possano esse-
re colte più efficacemente prestando brevemente attenzione alla datazio-
ne attribuita ai più antichi reperti materiali della storia cristiana: i papiri
neotestamentari. Va premesso che la critica dibatte fortemente rispetto
alla cronologia di questi manoscritti e spesso la forbice proposta dagli
studiosi non è inferiore al secolo di ampiezza (si limita ai venticinque an-
ni per i casi più definiti). I papiri del Nuovo Testamento datati entro la
fine del II secolo o agli inizi del III sono molto pochi; il maggior consen-
so della critica converge sui seguenti:
1. 𝔓52 (Rylands Greek P 457), conservato presso la John Rylands
University Library di Manchester: un tempo abitualmente collo-

ni simboli generici, per lo più mutuati dalla gentilità, generalmente in contesto privato, so-
prattutto nei quadranti più ellenizzati delle Chiese; con il III secolo, poi, con il “dilagare”
dell’immagine nelle comunità cristiane, iniziarono a circolare anche immagini bibliche più
complesse. La testimonianza di Celso impedisce di abbracciare questa prospettiva ermeneu-
tica univocamente o troppo rigidamente.
78 Alcune fonti, benché solo esemplificative, sono state esaminate in Pelizzari, Vedere la

Parola, 33-46; il catalogo di Ferrario, Il riposo di Giona, entro la fine del III secolo ne elenca
già sedici; vedi comunque supra, nota 21 a p. 207. Otranto, Alle origini dell’arte cristiana, 442-
445, ha sottolineato possibili intersezioni della prima cultura visuale cristiana con Eb 11 e, an-
cor più significativamente per l’origine romana di questo secondo scritto, con la c.d. Prima
lettera di Clemente. Le coincidenze persuasivamente presentate dall’autore non vengono dis-
sipate nel tentativo di ri-discutere, su quella base, la cronologia della prima cultura visuale cri-
stiana (datata agli «inizi del III secolo»: ivi, 438), ma sono acutamente lette per documentare
«l’utilizzazione dell’Antico Testamento da parte della comunità romana » (ivi, 445).

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Il quadro cronologico 235

cato ai primi decenni del II secolo, di recente ha visto la stessa pos-


sibilità di una sua datazione puntuale essere posta radicalmente in
discussione79 oppure ne è stata posticipata l’apertura della forbice
cronologica sino agli esordi del III secolo 80;
2. 𝔓75 (Bodmer XIV-XV), custodito presso la biblioteca Apostolica
Vaticana: viene abitualmente datato tra la fine del II secolo e gli
inizi del III (tra il 200 e il 225, secondo il database dell’Institut für
Neutestamentliche Textforschung di Monaco); alcuni studiosi si
spingono addirittura agli esordi del IV secolo 81;
3. 𝔓77+103 (P. Oxy. 2683 e 4405 + P. Oxy. 4403), entrambi presso la
Sackler Library di Oxford: provengono probabilmente dallo stesso
codice che è datato tra l’ultimo quarto del II secolo e la prima metà
del III;
4. 𝔓90 (P. Oxy 3523), anch’esso presso la Sackler Library: è fatto ri-
salire al tardo II secolo 82 o agli inizi del III;
5. 𝔓98 (P. IFAO inv. 237b [+a]), ora presso l’Institut Français d’Ar-
chéologie Orientale del Cairo: è solitamente collocato al finire del
II secolo;

79 Cfr. B. Nongbri, The Use and Abuse of P52: Papyrological Pitfalls in the Dating of the

Fourth Gospel, in Harvard Theological Review 98 (2005) 23-48, che, basandosi sui soli mar-
catori paleografici della tassonomia delle lettere, reputa sia possibile spingersi dalla fine del
II sino agli inizi del III secolo.
80 Così D. Baker, The Dating of New Testament Papyri, in New Testament Studies 57 (2011)

571-582, qui 575, che si basa su G. Cavallo, Funzione e strutture della maiuscola greca tra i secoli
VIII-IX, in J. Glénisson - J. Bompaire - J. Irigoin (éds.), La Paléographie grecque et byzantine. Pa-
ris 21-25 octobre 1974, C.N.R.S., Paris 1977 (Colloques Internationaux du Centre National de
la Recherche Scientifique 559), 91-110. Più alta (tra 125 e 175) è la datazione proposta da P. Or-
sini - W. Clarysse, Early New Testament Manuscripts and Their Dates; A Critique of Theological
Palaeography, in Ephemerides Theologicae Lovanienses 88 (2012) 443-474, qui 470.
81 Cfr. B. Nongbri, Reconsidering the Place of Papyrus Bodmer xiv-xv (P75) in the Tex-

tual Criticism of the New Testament, in Journal of Biblical Literature 135 (2016) 405-437; Id.
- D.B. Sharp, Four Newly Identified Fragments of P.Bodmer 14-15 (P75), in Novum Testa-
mentum 62 (2020) 99-106; cfr. anche P. Orsini, I papiri Bodmer: scritture e libri, in Ada-
mantius 21 (2015) 60-78.
82 Cfr. P. Rodgers, The Text of the New Testament and Its Witnesses Before 200 A.D.: Ob-

servations on P90 (P.Oxy. 3523), in C.-B. Amphoux (ed.), The New Testament Text in Early
Christianity: Proceedings of the Lille Colloquium, July 2000, Zèbre, Lausanne 2003 (Histoire
du texte biblique 6), 83-91.

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236 Le origini della cultura visuale cristiana

6. 𝔓104 (P. Oxy. 4404), ancora della Sackler Library: abitualmente


datato al tardo II secolo, alcuni hanno ipotizzato possa trattarsi
di un esemplare molto più risalente 83, con una datazione sovrap-
ponibile a quella del 𝔓52, e quindi aperta tra inizi II e primi anni
del III secolo;
7. 𝔓137 (P. Oxy. 5345), anche quest’ultimo conservato presso la Sack-
ler Library: datato tra la fine del II secolo e gli inizi del III secolo.
Come si può osservare dall’elenco sintetico appena proposto, escluden-
do forse il 𝔓52 e il 𝔓104, i più antichi manoscritti cristiani pervenutici – i più
antichi oggetti cristiani in assoluto – sono di datazione sostanzialmente so-
vrapponibile alla forbice cronologica entro la quale gli archeologi situano
le più antiche iconografie cristiane superstiti (fine II - inizi III secolo). Dun-
que è possibile affermare che, dal punto di vista delle evidenze documen-
tarie in nostro possesso, le più antiche “opere d’arte” e i più antichi mano-
scritti cristiani risalgono alla stessa epoca 84. Tuttavia, dal punto di vista
critico, si assiste a una antitesi radicale. Infatti, mentre la costellazione dei
cristianesimi antichi è sempre stata considerata una “cultura del testo”, né
giustamente la datazione dei più antichi manoscritti cristiani è mai stata
fatta coincidere con quella dei testi che essi recano (di questi scritti i ma-
noscritti determinano solo il terminus ad quem), per le immagini è valso in
un certo senso il presupposto speculare. La datazione dei più antichi reper-
ti archeologici cristiani superstiti è stata assunta per datare la nascita di
un’iconografia cristiana tout court (in questo caso, i più antichi documenti
visuali sono stati terminus post quem dell’“arte cristiana”) e, in sovrappiù,
quest’ultima, giudicata niente più di una tardiva adulterazione del cristia-

Cfr. Orsini - Clarysse, Early New Testament Manuscripts.


83

Sulla “permeabilità” del confine tra manoscritto e “cultura visuale” nella prima pro-
84

duzione documentaria cristiana si è recentemente espresso L.W. Hurtado, The Earliest Evi-
dence of an Emerging Christian Material and Visual Culture. The Codex, the Nomina Sacra
and the Staurogram, in S.G. Wilson - M. Desjardins (eds.), Text and Artifact in the Religions
of Mediterranean Antiquity. Essays in Honour of Peter Richardson, Wilfrid Laurier Universi-
ty Press, Waterloo 2000 (Studies in Christianity and Judaism 9), 271-288; L.W. Hurtado,
The Earliest Christian Artifacts: Manuscripts and Christian Origins, Eerdmans, Grand Ra-
pids (MI) - Cambridge 2006.

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Il quadro cronologico 237

nesimo delle origini, viene studiata come un parametro per definire l’elle-
nizzazione dei movimenti che professavano Gesù quale Cristo.
Insomma, circostanze analoghe hanno determinato giudizi critici an-
titetici. Volendo assumere il quadro critico relativo alla diffusione di una
cultura letteraria cristiana come un esercizio analitico più felice di quello
che si è dedicato alla prima “arte cristiana”, forse quest’ultima suggestio-
ne può servire per ridiscutere alcuni dei parametri ai quali la ricerca sem-
bra talora non voler prestare adeguata attenzione.

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II.

IL CONTESTO STORICO-ECCLESIALE
ED ECCLESIOLOGICO

Se dell’analisi proposta nel capitolo precedente si possono assumere


gli esiti, le prime sperimentazioni visuali cristiane andranno ricondotte
agli anni ’30 o ’40 del II secolo. Sono anni fondamentali dai punti di vi-
sta storico-artistico e della storia della cultura visuale: in essi giunse a
maturazione l’eredità di alcuni monumenti-simbolo quali la maestosa
Colonna Traiana (113), la sontuosa Villa Adriana di Tivoli (123) o il ci-
clopico Tempio, pure adrianeo, di Venere Felice e Roma Eterna (135)1.
Quegli anni, però, furono anche anni decisivi nella storia delle origi-
ni cristiane per molteplici ragioni. Scopo delle prossime pagine è tentare
di integrare l’ipotesi di datazione che qui è stata proposta per la nascita
di una cultura visuale cristiana entro quello specifico quadrante della
storia delle antiche Chiese.

1. LA STAGIONE DELL’APOLOGETICA CRISTIANA:


UN’EPOCA DI ELLENIZZAZIONE?

La coordinata forse più vistosa di questi primi decenni del II secolo


cristiano è che essi diedero avvio a quella letteratura, abitualmente defi-

1 Sono tre opere a cui la critica da sempre attribuisce un decisivo valore storico-culturale:

essi determinarono infatti un profondo rinnovamento storico-artistico tout court, ma anche


della visualità antica. In quest’epoca nuova si colloca anche la nascita di una cultura visuale
cristiana. Per la Colonna di Traiano, sono fondamentali le pagine, recentemente riedite, di R.
Bianchi Bandinelli, Il maestro delle imprese di Traiano, Electa, Milano 2003 (ed. or. Firenze
1941); per la Villa di Adriano, cfr. W.L. MacDonald - L.A. Pinto, Hadrian’s Villa and Its
Legacy, Yale University Press, New Haven (CT) - London 1995; per il Tempio di Venus Felix
e Roma Æterna, cfr. A. Barattolo, Il tempio di Venere e Roma, un tempio “greco” nell’Urbe, in
Römische Mitteilungen 85 (1978) 397-410; A. Russo - M. Almonte - I. Arletti (curr.), Il tempio
di Venere e Roma, Electa, Milano 2022.

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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 239

nita “apologetica”, che non di rado viene riguardata come il sintomo più
evidente dell’inizio di un processo di ellenizzazione del cristianesimo
delle origini. Si tratta per quest’ultimo, come noto, di un pregiudizio sto-
riografico che, pur se ormai contestato nelle sue “linee di principio” 2,
di fatto è ancor oggi largamente operante nella ricerca. Esso considera
l’apertura cristiana, sempre più evidente, alle forme del pensiero elleni-
stico – ben presenti nella letteratura apologetica – come equivalente
all’abbandono dei caratteri originari della predicazione gesuana e della
missione post-pasquale dei suoi Apostoli. Un movimento giudaico, sna-
turato dalla sua aspirazione universalistica e sradicato per effetto di un’e-
spansione (troppo) veloce e fortunata, si sarebbe trasformato – questa è
la tesi – in un fenomeno interamente ellenizzato. Se, dal punto di vista
degli aspetti obiettivi della prima storia cristiana, questa descrizione co-
glie, almeno in parte, alcune vistose caratteristiche di sviluppo del feno-
meno, per quel che concerne la sua struttura interpretativa, essa presenta
il grave limite di voler stabilire l’antitesi tra il movimento giudaico, pri-
migenio e autentico, e il fenomeno ellenizzato, tardivo e contaminato.
Come ha giustamente sottolineato la critica più avveduta, però, già la
natura apocalittica della predicazione gesuana non poteva che implicare
una dimensione “cattolica”, universale, né l’intenzione di voler diffonde-
re il Vangelo lungo le traiettorie della diaspora ellenizzata – quindi in
un’ottica di massima ampiezza 3 – o anche solo la scelta immediata di

A partire da G.W. Bowersock, L’ellenismo nel mondo tardoantico, Laterza, Roma - Ba-
2

ri 1992 (Quadrante 55), 4, che di fatto propose di abbandonare globalmente (non solo in
relazione al cristianesimo) la categoria stessa di “ellenizzazione”. Cfr. anche G. Essen, Hel-
lenisierung des Christentums? Zur Problematik und Überwindung einer polarisierenden Deu-
tungsfigur, in Theologie und Philosophie 87 (2012) 1-17; un bilancio dell’intero dibattito, a
cui queste pagine sono in larga misura debitrici, è stato proposto da C. Markschies, L’elle-
nizzazione del cristianesimo. Senso e non senso di una categoria storica, Paideia, Brescia 2022
(Studi biblici 204).
3 Emblematica di questa precoce tendenza è la storia redazionale di At 2,1-13. Non è que-

sta la sede per affrontare nel dettaglio la questione circa l’originalità, o meno, di At 2,6b-11
(il catalogo delle nazioni presenti a Gerusalemme) nel racconto della Pentecoste: G. Schnei-
der, Gli Atti degli Apostoli, 1, Paideia, Brescia 1985 (Commentario Teologico del Nuovo Te-
stamento 5,1), 337-340, propose convincentemente di considerare il racconto originale di Atti
in linea con il concetto paolino di glossolalia, un “parlare in lingue” bisognoso di interprete

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240 Le origini della cultura visuale cristiana

una scrittura in greco possono essere considerate come novità eterogenee


al profilo dell’originale annuncio del kerygma o come caratteri estranei
alle aspettative dei primi predicatori di Gesù, il Cristo 4.
È ovvio che la discussione del Vangelo entro un dibattito di tipo filo-
sofico – caratterizzato, quindi, da un’aspettativa sistematica e da un soli-
do impianto argomentativo dialettico – determinò per molti versi l’ab-
bandono dell’annuncio profetico per teologumeni, tipico delle culture
giudaiche del secondo tempio, e, più in generale, la dismissione dell’im-
pianto narrativo e poetico che era proprio della tradizione biblica. Non
si può, in altri termini, assumere un discorso sulle forme della predicazio-
ne cristiana come se fosse privo di conseguenze anche sul piano dei suoi
contenuti. Ciò posto, però, è ben difficile considerare questa acquisizione
di forme obiettivamente nuove come una “contaminazione”; si trattò in-
vece di una “trasformazione”, i cui principi seminali erano in parte già
presupposti dalla predicazione di Gesù e dei primi missionari, da quel
Pietro che giunse a Corinto (cfr. 1Cor 1,12) sino ovviamente all’«aposto-
lo delle genti», Paolo5 (Gal 2,8; Rm 11,13).

(cfr. 1Cor 14,27) – il che spiegherebbe anche il sospetto che i Dodici fossero «ubriachi di mo-
sto», al quale poi Pietro esplicitamente risponde (At 2,13.15) –: l’esegeta ne derivò la seriorità
di quell’elenco di nazioni che udiva «annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio»
(2,11; cfr. anche 2,6b: «Perché udivano nella propria lingua [tē-i idia-i dialektō-i]»). Nella tra-
smissione di questo racconto, dunque, assai precocemente glōssa venne reinterpretata come
dialektos, mutando radicalmente il significato della Pentecoste: dalla manifestazione di un
evento carismatico esoterico, all’annuncio universale del Vangelo in una prospettiva ormai del
tutto essoterica. Questo esempio è significativo perché coinvolge il manifesto stesso dell’ec-
clesiologia paleocristiana, mostrando come l’ondulazione tra un movimento strettamente giu-
daico e una missione universale connoti già gli esordi della riflessione protocristiana.
4 A giudizio di chi scrive, la rilettura del fenomeno dell’ellenizzazione delle origini cristia-

ne proposto da R. Cantalamessa, Cristianesimo primitivo e la filosofia greca, in Id. - S. Lyon-


net (curr.), Il cristianesimo e le filosofie, Vita e Pensiero, Milano 1971 (Scienze religiose 1), 26-
57, coglie ancora nel segno, specie per la tripartizione di “lunga durata” proposta dall’autore,
il cui avvio è posto proprio nella scelta di impiegare il greco quale lingua d’elezione della mis-
sione cristiana. Cfr. anche Markschies, L’ellenizzazione del cristianesimo, 95-118, che si chie-
de se infine il termine “ellenizzazione” non possa essere impiegato, di fatto, quale «denomi-
nazione di processi di trasformazione del cristianesimo antico»: «“Ellenizzazione” è – detto
ancora una volta – intesa nel modo migliore come propagazione mediante la cultura di quella
forma di civiltà che è caratteristica dell’epoca dell’“ellenismo” » (107: i corsivi sono originali).
5 Non può ovviamente essere passato sotto silenzio il celebre racconto della (sfortuna-

ta) predicazione di Paolo all’areopago di Atene (At 17,16-34) che, al di là di come si valuti

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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 241

Passando dal paradigma della “contaminazione” con la gentilità a


quello della “trasformazione” della predicazione cristiana, è possibile dun-
que riconsiderare il significato della stagione apologetica, accogliendo la
suggestiva ipotesi di Remo Cacitti, il quale ha proposto di intendere que-
sta tradizione non tanto come il sintomo di un abbandono dell’originale
matrice giudaica del kerygma cristiano – una sorta di “volgersi altrove” –,
bensì quale sviluppo della riflessione cristiana stimolato dal ritardo della
parusia. L’apologetica andrà insomma riguardata come il tentativo di una
“teologia interinale”, frutto del protrarsi di quel tempo sospeso tra Pasqua
e Regno:
Nella misura in cui si dilata all’interno della coscienza cristiana lo iato, l’in-
tervallo Pasqua/parusia, in questo tempo intermedio la riflessione matura so-
stanzialmente e soprattutto all’interno della produzione apologetica, con cui gli
Apologisti come Giustino non negano assolutamente il momento escatologico
della resa dei conti finale, però cominciano ad anticipare alcuni elementi di
valutazione su quello che è il tempo intermedio 6.

Assumendo queste coordinate critiche, nella stagione dell’apologetica


cristiana non si dovrà più riconoscere una resa incondizionata al proget-
to di istituire una filosofia dall’annuncio del Vangelo, quanto piuttosto
il tentativo di trasformare i modi di quell’annuncio7. Quanto poi tale

complessivamente l’apertura protocristiana al dialogo con le tradizioni dell’ellenismo, non


può che costituire una sorta di prototipo. Cfr. R.I. Pervo, Acts, Fortress Press, Minneapolis
(MN) 2009 (Hermeneia), 423-442; cfr. anche C.S. Keener, Acts, 3: 15:1 - 23:35, Baker Aca-
demic, Gran Rapids (MI) 2014, 2564-2680. Per l’importanza del racconto di Pentecoste e
del discorso all’areopago per la comprensione del rapporto tra cristianesimo nascente ed “el-
lenizzazione”, cfr. ora P.-M. Jerumanis, En chemin vers la foi: le processus apologétique dans
les discours des Actes des Apôtres, in Nouvelle Revue Théologique 141 (2019) 550-568.
6 R. Cacitti, Dal Gesù storico alla Chiesa imperiale. Percorsi dentro la storia delle origini cri-

stiane, Gaspari, Udine 1999 (I gelsi 10), 81. Sul tema dell’escatologia degli apologisti, cfr. an-
che le acute annotazioni di S. Mazzarino, L’impero romano, Laterza, Roma - Bari 1973, 2 (Uni-
versale Laterza 244), 474-475, che colse senza difficoltà le ricadute politiche di questa
posizione teologica; cfr. anche M. Rizzi, L’escatologia degli apologisti: giudizio, rivelazione e teo-
dicea nella seconda metà del II secolo, in Annali di Storia dell’Esegesi 16 (1999) 161-178.
7 Credo valga ancora quanto scriveva Daniélou, Messaggio evangelico, 359: «Non è l’in-

contro del Vangelo con l’ellenismo che susciterà la teologia, come voleva Harnack. La teo-
logia non è più l’ellenizzazione del cristianesimo, ma l’incontro con la filosofia greca porrà
il cristiano in presenza di un altro problema oltre a quello delle speculazioni apocalittiche:
quello dell’utilizzazione delle tecniche della filosofia greca per l’elaborazione del dogma cri-

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242 Le origini della cultura visuale cristiana

“esperimento trasformativo” possa aver condotto “altrove” l’annuncio di


quel Vangelo è ovviamente argomento di un bilancio critico più attento
e ampio di quello possibile – o necessario – qui. Ciò che viceversa pare
urgente sottolineare in questa sede è il significato del progetto di quei
decenni: non la dismissione dei caratteri costitutivi della sequela Christi,
ma il tentativo di una loro coerente preservazione.
Mi pare si possano trovare conferme almeno indirette della bontà di
questa prospettiva critica sia nel ruolo tutt’altro che univocamente posi-
tivo assegnato alla filosofia dagli apologisti cristiani 8 sia negli sfoghi
che, ancora agli inizi del III secolo, prorompevano dalle pagine di Cle-
mente di Alessandria: «I più ‹tra i cristiani› temono la filosofia come i
bimbi temono il babau, ritenendo che li porti via»9.
Accanto a queste prime considerazioni, credo valga la pena di rilan-
ciare lo spunto fornito dal Gruppo berlinese «Trasformazioni dell’antico»,
che ha proposto di distinguere tra “grecizzazione”, “romanizzazione” ed
“ellenizzazione” del cristianesimo delle origini10. Assumendo questa più
avvertita distinzione, credo si possa affermare che sia l’apologetica sia la
prima cultura visuale cristiana presentino caratteri più “romanizzati” che
“ellenizzati”11.

stiano». Cfr. anche N. Hyldhal, Philosophie und Christentum. Eine Interpretation der Ein-
leitung zum Dialog Justins, Prostant apud Munksgaard, Kopenhagen 1966 (Acta theologi-
ca danica 9), 295.
8 Oltre alla più netta posizione che si rintraccia in Tertulliano, Apologetico 46; Id., La

prescrizione contro gli eretici 7,9-11, la cui opposizione alla filosofia è certo poco sorprenden-
te (cfr. T. Georges, Die Philosophen in Tertullians Apologeticum: Ihre Bedeutung für den Epi-
log und das gesamte Werk, in F.R. Prostmeier - H.E. Lona [hrsg.], Logos der Vernunft, Logos
des Glaubens, De Gruyter, Berlin - New York [NY] 2010 [Millennium-Studien zu Kultur
und Geschichte des Ersten Jahrtausends n. Chr. 31], 287-300), è in ogni caso necessario ri-
considerare globalmente il tema della valutazione della filosofia nel pensiero degli apologi-
sti (cfr. Daniélou, Messaggio evangelico, 25-37; si pensi anche al rapporto tra filosofia ed ere-
sia che in essi è costantemente rilanciato): cfr. almeno M.C. Bartolomei, Ellenizzazione del
cristianesimo. Linee di critica filosofica e teologica per una interpretazione del problema stori-
co, Japadre, L’Aquila - Roma 1984 (Methodos 12), 79-89.
9 Clemente di Alessandria, Stromati 6,10,80. Cfr. anche ivi 1,1,18; 1,16,80; Id., Peda-

gogo 1,6,33.
10 Cfr. Markschies, L’ellenizzazione del cristianesimo, 110.
11 Vedi supra, pp. 189-197 e infra, pp. 254-258.

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La nascita della cultura visuale cristiana si armonizza dunque piena-


mente con il tentativo, condotto dall’apologetica cristiana sui fronti più
disparati12, di rilanciare l’annuncio del kerygma cristiano. La sincronia
che si sta proponendo opera su un duplice piano:
1. Il primo è quello strutturale, se così si può dire: sia il più vistoso
fenomeno della letteratura apologetica sia i primi esperimenti vi-
suali rispondono coerentemente alla volontà di mantenere la pro-
fessione e proseguire l’annuncio del kerygma in un tempo inter-
medio, sospeso tra la Pasqua e la parusia 13. È innegabile che il
tentativo dell’apologetica, come anche la sperimentazione di un
linguaggio figurato, abbiano introdotto elementi di novità nella
prassi di queste comunità; come si è visto, non sussiste una solida
ragione storiografica, però, per affermare che tali elementi dovet-
tero essere avvertiti come “cedimenti” – o, peggio, assimilazioni
– alla cultura profana e alla religione degli idoli14. Si trattava, al
contrario, di un modo per rilanciare le ragioni del proprio credere
e l’annuncio del Regno atteso.

12 La correlazione esclusiva tra apologetica e scuole filosofiche ellenistiche – o, al più,

tra apologetica e culture dell’ellenismo –, del tutto prevalente nella ricerca, credo possa fa-
vorire una percezione critica univoca di questa letteratura. Si pensi alla sottostima che essa
induce dell’importante polarità esercitata, in questa dialettica, dal potere imperiale roma-
no (cfr. di recente, le osservazioni di R. López Montero, La recepción de Augusto en la apo-
logética latina: el caso de Tertuliano, in Estudios Clásicos 3 [2016] 157-167) o alla puntualità
della contestazione giurisprudenziale con cui Tertulliano inaugurò il suo Apologetico (cfr.
almeno L.J. Swift, Forensic Rhetoric in Tertullian’s Apologeticum, in Latomus 27 [1968] 864-
877; ma già Giustino si era dedicato a questo argomento: cfr. P. Keresztes, Law and Arbi-
trariness in the Persecution of the Christians and Justin’s First Apology, in Vigiliae Christianae
18 [1964] 204-214), per limitarsi a due argomenti.
13 Fino al principato di Costantino I, il Grande, e fino alle radicali novità che esso intro-

dusse sul piano storico e politico, è possibile affermare che il dilatarsi di questo tempo interi-
nale abbia rappresentato una delle dinamiche che maggiormente stimolò la riflessione cristia-
na e il dispiegamento di correttivi – teologici, esegetici, cultuali e istituzionali – volti a darne
ragione e a rilanciare l’annunco del Vangelo del Regno. Si tratta di una dinamica di lungo pe-
riodo che è possibile cogliere sin dalla prima documentazione cristiana pervenutaci: cfr. già
1Ts 4,13-18 (cfr. A.J. Malherbe, The Letters to the Thessalonians, Yale University Press, New
Haven [CT] - London 2000 [The Anchor Yale Bible 32b], 261-286; R. Fabris, 1-2 Tessaloni-
cesi, Paoline, Milano 2014 [I libri biblici. Nuovo Testamento 13], 131-144).
14 Vedi supra, p. 197.

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244 Le origini della cultura visuale cristiana

2. Il secondo riguarda la matrice di queste nuove modalità: come già


osservato, la critica è incline a considerare l’introduzione delle
prime immagini cristiane come un cedimento rispetto alle richie-
ste dei quadranti più popolari e più compromessi con le tradizio-
ni profane all’interno delle comunità cristiane. Al contrario, l’o-
rigine della letteratura apologetica è attribuita all’iniziativa dei più
brillanti tra gli intellettuali cristiani del secolo II. Questa dispa-
rità di giudizio, che ovviamente dipende dalla diversa valutazione
dei due fenomeni, non ha ragion d’essere su base documentaria.
Si dovrà, dunque, assumere come presupposto che entrambe que-
ste trasformazioni della predicazione cristiana debbano essere let-
te entro la stessa dinamica storica: la ricerca e la verifica, da parte
di queste Chiese, di efficaci strumenti per argomentare e propor-
re il kerygma 15.

2. L’“ARTE” DELLA “PERSECUZIONE”


La seconda coordinata del II secolo cristiano utile per collocare il Sitz
im Leben di questa prima cultura visuale è quella del contrasto frontale
tra il secolo e le antiche Chiese. Se l’apologia rappresenta il tentativo di
argomentare le ragioni dell’alterità cristiana rispetto al secolo, in una
competizione polemica e teoretica, la storia del martirio cristiano antico
e la sua teologia offrono lo spettacolo del conflitto che da quella alterità
si animò. Per molti versi, apologia e martirio sono due funzioni della me-

15 Come si vedrà infra, pp. 299-307, per quel che riguarda la prima produzione figura-

tiva cristiana, va osservato come essa occupi uno spazio insieme individuale (o privato) e co-
munitario. I documenti già escussi supra, pp. 201-237, mostrano che le prime attestazioni
di immagini cristiane implicano l’evocazione di una dimensione collettiva, quando non
esplicitamente ecclesiale (il comune sentire dei cristiani, a cui Celso reagisce; le immagini
di un movimento cristiano, contro il quale Ireneo si scaglia; persino l’iconografia dei sigil-
li privati, discussa però nello spazio di una catechesi universale; e, infine, i calici della chie-
sa di Cartagine). Identico discorso, come è ovvio, assume esplicita evidenza nel caso dei più
antichi documenti visuali pervenutici, ossia quell’arte funeraria chiamata a definire il luo-
go della sepoltura di singoli cristiani entro un contesto, quello cimiteriale e catacombale,
che fu il primo spazio delle Chiese.

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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 245

desima affermazione: «‹I cristiani› Vivono sulla terra ma sono cittadini


nel cielo»16.
La storia del martirio e della martirologia è un argomento ampio a cui
la critica si è largamente dedicata: non è questo il luogo per tracciarne un
profilo nemmeno riassuntivo. Ciò che pare più interessante sottolineare
sono le numerose intersezioni che la teoresi del teologumeno del martirio
seppe stabilire sin da subito con la più antica documentazione visuale
cristiana 17. Non mi riferisco qui né all’intrinseca valenza martirologica
che lo spazio catacombale rivestì agli occhi di queste Chiese18 né al nu-
mero o all’identità dei martiri le cui spoglie vennero raccolte nei cimite-
ri cristiani e nelle catacombe né alla presunta funzione di queste ultime
quali “rifugi” per i cristiani durante i momenti più critici della repressio-

16
A Diogneto 5,9. Il capitolo 5 di questo straordinario trattatello è giustamente riguar-
dato come il manifesto della “cittadinanza paradossale” che i cristiani professavano nei pri-
mi secoli.
17 È necessario distinguere tra teologumeno del martirio e raffigurazione delle vicende

dei singoli martirii: con la prima espressione si intende richiamare il significato teologico
della testimonianza a cui i cristiani e le antiche Chiese erano chiamati nella dialettica con
i fondamenti teologici del potere imperiale romano (si pensi al sesto comma della Lex de im-
perio Vespasiani); con la seconda, il contenuto delle narrazioni agiografiche di Atti e Passio-
ni dei martiri, una delle pagine più rilevanti e caratteristiche dell’antica letteratura cristia-
na. Se rispetto a quest’ultimo argomento la critica è divisa tra chi ne protesta una tardiva e
marginale presenza nell’iconografia cristiana (cfr. almeno F. Bisconti, Appunti e spunti di
iconografia martiriale, in Id. - D. Mazzoleni, Alle origini del culto dei martiri. Testimonian-
ze nell’archeologia cristiana, Aracne, Roma 2005 [A10 112], 33-54, qui 33-34: «Per i primi
secoli manca totalmente qualsiasi allusione iconografica al fenomeno del martirio, nel sen-
so che delle prime grandi persecuzioni non viene tradotto in figura né il momento violen-
to delle esecuzioni né quello della gloria del martire») e chi no (cfr., oltre al già citato Salo-
monson, Voluptatem spectandi, il caso descritto da R. Cacitti et alii, L’ara dipinta di
Thaenae. Indagini sul culto martiriale nell’Africa paleocristiana, Viella, Roma 2011 [Pubbli-
cazioni dell’Aissca]), la presenza del teologumeno del martirio mi pare, viceversa, sia stata
efficacemente documentata da Valenti, “Vetera fidei exempla”.
18 Oltre alla bibliografia già citata nella nota precedente, mi pare utile richiamare alme-

no le sezioni archeologica e iconografica del volume M. Lamberigts - P. Van Deun (eds.),


Martyrium in Multidisciplinary Perspective. Memorial Louis Reekmans, Leuven University
Press - Peeters, Leuven 1995 (Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium
117), 31-232 e 235-292, oltre al “classico” L. Hertling - E. Kirschbaum, Le catacombe roma-
ne e i loro martiri, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1949. Non è questa la sede per
affrontare il tema della teologia cristiana delle reliquie (per la prassi del refrigerium, vedi
però infra, p. 307, nota 51); d’altra parte, come in parte si è visto supra, pp. 83-85, essa raf-
forzò il nesso tra catacombe e martirio lungo tutta la storia cristiana.

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246 Le origini della cultura visuale cristiana

ne romana19. Si tratta di elementi la cui attualità è documentabile solo a


partire dal III secolo e che, quindi, non forniscono dati immediatamente
spendibili in vista di una descrizione storiografica del II secolo cristiano.
Il dato su cui vorrei attirare l’attenzione è un altro: la “sintonia figu-
rativa” che si può rintracciare tra il più antico repertorio simbolico della
prima iconografia cristiana e le immagini impiegate dalla letteratura del
martirio. Si tratta, in altri termini, di constatare la sussistenza di un nu-
cleo di figure condivise dalla documentazione letteraria del martirio e
dalla prima cultura visuale cristiana. Questa osservazione non mira a
stabilire rapporti di dipendenza tra testi e immagini – né vuole sovrasti-
mare un dato che, di per sé, presenta dimensioni contenute –, ma inten-
de documentare, come già dichiarato, la sincronia che è esistita, sul piano
ideale e documentario, tra queste diverse espressioni del cristianesimo
antico. Il dato, pur assunto con prudenza, pare di rilievo perché permet-
te di accostare due espressioni delle origini cristiane normalmente consi-
derate tra loro molto distanti: l’intransigenza del martire e quell’“arte”
che, come spesso ha affermato la ricerca, i meno radicali tra i cristiani
avrebbero preteso.
Si è già detto della colomba che, nel momento della morte di Policar-
po, si invola dal suo petto20, ma si potrebbe anche citare l’importanza
che la simbologia dell’agnello rivestì in entrambe le fonti documentarie 21.
Il caso specifico su cui vorrei però esemplarmente attirare l’attenzione
è quello assai meno generico della mungitura, ben attestato sia nella ce-

19 Quest’ultima funzione delle catacombe è stata messa in discussione, tra gli altri, da

Pergola, Le catacombe romane, 15-16.


20 Cfr. Martirio di Policarpo 16,1; vedi supra, p. 216, nota 48.
21 Cfr. l’identificazione di Policarpo stesso come «superbo montone», introdotta dal re-

dattore in Martirio di Policarpo 14,1, e chiaramente rievocata dall’anziano vescovo nella pre-
ghiera di consacrazione che egli stesso pronuncia su di sé in 14,2. Tale immagine viene ri-
chiamata anche negli Atti dei martiri di Lione 1,10 dove, per significare il carisma
manifestato da Zaccaria, si dice che egli fosse «uno che segue l’agnello (akolouthōn tō-i ar-
niō-i)». Come già visto, supra, pp. 20-22, la proibizione di raffigurare il Cristo come agnel-
lo è espressamente sancita dal Canone 82 del Concilio Quin(i)sesto del 692, uno dei primi
atti della controversia iconoclasta, a riprova della specifica incidenza che questa raffigura-
zione aveva nella tradizione iconografica paleocristiana.

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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 247

lebre prima visione di Perpetua nell’omonima Passione sia in numerosi


documentali visuali cristiani. Il racconto della visione avuta dalla marti-
re è noto: dopo il «drago […] di mirabile stazza» e dopo la «scala bronzea
di mirabile altezza», angusta e cinta di lance, lame, arpioni ecc. che mi-
nacciano coloro che intraprendono imprudentemente l’ascesa verso il
cielo22, finalmente Perpetua giunge in un immenso paradiso. Qui la gio-
vane cristiana riconosce «un uomo anziano, assiso nel mezzo, abbigliato
come un pastore, di grande statura, intento a mungere le pecore (oves
mulgentem); e attorno molte migliaia di persone vestite di bianco». Vista-
la e dopo averla salutata («Benvenuta, figlia [Bene venisti, tegnon]»), chia-
mata Perpetua per nome, il pastore le offre «un boccone del formaggio
che mungeva (de caseo quod mulgebat […] buccellam)»:
E io lo ricevetti con le mani giunte e lo masticai; e tutti coloro che stavano
intorno dissero: « Amen». E al suono della voce capii, mentre ancora masticavo
qualcosa di dolce. Riferii immediatamente a mio fratello e realizzammo che
avremmo subito il martirio (passionem esse futuram), e da quel momento ini-
ziammo a non avere più alcuna speranza in questo mondo 23.

Il senso complessivo di questa visione è chiaro. Sfruttando ampiamen-


te il lessico scritturistico, Perpetua articola il significato degli eventi che
stanno per coinvolgerla: il suo martirio si proietta, attraverso un fitto
codice di tipologie bibliche, sull’orizzonte ultimo della sua ascesa al cielo.
È dunque nel profilo dell’anziano pastore che la visione di Perpetua situa
la figura dell’Onnipotente ed è nella mungitura che egli compie che vie-
ne raffigurata la predisposizione del premio che la martire si sarebbe gua-
dagnata con la sua testimonianza 24. Il lessico biblico è già di per sé del
tutto sufficiente per decifrare la struttura fondamentale di questa para-
bola martirologica del paradiso: il canuto pastore presta le sue sembianze
alla figura teologica del Padre (cfr. Gen 48,15; 49,24; Sal 23[22],1;

Passione di Perpetua e Felicita 4,3-4.


22

Passione di Perpetua e Felicita 4,9-10.


23
24 Si noti qui, come in Martirio di Policarpo 14, l’intreccio tra martirio, salvezza ed eu-

caristia: se il vescovo di Smirne si era consacrato quale offerta eucaristica, Perpetua riceve
il frutto del suo martirio a mani giunte e con un “amen” corale.

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248 Le origini della cultura visuale cristiana

80[79],2; Sir 18,13; Is 63,11; Ger 31,10; Ez 34,11-12); l’armento che viene
munto iconizza la stessa Perpetua, pecora del gregge di Dio (cfr. Ez 34,31;
Sal 119[118],176; Mt 18,12-14; Lc 15,3-7); nel formaggio, che prodigio-
samente viene tratto già pronto dalla sola mungitura (cfr. Gb 10,10; Is
60,16), si deve pertanto riconoscere il frutto maturato dalla giovane don-
na con il suo assenso al martirio.
L’ostacolo mostruoso del martirio25, la determinazione e l’oculatezza
necessarie per raggiungere la patria celeste, il paradiso popolato dalle mi-
gliaia di martiri a cui pure Perpetua si aggrega mentre il pastore la ricom-
pensa della sua testimonianza costituiscono dunque il prologo della vi-
cenda del gruppo di martiri africani. In questo crescendo martirologico,
la mungitura della pecora diventa, quindi, l’icona di Perpetua stessa che
“porta frutto” – per se stessa: sarà lei a ricevere quel boccone di speciale
formaggio dolce, aggregandosi in tal modo al gregge del Buon Pastore.

Figura 26: due pecore e il vaso del


latte munto. Pittura su intonaco,
camera Y, cubicolo doppio X-Y,
Regione di Lucina, Catacomba di
Callisto, Roma (Nestori, Cal1). Ini-
zi III secolo. La china è tratta da
Garr. 2, t. 1,7 (cfr. Wp. 03, t. 24,2).
Questo pannello, che si trova sulla
porzione di sinistra della parete d’ingresso del cubicolo Y (vedi supra, figura 24),
raffigura, nella camera “dominata” dall’effigie di Daniele nella fossa dei leoni,
due pecore accanto al vaso del latte munto, immerse in uno spazio idilliaco (su
questo motivo, cfr. J. Weitzmann-Fiedler, Some Observations on the Theme of the
Milking Shepherd, in C. Moss - K. Kiefer [eds.], Byzantine East, Latin West:
Art-Historical Studies in Honor of Kurt Weitzmann, Princeton University Press,

25 È necessario precisare il significato di questa espressione, per evitare qualsiasi tipo di ri-

duzionismo psicologico del racconto visionario di Perpetua (si pensi al fin troppo fortunato
esercizio di M.-L. von Franz, Passio Perpetuae. Le visioni e i sogni di santa Perpetua, martire
cristiana del III secolo, interpretati alla luce della psicologia analitica, TEA, Milano 1997 [Tea-
due 577], ripresa ampiamente da P. Cox Miller, Dreams in Late Antiquity: Studies in the Ima-
gination of a Culture, Princeton University Press, Princeton [NJ] 1998): la “mostruosità” a cui
si fa riferimento è quella del repertorio visionario apocalittico – di cui l’immagine del draco è
un diretto prestito (cfr. Ap 12 - 13 ma già Dn 14Vulgata [= Bel e il DragoLXX],23-30).

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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 249

Princeton [NJ] 1995, 103-111). La china fallisce nel restituire il significato delle
sintetiche linee di pittura che tratteggiano allusivamente giovani rami e foglie, a da-
re proprio quel paesaggio bucolico, tipico delle scene paradisiache. Se l’interpreta-
zione globalmente martirologica ed ecclesiologica proposta per questa camera è
corretta (supra, pp. 231-232), il riquadro riportato in figura potrebbe svolgere la me-
desima funzione “argomentativa” assolta dalla prima visione di Perpetua: raffigu-
rare il “frutto” portato dal fedele – in primis dai martiri, il cui numero «non può
essere contato» (Cipriano, A Fortunato 11) – e del quale egli stesso godrà in cielo.

Figura 27: il Buon Pastore, due pecore e il vaso del


latte munto. Pittura su intonaco, cubicolo 4, Regio-
ne di Lucina, Catacomba di Callisto, Roma (Nestori,
Cal4). Inizi III secolo. L’immagine è tratta da Wp. 03,
t. 66,2. Come mostra l’ultima figura, il tema del
latte munto dalle pecore è per altro caro alla Regione
di Lucina: la figura del Buon Pastore del cubicolo 4
conferma che, almeno dal punto di vista formale,
l’interpretazione fornita per la scenetta paradisiaca
del pannello della camera Y ne descrive correttamen-
te le principali componenti: due pecore e, in posizio-
ne rilevata, il vaso del latte.

Figura 28: il padre del defunto (?); la risurrezione di Lazzaro; imago clipeata del
bambino defunto tra colombe; pastore che munge; scena di giudizio; la madre
del defunto (?). Lastra sepolcrale (secondo Rep. 1, 811) o fronte di sarcofago (se-
condo O. Marucchi, I monumenti egizi ed i monumenti cristiani recentemente
sistemati nel Museo Capitolino. Parte II. Collezione cristiana, in Bullettino della
Commissione Archeologica Comunale di Roma 40 [1912] 177-203, qui 199) per la
sepoltura di un fanciullo (la lunghezza ammonta a solo 1,6 m; cfr. Wp. 29, t. 3,4;
Rep. 1, 811), Musei Capitolini, Roma. Ultimo quarto del III secolo. Il progetto
iconografico di questo sarcofago dimostra una forte “sintonia” con la struttura

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250 Le origini della cultura visuale cristiana

argomentativa della Passione di Perpetua e Felicita. È evidente che il fulcro di


questo documento visuale vada ricercato nel ritratto clipeato del bambino. Im-
merso in una raffigurazione paradisiaca (così definita dalle due colombe che si
involano e dalla scena sottostante) ove la mungitura rappresenta, come nella
Passio, l’augurio di godere della salvezza, questo clipeo assolve alla duplice fun-
zione di commemorare e di augurare la salvezza. Anche i due ritratti – plausi-
bilmente i genitori del bimbo (mi pare che sia spiegabile in questo senso il gesto
di saluto che la donna indirizza al ritratto centrale) –, con la ripetuta esibizione
del rotolo, stretto nella mano sinistra, e della capsa, ai loro piedi, rilanciano coe-
rentemente il tema della professione di fede. Sono però le due scene che si frap-
pongono a questo gruppo familiare ad attirare l’attenzione e a perfezionare il
“sistema teologico” di questo documento. Tra la figura del padre e il ritratto del
bambino si trova la celebre scena di Gesù che risuscita l’amico Lazzaro (Gv 11;
vedi infra, pp. 399-404). Va detto che questo capitolo giovanneo non può esse-
re riduttivamente rubricato quale “paradigma di salvazione”: se la sua intonazio-
ne pasquale è affermata esplicitamente dal testo (Gv 11,47-53; cfr. almeno C.H.
Dodd, The Prophecy of Caiphas. Jn 11,47-53, in W.C. van Unnik [hrsg.], Neo-
testamentica et Patristica. Eine Freundesgabe Herrn Professor Dr. Oscar Cullmann
zu seinem 60. Geburtstag überreicht, Brill, leiden 1962 [Novum Testamentum,
Supplements 6], 134-143), nel complesso esso veniva impiegato nelle origini
cristiane quale argomento cristologico (cfr. almeno J. Kremer, Lazarus. Die Ge-
schichte einer Auferstehung. Text, Wirkungsgeschichte und Botschaft von Joh. 11,1-
46, Katholisches Bibelwerk GmbH, Stuttgart 1985, 112-165; 333-336). Dunque
vi è qui scolpita una scena che rinvia al riconoscimento di Gesù quale Cristo per
la sua potenza di risuscitare e per la Pasqua con cui ha compiuto le Scritture,
dischiudendo le porte del cielo. Simmetricamente a questo pannello si ritrova
una scena la cui identificazione non ha ancora incontrato il consenso degli stu-
diosi. Le ipotesi più frequentemente menzionate sono tre: che si tratti di una
scena di catechesi (così ancora C. Salvetti, n. 172: «Lastra di chiusura di loculo»,
in A. Donati [cur.], Dalla terra alle genti. La diffusione del cristianesimo nei primi
secoli, Electa, Milano 1996, 279; cfr. però anche J. Engemann, Untersuchungen
zur Sepulkralsymbolik der späteren römischen Kaiserzeit, Aschendorff, Münster
1973 [Jahrbuch für Antike und Christentum. Ergänzungsband 2], 85, t. 54a);
che sia raffigurato il giudizio di Susanna dinanzi agli anziani (cfr. Dn 13Vulgata
[= Susanna LXX ],28-44) o di fronte a Daniele (cfr. 13Vulgata [= Susanna LXX ],50-63:
ma in quel caso sono piuttosto gli anziani a essere giudicati; cfr. comunque H.
Stuart Jones, A Catalogue of the Ancient Sculptures Preserved in the Municipal
Collections of Rome. The Sculptures of the Museo Capitolino, Clarendon Press,
Oxford 1912, 361, n. 3); che sia una scena di giudizio (così Marucchi, I monu-
menti egizi, 199: « A destra è scolpito un gruppo che sembra raffigurare una sce-
na di giudizio»). Vi sono diversi elementi che mi sembra escludano le prime due
soluzioni proposte: di contro all’ipotesi di una catechesi, soprattutto il seggio su

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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 251

cui è assisa la figura centrale – del tipo curule, riservato ai magistrati – e il per-
sonaggio alle spalle della giovane donna, il quale indossa un abito ben difficil-
mente compatibile con una scena di magistero (e vicino all’abbigliamento che
non di rado connota i carcerieri di Pietro, Processo e Martiniano); a sconsiglia-
re l’identificazione con un processo di fronte a Daniele, invece, vi è l’assenza
degli anziani e una struttura compositiva che, nel suo complesso, non corrispon-
de al modello evocato (entrambe queste ipotesi sono escluse anche da Rep. 1,
811). Abbracciando dunque l’opzione di una scena di giudizio non è d’altra par-
te necessario evocare ulteriori piani di significato allegorici (cfr. ancora Maruc-
chi, I monumenti egizi, 199, secondo il quale questa immagine «esprime‹rebbe›
il concetto della giustificazione dell’anima»): la datazione del pezzo e i marca-
tori iconografici di questa raffigurazione permettono senza difficoltà di ricono-
scere in questo pannello una martire mentre rende la sua testimonianza (martyria
in greco) di fronte al giudice. Si spiegherebbe in tal modo anche il particolare
del rotolo che la fanciulla stringe saldamente in mano: indizio eloquente per
raffigurare ciò che la donna sta dichiarando – una professione di fede che la
martire ha già appreso e fatto propria. Non credo sia possibile pervenire a iden-
tificazioni della scena più puntuali di questa proposta, d’altra parte è suggestivo
osservare come il particolare dei capelli raccolti della fanciulla processata si ac-
cordi al dettaglio descritto in Passione di Perpetua e Felicita 20,5.

Figura 29: schema del progetto iconografico del sarcofago Wp. 29, t. 3,4; Rep.
1, 811. A motivare l’architettura teologica di questo documento può aver con-
corso la fortuna del celebre racconto del destino del piccolo Dinocrate narrato
in Passione di Perpetua e Felicita 7 - 8 (cfr. almeno F.J. Dölger, Antike Parallelen
zum leidenden Dinocrates in der Passio Perpetuae, in Id., Antike und Christen-
tum. Kultur- und religionsgeschichtliche Studien, 1, Aschendorff, Münster 1929,
1-80; C. Beretta, La visione di Dinocrate nella Passio Perpetuae come ermeneu-

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252 Le origini della cultura visuale cristiana

tica di 1Cor 15, 29, in Annali di scienze religiose 7 [2002] 195-223). Il fratellino
di Perpetua, morto senza battesimo, per intercessione del martirio della sorella
riceve la purificazione, è «refrigerans » (sul significato del refrigerium e sull’im-
portanza del culto martiriale, vedi infra, p. 307, nota 51), viene sanato e, final-
mente, guadagna l’accesso a quell’acqua, dissetatosi della quale può infine gio-
care e gioire (Passione di Perpetua e Felicita 8,1). È infatti del tutto plausibile
pensare che i genitori cristiani di un bimbo morto, forse senza aver ricevuto il
battesimo come il piccolo Dinocrate, abbiano deciso di argomentare teologi-
camente l’augurio di salvezza indirizzato alla loro prole (il pastore che munge)
richiamandone il presupposto fondamentale (la “condizione necessaria”: la
potenza del Cristo, che essi professano in Gesù [pannello della risurrezione di
Lazzaro]) e la circostanza di possibilità (la “condizione sufficiente”: l’interces-
sione della Chiesa martire, capace di ottenere la salvezza per il piccolo defunto
come Perpetua ottenne per il fratellino Dinocrate [il riquadro della martyria]).
In questo straordinario documento, realizzato nei decenni che precedettero la
“svolta costantiniana”, il compianto di due genitori cristiani si trasforma in un
manifesto teologico articolato attingendo largamente ai temi della martirologia
cristiana delle origini. I paradigmi entro cui si muove questo ritratto familiare
sono quelli della manifestazione della potenza del Cristo e della testimonianza
resa dalla Chiesa: il contenuto della professione di fede (Gesù è il Cristo) e la
professione stessa della fede (la martyria). Il sepolcro di questo bambino – il cui
ritratto è abbinato strettamente alla stessa raffigurazione idilliaca che nella Pas-
sione di Perpetua e Felicita aveva prefigurato la salvezza alla martire – prova di
essere largamente partecipe di quel sentire che permeava e si nutriva del culto e
della teologia del martirio cristiana delle origini.

Figura 30: Pietro ottiene miracolosamente acqua dalla roccia per i suoi carcerie-
ri, Processo e Martiniano; ritratto della defunta; scena pastorale: la mungitura del
latte e il pastore che vigila; Gesù risuscita Lazzaro. Sarcofago (Lateranense 108),
Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Rep. 1, 85). Il sarcofago – di
inizi IV secolo – raffigurato nel disegno di Bosio 1, t. 36,2, proposto in figura,
in questa forma è purtroppo andato perduto: la vasca è stata resecata, privata dei

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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 253

pannelli strigilati e ridotta a un collage delle tre sole scene figurate. Il disegno
pubblicato da Antonio Bosio d’altra parte raffigura imprecisamente il riquadro
centrale. In questo disegno, infatti, è riportato un pastore che accudisce la peco-
ra (ne accarezza il dorso) e non, com’è, la scena della mungitura.

Figura 31: particolare (ritratto della defunta e scena pa-


storale: la mungitura del latte e pastore che vigila). Sarco-
fago (Lateranense 108), Musei Vaticani, Pio Cristiano,
Città del Vaticano (Rep. 1, 85). La china è un particolare di
Garr. 5, t. 359,2. Il progetto iconografico di questo sar-
cofago è piuttosto semplice: la giovane defunta, il cui ri-
tratto è immerso in un paradiso il cui gregge è munto e
vigilato dai pastori 26, affida alla propria sepoltura il com-
pito di motivare la sua personale speranza del cielo attra-
verso l’evocazione di una scena battesimale e del miracolo
giovanneo della risurrezione di Lazzaro. A un estremo di
questo sarcofago, il racconto del “miracolo apocrifo” (Pietro
che fa scaturire acqua dalla roccia; vedi infra, pp. 441-442)
proietta il tema dell’acqua lustrale dispensata dalla Chiesa – di cui l’Apostolo è
iconograficamente l’emblema (cfr. almeno M. Sotomayor, S. Pedro en la icono-
grafía paleocristiana. Testimonios de la tradición cristiana sobre San Pedro en los
monumentos iconográficos anteriores al siglo sexto, Facultad de Teología, Granada
1962 [Biblioteca teológica granadina 5]; J. Dresken-Weiland, The Role of Peter
in Early Christian Art: Images from the 4th to the 6th Century, in R. Dijkstra
[ed.], The Early Reception and Appropriation of the Apostle Peter (60-800 ce). The
Anchors of the Fisherman, Brill, Leiden - Boston [MA] 2020, 115-134) – in una
narrazione martirologica (la scena si situa durante la detenzione dell’Apostolo,
tant’è che i coprotagonisti sono i carcerieri Processo e Martiniano). All’altro
estremo, di nuovo la scena della risurrezione di Lazzaro che, come appena ri-
cordato, è insieme affermazione cristologica fondamentale e “segno pasquale”
per eccellenza. Ne emerge un progetto iconografico del tutto parallelo a quello
appena discusso per il sarcofago Wp. 29, t. 3,4; Rep. 1, 811: la salvezza, che an-
che qui rassomiglia al paradiso descritto dalla martire Perpetua, è una speran-
za che mette radici nella partecipazione sacramentale alla Chiesa martire e si
fonda sul kerygma: “Gesù è il Cristo”.

Anche in questo caso la sintonia tra la costruzione di questa tabella iconica e la prima visio-
26

ne della Passione di Perpetua e Felicita mi pare evidente; casi analoghi di abbinamento tra ritratto
dei defunti e figure pastorali si trovano in diversi sarcofagi; cfr. le splendide teorie pastorali di tre
sarcofagi romani: Wp. 29, tt. 134,1 e 3 [= Rep. 1, 1003 e 239] e Rep. 1, 34, databili agli inizi del
IV secolo, e conservati rispettivamente a Palazzo Torlonia, presso la basilica di San Sebastiano e
nei Musei Vaticani.

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254 Le origini della cultura visuale cristiana

Come hanno mostrato gli esempi appena escussi, l’iconografia cristia-


na più antica non si limita a condividere alcune immagini con la lettera-
tura del martirio, ma ne impiega e ne rievoca gli stessi immaginari.
L’osservazione pare significativa perché permette di restituire i primi
esperimenti iconografici cristiani e la successiva cultura visuale cristiana
a un quadrante della vita religiosa di queste Chiese che ben difficilmen-
te potrà essere considerato periferico o “ellenizzato” 27. La datazione pro-
posta per gli esordi della prima “arte” cristiana e la sintonia che in essa si
può ravvisare con numerosi teologumeni del martirio, come si è comin-
ciato a osservare e come in più parti ancora si vedrà nel corso della pre-
sente esposizione, rivendicano per questa tradizione documentaria uno
spazio del tutto conservativo rispetto alla storia del pensiero cristiano e
rispetto alla vicenda di queste comunità.

3. SECUNDUM SCRIPTURAS: UN’ICONOGRAFIA ANTI-GNOSTICA


Un dato a mio avviso troppo spesso trascurato dalla critica nella de-
finizione del Sitz im Leben della prima cultura visuale cristiana è la stra-
ordinaria quantità di temi biblici prototestamentari che, sin da subito,
definì il più antico immaginario cristiano28. Vale la pena sottolineare
che non si tratta di un dato pacifico: le Scritture di Israele trovarono ac-
coglienza in una cultura visuale prima presso i cristiani e solo successi-

27 Di grande interesse è, a questo proposito, l’epigrafe di Calevius (ICUR 6, 15780), sul-

la quale già B. Bagatti, The Church from the Circumcision. History and Archaeology of the Ju-
daeo-Christians, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1970 (Studium biblicum Francisca-
num. Collectio minor 2), 201, figura 87, aveva attirato l’attenzione. Si tratta di un’opera
epigraficamente databile al consolato di Stilicone (400-405); in essa viene inserita, entro
una breve teoria di simboli propriamente cristiani (come la risurrezione di Lazzaro o
l’ichthys), una menorah. Cfr. anche M. Luni - G. Gori, Il museo archeologico di Urbino, Quat-
troVenti, Urbino 1986, 76, figura 2; F. Bisconti, Mestieri nelle catacombe romane: appunti
sul declino dell’ iconografia del reale nei cimiteri cristiani di Roma, PCAS, Città del Vaticano
2000 (Studi e ricerche 2), 254; P. Quiri, n. 16: «Lapide sepolcrale di Calevius», in A. Dona-
ti (cur.), Pietro e Paolo. La storia, il culto, la memoria nei primi secoli, Electa, Milano 2000,
194-195, e, da ultimo, anche Pelizzari, Vedere la Parola, 85-86, figura 28.
28 Vedi infra, pp. 311-411.

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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 255

vamente presso le tradizioni ebraico-rabbiniche 29; in altri termini: non


era né scontato né inevitabile che la prima iconografia cristiana si costi-
tuisse “biblicamente”. Il dato, già significativo di per sé – anche, quindi,
mantenendo la datazione tardiva del III secolo –, diventa ancor più rile-
vante se lo si situa, come qui si propone, al II secolo.
Come noto, questo fu il secolo nel quale deflagrò la prima grande
“guerra civile” cristiana: lungo la linea di faglia aperta dal tema della gno-
si, un fenomeno certamente non univoco – artificiosamente aggregato
dalla polemica eresiologica, e per questo non di rado considerato come
una sorta di movimento unitario –, che però dedicò grande spazio delle
proprie molteplici teologie al tema, prima ancora che ai contenuti o ai
libri, delle Scritture 30.
Anche senza bisogno di evocare nel dettaglio la figura di Marcione e
la sua ben nota teologia demiurgica, è possibile precisare il senso del suo
approccio al Primo Testamento attraverso la formula proposta da Judith
Lieu:

Cfr. M.-Y. Perrin, Roma e l’estremo Occidente fino alla prima metà del III secolo, in
29

Mayeur et alii (curr.), Storia del Cristianesimo, 1: L. Pietri (cur.), Il nuovo popolo (dalle origi-
ni al 250), 586-631, qui 613: «Questa iconografia biblica non deve nulla a precedenti ebrai-
ci […]: quelle immagini sono propriamente cristiane».
30 Il tema delle ermeneutiche gnostiche non è tra i più frequentati dall’agenda della

ricerca, d’altra parte esso riveste, a mio avviso, un ruolo decisivo per cogliere la costru-
zione delle diverse identità cristiane a vario titolo rubricate sotto la categoria di “gnosi”.
Per l’esegesi del Primo Testamento, cfr. comunque M. Simonetti, Note sull’ interpretazio-
ne gnostica dell’Antico Testamento, in Vetera Christianorum 9 (1972) 331-359; ivi 10 (1973)
103-126; G. Filoramo - C. Gianotto, L’ interpretazione gnostica dell’Antico Testamento. Po-
sizioni ermeneutiche e tecniche esegetiche, in Augustinianum 22 (1982) 53-74; Simonetti,
Lettera e/o allegoria, 29-33. Per il Nuovo Testamento, cfr. C. Barth, Die Interpretation des
Neuen Testaments in der valentinianischen Gnosis, Hinrichs, Leipzig 1911 (Texte und Un-
tersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur 37,3); E.H. Pagels, The Gnostic
Paul. Gnostic Exegesis of the Pauline Letters, Fortress, Philadelphia (PA) 1975; Simonetti,
Lettera e/o allegoria, 33-37. Cfr. anche C.A. Evans - R.L. Webb - R.A. Wiebe (eds.), Nag
Hammadi Texts and the Bible. A Synopsis and Index, Brill, Leiden 1993 (New Testament
tools and studies 18); P.C. Miller, “Words With an Alien Voice”: Gnostics, Scripture, and
Canon, in Journal of the American Academy of Religion 57 (1983) 459-483; D. Brakke,
Gnostics and Their Critics, in P.M. Blowers - P.W. Martens (eds.), The Oxford Handbook
of Early Christian Biblical Interpretation, Oxford University Press, Oxford 2019, 383-398,
in part. 389-394.

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256 Le origini della cultura visuale cristiana

Per Marcione la Scrittura – che i cristiani avrebbero chiamato Antico Te-


stamento – era una fondamentale autorità probatoria (primary evidential autho-
rity), sebbene non morale o spirituale 31.

Per molti versi, ciò che qui si afferma della sola scuola marcionita po-
trebbe essere esteso a gran parte dei movimenti della gnosi cristiana: le
Scritture prototestamentarie vennero lette e impiegate per definire il mi-
to della parcellizzazione del pleroma (il moto di decadenza protologico),
per contestare il contenuto religioso di quegli scritti, per denunciare la
deità in essi descritta e per rafforzare quel gioco di antitesi che il dualismo
di questi sistemi religiosi aveva istituito tra la religio del Primo Testamen-
to e il Vangelo di Gesù, il Cristo. La «ratio ermeneutica […] molto com-
plessa»32 che un simile atteggiamento determinò diede vita più che al
rifiuto radicale del Primo Testamento a una sorta di sua ermeneutica
negativa, un’autentica “anti-esegesi del testo scritturistico”, perseguita
enfatizzandone le contraddizioni interne, le difformità con il Nuovo Te-
stamento, i principi teologici considerati censurabili 33. Letteralismo ana-
litico e allegoresi di marca platonica costituirono i fondamenti operativi
di questo approccio alla raccolta prototestamentaria.
La reazione della polemica antignostica fu ovviamente duplice: da un
lato passò per l’enfatizzazione del tema della canonicità del testo biblico
– aprendo, di fatto, la strada alle polemiche relative a quale fosse detto
canone –; dall’altro lato, portò a una radicale discussione dei principi er-
meneutici e della prassi esegetica che era messa in atto dai movimenti con

31 Lieu, Marcion and the Making, 357. Per la bibliografia su Marcione, mi limito a rin-

viare a quella ricchissima, raccolta ivi, 441-470.


32 Simonetti, Lettera e/o allegoria, 29.
33 Si noti che questa contestazione fu perseguita impiegando la migliore strumentazio-

ne critica disponibile alla tradizione ellenistica; non a caso sarà proprio lo “gnostico valen-
tiniano” Eracleone (su questa affiliazione cfr. M. Kaler - M.-P. Bussières, Was Heracleon a
Valentinian ? A New Look at Old Sources, in Harvard Theological Review 99 [2006] 275-289)
a introdurre nella letteratura cristiana lo strumento del commentario, applicandolo per la
prima volta al Vangelo di Giovanni; cfr. H.W. Attridge, Heracleon and John: Reassessment of
an Early Christian Hermeneutical Debate, in C. Helmer - T.G. Petrey (eds.), Biblical Inter-
pretation: History, Context, and Reality, Society of Biblical Literature, Atlanta (GA) 2005
(Symposium 26), 57-72; A. Bastit, Forme et méthode du Commentaire sur Jean d’Héracléon,
in Adamantius 15 (2009) 150-176.

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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 257

cui gli autori polemizzavano34. Benché relativo alle aspettative escatolo-


giche, il «nihil allegorizari potest (nulla può essere allegorizzato)» irenea-
no35 poteva ben essere considerato un presupposto anche della polemica
antignostica.
L’iconografia cristiana più antica può dunque essere considerata, in
questa prospettiva, uno dei dispositivi più efficacemente antignostici che
le origini cristiane abbiano progettato: oltre al dato già ricordato della
“quantità” della presenza del Primo Testamento in questa fonte docu-
mentaria, vi è infatti anche l’elemento della “qualità” di tale presenza.
Il meccanismo tipologico di questa documentazione, poi, oltre a de-
terminare di per sé una struttura fondamentalmente anti-allegorica, non
solo implicava la bontà delle Scritture di Israele, ma le recepiva come ri-
prova delle Nuove. Come già si è sottolineato anche sotto il profilo me-
todologico: ogni affermazione che questa documentazione visuale propo-
ne è argomentata secundum Scripturas, dove il sostantivo, com’è ovvio,
implicava innanzi tutto l’Antico Patto e i libri che Israele aveva custodito.
Rappresentare insieme nello stesso cubicolo e talvolta sulla stessa parete
personaggi ed episodi vetero e neotestamentari mirava evidentemente anche a
collocare Vecchia e Nuova Legge sulla medesima linea di continuità storica, in
funzione probabilmente […] antignostica: e sappiamo bene quanto fosse diffu-
so e vivace lo gnosticismo a Roma tra II e III secolo. La valenza icononologica
delle scene scritturistiche si pone agli antipodi dell’esegesi gnostica […]. Da
questo punto di vista l’accostamento di soggetti vetero e neotestamentari nella

34Limitandosi al solo Ireneo di Lione, vale la pena di richiamare i recenti contributi di


D.J. Bingham, Senses of Scripture in the Second Century: Irenaeus, Scripture, and Noncano-
nical Christian Texts, in The Journal of Religion 97 (2017) 26-55; e della scuola madrilena,
erede del magistero ireneano di Antonio Orbe, per cui vedi ora P. de Navascués, Quelques
principes herméneutiques chez saint Irénée, in A. Bastit - J. Verheyden (éds.), Irénée de Lyon
et les débuts de la Bible chrétienne: Actes de la Journée du 1.7.2014 à Lyon, Brepols, Turnhout
2017 (Instrumenta Patristica et Mediaevalia 77), 435-455; A. Sáez Gutiérrez, Interpréta-
tions scripturaires en conflit chez Irénée: quelques réflexions théoriques et un exemple significa-
tif, in Bastit - Verheyden (éds.), Irénée de Lyon et les débuts de la Bible, 401-431. Stimolanti
mi paiono anche le proposte di L. Ayres, Irenaeus vs. the Valentinians: Toward a Rethinking
of Patristic Exegetical Origins, in Journal of Early Christian Studies 23 (2015) 153-187, ben-
ché l’autore si proponga semplicemente di integrare la riflessione sulla prassi ermeneutica
ireneana e non di costituirne un profilo esaustivo.
35 Ireneo di Lione, Contro le eresie 5,35,2.

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258 Le origini della cultura visuale cristiana

prospettiva cristologico-salvifica rappresenta, nell’ambito dell’iconografia, il


corrispettivo della coeva esegesi biblica, tutta incentrata, tra II e III secolo, sul-
la ricerca di eventi e personaggi della Vecchia Legge che potessero apparire co-
me segni, simboli, figure del Cristo o delle verità da Lui rivelate 36.

Anche da questo punto di vista, dunque, datare i primi esperimenti


iconografici cristiani agli anni ’30 - ’40 del II secolo – esperimenti che,
per quanto visto relativamente al Discorso veritiero di Celso da cui si è
ricavata la datazione proposta, denunciarono sin da subito una struttura
esegetica 37 – permette di sottolineare un’importante sinergia tra questa
fonte documentaria e una delle più importanti rubriche della coeva agen-
da cristiana. Come conciliare tale coerenza storica con il mito storiogra-
fico di un’“arte disomogenea” alle origini cristiane?

---

Il II secolo cristiano non può ovviamente essere ridotto soltanto alle


tre dinamiche che sono state evocate in queste pagine – il confronto dia-
lettico con il secolo intavolato dall’apologetica, il conflitto, fattosi anche
cruento, con l’ideale politico e il sistema giuridico romani, e la reazione
alla gnosi. Si tratta peraltro di fenomeni assai complessi e fortemente dif-
ferenziati al loro interno: non era scopo di queste pagine prospettarne una
tassonomia accurata né ripercorrerne la complessa e polimorfa storia.
Nella misura in cui, però, è lecito affermare che lungo queste traiettorie
si attivarono le forze più incisive di questo secolo cristiano, aveva senso
chiedersi se, rispetto ad esse, la nascita di una cultura visuale caratteristi-
ca dovesse essere guardata come un fenomeno eterogeneo, periferico o
integrale.

36 Otranto, Alle origini dell’arte cristiana, 448.


37
Vedi supra, pp. 202-209.

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III.

IL CONTESTO STORICO-ARTISTICO

È nota la parziale dipendenza della più antica iconografia cristiana da


quella elaborata e in uso presso le coeve tradizioni figurative della koinè
imperiale1: in questa intersezione, ampiamente studiata 2, vanno ricercati
alcuni degli argomenti con cui ancora si alimenta il pregiudizio che rico-
nosce nella più antica tradizione visuale cristiana una sorta di “concessio-
ne” all’abitudine – tutta “pagana” – di «vivere con i miti», per citare il
titolo di un’importante ricerca di Paul Zanker e Bjorn Christian Ewald 3.
Se, infatti, è condivisa la prassi di attribuire a un tema iconografico un
significato nuovo quando esso trascorre in un diverso contesto culturale
(o, nel caso in esame, in un nuovo ideale religioso), d’altra parte, per la più
antica tradizione iconografica cristiana si è soliti affermare che queste an-
tiche figure, pur caricate di significati nuovi, vennero realizzate con la
stessa intenzione con cui erano già state impiegate quando i gentili le ri-
producevano a decoro della propria vita e della propria tomba.
Una simile conclusione, benché non di rado assunta come presuppo-
sto critico, è, a mio avviso, del tutto scorretta e, anzi, potenzialmente

1 Questa peculiare interazione formale verrà più ampiamente considerata di seguito, ve-

di infra, pp. 473-503.


2 Per l’importanza che esso ha avuto nella storia degli studi sulla più antica documen-

tazione visuale cristiana, richiamo qui soltanto lo studio di Murray, Rebirth and Afterlife.
Vedi comunque infra, pp. 474-476.
3 Cfr. P. Zanker - B.C. Ewald, Vivere con i miti: l’ iconografia dei sarcofagi romani, Bol-

lati Boringhieri, Torino 2008 (Nuova cultura 177). Si tratta ovviamente di un pregiudizio
di marca polemica che, come si è visto, emerse nell’ambito delle dispute teologiche sull’im-
magine del VII-VIII secolo. Poiché l’idolo è pagano, realizzare idoli è prassi pagana. La cri-
tica ha, di fatto, per lungo tempo in parte perpetuato e, per certi versi, anche rilanciato que-
sto assioma (a questo tema è dedicato il primo capitolo di questo volume).

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260 Le origini della cultura visuale cristiana

responsabile di gravi distorsioni prospettiche nell’analisi e nell’interpre-


tazione di questa documentazione.
Denuncia questo “rischio ermeneutico” innanzi tutto quella stessa
“arte funeraria” dove l’interazione formale tra iconografia profana e ico-
nografia cristiana si manifestò al suo massimo livello. Se, infatti, nell’i-
deale romano della morte stavano essenzialmente tre polarità, la «lotta
contro l’oblio» 4 – il desiderio, cioè, di eternare la propria memoria –, la
paura per l’oltretomba5 e l’idea della sepoltura quale domus aeterna 6,

4 Traggo questa efficace definizione da V.M. Hope, Roman Death. The Dying and the

Dead in Ancient Rome, Continuum, London - New York (NY) 2009, 35.
5
È troppo vasto il dibattito sulla presenza, o meno, nella cultura della koinè, di una fe-
de nella vita oltre la morte. Discutendone in merito alla tipologia delle “tombe a tempio”,
B.E. Borg, Roman Tombs and the Art of Commemoration: Contextual Approaches to Funerary
Customs in the Second Century CE, Cambridge University Press, Cambridge - New York
(NY) 2019, 267-279, si appella alle due categorie di «apoteosi postuma » (268-272; una sor-
ta di ricompensa eccezionale per vite eccezionali che, di fatto, si limitava a proiettare in un
“altrove” non meglio definito ciò che sulla terra sarebbe stato meritato) e di «vita nell’al-
dilà » (272-274). L’autrice osserva come quest’ultima idea fosse sostanzialmente un’“acqui-
sizione” culturale (e religiosa) tardiva, non precedente al I secolo augusteo – l’epoca in cui
l’espansionismo di Ottaviano (si pensi alla conquista dell’Egitto o all’acquisizione cliente-
lare della Cappadocia di Archelao e dell’Armenia di Tigrane III e di quasi tutto il periplo
del Ponto Eusino) permise il riversarsi a Roma di culti “orientali” (cfr. J. Davies, Death, Bu-
rial, and Rebirth in the Religions of Antiquity, Routledge, London - New York [NY] 1999
[Religion in the First Christian Centuries], 23-68) – e che, comunque, fosse vista con iro-
nia e disincanto dalla più parte dei Romani. Nell’ironica descrizione dell’arrivo del pappa-
gallino di Corinna nel luogo degli altri uccellini buoni e pii («volucrum locus ille piarum»),
– luogo precluso ai pennuti «schifosi (obscenae)» –, Orazio, Amori 2,6,51, precisa: «Se è da
aver qualche fede in ciò che è dubbio (Si qua fides dubiis)». Come giustamente osservava già
J. Ferguson, Le religioni nell’Impero romano, Laterza, Roma - Bari 1989 (Biblioteca univer-
sale Laterza 286), 116-117, la pervasività dell’idea di un oltretomba squallido, cupo e tetro,
luogo tutt’al più di punizione, si era a tal punto perpetuata che, «fatto abbastanza ironico,
la visione cristiana dell’inferno è assolutamente pagana. L’ebraico Sheol era il regno del nul-
la e la Gehenna era un fuoco che bruciava i rifiuti: la concezione del castigo dopo la morte,
anche se non priva di basi nella Scrittura, è stata arricchita con immagini della mitologia
greco-romana ».
6 Si pensi all’epigrafe funebre (I secolo a.e.v.) che il medico liberto Caio Ostio Panfilo

fece redigere per sé e per la moglie Nelpia Hymnina: «Questa è la nostra casa per l’eterni-
tà, questo è | il nostro podere, questi i nostri giardini, questo | è il nostro memoriale (HAEC
EST DOMUS AETERNA, HIC EST | FUNDUS, HEIS SUNT HORTI, HOC | EST MONUMENTUM NO-
STRUM)» (CIL 6, 9583; CIL 12 , 1319; ILS 8341; CLE 247; AE 2013, 130; l’epigrafe è oggi
conservata presso i Musei Capitolini di Roma [NCE 123]): cfr. P. Keegan, Reading Epi-
graphic Culture, Writing Funerary Space in the Roman City, in G. Sears - P. Keegan - R. Lau-
rence (eds.), Written Space in the Latin West, 200 BC to AD 300, Bloomsbury, London et

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Il contesto storico-artistico 261

casa perenne del defunto, nei cimiteri cristiani si consolidò viceversa uno
schema del tutto speculare. Il desiderio di perpetuare la propria fama,
monumentalizzando la sepoltura, lasciava ora spazio a una “tomba” che
non rispondeva più all’ansia di tramandare la vita del defunto7 ma all’in-
tenzione di professare il kerygma della fede, nella quale egli aveva vissuto.
La paura per l’oltretomba lasciava spazio alla visione trionfale della sal-
vezza e di un Regno celeste pronto a irrompere nella storia. La domus
aeterna del defunto, ormai altrove, mutava lo statuto della tomba cristia-
na: luogo di custodia dei corpi in vista della loro risurrezione e strumen-
to per le comunità, autentico laboratorio monumentale dove sperimen-
tare una ricca strumentazione esegetica con cui la Chiesa 8, pellegrina e
vivente nel mondo, descriveva e celebrava la salvezza, mentre «le anime
di coloro che sono stati uccisi a causa della testimonianza ‹gridano,› di-
cendo a gran voce: “Fino a quando?”» (Ap 6,9-10)9.
A differenza della cultura classica, il “tempo della morte” smise di de-
finire il futuro dell’uomo né la disperazione cifrò più il carattere della sua
dipartita. Speranza, salvezza, Regno e vita sono solo una minima parte del
lessico che i cristiani impiegarono per parlare della fine della loro esperien-
za mondana 10: tale presupposto può forse servire a comprendere il neces-

alibi 2013, 49-64, in part. 57-60. Cfr. anche E. Thomas, “Houses of the Dead”? Columnar
Sarcophagi as “Micro-architecture”, in J. Elsner - J. Huskinson (eds.), Life, Death and Repre-
sentation: Some New Work on Roman Sarcophagi, De Gruyter, Berlin - New York (NY) 2011
(Millennium-Studien 29), 387-435.
7 Sul «declino» di questa funzione della “tomba cristiana”, cfr. Bisconti, Mestieri nelle

catacombe romane.
8 L’idea della tomba come “libro” della Chiesa emerge in un importante frammento del-

la polemica di Rufino con Girolamo, su cui si tornerà in seguito, in III,IV,4.


9 Sull’importanza di questo tema di Apocalisse, vedi infra, pp. 423-424.
10 La speranza di una vita ultramondana non è, ovviamente, un’esclusiva cristiana; an-

che limitandosi al punto di vista archeologico, come nota R. Bianchi Bandinelli, Roma. La
fine dell’arte antica. Dal II secolo d.C. alla fine dell’Impero, Rizzoli, Milano 2005 (Grandi
civiltà 2) (ed. or. Milano 1970), 70: «Con il prevalere di ideologie filosofico-religiose, cul-
minanti o non in vere iniziazioni a “verità rivelate”, il cui fondo era sempre quello di pro-
mettere una nuova vita dopo la morte, nella prima metà del III secolo prevalgono i sarcofa-
gi decorati con soggetti collegati al ciclo mitico di Dioniso-Bacco, il dio che muore e
risorge». Si tratta però della progressiva penetrazione nel tessuto culturale della koinè impe-
riale di fenomeni culturali e religiosi esterni.

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262 Le origini della cultura visuale cristiana

sario cambio di prospettiva critica che deve accompagnare l’analisi delle


sovrapposizioni formali tra iconografia “del mito” e iconografia “delle
Scritture”. Non si tratta soltanto di riscrivere i significati delle immagini,
è necessario capovolgere il valore del loro contesto, ideale e archeologico.
L’intersezione tra lessici iconografici della gentilità e delle origini cristia-
ne, pur non essendosi determinata né per la condivisione del significato
delle singole figure né per una partecipazione al medesimo ideale della
morte e della sepoltura11, impone tuttavia un supplemento di riflessione.
Esclusi, infatti, gli elementi di contenuto simbolico e di contesto valoriale,
resta un ultimo piano sul quale si poté costituire la parentela tra l’imma-
gine gentile e quella cristiana: quello dell’“ideale dell’immagine”. Si tratta,
cioè, di capire cosa pensassero di acquisire i cristiani quando, sperimentan-
do un lessico figurativo chiaramente condiviso con la prassi culturale del
mondo antico, iniziarono a definire il proprio orizzonte visuale.
Per capire il contesto storico-culturale in cui questa sperimentazione
ebbe luogo, occorre prendere in considerazione alcune domande:
1. Qual era la “cultura visuale”12 della koinè imperiale? Quale il rap-
porto abituale dell’immagine con i suoi osservatori?
2. Che ruolo aveva, di fronte al mondo, l’arte romano-imperiale?
Quale contesto storico riflette?
3. Quale la funzione dell’immagine nella prassi del potere imperiale?
4. Che spazio aveva guadagnato l’immagine nella cultura mediale del
III-IV secolo?

11 Si tornerà in seguito (vedi infra, pp. 299-307) sulla “dimensione funeraria” della pri-

ma iconografia cristiana. Per il momento basti osservare che questo fu il contesto quantita-
tivamente più rappresentativo della più antica documentazione visuale cristiana.
12 Negli studi critici è ormai consolidata la categoria di “spazio letterario”: con essa si

intende sostanzialmente porre la chiave ermeneutica – se non di valore – del documento let-
terario nella sua interazione con la storia («L’arte è reale nell’opera. L’opera è reale nel mon-
do, perché essa vi si realizza […], perché essa aiuta la sua realizzazione, e ha senso, avrà ri-
poso solo nel mondo in cui l’uomo sarà per definizione»: M. Blanchot, Lo spazio letterario,
Einaudi, Torino 1967 [Saggi 408], 184). Con “spazio visuale” della koinè imperiale, inten-
do richiamare il nucleo degli studi sull’arte quale “cultura visuale”: non la figura di per sé,
ma l’immagine come rete di relazioni tra l’intenzione che l’ha determinata, il suo signifi-
cato intrinseco e l’esito che ha sortito sul suo spettatore.

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Il contesto storico-artistico 263

1. LO « SPETTATORE ROMANO » ( J. ELSNER):


L’IMMAGINE COME “CAUSA EFFICIENTE”
Prima ancora di essere “arte”, l’oggetto visuale è immagine; l’imma-
gine, come la parola, è il nesso che lega due momenti, la sua matrice e
il suo esito. Il lessico estremamente generico che qui adotto è voluto per
evitare di stabilire nessi causali o concatenazioni logiche che indirizzi-
no, pre-determinandola, l’analisi del documento iconico. Si pensi alle
categorie di “autore” e di “spettatore” che certamente occupano uno
spazio ben preciso nella relazione a cui si alludeva: l’idea che l’autore
determini l’immagine e che lo spettatore ne sia passivamente fruitore
è intrinseco, per così dire, ai due termini. Analogamente si potrebbe
dire di altre simili categorie13, pure corrette, che però indirizzano in
modo univoco la descrizione della dinamica che si anima attorno al
documento visuale.
Per capire quanto fuorvianti possano essere simili categorie, si prenda
il caso dei “pasticci” romani che, dall’età repubblicana, producevano
«combinazioni di parti provenienti da opere diverse in un tutto nuovo»
o copiavano «un’antica statua di divinità ‹per› darle una testa che fosse
un ritratto, come nella statua di un oratore firmata da un Kleomenes
(Museo del Louvre) la cui testa è certamente un ritratto della cerchia au-
gustea, mentre il corpo corrisponde alla statua di un Hermes oratore che
sorgeva ad Atene»14. Chi era spettatore e chi autore? Il committente non
era anche spettatore della statua originale a cui aveva voluto far sovrap-
porre il proprio ritratto? E perché erano guardate queste figure? Per com-
memorare, come lascerebbe intendere l’insieme finito? O per la loro bel-

13 Si pensi a “committenza / pubblico”, “ideatore / fruitore”, “finalità / esito” ecc. Si trat-

ta in ogni caso di opzioni lessicali che, non riuscendo a comprendere interamente le intera-
zioni che con e dall’oggetto visuale si attivano, finiscono per cogliere solo una quota parzia-
le della realtà, talora condizionandone l’interpretazione.
14 R. Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte nel centro del potere. Dalle origini al II secolo d.C.,

Rizzoli, Milano 2005 (Grandi civiltà 1) (ed. or. Milano 1969), 72; cfr. anche M. Curcio,
L’arte romana oltre l’autore. Originalità, imitazione e riproduzione, Mimesis, Milano - Udi-
ne 2020 (Archeologia, arte e società 4).

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264 Le origini della cultura visuale cristiana

lezza, come sembrerebbe lecito pensare per il prototipo scelto? Come si


vede, più che un tragitto che dall’“autore” porta allo “spettatore”, l’im-
magine è un crocevia di istanze trasversali dove non di rado è ben diffi-
cile – e talora del tutto impossibile – distinguere i ruoli.
Così anche in ambito cristiano. Si prenda il celebre caso della “statua
di sant’Ippolito”, la cui descrizione ha tenuto banco sino ad anni del tut-
to recenti. La vicenda è nota: nel 1551 Pirro Ligorio recuperò a Roma, da
una chiesa diroccata nei pressi del Castro Pretorio, nell’ager Veranus tra
la via Tiburtina e la via Nomentana, una grande porzione di una statua
«rotta e mal trattata»15 che raffigurava le gambe di una figura assisa so-
pra una cattedra a pozzetto16. Sulla seduta si trovavano incisi, in greco,
il calendario pasquale ebraico dal 222 al 333 – in sette cicli di sedici an-
ni – e il calcolo del giorno della Pasqua cristiana in ottica anti-quar-
todecimana17. Sulla schiena della cattedra stava, infine, un elenco di
opere ippolitee, in gran parte coincidente con gli elenchi forniti da Eu-
sebio e da Girolamo.

15
Così annota di suo pugno Pirro Ligorio in un appunto raccolto nel manoscritto XIII
B.7 (qui p. 424), conservato ora presso la Biblioteca Nazionale di Napoli.
16 L’anno del rinvenimento – il 1551 è l’anno dichiarato da Martin Smetius, colui al qua-

le Ligorio si rivolse, dopo aver scoperto la statua, per tradurne le iscrizioni –, come pure le
circostanze e il luogo sono stati messi in dubbio da M. Guarducci, La «statua di Sant’Ippo-
lito» e la sua provenienza, in Nuove ricerche su Ippolito, Augustinianum, Roma 1989 (Studia
Ephemeridum Augustinianum 30), 61-74, qui 65-66: l’insigne antichista propose di situa-
re il rinvenimento presso la «Loggia del papa ». Trovo convincenti le ragioni che B. Allen,
Hippolytus and the Roman Church in the Third Century. Communities in Tension before the
Emergence of a Monarch-Bishop, Brill, Leiden 1995 (Vigiliae Christianae, Supplements 31),
3-50, ha addotto per riabilitare le notizie fornite dall’umanista napoletano.
17 Quella “quartodecimana” rappresentò una delle prime e più profonde crisi tra Occiden-

te e Oriente cristiani, le cui radici affondano già nel I secolo, e i cui primi sintomi sono docu-
mentabili sino almeno dalla prima metà del II secolo, con il dibattito tra Policarpo, vescovo
di Smirne, e Aniceto, vescovo di Roma, e poi con la disputa tra Policrate, vescovo di Efeso, e
Vittore, vescovo di Roma, nella quale intervenne, come mediatore, Ireneo, allievo di Policar-
po e vescovo di Lione. Alla base di questa contrapposizione stavano due teologie della Pasqua
– l’una, quella asiana, più arcaica, legata al paradigma sacrificale, e dunque rivolta prioritaria-
mente alla celebrazione dell’immolazione del Cristo quale elevazione del sacrificio perfetto e
ricapitolativo di tutta la storia della salvezza; l’altra, quella occidentale, immediatamente orien-
tata al teologumeno della risurrezione. Queste due tradizioni teologiche ebbero come sinto-
mo più evidente il diverso calendario delle celebrazione pasquale: i quartodecimani celebra-
vano la Pasqua nel giorno del Pesach ebraico – il quattordici di Nisan (da cui l’appellativo di

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Il contesto storico-artistico 265

Figura 32: il frammento antico della c.d. “statua di sant’Ippolito”. Rinvenuta


lungo la via Tiburtina e ora, gravemente reintegrata, presso la Biblioteca Apo-
stolica Vaticana, Città del Vaticano. Il moncone originale della statua dovrebbe
datare al II secolo (così ha proposto M. Guarducci, La statua di “Sant’Ippolito”
in Vaticano, in Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia 47
[1974-1975] 163-190). La china è tratta Garr. 6, t. 430, 1-3.

Il carattere evidentemente cristiano dei calendari e, ancor di più, l’e-


lenco dei titoli convinsero immediatamente Ligorio che si dovesse tratta-
re di un ritratto ex cathedra «di questo vescovo il quale commentò l’Apo-
calypsis, et compose altre bellissime opere come dicono i scrittori, et si
tiene esser quel santo Hippolito di cui fa mentione honorammente Euse-
bio»18. Perciò, in pochissimo tempo, forte di questa convinzione, egli
provvide a restaurare la statua, conferendole allora l’aspetto che ancora
oggi essa reca.

“quartodecimani”) –, festività questa che aveva nella parasceve, il momento dell’immolazio-


ne degli agnelli, l’apice cultuale; la tradizione “occidentale” (o “protopaschita”), viceversa, ce-
lebrava nella prima domenica successiva alla Pasqua ebraica la risurrezione del Cristo. Sulla
struttura teoretica della teologia quartodecimana, cfr. Cacitti, Grande sabato. Nella sua de-
scrizione del manufatto, così riassume Allen, Hippolytus and the Roman Church, 3: «La super-
ficie del fianco destro della seduta è iscritta con un calendario pasquale che calcola la data
della Pasqua ebraica dal 222 al 333 […]. Il giorno del Pesach cade sempre nel giorno del ple-
nilunio, durante il mese più prossimo all’equinozio di primavera; tale giorno corrisponde
al 14 di Nisan del calendario ebraico. Il fianco sinistro è iscritto con una tavola che calcola
le corrispondenti date della Pasqua cristiana che, nella pratica occidentale – ma non in quel-
la quartodecimana orientale – cade sempre nella domenica successiva il 14 di Nisan».
18 Appunto di Pirro Ligorio del 1553: Manoscritto XIII B.7 (qui p. 424), Biblioteca Na-

zionale di Napoli.

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266 Le origini della cultura visuale cristiana

Figura 33: la c.d. “statua di sant’Ippolito”. Ora presso la presso la Biblioteca


Apostolica Vaticana, Città del Vaticano. Moncone del II secolo, reintegrazione
del XVI. La china è tratta da H. Leclercq, s.v. «Hippolyte (Statue et cimetière de
saint)», in DACL 6,2, 2419-2483, qui 2422. Ottime fotografie sono pubblica-
te da Allen, Hippolytus and the Roman Church, tavv. 1-5.

Margherita Guarducci fece cadere l’“idolum scholae” ‹dimostrando›


che la parte antica della scultura (la cattedra e la parte inferiore della fi-
gura seduta) risaliva al secolo II e aveva rappresentato una figura femmi-
nile seduta su cattedra e con un rotolo in mano, probabilmente una filo-
sofa epicurea. La parte superiore (il busto di Ippolito) costituiva invece
un’aggiunta del secolo XVI. La scoperta pose subito il problema di capi-
re l’identità della scultura agli inizi del secolo III, quando fu utilizzata
per incidervi il calendario pasquale e la lista di titoli. Considerata la ra-
dicale ostilità per la dottrina epicurea, era da escludere che i cristiani si
fossero serviti della statua di una filosofa del Giardino. Perciò la stessa
Guarducci ipotizzò che la statua fosse stata a un dato momento reinter-
pretata, prima comunque che i cristiani la usassero per incidervi il calen-
dario, che parte dall’anno 222, e la lista di titoli19.

19 E. Castelli, La cattedra della Chiesa e il trono del vescovo tra II e III secolo a Roma: ri-

cerche sul contesto storico della “statua d’Ippolito”, in ASE 27 (2010) 35-50, qui 37-38.

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Il contesto storico-artistico 267

Non importa qui determinare se l’identificazione dell’originale statua


sia o meno da rettificare, preferendo alla filosofa Temista di Lampsaco,
forse la più nota allieva di Epicuro20, una divinità in trono (Atena? Ci-
bele? la “Bona dea”?) o una musa (Mnemosyne? Clio? Calliope?). Il pun-
to rilevante è osservare, come giustamente sottolinea Emanuele Castelli,
che questo stesso manufatto, commissionato probabilmente per una scuo-
la di filosofia di Roma che ammetteva anche donne (affinché queste stu-
dentesse riconoscessero in Temista un esempio), fu poi rilevato dai cri-
stiani che decisero di guardare a questa figura femminile assisa come a
un’immagine della Chiesa 21. Proprio per questo vi si ritrova il calendario
pasquale e la piccola bibliografia: perché alla Chiesa venivano affidati
questi “canoni”, liturgico e di magistero.

Figura 34: statua di donna assisa (Fortuna? Una Dea madre? Dedicati a entrambe
queste divinità sono stati ritrovati altari in prossimità del luogo di rinvenimento di
questa effigie). La statua (alta poco più di un metro), scavata tra 1849 e 1850, pro-
viene da una sala con ipocausto del forte romano di Banna (Birdoswald) – probabil-

Di certo era ben nota a Roma, come documentano le irrisioni che Cicerone, Il bene
20

sommo e il male sommo 2,21,68, indirizza a Epicuro, proprio per questa sua discepola.
21 Cfr. Castelli, La cattedra della Chiesa, 40: «I dati appena richiamati supportano […] che

la rappresentazione della Chiesa come nobile figura femminile seduta in cattedra e con un ro-
tolo tra le mani, secondo quanto leggiamo nel Pastore, sia stata adottata dai cristiani di Roma
anche sul versante figurativo, utilizzando la statua di cui abbiamo sin’ora discusso».

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268 Le origini della cultura visuale cristiana

mente parte degli acquartieramenti del comandante –, lungo il vallo di Adriano. La


testa, scoperta prima del corpo, venne dapprima trasferita a Newcastle per essere poi
ricomposta nel locale antiquarium. L’intera statua si trova ora presso il Tullie House
Museum and Art Gallery di Carlisle, Cumbria. J.C. Coulston - E.J. Phillips, Ha-
drian’s Wall West of the North Tyne, and Carlisle, Oxford University Press, Oxford et
alibi 1988 (Corpus Signorum Imperii Romani, Great Britain 1,6), 7-8, numero 15,
propongono una datazione tra II e III secolo. Le prime due chine sono tratte da J.
Collingwood Bruce, Lapidarium Septentrionale: Or, a Description of the Monuments
of Roman Rule in the North of England, Bernard Quaritch, London 1875, 208, nu-
mero 418 (cfr. anche Id., The Roman Wall: A Description of the Mural Barrier of
the North of England, Longmans, London 18673, 205). La terza proviene da
S. Reinach, Répertoire de la Statuaire grecque et romaine, 2, Leroux, Paris 1909, 2,
685, numero 8. Alla pagina https://sketchfab.com/3d-models/fortuna-birdos-
wald-85236b0fd7de4e52a9751d5d278b97fd (consultata il 5 gennaio 2022) è possi-
bile ispezionare un modello 3d di questa statua. L’esempio riportato in queste chine
offre un parallelo stringente per la statua romana di cui si è detto sopra: lo schema
della donna assisa, assai versatile, fu impiegato per raffigurare divinità, ninfe, ma-
trone e filosofe, qualificandosi di volta in volta solo per gli attributi iconici che veni-
vano aggiunti al “tipo neutro”, ossia alla raffigurazione della matrona assisa.

Ma allora: qual è l’autore e qual è il fruitore della statua romana? Qual


è l’intenzione di questo monumento? Chi ne è il pubblico? E ancora, un
pubblico che ha modificato, per sua necessità, il valore dell’opera, può
essere definito: “spettatore”? Qual è la statua di cui discutiamo? La sua
originale configurazione epicurea? La sua ri-semantizzazione cristiana di
II secolo? La sua “ri-scrittura” del III? O il restauro di età moderna?
Nelle interazioni che di volta in volta si animano attorno a un documen-
to visuale si ri-definisce il suo destino, se ne ri-configurano la finalità e il
significato, se ne determina di nuovo il valore. Prendendo in prestito una
suggestiva riflessione di Paolino da Nola, si potrebbe dire che la “visualità”
è quel processo performativo che ogni spettatore compie quando trova il
vero in figure di per sé vuote: «Chi vede queste cose, riconoscendo ciò che
è vero in vacue figure (vacuis agnoscens vera figuris), non pasce la sua mente
fedele (fidam… mentem) con un’immagine vacua (vacua … imagine)»22.

22 Paolino di Nola, Carme 27 514-515. Si noti il significativo passaggio dalle «figure va-

cue» all’«immagine non vacua »: lo strumento (figura) dischiude la verità teologica (imma-

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Il contesto storico-artistico 269

La complessità dei rapporti che si intersecano nell’“oggetto iconico”


ha convinto la critica ad accostare allo studio dell’immagine “di per sé”
la riflessione sull’immagine “nell’interazione”, introducendo la categoria
di visualità, intesa come performance concreta dell’immagine quand’è
posta di fronte a uno spettatore. Vedere, in questa prospettiva, diventa
un atto culturale, perché il vedere produce valore e significato.
Anche nell’ambito dell’arte romana imperiale molti studi stanno facen-
do luce sull’importanza di questa riflessione sull’immagine vista, sugli esiti,
cioè, che la figura determinava nel suo spettatore e sul valore che la figura
assumeva quando veniva “usata”, quando, cioè, veniva veduta. Con un’effi-
cace intuizione, Tonio G. Hölscher ha definito la “visualità” – e il suo po-
tere culturale – quale intersezione «tra arte e realtà sociale», riconoscendo
in questo spazio la «dimensione visuale della cultura greca e romana»23.
Vi è, però, un passo ancora ulteriore che Tonio G. Hölscher compie,
riflettendo sulle origini di questa «dimensione visuale»:
Significativamente, il termine che designa la forma ufficiale di partecipa-
zione collettiva al culto religioso era theōría, un derivato nominale di theâsthai,
“vedere”. Pertanto, la partecipazione alle questioni religiose significava essen-
zialmente vedere e osservare luoghi e attività di culto. Anche il complesso ter-
mine filosofico eîdos, la forma essenziale di esseri e cose, così come la nozione
di idéa di Platone, sono radicati in ideîn, l’attività dell’occhio. La visione era un
concetto fondamentale nel rapporto dell’uomo con la società e con il mondo24.

Parallelamente, nel mondo romano, la dimensione religiosa della “vi-


sualità” è emblematicamente racchiusa nello spettro semantico del lemma
eidōlon (idolum), che indica contemporaneamente l’idolo religioso – che

gine). Già A. Venturi, Storia dell’arte italiana, 1: Dai primordi dell’arte cristiana al tempo di
Giustiniano, Hoepli, Milano 1901, 199, aveva colto l’importanza di questo passaggio per
delineare l’attitudine cristiana verso l’arte. Questo stesso passo è ben analizzato anche da
Elsner, Art and the Roman Viewer, 249-251. Cfr. comunque C. Conybeare, Paulinus No-
ster. Self and Symbols in the Letters of Paulinus of Nola, Oxford University Press, Oxford
2000 (Oxford Early Christian Studies), 95. Di grande interesse per la tematica qui affron-
tata anche T. Piscitelli, L’ekphrasis nella poesia di Paolino da Nola, in Adamantius 26 (2020)
280-291, in part., sul passo menzionato nel testo, 288.
23 Cfr. T.G. Hölscher, Visual Power in Ancient Greece and Rome. Between Art and Social

Reality, University of California Press, Oackland (CA) 2018 (Sather Classical Lectures 73), 1.
24 Hölscher, Visual Power, 3.

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270 Le origini della cultura visuale cristiana

è attivato dalla prassi rituale e cultuale che il suo “spettatore” praticava


– l’“apparizione”, il “fantasma”, cioè le immagini ultramondane 25, e
l’“immagine” tout court.
Tale osservazione non va sottovalutata: se è vero che a Roma ogni di-
mensione religiosa era tale poiché politica, e se è vero che l’ideale dell’im-
pero poteva sussistere fintanto che avesse rivendicato la sua dimensione
sacra, e perciò religiosa, allora affermare la “radicale religiosa” della cul-
tura visuale antica implica asserirne anche la valenza politica.
Il linguaggio visivo normalizzato dell’epoca imperiale ha […], al suo centro,
lo Stato e l’imperatore. E non si tratta solo, come si è visto, di una centralità
legata al culto e al panegirico del sovrano, perché in una società dalla rigida
struttura piramidale lo sguardo è rivolto naturalmente verso la cima, e se la ci-
ma è occupata dall’imperatore, l’immagine di quest’ultimo finirà per imporsi
come il modello da seguire per eccellenza 26.

Si può dunque affermare che la cultura visuale dell’impero recava in sé


connotati religiosi e politici e, tramite questi, non si limitava a “illustrare”,
ma innescava con lo spettatore un rapporto dinamico che concorreva a de-
finire, a plasmare e a indirizzare la storia culturale del suo tempo. In questo
senso, l’immagine antica non fu semplicemente un prodotto dell’Antichità,
ma, colta nella sua dimensione “visuale”, fu essa stessa artefice di quel tem-
po e di quella storia.
Constatata l’efficacia di questa prospettiva critica, Jaś Elsner ha sot-
tolineato l’urgenza di declinare questo approccio analitico al passaggio
dalla visualità dell’impero a quella cristiana:
Le cornici interpretative (frames of interpretation) di pubblici diversi, siano
esse letterali o simboliche, metonimiche o metaforiche, naturalistiche o allego-
riche, sono ciò che tende a costituire i tipi di significato che l’immagine può
recare. In linea di principio, ciascuna opera d’arte può far sorgere, in diversi
osservatori (e talora anche nello stesso spettatore), una moltitudine di risposte
e significati divergenti e anche contraddittori. ‹Nel tardo-antico romano-impe-
riale› La trasformazione delle forme dell’arte […] fu innanzi tutto una trasfor-

25 Immagini la cui connotazione non è nel loro “contenuto” stilistico o tematico ma nel-

la reazione che generano in chi le osserva.


26 Zanker, Augusto e il potere delle immagini, 354-355.

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Il contesto storico-artistico 271

mazione di contenuto, attraverso la quale diversi spettatori – come il romano


pagano e il religioso cristiano – poterono vedere la stessa immagine in modi così
profondamente diversi 27.

Jaś Elsner descrive il passaggio dalla visualità romana a quella cristiana


come un passaggio da un’osservazione di tipo «realistico» – pure correla-
to a enormi implicazioni di ordine psicologico, dogmatico e politico – a
una di tipo essenzialmente simbolico ed esegetico: «La funzione sociale
dell’esegesi visuale cristiana ‹fu di› portare una nuova identità culturale
nel tardo mondo romano […]. L’arte cristiana concorse – forse più di ogni
altro aspetto della cristianizzazione – a ciò che viene definito l’eliminazio-
ne del “secolare” dalla società attraverso l’eliminazione di ogni visualità
non esegetica»28.
Volendo ricuperare le suggestioni di Tonio G. Hölscher, si dovrà ag-
giungere a questa fondamentale distinzione la diversa posizione dello
spettatore di fronte al mondo: dal cittadino di un impero inquieto, di una
grandezza sontuosa ma anche di una fragilità estrema, costantemente
impegnato nella propria rinascita, al cittadino del cielo che attendeva la
manifestazione finale di quel Regno del quale era stato proclamato coe-
rede. Se per il primo l’immagine doveva ispirare la storia, guidarla e di-
sciplinarla, per l’altro doveva essere profezia, visione e annuncio.

2. TRA « DOLORE DI VIVERE »


E « VOLONTÀ DI POTENZA » (R. BIANCHI BANDINELLI):
L’« ARTE PLEBEA » COME “SPECCHIO”
Se il concetto di “visualità” permette in genere di cogliere la “dimen-
sione performativa” dell’immagine – intesa quale “causa efficiente” di
cambiamenti sullo spettatore e sul suo mondo –, nel caso specifico
dell’intersezione tra la cultura visuale dell’impero e quella cristiana esso

Elsner, Art and the Roman Viewer, 3.


27

Elsner, Art and the Roman Viewer, 250-251. Il cristianesimo trasse dal mondo roma-
28

no la forma del proprio immaginario, ma lo impiegò in modo caratteristico, trasformando-


lo da un tentativo di comprendere la realtà immanente a un simbolo del Regno trascenden-
te: cfr. ivi, 287.

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272 Le origini della cultura visuale cristiana

permette di osservare il passaggio da un’immagine che “opera sulla real-


tà” a una che “opera sulla speranza”. Questa importante coordinata cri-
tica non è però né l’unica né è di per sé sufficiente per comprendere il
contesto culturale entro cui va situato l’esordio dell’arte cristiana.
Ogni epoca culturale è, infatti, segnata da alcune peculiarità che ne
determinano i caratteri fondamentali: la periodizzazione della storia del
pensiero nasce proprio dall’evidenza di queste costanti e dalla possibilità
di cogliere, classificare e descrivere il sorgere, la persistenza e il tramonto
di tali caratteri.
Per l’epoca che vide l’affermazione della più antica produzione icono-
grafica cristiana (fine II - inizi III secolo), il grande archeologo Ranuccio
Bianchi Bandinelli identificò due aspetti dell’arte romana del medio e
tardo impero capaci di riassumere efficacemente il carattere di quell’epo-
ca: il «dolore di vivere» e la «volontà di potenza».
Se noi guardiamo alla scultura del III secolo della nostra era nei centri mag-
giori dell’impero romano, restiamo colpiti particolarmente dal fatto che spesso
i volti assumono una espressione di dolore e che la forma artistica ellenistica si
è modificata nelle sue concezioni tradizionali per poter raggiungere quella
espressione. Non si tratta di una espressione di dolore fisico. Quella era già sta-
ta raggiunta […]. Si tratta di qualcosa di nuovo: non dolore fisico, ma angoscia
morale. Questa angoscia la si trova espressa nei ritratti e anche nelle teste di
carattere ornamentale 29.
Se l’angoscia corrispondeva a un sentimento diffuso, vi è anche, in questo
secolo, una manifestazione di volontà di potenza che non rifuggirà da nessun
mezzo per affermarsi […]. Marco Aurelio era stato l’ultimo imperatore nutrito
della “paideia”, l’educazione greca dello spirito fondata sulla ragione e sulla tol-
leranza. Uomini rozzi e avidi si succedono al potere come avventurieri a capo
dell’immenso impero, avendo come unica base l’appoggio delle forze militari
dalle quali provenivano e come unico fine una potenza sconfinata. L’arte di que-
sto tempo, sprezzante del tradizionale equilibrio classico, avida di espressione e
abile nel raggiungerla, semplificando al massimo le forme generali e concentran-
do la propria attenzione sui particolari caratterizzanti, riesce a dare di questi
uomini immagini assolute, valide ben oltre l’aneddotica personale per l’intrin-
seca forza del suo linguaggio formale 30.

29 Bianchi Bandinelli, Roma. La fine dell’arte antica, 26-27.


30
Bianchi Bandinelli, Roma. La fine dell’arte antica, 43-44.

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Il contesto storico-artistico 273

Le categorie che Ranuccio Bianchi Bandinelli ha permanentemente in-


trodotto nella storia dell’arte romana non sono di natura stilistica; esse in-
fatti non mirano a definire la forma dell’immagine, ma quel “sistema cultu-
rale” che nella forma dell’immagine si era riflesso e che, anzi, nell’immagine
trovò la sua più naturale espressione. In altri termini: se, come segnala giu-
stamente Richard Brilliant, per Ranuccio Bianchi Bandinelli il documento
visuale era interessante in quanto «incarnava in forma visiva un’intrinseca
realtà sociale»31, esso era d’altra parte da riceversi come prodotto di quella
intera trama di relazioni e legami che stabiliva un’epoca. L’arte diveniva per-
ciò, in senso etimologico, un “fatto politico”: un prodotto di tutta la polis.
Lungo questa traiettoria critica, e coerentemente con la presa di posizio-
ne, intellettuale e personale, che Ranuccio Bianchi Bandinelli assunse nel
dopoguerra, contro ogni progetto di sapere umanistico elitario, egli identi-
ficò – in accordo con Gerhart Rodenwaldt 32 – un’ulteriore, decisiva catego-
ria critica per la comprensione dell’arte romana imperiale: quella di «arte
plebea»33. Non si tratta naturalmente di una qualificazione polemica – tut-
to il contrario, semmai! 34 –, ma di una formula per identificare i protago-

31 R. Brilliant, L’ incontro di un americano con Ranuccio Bianchi Bandinelli, in Belfagor

56 (2001) 73-80, qui 78: «L’obiettivo di Bianchi Bandinelli fu sempre l’opera d’arte, né su-
bordinata agli studi storici, né come mero documento, ma come entità distinta che, in com-
binazione con altre simili entità, incarnava in forma visiva un’intrinseca realtà sociale».
32 Cfr. G. Rodenwaldt, La transizione all’arte della tarda antichità, in S.A. Cook et alii

(curr.), Storia antica, 12,2: Crisi e ripresa dell’ impero, 193-324 d.C., Il Saggiatore, Milano
1970 (La cultura. Biblioteca storica dell’Antichità 7,2), 695-726, qui 721-723.
33 Cfr. R. Bianchi Bandinelli, Formazione e dissolvimento della “ koinè” ellenistico-roma-

na, in Id., Dall’Ellenismo al Medioevo, Editori Riuniti, Roma 1978 (Biblioteca di storia an-
tica 4), 51-78 (originariamente apparso negli Atti del Huitième Congrès International d’Ar-
chéologie classique [Paris, 1963]: Le rayonnement des civilisations grecque et romaine sur les
cultures périphériques, editi per i tipi di De Boccard, Paris 1965); cfr. anche il suo Arte ple-
bea (del 1967) (ora pure nella raccolta Dall’Ellenismo al Medioevo, 35-48). Globalmente cfr.
G. Agosti, Ranuccio Bianchi Bandinelli, dall’ invenzione del «Maestro delle imprese di Traia-
no» alla scoperta dell’« Arte plebea», in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe
di Lettere e Filosofia, Serie III, 16 (1986) 307-329, qui 324-329.
34 Non si tratta, cioè di un’arte “ignorante”, priva di capacità intellettuale o cultural-

mente irrilevante (Bianchi Bandinelli rifiutava anche per questo la dizione di «arte popola-
re»); si tratta di una cultura visuale che proviene da un quadrante diverso della società ro-
mana: non dalle élites del patriziato o del ceto equestre, ma da quella sorta di “borghesia
urbana” spesso facoltosa e desiderosa di affermare la propria identità.

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274 Le origini della cultura visuale cristiana

nisti di questa nuova stagione visuale: il popolo (plebs nel senso migliore e
qualificante del termine latino, non a caso in relazione al tribunato, in con-
trapposizione a quelle élites culturali che ora egli vedeva sempre più margi-
nali nell’impero, a partire dal principato di Commodo e con la dinastia dei
Severi)35 e il potere imperiale. «Deve dunque essere ben evidente che non
di “decadenza” si tratta, o di incapacità […], ma di un nuovo inizio», scri-
veva Bianchi Bandinelli in relazione al fregio dell’arco di Costantino, il
modello di cui, almeno in parte, «si serviranno gli artigiani cristiani»: qui,
nel manifesto ideale di una nuova stagione, sui pannelli del lato Nord, i più
maturi per l’archeologo, «non si narra più, ma si rappresenta»36.
Le coordinate critiche stabilite dalla lezione di Ranuccio Bianchi Ban-
dinelli situano in modo del tutto originale l’immagine romana di III-IV
secolo: in essa trovarono forma e si espressero sia le ansie di un’epoca che
andava chiudendosi sia la vivacità e la spontaneità di un tempo nuovo che
stava sorgendo. Nel passaggio tra queste due stagioni, l’immagine seppe,
assai meglio del testo, esprimere ed elaborare i contenuti di questo cam-
biamento, attraverso la nascita di una nuova forma, sì, ma anche cambian-
do matrice e paternità. La geniale definizione di «arte plebea», infatti, non
vuole qualificare la committenza di queste opere, vuole piuttosto espri-
mere l’origine di questa nuova cultura visuale, per impiegare una cate-
goria almeno formalmente estranea alla teoresi di Bianchi Bandinelli.

35 Cfr. R. Bianchi Bandinelli, Arte plebea, in Id., Dall’ellenismo al medioevo, Editori Riu-

niti, Roma 1978 (Biblioteca di storia antica 4), 35-48, qui 47-48: «Vi sono dunque motivi suf-
ficienti, di natura critica e storica, per dare a questa corrente d’arte un nome, che non vuol es-
sere […] determinazione sociologica innanzi tutto, ma innanzi tutto definizione e distinzione
critica e storica; un nome, quello di “arte plebea”, che corrisponde allo ambiente storico entro
il quale si costituisce e che aveva piena coscienza di sé». Per altro una simile qualificazione ri-
calca anche in parte il pensiero di autori – che probabilmente potremmo definire, con Bian-
chi Bandinelli, appartenenti alle élite culturali del mondo antico – quali Massimo di Tiro, Di-
scorsi 2,2 (su questo passo, cfr. V. Fazzo, La giustificazione delle immagini religiose dalla tarda
antichità al cristianesimo, 1: La tarda antichità, con un appendice sull’Iconoclasmo bizantino,
Edizioni Scientifiche, Napoli 1977 [Nuova Collana Saggi], 137), che esplicitamente assegna
la necessità dell’immagine solo a coloro che non hanno una “memoria forte”, i quali si dimo-
strano incapaci di «raggiungere direttamente i cieli con la loro anima e incontrare il divino»;
cfr. anche A. Karivieri, Divine or Human Images? Neoplatonic and Christian Views on Works of
Art and Aesthetics, in Numen 63 (2016), 196-209, in part. 198-200.
36 Bianchi Bandinelli, Roma. La fine dell’arte antica, 99.

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Il contesto storico-artistico 275

Quest’arte fu plebea perché rifiutò il ricorso, che era stato delle élites, ai
diversi stili dell’arte ellenistica quale “linguaggio” per esprimere i propri
valori, come era stato per l’arte romana della Repubblica e del primo im-
pero, dove operò un’autentica «semantizzazione degli stili»37. La nuova
immagine plebea non poteva più ricorrere alla filigrana dello stile: le man-
cavano forse i raffinati requisiti culturali che questa operazione presuppo-
neva o, pur disponendone, preferì essere fruibile a un più vasto pubblico;
essa scelse dunque di raffigurare, sfruttando al massimo il codice dei pro-
pri temi figurativi, in una sorta di sintassi dell’immagine in cui «l’ideo-
logia determina la struttura iconografica della composizione»38.
Questa nuova “arte”, che seppe (e forse volle) ergersi a specchio di un
tempo che cambiava, la cui vocazione corale si trasferì necessariamente
in un inedito spontaneismo stilistico, fu il Sitz im Leben della prima cul-
tura visuale cristiana.
Numerosi elementi dell’analisi di Ranuccio Bianchi Bandinelli colpi-
scono per la loro congruità alla storia della prima arte cristiana; mi limi-
to qui a richiamarne solamente tre:
1. la “complementarità”, se così si può dire, tra le ansie di un mondo
che finiva, sospeso tra «dolore di vivere» e «volontà di potenza», e
le aspettative entusiastiche di donne e uomini sulla soglia di un
Regno celeste che giungeva: in entrambi i casi, l’arte di questi an-
ni diviene arte della soglia;
2. la sincronia cronologica: sia l’«arte plebea» descritta da Bianchi
Bandinelli sia la più massiccia produzione iconografica cristiana
delle origini presero avvio dal principato di Commodo e con la
dinastia dei Severi (180-235)39;

37 Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, 67. Cfr. anche ivi, 74: «Le forme figurative e

stilistiche tràdite componevano […] innanzi tutto un sistema di valori espressivi […]. E ta-
le sistema, in cui le forme erano anche valori, era aperto sia alla riflessione artistica sia alla
pratica artistica irriflessa ».
38 Bianchi Bandinelli, Roma. La fine dell’arte antica, 101.
39 Cfr. almeno P. Testini, «Tardoantico» e «Paleocristiano». Postille per una positiva defini-

zione della più antica iconografia cimiteriale cristiana, in Tardo Antico e Alto Medioevo. La forma

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276 Le origini della cultura visuale cristiana

3. la natura «plebea» di questi fenomeni artistici, che trasformò il ri-


corso all’immagine dal coronamento di processi culturalmente
predeterminati all’esito spontaneo di un tentativo di rappresenta-
zione delle proprie idee e degli ideali condivisi: in questo senso, la
cultura visuale di II-IV secolo fu esemplarmente «arte plebea». Si
tratta di un difforme paradigma che si riflesse in quel passaggio
dalla magniloquenza della monumentalità alla ricerca dell’efficacia
comunicativa, esemplarmente ravvisabile nei “manifesti figurati”
che sostituiranno il monumento nell’ideale figurativo di questi
decenni.
Diventa necessario chiedersi quali “realtà collettive”, quali ideali e
quale “modello sintattico” si siano intersecati in questa nuova, prima cul-
tura visuale cristiana.

3. «IL POTERE DELLE IMMAGINI » (P. ZANKER):


LA FIGURA COME “MANIFESTO PROGRAMMATICO”
E COME “LUOGO ESPRESSIVO”

Per cogliere la decisiva importanza della lezione di Paul Zanker, è ne-


cessario partire ancora una volta da un’intuizione di Ranunccio Bianchi
Bandinelli. Atteso che l’arte romana fu arte didascalica per eccellenza, il
grande archeologo senese giustamente precisò come essa aspirasse espli-
citamente a parlare «alla comunità intera dei cittadini», aggiungendo che
«da essa doveva essere senza grandi difficoltà “letta” e intesa» 40. Sussiste-
va cioè una cultura visuale programmaticamente animata da un’ambizio-
ne comunicativa e da una sorta di “vocazione universalistica” che trascen-
deva ampiamente l’intrinseca misura della didascalicità della figura.
Non è possibile descrivere adeguatamente il “perimetro ideale” entro
il quale sorse la prima cultura visuale cristiana tralasciando il modo con
cui questa caratteristica dell’arte romana si espresse durante la costituzio-

artistica nel passaggio dall’Antichità al Medioevo. Atti del Convegno internazionale sul tema (Ro-
ma, 4-7 aprile 1967), Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1968 (Quaderni 105), 121-141.
40 Bianchi Bandinelli, Arte plebea, 37. I corsivi sono redazionali.

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Il contesto storico-artistico 277

ne statutaria dell’impero di Roma, nel drammatico passaggio dalla Re-


pubblica al Principato. Tale e tanto ampio fu lo spazio occupato dall’im-
magine nella vicenda che avrebbe deciso le sorti del nuovo edificio
politico augusteo da aver indotto Paul Zanker a introdurre l’idea di
un’«“interiorizzazione” dell’immaginario politico» augusteo 41.
Con un programma culturale di ampio respiro, perseguito con coerenza
lungo un arco di oltre vent’anni, ‹Augusto› si propose, e ottenne nei fatti, un
sostanziale rinnovamento della mentalità collettiva […]. Un programma del
genere richiedeva un nuovo linguaggio figurativo. Si tratterà […] di esaminare
i complessi rapporti tra l’instaurazione della monarchia, la riforma della società
e i mutamenti avvenuti nella sfera delle immagini e nell’intero sistema della
comunicazione visiva 42.

La rilevanza dell’intuizione di Paul Zanker, a ben guardare, è duplice.


Per un verso, infatti, l’archeologo tedesco attira l’attenzione su quel ricco
paradigma figurativo attraverso il quale Ottaviano Augusto volle signi-
ficare l’impianto ideale e la struttura del potere che si accingeva a costi-
tuire; per l’altro verso, egli sottolinea il potere che la visualità deteneva di
per sé nel mondo culturale romano 43. Non è possibile, infatti, declassare
l’intuizione augustea al rango di un mero espediente propagandistico:
l’“immaginario augusteo” non fu il capolavoro di una sorta di MinCul-
Pop ante litteram 44, fu piuttosto la naturale espressione di un’idea com-

41 P. Zanker, Immagini come vincolo: il simbolismo politico augusteo nella sfera privata, in

Id., Un’arte per l’ impero. Funzione e intenzione delle immagini nel mondo romano, Electa,
Milano 2002 (Saggi di archeologia 7), 79-91, qui 80. Cfr. anche R.R.R. Smith, Typology
and Diversity in the Portraits of Augustus, in Journal of Roman Archaeology 9 (1996) 31-47.
42 Zanker, Augusto e il potere delle immagini, 5.
43 Così anche Hölscher, Visual Power, 1: «Nell’antica Grecia e a Roma, la visualità gio-

cava un ruolo enorme a tutti i livelli della vita. Vita sociale significava vivere con le imma-
gini. Ma c’era di più: anche la vita sociale in quanto tale era segnata in misura estrema da
manifestazioni del visuale, esperienze del visuale e interazioni con il visuale» (cfr. anche ivi,
1-13; R.R.R. Smith, The Use of Images: Visual History and Ancient History, in T.P. Wiseman
[ed.], Classics in Progress: Essays on Ancient Greece and Rome, British Academy - Oxford Uni-
versity Press, Oxford 2002, 59-102).
44 Ha d’altra parte ragione C. Ando, Imperial Ideology and Provincial Loyalty in the Ro-

man Empire, University of California Press, Berkeley (CA) - Los Angeles (CA) - London
2000 (Classics and contemporary thought 6), 228-239, a sottolineare l’iniziativa imperia-
le nella selezione della ritrattistica e nella sua diffusione attraverso le province imperiali:

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278 Le origini della cultura visuale cristiana

plessa del mondo in un tempo che riconosceva nell’immagine il proprio


strumento comunicativo più diffuso e più efficace. L’immagine era, in
altri termini, di per sé il “luogo d’elezione” dal quale riformare la società
e istituire un nuovo potere.
E dunque: «Se […] non esisteva un’autorità preposta alla propaganda
imperiale e se la scelta delle immagini era demandata, almeno in teoria, al
singolo committente, come si formò questo linguaggio figurativo politico,
che nel suo insieme era piuttosto coerente?» 45. Come proposto da Tonio G.
Hölscher 46, il successo dei diversi temi iconografici, anche in ambito pub-
blico, si determinava attraverso due fattori: il loro impiego da parte di più
committenti e la loro fortuna mediatica – l’efficacia, cioè, con cui erano in
grado di trasformare in immagine il contenuto loro affidato. Se ne ricava
il profilo di un linguaggio iconico del tutto orientato alla spendibilità co-
municativa, a cospetto della quale gli elementi stilistici – che, per la mo-
derna sensibilità, rappresentano la soglia autentica tra immagine e opera
d’arte –, quando non venivano scientemente impiegati quale «sistema se-
mantico» 47, come si vedrà, erano considerati al massimo espressioni della
techne del singolo artigiano. Di più ancora, però, si ricava il profilo di un’ar-

«Per l’impero dal IV secolo in poi […] abbondanti testimonianze letterarie descrivono non
solo l’invio di ritratti all’inizio dei principati, ma anche la ricezione di questi ritratti da par-
te delle comunità locali» (229).
45 P. Zanker, Il mondo delle immagini e la comunicazione, in Id., Un’arte per l’ impero,

9-37, qui 16.


46 Cfr. T.G. Hölscher, Monumenti statali e pubblico, L’Erma di Bretschneider, Roma

1994 (Società e cultura greca e romana 3), 137-173.


47 Oltre al fondamentale studio di Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, è necessario

fare riferimento anche a Zanker, Augusto e il potere delle immagini, 255-280, il quale giusta-
mente segnala il ruolo angolare che all’elemento stilistico il nuovo impero augusteo affidò,
non però sul piano della definizione di un “gusto”, ma appunto nella configurazione di un
ideale politico e culturale: «La nuova cultura doveva essere una sorta di supercultura, capa-
ce di unire il meglio della tradizione greca al meglio dell’eredità romana, di fondere l’este-
tica greca col senso romano della moralità e della virtus. Doveva essere una cultura esem-
plare, degna di un popolo dominatore e tale da imporsi in tutto l’impero […]. Solo entro
questa cornice diventano comprensibili le qualità specifiche del classicismo e dell’arcaismo
augusteo. Non si trattava di una moda o di un semplice orientamento del gusto […]. Lo
“sguardo indietro” dell’arte augustea obbedisce, invece, a una precisa ideologia, a una ben
definita e aggressiva visione del mondo» (ivi, 155-156).

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Il contesto storico-artistico 279

te “libera”, «intreccio fra le iniziative celebrative del sovrano e gli omaggi


più o meno spontanei offertigli dalla popolazione: un processo che non
sembra obbedire, in gran parte, a nessuna regia occulta» 48.
Attraverso le immagini, Ottaviano colse dunque l’occasione di stabi-
lire un’interlocuzione diretta con tutta la società – che proprio attraverso
le immagini era già abituata ad esprimersi –, sfruttando l’efficacia
dell’“arte” per stringere ulteriormente quel rapporto esclusivo con il po-
pulus romanus che egli, mantenendo saldamente la tribunicia potestas,
aveva dimostrato di avere particolarmente a cuore. Dunque, la scelta au-
gustea di (raf)figurare, prima ancora che (de)scrivere, non va letta soltan-
to né principalmente quale tentativo di propagandare più efficacemente
l’architettura del nuovo ordine, ma come proiezione universale della nuo-
va realtà politica, nella definizione della coscienza culturale e sociale di
quella cittadinanza imperiale che il Principe stava creando.
Vero è anche, come pure osserva Paul Zanker, che, «nel nostro conte-
sto, il concetto di “arte” è insufficiente e va sostituito con quello più am-
pio di “immagine”, che comprende tutte le manifestazioni con carattere
di evidenza figurativa, anche quelle di natura effimera» 49, perché l’im-
magine della nuova Roma fu autentica “cultura visuale”, sistema di valo-
ri figurato e perciò diffusivo se non dominante. In un tempo in cui «le
strutture politiche e sociali dello stato cambia‹ro›no, ma l’esigenza di sin-
cerarsi del proprio status e della propria appartenenza culturale, nonché
di proclamarlo agli altri, rima‹sero›»50, lo “spazio dell’immagine” risultò
naturalmente il crocevia di un’intera epoca e dunque il luogo ideale per
definirne la nuova identità.

48 Zanker, Augusto e il potere delle immagini, 5. Il dato è di particolare rilevanza in rela-

zione alla prima produzione visuale cristiana perché elimina la necessità di un indirizzo ec-
clesiastico. Come non vi fu alcuna «regia occulta » nella più generale tradizione iconografi-
ca imperiale, così non è necessario postulare che, per essere teologicamente rilevante,
l’immagine cristiana debba presupporre una matrice ecclesiastica.
49 Zanker, Il mondo delle immagini, 11.
50 Zanker, Il mondo delle immagini, 10. Cfr. la straordinaria descrizione del monumento fu-

nebre di Trimalcione di Petronio Arbitro, Satyricon 71, che Bianchi Bandinelli, Arte plebea, 41,
paragona al rilievo funebre proveniente da Amiternum e ora al Museo Nazionale de L’Aquila.

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280 Le origini della cultura visuale cristiana

La centralità dell’immagine dell’imperatore quale manifesto ideale del


suo principato – e perciò come modello della romanità – trovò nel regno
di Settimio Severo (193-211) un momento insieme di tipica conferma e
di decisivo cambiamento. Si tratta di un passaggio particolarmente rile-
vante per questa ricerca, in relazione alla cronologia della più antica cul-
tura visuale cristiana.
In quanto imperatore, Settimio era generale – come Cesare –, patriar-
ca della civi(li)tas e custode dell’antico mos maiorum, pater Patriae – come
Augusto –, guida divina di tutto il cosmo51 – come Vespasiano – e filo-
sofo nella ricerca del bene e della verità – come Marco Aurelio. A ciascu-
na di queste funzioni la corte di Settimio fece corrispondere altrettanti
modelli iconografici che però, come nota perspicuamente Niels Hanne-
stad, presero infine il sopravvento sulla caratterizzazione ritrattistica
dell’iconografia imperiale: «In molti casi, sin dal tempo di Augusto, l’im-
magine dell’imperatore era stata una finzione ( fiction). Severo compì
l’ultimo passo e abbandonò la finzione ( fiction) dell’immagine del domi-
natore quale autentico ritratto»52.

Per capire questa intima interazione tra ideale politico e prassi religiosa (che si con-
51

cretizzava in quel formalismo rituale che veniva identificato dal sostantivo thrēskeia), può
essere utile richiamare il comma sesto della discussa c.d. “Lex de Imperio Vespasiani”, ero-
gata per senatoconsulto il 22 dicembre 69 e.v., pervenutaci attraverso una trascrizione su la-
stra bronzea conservata ai Musei Capitolini di Roma (NCE 2553). Da questo testo emerge
chiaramente «il carisma, soteriologico e metagiuridico» del principato romano (F. D’Ippo-
lito - F. Lucrezi, Profilo storico istituzionale di diritto romano, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli 2018, 321). Nel definire il mandato del Principe, il testo senatorio precisa (righe 14-
16): «Egli abbia diritto e facoltà di intraprendere e compiere tutto ciò che egli deciderà pos-
sa giovare, a partire dalla consuetudine, per la maestà della Repubblica nelle questioni di-
vine e umane, pubbliche e private (Quaecunque ex usus rei publicae maiestate divinarum, |
huma‹na›rum, publicarum privatarumque rerum esse {ei} | censebit, ei agere, facere ius potestas-
que sit)» (CIL 6, 930; ILS 244). Si tratta, in altri termini di un mandato che coinvolge la
somma di tutto ciò che esiste: al principe era affidato il compito di religare, unire assieme
(ed è questa l’etimologia di “religio” secondo Lattanzio, Divine istituzioni 4,28,2) “imma-
nente e trascendente”, “umano e superumano”, “mondano e divino”. Cfr. la perspicua ana-
lisi di M. Peachin, Exemplary Government in the Early Roman Empire, in O. Hekster - G.
de Kleijn - D. Slootjes (eds.), Crises and the Roman Empire. Proceedings of the Seventh Work-
shop of the International Network Impact of Empire (Nijmegen, June 20-24, 2006), Brill,
Leiden - Boston (MA) 2007 (Impact of Empire 7), 75-95, in part. 82-95.
52 N. Hannestad, Roman Art and Imperial Policy, Aarhus University Press, Aarhus 1988,

261. Tutti e quattro questi paradigmi dell’ideale imperiale trovarono spazio nella decora-

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Il contesto storico-artistico 281

Se dunque per un verso il cruciale passaggio dell’età severiana ribadi-


sce ulteriormente la pervasività della figura nella cultura romana impe-
riale, d’altra parte esso dimostra che, con il principato di Settimio Seve-
ro, il “potere dell’immagine” celebrò infine il suo più alto trionfo: il tipo
iconografico prendeva il sopravvento persino sull’identità somatica dello
stesso imperatore53. L’immagine trionfava sull’identità della storia.

4. «IL LINGUAGGIO DELL’ARTE » (T.G. HÖLSCHER):


LA FORMA COME « SISTEMA SEMANTICO »

L’ultima coordinata necessaria per delineare i caratteri salienti dello


spazio “storico-artistico” entro il quale sorse la prima cultura visuale cri-
stiana è fornita dalla ricerca di Tonio G. Hölscher. Nel corso di queste
pagine si è già più volte richiamata la monografia Il linguaggio dell’arte
romana. Un sistema semantico: in essa, l’archeologo tedesco assumeva, qua-
le premessa per la comprensione dell’arte romana, un punto prospettico
simile a quello che qui si sta cercando di fare emergere: il «non considera-
re più le opere d’arte solamente dal punto di vista della produzione (cioè
come espressione dell’artista e del committente), ma anche da quello del-
la comunicazione, come fattore della vita sociale nel suo complesso»54.
A giustificare questa necessità critica stanno, a giudizio di Tonio G.
Hölscher, le difficoltà specifiche che la visualità romana poneva. Mentre,
infatti, l’arte greca sembra rispondere meglio a quell’istanza di “assoluta
originalità” che cifra nel sentire contemporaneo il concetto di “arte”, «il
linguaggio dell’arte romana», costitutivamente declinato a partire dalla

zione dell’Arco di Leptis Magna o sul c.d.“Arco degli Argentari” di Roma: cfr. ibidem e ivi,
rispettivamente 270-277 e 277-283.
53 Ovviamente questa osservazione coglie un fenomeno che è al di là anche della fon-

damentale intuizione di L. Giuliani, Bildnis und Botschaft: Hermeneutische Untersuchungen


zur Bildniskunst der römischen Republik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986 (cfr. anche
Hölscher, Visual Power, 151-201), circa la decisiva rilevanza della patognomica nella codifi-
cazione mediatica della ritrattistica: non si tratta qui della trasformazione del ritratto in un
codice di espressioni facciali, atteggiamenti e gesti, ma dell’abbandono di ogni aspettativa
fisiognomica. L’imperatore non è più un individuo ma un ideale.
54 Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, 9.

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282 Le origini della cultura visuale cristiana

replica di modelli ellenistici e dalla selva della copie di opere greche, per
lungo tempo è stato descritto come un fenomeno culturalmente subalter-
no. Al contrario, osserva l’archeologo, per coglierne l’originalità e, se si
vuole, la specificità, è necessario assumere una posizione diversa. L’origi-
nalità dell’arte romana, cioè, non sarebbe più data dal “fare l’opera d’arte”
– perché qui, in effetti, molto venne tratto dalla tradizione greca –, ma dal
“fare tramite l’opera d’arte”. Si determina in tal modo la decisiva doman-
da circa «il compito […] d‹e›lla tradizione greca all’interno della civiltà
imperiale romana»55.
La rilevanza di questa domanda si può cogliere solo rispettandone
l’ampiezza: Tonio G. Hölscher non si chiede, infatti, quale obiettivo im-
mediato – propagandistico, parenetico, educativo ecc. – fosse affidato
all’arte, ma quale ruolo essa abbia ricoperto entro la trama culturale e
sociale dell’edificio imperiale romano. Se Paul Zanker aveva attirato l’at-
tenzione sul potere dell’immagine nell’età augustea (e imperiale), Höls-
cher ne ha identificato la sistematizzazione semantica:
Le forme stilistiche dei vari periodi dell’arte greca venivano riprese soprat-
tutto perché in tal modo si potevano rappresentare adeguatamente temi e con-
tenuti differenti […]: a dominare non è un relativismo determinato dall’arbitrio,
e neppure una preferenza di gusto, bensì una selezione regolata su ciò che si
intende comunicare […]. Si produsse così un sistema in cui le forme dell’arte
greca venivano filtrate da criteri non stilistici ma principalmente semantici, […]
una semantizzazione degli stili56.

«Rappresentare […] temi e contenuti», «ciò che si intende comunica-


re», «criteri […] semantici», «semantizzazione degli stili»: qui si deve
ravvisare il proprium dell’arte romana: essa fu un sistema semantico. Il
dato è significativo perché non si limita a constatare che l’immagine si-
gnifica, ma che il carattere distintivo della visualità romana era di avere
fatto del figurativo uno strumento articolato, riconosciuto e accessibile,

Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, 11.


55

Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, 67; cfr. anche Id., Greek Styles and Greek Art
56

in Augustan Rome: Issues of the Present Versus Records of the Past, in J.I. Porter (ed.), Classical
Pasts. The Classical Traditions of Greece and Rome, Princeton University Press, Princeton
(NJ) 2006, 237-259.

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Il contesto storico-artistico 283

per comunicare57. Il fatto, poi, che questo carattere possa e debba essere
considerato rilevante sul piano artistico è provato dal fatto che esso fu ar-
tisticamente generativo:
Molte delle immagini […] ‹romane› non sono copie in senso stretto da ori-
ginali antichi, bensì adattamenti da opere greche, o addirittura creazioni ex
novo nello stile dei modelli greci; è indicativo che, in relazione alla funzione
programmatico-contenutistica delle immagini, non si distingua tra riproduzio-
ni fedeli e creazioni più o meno innovative 58.

È dunque proprio la «funzione programmatico-contenutistica» di


quest’arte a permetterle di passare dalla passiva subalternità ai modelli
greci all’autonoma creazione di nuovi originali: poiché lo stile non era un
“originale” da copiare ma un vettore semantico, esso poteva essere origi-
nalmente impiegato pur se in un tempo che lo aveva ormai struttural-
mente risemantizzato.
Ancora una volta va precisato che la definizione di questa cultura vi-
suale non fu una costituzione “a tavolino”, positivamente regolata e nor-
mata formalmente; si trattò senz’altro di un fenomeno spontaneo, solle-
citato da numerosi fattori, storici, sociali, economici, politici e culturali59.
Ciò che qui è urgente segnalare è come questo sistema semantico, che
connotava l’identità culturale dell’impero di Roma, si espresse acquisen-
do e rilanciando valori, temi formali e stili della “classicità” greca (ed el-
lenistica): esattamente ciò che portò alla costituzione di una cultura vi-
suale cristiana.

57 Sull’approccio semiotico della lezione di Hölscher, cfr. A. Weissenrieder - F. Wendt,

Images as Communication. The Methods of Iconography, in A. Weissenrieder - F. Wendt - P.


von Gemünden (eds.), Picturing the New Testament. Studies in Ancient Visual Images, Mohr
Siebeck, Tübingen 2005 (WUNT 2, 193) 3-49, qui 28-37.
58 Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, 57.
59 È appena il caso di sottolineare come la svolta imperiale di Roma sia coincisa con il

consolidamento della misura (politica ed economica in primis, ma non soltanto) continen-


tale del dominio romano e la conseguente, necessaria nascita di una cittadinanza cosmopo-
lita, bisognosa di poter condividere un sistema culturale (e visuale!) comune. Il parametro
greco (grazie al decisivo contributo, in tal senso, fornito dall’ellenismo) doveva rappresen-
tare la più naturale soluzione.

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284 Le origini della cultura visuale cristiana

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Abbandonate le coordinate antistoriche fornite dal successivo dibatti-


to iconoclasta, il contesto entro il quale emerse la prima cultura visuale
cristiana dev’essere dato innanzi tutto dal parallelo con la coeva “cultura
artistica” dell’impero romano. Troppo spesso questo principio critico è
stato travisato e impiegato entro una griglia interpretativa troppo mecca-
nicamente ridotta all’antitesi tra giudeo-cristianesimi (fedeli alla propria
identità) e cristianesimi ellenizzati (o, si potrebbe anche dire: “compro-
messi”, “contaminati” ecc.). Eppure esso non implica di per sé la difesa
di un habitus “pagano”, ma semplicemente la partecipazione a una sta-
gione culturale nella quale l’immagine, prima di essere “sacra”, era molto
altro 60.
Sciolta da questi pregiudizi, la prima cultura visuale cristiana può es-
sere studiata quale fenomeno iconico del tutto armonico con l’epoca cul-
turale durante la quale nacque.
1. Si tratta di un fenomeno figurativo che si manifestò quale “cultura
visuale” e che soltanto da questa prospettiva permette di cogliere i
caratteri della sua specificità qualificante. Non fu originale, infat-
ti, per via dell’introduzione di uno stile nuovo o tramite una pro-
pria teoresi dell’immagine – essa giungerà, ma solo tardivamente,
e sarà il contenuto della grande crisi iconoclasta. L’“arte” dei primi
cristiani si distinse per i contenuti che volle elaborare e per il siste-
ma esegetico sul quale si costituì il rapporto con il suo osservatore.
2. In essa si dispiegò un sistema di valori che, di contro al «dolore di
vivere» e alla «volontà di potenza» tardo-imperiali, espresse un’im-

60 La disfunzionalità di questo presupposto si potrà forse cogliere più facilmente facen-

do ricorso al parallelo con la “cultura letteraria” delle origini cristiane: l’obiezione che si
muove alla nascita di una cultura visuale cristiana coincide con l’affermazione che l’adozio-
ne della lingua greca, in vece dei dialetti aramaici, connoti una “paganizzazione” precoce
dei movimenti cristiani. Del resto, come giustamente sottolinea T. Burckhardt, The Foun-
dations of Christian Art, World Wisdom, Bloomington (IN) 2006, 1: «Quando gli storici
dell’arte impiegano l’espressione “arte sacra” per ciascuna opera di soggetto religioso dimen-
ticano che l’arte è essenzialmente forma ».

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Il contesto storico-artistico 285

pazienza della fine e un entusiasmo escatologico che permearono


la ricerca iconica di questa cultura visuale, producendo un’auten-
tica “immagine ambiziosa”, per aspirazione argomentativa e per
ampiezza di significato.
3. Fu «arte plebea» per eccellenza: fenomeno spontaneo e “dal basso”
– non eterodiretto né governato, cioè –, espressione di un nuovo
popolo che si stava aggregando e che desiderava esprimersi diffu-
samente, non limitandosi al limitato pubblico della scrittura.
4. Fu “immagine potente” sia per gli esiti, perché essa fu capace di
costituire valore e di orientare la definizione degli ideali di una
nuova cittadinanza, sia per la sua intrinseca disponibilità, perché
fu riconosciuta come strumento comunicativo per eccellenza (me-
dium di per sé), precocemente adottato e largamente impiegato
nelle comunità cristiane.
5. Fu «sistema semantico», non per una “significazione dello stile”
impiegato, come avvenne per l’“arte romana”, ma per la più rigo-
rosa codificazione dei suoi temi iconografici e per l’impiego di una
sintassi tipologica; fu appunto «sistema semantico», condiviso e
orientato all’elaborazione e alla comunicazione di valori e di idee.

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IV.

IL CONTESTO GENETICO

L’approccio visuale all’arte insegna che, benché motivato da un’inten-


zione specifica e caricato di una funzione originalmente assegnata, un
documento visuale può diventare mille “opere” diverse, a seconda degli
occhi che lo osservano, del significato che esso riceve, delle epoche in cui
è visto, della storia che ha vissuto ecc.
Lo scopo di questa ricerca, come già dichiarato, è quello di valutare
se sia possibile ricondurre criticamente la più antica documentazione vi-
suale cristiana al suo proprio originario Sitz im Leben, ricavando da essa
le ragioni che ne motivarono la committenza e i significati che vi rico-
nobbero i suoi antichi spettatori. In altri termini, come osservato da Paul
Zanker, i presupposti dell’approccio visuale diventano efficaci storiogra-
ficamente solo quando si accompagnano a una metodologia che permet-
ta di amministrare la fluidità semantica dell’immagine:
Ogni immagine è finalizzata alla comunicazione e dipende da essa […].
Ogni committente e ogni realizzatore di un’immagine intende dire qualcosa,
si rivolge a un pubblico. Questo banale dato di fatto acquista interesse per lo
storico solo nel momento in cui egli riesce a ricostruire e analizzare i contesti
concreti in cui le immagini esplicavano i propri effetti1.

Le prossime pagine vorrebbero richiamare gli aspetti salienti dei due


parametri fondamentali dei «contesti concreti» della performance – come
oggi piace dire – dell’immagine cristiana antica: la committenza e la frui-
zione, intesa quest’ultima come “contesto performativo” (dove l’immagi-
ne era situata) e come audience del documento visuale cristiano delle ori-
gini (chi osservava l’immagine).

1 Zanker, Il mondo delle immagini, 9.

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Il contesto genetico 287

1. LA COMMITTENZA
La committenza d’arte cristiana è un campo ancora in parte inesplo-
rato2; quel che se ne può dire emerge dall’intersezione di diverse coordi-
nate storiografiche: il parallelo con il coevo contesto romano-imperiale; la
“storia sociale” delle origini cristiane; le informazioni che ci provengono
direttamente dalle opere superstiti – epigrafiche, ma non solo.

1.1. Il contesto romano imperiale


In una fondamentale Appendice dedicata ai «prezzi dei monumenti
funerari», Martin Bang raccolse un ricco dossier documentario circa l’o-
nere economico della sepoltura 3. Volendosi limitare all’acquisto dei
sarcofagi e alle informazioni relative all’età dioclezianea – con la quale
termina l’Appendice – ricavate da documenti di matrice cristiana, emer-
gono almeno tre iscrizioni rilevanti 4:

2 Costituiscono una fondamentale eccezione a questa affermazione le ricerche di J.

Dresken-Weiland, Sulla rappresentazione di defunti nei sarcofagi paleocristiani, in XLI Cor-


so di cultura sull’arte ravennate e bizantina: Seminario Internazionale sul tema: «Ravenna,
Costantinopoli, Vicino Oriente». Ravenna, 12-16 settembre 1994. In Memoria del Prof. F.W.
Deichmann, Edizioni del Girasole, Ravenna 1995, 109-113; Ead., Zur Rolle der Auftragge-
ber früchristlicher Sarkophage, in Das Münster 50 (1997) 19-27; Ead., Sarkophagbestattungen
des 4.-6. Jahrhunderts im Westen des römischen Reiches, Herder, Rom - Freiburg - Wien 2003
(Römische Quartalschrift für christliche Alterthumskunde und für Kirchengeschichte. Sup-
plementhefte 55), in part. 18-80; Ead., s.v. «Patronage: Sarcophagus Evidence », in EEECA,
2, 306-307. Molto rilevanti per questo approfondimento sono anche le pagine, dedicate a
«i defunti» di A. Bertolino, Dagli ipogei alle catacombe. Organizzazione e funzionamento dei
cimiteri sotterranei in epoca romana, Arbor Sapientiae, Roma 2022 (Antichità Romane 49),
79-108. Engemann, Deutung und Bedeutung, 23-34, interseca il tema della committenza
con quello della visualità.
3 M. Bang, Preise von Grabdenkmälern, in L. Friedlaener, Darstellungen aus der Sitten-

geschichte Roms in der Zeit von Augustus bis zum Ausgang der Antonine, 4: Anhänge, Hirzel,
Leipzig 19219-10, 304-309. Una breve descrizione del “patronato artistico” nel mondo clas-
sico si può trovare in P. Stewart, The Social History of Roman Art, Cambridge University
Press, Cambridge - New York (NY) 2008 (Key Themes in Ancient History), 32-38.
4 Cfr. anche, per un periodo posteriore, ICUR 2, 6077 (del 426, dove si attesta l’acqui-

sto di un «locum » per «un solido d’oro e mezzo»); cfr. inoltre ICUR 1,1282; 7, 19158; 7,
20669; a partire dal IV secolo in poi, cfr. J. Guyon, La vente des tombes à travers l’ épigraphie
de la Rome chrétienne (IIIe-VIIe siècles): le rôle des fossores, mansionarii, praepositi et prêtres,
in Mélanges de l’Ecole française de Rome 86 (1974) 549-596.

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288 Le origini della cultura visuale cristiana

1. « UBI HXN EMIT UX | ORI SARTOPHAGU[M] AUREIS IX ([?] comprò


per la moglie un sarcofago al prezzo di nove aurei)», datata agli
inizi del IV secolo e di provenienza romana5;
2. « AR]CA SOLIDOS QUAT | TUOR (‹acquistò› un’arca funebre per quat-
tro solidi)», proveniente da un frammento di sarcofago con acro-
teri, rinvenuto nell’area necropolare di Manastirine, a ridosso del-
la basilica dei santi Doimo e Venanzio, martiri dioclezianei 6;
3. «P PERSEUS ET SUC | CESSA SE VIVOS | CONPARAVERUNT | AURI
SOLIDOS QUAT | TUOR TRIMISE UNUM X (Perseo e Successa, anco-
ra viventi, comprarono per loro ‹il sarcofago› al prezzo di quattro
solidi e un tremisse)», non datato ma certamente cristiano, di pro-
venienza romana 7.
Si tratta di cifre (che valutano l’acquisto di un sarcofago tra i quattro
e i quindici solidi dioclezianei), coerenti con quelle ricostruibili in ambi-
to profano, che lasciano intravedere l’impegno di un consistente investi-
mento (un solido equivaleva a mille denari; uno schiavo, secondo l’Editto
sui prezzi del 301, avrebbe dovuto costare trentamila denari) 8 per le
necessità della sepoltura.

5 CIL 6, 29975; l’aureo fu battuto dal I secolo agli inizi del IV, quando venne sostitui-

to dal solido dioclezianeo. Sembra propendere per una matrice cristiana di questa epigrafe
Dresken-Weiland, s.v. «Patronage », 306, ove è menzionata quale «unica isolata attestazio-
ne […] del costo di un sarcofago».
6 F. Bulić, Scavi nell’antico cimitero cristiano di Manastirine (Coemeterium legis sanctae

christianae) durante l’a. 1896, in Bullettino di archeologia e storia dalmata 20 (1897), 81-96,
qui 89, numero 2289. Il pezzo viene messo in relazione all’iscrizione CIL 3, 8742, riferita a un
sarcofago cristiano di metà IV-inizi V secolo di Salona (dove pure si trova la necropoli di Ma-
nastirine [Croazia]), fatto realizzare da Severa per il marito, il protector Flavius Magnianus, e
costato quindici solidi. In entrambi i casi si tratta ovviamente di solidi aurei di Diocleziano.
7 Marucchi, I monumenti egizi, 191.
8 Per questo parametro cfr. almeno B. Salway, Mancipium Rusticum Sive Urbanum:

The Slave Chapter of Diocletian’s Edict on Maximum Prices, in Bulletin of the Institute of Clas-
sical Studies 109 (2010) 1-20. Come nota S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV secolo. Ricerche
di storia tardo-romana, RCS, Milano 2002 (BUR Saggi) (ed. or. Roma 1951), 91-97, però,
l’operazione dioclezianea aveva attribuito alla moneta un valore nominale assai rilevante,
potenziandone fortemente il potere d’acquisto, il che lascia aperta la questione se il costo
dichiarato da queste epigrafi sia da ricondurre a quel valore nominale o se sia da parame-
trare rispetto all’uso comune; tale forbice non cambia nella sostanza l’osservazione della ri-
levanza dell’investimento necessario per acquistare un sarcofago.

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Il contesto genetico 289

Ben Russell ha ampiamente descritto «il commercio dei sarcofagi»9


nel mondo romano, illustrando la gamma di opzioni possibili per gli ac-
quirenti, la filiera produttiva e le peculiarità di mercato, confermando
sostanzialmente la dispendiosità qui sottolineata della compravendita di
sarcofagi. Predisporre un sarcofago era infatti un’operazione costosa, in
denaro e in tempo, che, dalla cava alla posa in opera (processo comples-
so che richiedeva il reperimento del materiale, la predisposizione della
struttura, la scultura dell’apparato figurativo e, infine, la sua posa in ope-
ra), impegnava numerose maestranze e poteva richiedere mesi o anni per
essere realizzata 10.
Il “costo della sepoltura”, in altri termini, rappresentava un investi-
mento tale che ben difficilmente può essere immaginato presupponendo
una committenza marginalizzata, costretta nella passività dell’acquirente
di un bene di consumo. Di particolare interesse paiono a questo riguardo le
osservazioni che Ben Russell avanza circa il «momento dell’acquisto»11.

9 Cfr. B. Russell, The Economics of the Roman Stone Trade, Oxford University Press,

Oxford 2013 (Oxford Studies On The Roman Economy), 256-310. Cfr. anche Y.A. Mara-
no, Marmo e committenze nell’Adriatico tardoantico (V-VI secolo d.C.), in E. Cirelli - E. Gior-
gi - G. Lepore (eds.), Economia e Territorio. L’Adriatico centrale tra tarda Antichità e alto Me-
dioevo, BAR, Oxford 2019 (International Series 2926), 41-49.
10 Sulla produzione dei sarcofagi, cfr. B. Russell, The Roman Sarcophagus ‘Industry’: a

Reconsideration, in Elsner - Huskinson (eds.), Life, Death and Representation, 119-147, qui
123-127. L’alto costo dei sarcofagi sembra confermato ancora da una notizia riportata da
Cassiodoro, Varie 3,19, in riferimento al periodo teodoriciano (Teodorico il Grande fu re del
regno ostrogoto in Italia dal 493 al 526; il testo della missiva riportata da Cassiodoro è per
gli anni 507-511). Qui viene documentato il tentativo di disciplinare il costo dei sarcofagi
(« Affinché non vi sia un prezzo iniquo [iniqua taxatio] sotto ‹la pressione di› queste circo-
stanze, né coloro che hanno subito la perdita siano obbligati, tra i dolorosi gravami dei lut-
ti, a piangere la dispersione delle loro ricchezze [plorare dispendia facultatum] e, costretti a
un’empia devozione [nefanda devotione constricti], vengano forzati ‹alternativamente› a per-
dere i loro patrimoni a vantaggio dei morti [patrimonia pro mortuis perdere], o a gettare i
corpi amati nelle più squallide fosse»), investendo un certo Daniele, scultore apprezzato a
corte («Deliziati dall’abilità della tua arte che eserciti con cura nello scavo e nella decora-
zione dei marmi [Artis tuae peritia delectati quam in excavandis atque ornandis marmoribus
diligenter exerces]»), del compito di sovrintendere al loro commercio. Per una contestualiz-
zazione del testo, cfr. Marano, Marmo e committenze.
11 Cfr. Russell, The Economics of the Roman Stone Trade, 258-259. Cfr. però anche

T. Cornell, Artists and Patrons, in T. Cornell - M. Crawford - J. North (eds.), Art and Pro-
duction in the World of the Caesars, Olivetti, Milano 1987, 17-36; Stewart, The Social History.

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290 Le origini della cultura visuale cristiana

Reagendo all’ipotesi che immaginava la compera di sarcofagi sotto l’ur-


genza della necessità, e quindi presumendo una sorta di scelta entro uno
stock di pezzi già predisposti in bottega e solo da ultimare – il che esclu-
derebbe l’apporto della committenza nella progettazione del pezzo12 –,
egli osserva l’alta incidenza di epigrafi che parlano del defunto come «zōn
(vivente)» o, più ampiamente, di dichiarazioni come la ben nota formula
latina, «vivus/-a sibi fecit (lo fece per sé mentre era in vita)». Si tratta di
testimonianze preziose della volontà di determinare la propria sepoltura,
di provvedere ad essa – come recita un’epigrafe proveniente dal cimitero di
Domitilla (datata tra III e IV secolo) – «per / umana tranquillità (pro /
humana securitate)»13.
La stagione dei sarcofagi con rilievi, nella quale si inserisce anche l’in-
tensa produzione funeraria cristiana pervenutaci, esprime «l’intento del
nuovo culto funerario», affermatosi nella Roma imperiale: se, per un ver-
so, «un sepolcro di marmo esprimeva con particolare efficacia l’idea che
la memoria della morte non si sarebbe mai estinta […] ‹, la› sorprendente
interiorizzazione del culto funerario, che circonfuse i sepolcri di un’aura
più intensa e sentimentale e che produsse nuovi rituali e […] un nuovo
linguaggio figurativo», d’altra parte, questa nuova stagione voleva espri-
mere anche «una più esplicita autoaffermazione individuale […] e soprat-
tutto dimostrare ‹l’›appartenenza all’élite culturale»14. La tomba diveniva
così, prima ancora che luogo della memoria, autentico bilancio della vita.
Predisporre la propria sepoltura non era, dunque, semplicemente un
onere di decoro, ma rappresentava un autentico dovere verso di sé e verso
la propria famiglia; emblematico è il caso di «Arrius Alphius ‹che› aveva
seppellito temporaneamente ‹moglie e figlio› in bare di terracotta presso
un’altra tomba finché non fu in grado di permettersene una tutta sua che

Cfr. almeno G. Koch - H. Sichtermann, Römische Sarkophage, Beck, Munich 1982


12

(Handbuch der Archäologie), 613-614; Stewart, The Social History, 37.


13 ICUR 3, 9181. Analoga situazione si può documentare per il c.d. “Testamento di Lin-

gon” (CIL 13, 5708). È d’altra parte questo il senso della famosa pagina di Petronio, Satyri-
con 71.
14 Zanker - Ewald, Vivere con i miti, 28-29.

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Il contesto genetico 291

doveva avere un sarcofago di marmo per i loro resti e per i suoi, “in mo-
do che quando morirò io possa essere deposto lì, prossimo a loro”»15.
Conseguire questo duplice scopo – affermare la propria identità
(ideale) e dislocare nello spazio del valore e della perpetuità la propria
familia – venne considerato meritevole di un crescente investimento pe-
cuniario e comportò un sempre maggiore coinvolgimento da parte della
committenza che, dunque, va riguardata come un attore coinvolto nella
genesi ideale dell’“opera”, non come un semplice acquirente “finale”16.

1.2. Il Sitz im Leben storico-sociale


Le osservazioni appena svolte credo permettano di concordare con
Guntram Koch quando afferma che
la maggior parte dei sarcofagi ‹cristiani› furono probabilmente ordinati e poi
realizzati appositamente secondo il volere del committente, sia nei centri di
produzione, cioè Roma, Ravenna e Costantinopoli, sia in provincia […]. Non
si sa quasi nulla del costo dei sarcofagi del periodo paleocristiano. ‹D’altra par-
te,› Se le iscrizioni danno informazioni sui sepolti, diventa chiaro – soprattutto
nel caso dei sarcofagi in marmo – che dovevano essere persone facoltose17.

Sappiamo in effetti che numerose iscrizioni cristiane rivendicarono ai


loro commemorati il clarissimato18, sintomo di un’appartenenza sociale
quanto più alta possibile19, fatto che ben si allinea alle informazioni in

Cfr. Hope, Roman Death, 175-176. L’iscrizione di Alphius è del 155 (CIL 6, 2120).
15

Si noti il carattere individuale o, al più, familiare di questi «investimenti sulla mor-


16

te», per usare una felice definizione di Zanker - Ewald, Vivere con i miti, 28. Non si deve
dimenticare che il sarcofago e la tomba erano ciò a cui si affidava non solo il proprio corpo
ma anche e soprattutto la preservazione del proprio ricordo e, in taluni casi, l’onere di ma-
nifestare la propria eredità ideale.
17 G. Koch, Frühchristliche Sarkophage, Beck, Munich 2000 (Handbuch der Archäo-

logie), 90.
18 Cfr. M. Corbier, Les familles clarissimes d’Afrique proconsulaire (Ier -IIIe siècle), in Titu-

li 5 (1982) 685-754; W. Kuhoff, Studien zur zivilen senatorischen Laufbahn im 4. Jahrhun-


dert n. Chr. Ämter und Amtsinhaber in Clarissimat und Spektabilität, Lang, Frankfurt 1983
(Europäische Hochschulschriften. Reihe 3, Geschichte und ihre Hilfswissenschaften 162);
C. Krumeich, Hieronymus und die christlichen feminae clarissimae, Habelt, Bonn 1993 (Ha-
belts Dissertationsdrucke. Reihe Alte Geschichte 36).
19 Cfr. almeno Dresken-Weiland, s.v. «Patronage », 306.

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292 Le origini della cultura visuale cristiana

nostro possesso circa la composizione sociale delle comunità cristiane e


di quella romana in particolare 20.
Sappiamo anche, come già si è osservato, che la predisposizione della
sepoltura era operazione che manifestava un “punto di vista” privato –
individuale o familiare – di fronte al mondo. Il tema è rilevante per de-
finire la committenza cristiana di queste opere per una duplice ragione.
1. Se la tomba è innanzi tutto manifesto21, essa presuppone un mes-
saggio e, dunque, la capacità di elaborarlo; ciò definisce una com-
mittenza capace di impiegare autonomamente i fondamentali stru-
menti dell’esegesi tipologica e di destreggiarsi entro i principali
teologumeni cristiani.
2. Anche la tomba cristiana, come pure quella profana ad essa coeva,
dà la parola a donne, uomini e familiae che si esprimono innanzi
tutto in quanto intersezioni di affetti e non in ragione della loro
mansione ecclesiale. Benché la prima documentazione visuale cri-
stiana sia rivolta alla comunità – e dunque ne sia anche espressio-
ne –, il punto di vista “privato” di chi commissionò quelle opere
non viene mai meno. Anche quando è sepolto il clero, esso si com-
memora in quel momento innanzi tutto come parente (sposo, ge-

20 Sono ancora valide le osservazioni di A. von Harnack, Missione e propagazione del

cristianesimo nei primi tre secoli, Bocca, Torino 1906 (Biblioteca di scienze moderne 21),
387-406. Cfr. anche M. Mazza, Struttura sociale e organizzazione economica della comuni-
tà cristiana di Roma tra II e III secolo, in Fiocchi Nicolai - Guyon (curr.), Origine delle ca-
tacombe romane, 15-28; P. Lampe, From Paul to Valentinus. Christians at Rome in the First
Two Centuries, Fortress Press, Minneapolis (MN) 2003 (ed. or. Mohr, Tübingen 1983),
23-38; 366-372.
21 Anche nella tradizione profana non di rado – nella maggior parte dei casi – manca la

commemorazione epigrafica dei defunti. A custodire l’identità del defunto, in altri termini,
più che una descrizione epigrafica commemorativa della vita trascorsa è il manifesto idea-
le – mitologico o biblico – nel quale vengono inseriti i ritratti (cfr. magistralmente Z. Newby,
In the Guise of Gods and Heroes: Portrait Heads on Roman Mythological Sarcophagi, in Elsner
- Huskinson [eds.], Life, Death and Representation, 189-227). Non si tratta, dunque, di una
lotta contro la dimenticanza, ma di un tentativo di esprimere quella «potenza formale ‹che
sa far› passare nel valore ciò che in natura corre verso la morte» (E. de Martino, Morte e
pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Bo-
ringhieri, Torino 2008 [Universale Bollati Boringhieri 559], 214).

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Il contesto genetico 293

nitore, sorella o fratello, figlio) e solo in subordine come dignitario


ecclesiastico22.
Dunque una committenza benestante, in linea con la composizione
delle comunità cristiane di II, III e IV secolo – dislocate verso l’alto del-
la società antica –; una committenza competente per esegesi e teologia,
tutt’altro che estranea alla vita religiosa e alla riflessione di questi movi-
menti; una committenza familiare, non ecclesiastica, benché propriamen-
te comunitaria.

1.3. Le opere superstiti


La documentazione pervenuta permette di raccogliere numerose in-
formazioni prosopografiche relative alla committenza di queste opere.
Epigrafia, ritrattistica e iconografia del reale sono, in questa prospettiva,
gli elementi dai quali è possibile ricavare maggiori informazioni.

a. I dati epigrafici

Si può affermare che, fra i tanti aspetti inerenti alla vita delle comunità cri-
stiane a Roma visti alla luce delle testimonianze epigrafiche, quello relativo
alle componenti sociali è indubbiamente uno dei più interessanti, anche per
il numero di elementi che si possono raccogliere dallo spoglio degli epitaffi 23.

22 Cfr. K. Sessa, The Formation of Papal Authority in Late Antique Italy: Roman Bishops

and the Domestic Sphere, Cambridge University Press, Cambridge et alibi 2012, 175.
23 D. Mazzoleni, La vita del popolo cristiano a Roma alla luce delle testimonianze epigra-

fiche (dal III secolo alla fine del VI), in L. Pani Ermini - P. Siniscalco, La comunità cristiana
di Roma. La sua vita e la sua cultura dalle origini all’Alto Medioevo, LEV, Città del Vaticano
2000 (Atti e documenti 9), 206-227, qui 209. Cfr. anche J. Janssens, Vita e morte del cri-
stiano negli epitaffi di Roma anteriori al sec. VII, Pontificia Università Gregoriana, Roma
1981 (Analecta Gregoriana 223); D. Mazzoleni, Il lavoro nell’epigrafia cristiana, in S. Feli-
ci (cur.), Spiritualità del lavoro nella catechesi dei Padri del III-IV secolo. Convegno di studio
e aggiornamento, Facoltà di Lettere cristiane e classiche (Pontificium institutum altioris latini-
tatis), Roma 15-17 marzo 1985, LAS, Roma 1986 (Biblioteca di scienze religiose 75), 263-
271 (di Mazzoleni cfr. anche la raccolta di saggi Epigrafi del mondo cristiano antico, Lateran
University Press, Roma 2002 [Facoltà di teologia], in part 11-84); C. Carletti, Iscrizioni cri-
stiane a Roma. Testimonianze di vita cristiana (secoli III-VII), Nardini, Firenze 1986 (Biblio-
teca Patristica 7); Id., Epigrafia dei cristiani in Occidente dal III al VII secolo. Ideologia e pras-
si, Edipuglia, Bari 2008 (Inscriptiones Christianae Italiae. Subsidia 6).

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294 Le origini della cultura visuale cristiana

L’epigrafia rappresenta il bacino di ricerca più vasto per delineare, con


le «componenti sociali» del cristianesimo romano, anche il profilo della
committenza cristiana o, per lo meno, per definire con maggior precisio-
ne lo spazio storico entro il quale essa vada situata.
Dai casi più toccanti, come quello del piccolo «lepusclus Leo (Leone,
il leprottino)», bimbo di meno di due anni pianto dai genitori 24, sino a
quelli più insigni, come l’epitaffio di Marco Aurelio Prosene, «liberto dei
due augusti / sovrintendente della casa imperiale / procurator del tesoro
/ procurator dei beni imperiali, procurator / dei ludi gladiatori (munerum)
/ procurator delle cantine di corte», morto nel 217, altissimo dignitario di
corte sotto Commodo e Caracalla, divenuto cristiano («receptus a Deo»)25.
Lo spazio storico delle sepolture cristiane – e, in esso, della committenza
d’“arte” cristiana – si rivela quanto più ampio e diversificato possibile.
In altri termini: l’orizzonte entro cui va dislocata la committenza cri-
stiana non può essere considerato omogeneo, né dal punto di vista della
provenienza sociale né dal punto di vista della posizione ecclesiale; esso
offre, però, uno spaccato coerente delle comunità cristiane di II, III e IV
secolo in poi. In esso spiccano d’altra parte caratteri di forte antitenden-
zialità rispetto alla coeva storia sociale, che io credo possano talora essere
ascritti al proprium cristiano. Si pensi, per concludere menzionando al-
meno un esempio, al caso già richiamato da Mariano Armellini: «Il ci-
mitero di Callisto non meno che gli altri hanno messo in luce parecchie
iscrizioni di senatori […] deposti in umilissimi luoghi»26, una sorta di
trascrizione funeraria del celebre inno battesimale di Gal 3,28; la docu-
mentazione visuale delle origini cristiane ne restituisce efficacemente
anche il dinamismo sociale.

ICUR 6, 17252; cfr. anche Carletti, Iscrizioni cristiane, 39.


24

ICUR 6, 17246; su questo rilevantissimo documento, cfr. H.U. Instinsky, Marcus


25

Aurelius Prosenes. Freigelassener und Christ am Kaiserhof, Steiner, Wiesbaden 1964 (Abhand-
lungen der Geistes- und Sozialwissenschaftlichen Klasse 3); per un bilancio delle criticità
di questa epigrafe, cfr. Carletti, Epigrafia dei cristiani, 131-132 (numero 3).
26 M. Armellini, Il cimitero di S. Agnese sulla via Nomentana, Tipografia poliglotta di

Propaganda Fide, Roma 1880, 98; Mazzoleni, La vita del popolo, 208. Bertolino, Dagli ipo-
gei, 80-81, ne conta almeno ventiquattro. Cfr. comunque Tertulliano, A Scapula 4,7.

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Il contesto genetico 295

b. La ritrattistica
Il tema del ritratto cristiano antico, recentemente rilanciato da Clau-
dia Corneli e oggetto di un importante convegno a Brno27, interseca,
com’è noto, i numerosi snodi ideali dell’identità, della memoria, della
posterità – per limitarmi ai più evidenti.
Non è però in questo senso “alto” che vorrei qui brevemente richiama-
re l’importanza del ritratto cristiano. Esso mi pare piuttosto significativo
in ordine a due sue prerogative: la prima, di più immediata spendibilità, è
quella delle informazioni che l’abbigliamento e – più in generale – la sun-
tuaria di questi ritratti possono offrire 28; la seconda è data dai “caratteri di
paradossalità” che non di rado emergono dalla ritrattistica cristiana.
Con questa espressione, “caratteri di paradossalità”, intendo riferirmi
a quegli elementi che sembrano trasgredire la funzione propria della com-
memorazione funebre. Sono, questi ultimi, particolarmente significativi,
a mio avviso, perché presuppongono un’esplicita intenzionalità da parte
della committenza – non possono essere considerati i frutti di una pro-
duzione seriale, ma la risposta a richieste mirate – e dimostrano, d’altra
parte, un’elaborata finalità espressiva.
In altri termini, nella più antica ritrattistica cristiana è possibile rav-
visare alcune peculiarità che paiono antitendenziali rispetto a un’univoca
funzione commemorativa o che, quand’anche favoriscono la preservazio-
ne della memoria del defunto, lo fanno differenziandosi profondamente
da stilemi e caratteri propri della coeva arte funeraria. Il proprium cri-
stiano di questi ritratti si esprime anche attraverso l’adozione di marca-
tori figurativi “paradossali”, intenzionalmente impiegati per dichiarare la
specificità cristiana di quei manufatti.

27 Cfr. almeno C. Corneli, Dalle imagines maiorum al “ritratto” nelle catacombe di Ro-

ma, Ph.D. Diss., Viterbo a.a. 2010-2011; I. Foletti (ed.), The Face of the Dead and the Ear-
ly Christian World, Viella, Roma 2013; cfr. però anche A. Caillaud, La figure du comman-
ditaire dans l’art funéraire des catacombes de Rome (IIIe-VIe siècles), in S. Brodbeck - A.-O.
Poilpré (éds.), Actes de la journée d’ études “La culture des commanditaires. L’oeuvre et l’em-
preinte” (Paris, 15 novembre 2013), HiCSA Editions, Paris 2015, 66-121.
28 Cfr. Dresken-Weiland, s.v. «Patronage », 306.

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296 Le origini della cultura visuale cristiana

Figura 35: acroterio; il ciclo di Giona; Tabula inscriptionis compilata (cfr. CIL 6,
37231); il banchetto escatologico; acroterio; ritratto dei defunti; il pastore vigila
sui suoi animali (la mandria è eterogenea; non è un gregge di sole pecore). “Sar-
cofago di Baebia Hertofile”, Museo Nazionale Romano, Roma (Wp. 29, t. 53,3;
Rep. 1, 778; su questo sarcofago cfr. anche S.M. Salvadori, Per Feminam Mors,
Per Feminam Vita. Images of Women in the Early Christian Funerary Art of Rome,
Ph.D. Diss., New York [NY] a.a. 2002-2003, 179-267). Ultimo terzo del III se-
colo. La china in figura è tratta da Pelizzari, Vedere la Parola, 184, figura 78. Il
progetto iconografico di questo sarcofago è tanto semplice quanto incisivo: «Se
al centro del decoro strigilato si trova il ritratto dei due coniugi, ai lati della tabu-
la si trovano il kerygma – illustrato attraverso la tipologia di Giona – e la salvezza
escatologica – riassunta dal banchetto celeste» (Pelizzari, Vedere la Parola, 185).
La scena bucolica sulla quale poggia il clipeo con il ritratto dei defunti raffigura
ovviamente l’aspettativa di salvezza sulla quale riposava la loro speranza.

Figura 36: il ritratto clipeato di Baebia Herto-


file e del marito. Particolare del c.d. “sarcofago
di Baebia Hertofile”, Museo Nazionale Roma-
no, Roma (Wp. 29, t. 53,3; Rep. 1, 778). Ulti-
mo terzo del III secolo. La china è tratta da
Pelizzari, Vedere la Parola, 184, figura 79. Il
profilo encomiastico di Baebia è declinato
dall’iscrizione che lo sposo, Valerio Valentinia-
no, fece comporre per commemorarne le virtù.

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Il contesto genetico 297

La moglie viene elogiata per l’onestà, per la castità, per essere stata un’«incom-
parabile matrona» (« H[ONESTAE] M[EMORIAE] F[EMINA] UNICE CASTITATIS [S]
ORORI ET COMITI SUPER FINEM AMORIS DILIGENS MARITUM CONIUG[I] BENI-
GNISS[IMAE] ET INCOMPARABIL[I] MATRONE »), ove chiaramente quest’ultimo
titolo rivendicava per la donna l’immaginario e gli ideali del femminile tipici
della severa cultura romano-imperiale. Ma è proprio nel rapporto dissonante
tra questo elogio funebre e il ritratto di Baebia che si può rintracciare il “carat-
tere di paradossalità” di cui è carica questa figura. Come già notava Joseph
Wilpert (Wp. 29, pagina 76), richiamando R. Paribeni, La collezione cristiana
del Museo Nazionale Romano, in Nuovo Bullettino di archeologia cristiana 21
(1915) 95-118, qui 97: «La moglie, honestae memoriae femina, […] stona alquan-
to con l’iscrizione, la quale “lascia credere che i due coniugi abbiano condotto
la vita in perfetta castità”» (rileva questa distonia anche J. Huskinson, Roman
Strigillated Sarcophagi. Art and Social History, Oxford University Press, Oxford
2015, 61; cfr. anche Salvadori, Per Feminam Mors, Per Feminam Vita, 185;
J. Huskinson, Reading Identity on Roman Strigilated Sarcophagi, in Res: Anthro-
pology and Esthetics 61 [2012], 80-97, qui 95-96). Il grande archeologo romano
aveva infatti buon gioco nel notare come l’iconografia di Baebia, con il capo
scoperto, la spalla nuda e il panneggio dell’abito lasciato ricadere mollemente
sul seno, contraddiceva il rigore con cui, già dall’età augustea, era stato forma-
lizzato l’austero abbigliamento del matronato romano. Baebia, in altri termini,
si potè fregiare di quelle che il marito considerava le migliori virtù della matro-
na, ma non accettò di indossarne la “maschera sociale”, affidando, al contrario,
il ricordo di sé a un’immagine provocatoria, se non apertamente provocante.
Simile scelta dev’essere a mio avviso ricondotta a quella pretesa escatologica
cristiana che, anche nella prassi del quotidiano, si traduceva, sin dal già citato
inno di Gal 3,28, in una sovversione dei ruoli sociali e dei loro costumi: «Non
c’è più maschile e femminile». Una simile costruzione ideale poggiò certo su
una committenza avvertita di essa e fermamente intenzionata a gestire il pro-
cesso creativo di questo monumento (per la matrice cristiana di questo ideale
del femminile, vedi infra, pp. 389-399).

c. L’iconografia del reale


L’ultimo aspetto che vorrei brevemente menzionare è quello definito in
gergo “iconografia del reale”. Si tratta, in termini forse più semplici, di tut-
to quell’apparato figurativo che rinvia ad aspetti della realtà e della vita
quotidiana, tra i quali, per quanto riguarda questo breve profilo della com-
mittenza d’“arte” cristiana, sono di primario interesse i marcatori delle
professioni svolte dai defunti. Si tratta di una rubrica figurativa magistral-

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298 Le origini della cultura visuale cristiana

mente studiata da Fabrizio Bisconti, al cui esaustivo catalogo rinvio ben


volentieri 29.
Relativamente a quest’ultimo paniere di dati, vi è un pezzo che credo
meriti di essere qui richiamato esplicitamente, se non altro per la sua si-
gnificativa connessione con il processo di produzione della documenta-
zione visuale cristiana antica.

Figura 37: iscrizione; orante durante il refrigerium; nella bottega, Eutropos e


un suo operaio scolpiscono un sarcofago strigilato “a lenós” (cfr. Koch - Sichter-
mann, Römische Sarkophage, 80-82); un coperchio di sarcofago (?) con epigrafe
commemorativa dello stesso Eutropos (così G. Baratta, Il paradosso di Eutropos:
sull’ iconografia di ICVR VI 17225, in I. Piso et alii [eds.], Scripta Classica. Ra-
du Ardevan sexagenario dedicata, Mega, Cluj-Napoca 2011, 31-40, qui 33-34);
una colomba con un rametto di ulivo. Lastra di loculo del marmorario Eutro-
pos, Museo Archeologico, Urbino (il pezzo proviene dalla Catacomba di Mar-
cellino e Pietro a Roma; ICUR 6, 17225). Fine III secolo - inizi IV. Il disegno
è tratto da O. Jahn, Über Darstellungen antiker Reliefs, welche sich auf Handwerk
und Handelsverkehr beziehen, in Berichte über die Verhandlungen der königlich
Sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften zu Leipzig 4 (1862) 291-374, tav. 7,1.
L’elemento di maggiore interesse di questo pezzo è ovviamente costituito dalla
commemorazione della professione del defunto, che attesta in modo esplicito
la piena compatibilità tra l’attività artistica e la professione di fede. Questo da-
to permette di relativizzare l’efficacia dell’inasprimento del precetto di Tradi-
zione apostolica 16 («Se qualcuno è scultore o pittore, gli si insegni a non fab-
bricare idoli: cessino o siano rifiutati»), formalizzato da Canoni di Ippolito 11
(«Ogni artigiano sia istruito a non realizzare alcuna immagine o alcun idolo,

29 Cfr. Bisconti, Mestieri nelle catacombe romane.

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Il contesto genetico 299

che egli sia uno scultore, un argentiere, un pittore o un artigiano di qualsiasi


altra arte. Se accade che facciano queste cose dopo il battesimo, fatto salvo ciò
che il popolo necessita, devono essere esclusi fino a che non si pentano»: vedi
infra, pp. 300-305); si noti che comunque anche i Canoni concedono uno spa-
zio di legittimità alla cultura visuale nella misura di «ciò che il popolo necessi-
ta». Su questo divieto, cfr. B. Botte (éd.), Hippolyte de Rome, La tradition
apostolique, Cerf, Paris 19682 (SCh 11bis), 70-71; P.F. Bradshaw - M.E. Johnson
- L.E. Phillips (eds.), The Apostolic Tradition, Fortress, Minneapolis (MN) 2002
(Hermeneia), 88-89. A rafforzare ulteriormente l’impressione della piena legit-
timità dell’attività artistica nella comunità cristiana sta infine, in questa lastra,
il riferimento al refrigerium, rito, come si vedrà (infra, p. 307, nota 51), eminen-
temente martirologico e dunque strettamente legato al nucleo dell’idealità ec-
clesiologica della fine III - inizi IV secolo. Baratta, Il paradosso di Eutropos, 35,
motiva persuasivamente la singolarità – il «paradosso», come lo definisce l’au-
trice – della scelta di raffigurare, proprio sulla lastra funebre di Eutropos, quel
sarcofago che il defunto non ricevette mai: «Perché poi sia stato tumulato in un
loculo di catacomba e non nel sarcofago non è dato sapere ma si può ipotizzare
[…] che Εὔτροπος avesse voluto essere sepolto ad martyras e che per questo,
probabilmente per motivi di spazio, abbia dovuto rinunciare al sarcofago».
Quello di Eutropos è dunque il manifesto di fede di un cristiano che, per non
rinunciare alla sua identità ecclesiale – martirologica –, fu disposto a fare a me-
no della costituzione dell’ideale di sé, di quell’ipoteca sulla propria memoria
che egli aveva desiderato di affidare al suo sontuoso sarcofago.

2. LA FRUIZIONE
Il discorso sulla fruizione di un documento visuale prevede di conside-
rare almeno due parametri, già menzionati più sopra: il “contesto perfor-
mativo” (dove l’immagine era situata e vista) e l’“audience” del documento
(chi osservava l’immagine). Si tratta di due coordinate fondamentali: il
luogo dove si trova un oggetto iconico concorre in modo decisivo a defi-
nirne il valore, così come il pubblico atteso, che già è parte integrante del-
la progettazione dell’immagine (altro è immaginare una figura per un
bambino, altro è pensarla per un adulto, per limitarsi a un banale esempio),
diventa poi il soggetto del processo di significazione.
Tra il contenuto dell’immagine e il luogo in cui essa è dislocata si at-
tiva per altro un rapporto biunivoco: l’immagine qualifica il contesto, il
contesto definisce l’immagine. Che l’iconografia trionfale degli impera-

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300 Le origini della cultura visuale cristiana

tori popolasse i luoghi della vita politica serviva a raffigurare la subordi-


nazione di quest’ultima alla potestas del principe e, simultaneamente, a
dimostrare la dimensione universale della vicenda biografica dell’impe-
ratore.
D’altra parte, anche il pubblico destinatario dell’immagine concorre
a delineare il valore primigenio del documento iconico. Che l’iconografia
trionfale fosse “imposta” a quanti più osservatori possibile comportò di
necessità di sperimentare “iconografie capienti”: persuasive, per chi fosse
stato capace di coglierne solo i contenuti fondamentali, ed eloquenti, per
gli spettatori più colti, per i quali – come già osservato – persino lo stile
si era ormai trasformato in «sistema semantico».
Si dovrà dunque valutare il significato del Sitz im Leben funerario in cui
la gran parte dell’iconografia cristiana ebbe i suoi natali, il pubblico che è
opportuno immaginare per questa documentazione visuale e, soprattutto,
ciò che queste coordinate dicono di questa nascente cultura visuale cristiana.

2.1. Il contesto funerario


Più sopra si è già richiamato il fraintendimento, presso la critica, del
significato che lo spazio funerario cristiano rivestì agli occhi di quelle
generazioni di mathētai, tra la metà del II secolo e la fine del III 30. Tale
fraintendimento non deve proiettarsi nella “lettura” di questa prima cul-
tura visuale cristiana:
Vale dunque la pena di chiedersi […] quali novità abbiano apportato le im-
magini cristiane di salvezza in rapporto al discorso funerario […]. Il quadro […]
è quello di un cambiamento radicale del pensare la morte. Sui sarcofagi cristiani
scompare ogni traccia di lutto o di lamento funebre […]. Scompare il discorso sui
meriti e le virtù dei defunti […], scompaiono le immagini della virtus virile come
quelle dell’amore e della dedizione reciproca tra uomo e donna. Scompaiono so-
prattutto le belle immagini sensuali della gioia e della voluttà […]. Non si parla
più di sentimenti e di gioie terrene, ma solo di fede e di speranza 31.

30 Vedi supra, pp. 179-180.


31
Zanker - Ewald, Vivere con i miti, 265.

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Il contesto genetico 301

La connotazione funeraria dello spazio della gran parte di questa do-


cumentazione visuale non si declina dunque nella semantica della morte
e del lutto, ma coniuga l’azione dello sperare. D’altra parte, se vi fu un
carattere specificamente apportato dallo spazio funerario a cui gran parte
di questa documentazione va ascritta, esso è quello dell’ecclesialità. I luo-
ghi della sepoltura cristiana si connotarono infatti prima di tutto per la
loro prevalente “dimensione ecclesiale”.
Per capire appieno il profilo di questa “dimensione ecclesiale” del più
antico spazio funerario cristiano vorrei prendere le mosse da un celebre
passaggio dell’Elenchos dell’Ippolito romano32, tratto dalla polemica pagi-
na dedicata alla biografia di Callisto. Riferendosi al periodo che precedet-
te l’episcopato di quest’ultimo, l’eresiologo romano narra che, dopo l’arre-
sto di Vittore, Zefirino – «che aveva ottenuto l’episcopato grazie a Callisto»,
annota velenosamente Ippolito – ricambiò il chiacchierato diacono, facen-
done il proprio più ascoltato consigliere, una sorta di “vicario” ante litte-
ram: «Fu per questa ragione che Zefirino lo trasferì da Anzio, ‹promuo-
vendolo› al‹la guida del› cimitero (apo tou Antheiou eis to koimētērion)»33.
Non è rilevante in questa sede discutere la verosimiglianza dei diversi
dettagli della biografia narrata da Ippolito34: l’informazione su cui si ri-

32 Non è questa la sede per entrare nel merito della spinosissima “questione ippolitea” (resta

a mio avviso determinante la sintesi di E. Prinzivalli, s.v. «Ippolito», in Enciclopedia dei Papi, Isti-
tuto dell’Enciclopedia Italiana G. Treccani, Roma 2000, 1, 246-258); per uno status quaestionis
circa l’Elenchos, cfr. almeno A. Cosentino, The Authorship of the Refutatio omnium haeresium,
in Zeitschrift für Antikes Christentum 22 (2018) 218-237, e la raccolta curata da G. Aragione - E.
Norelli (éds.), Des évêques, des écoles et des hérétiques: Actes du Colloque International sur la Réfuta-
tion de toutes les hérésies, Genève, 13-14 juin 2008, Zèbre, Lausanne 2011; cfr. anche M. Simo-
netti, Per un profilo dell’autore dell’Elenchos, in Vetera Christianorum 46 (2009) 157-173.
33 Ippolito di Roma, Elenchos 9,12,14. Su questo fondamentale passaggio è di estremo

interesse quanto scrive G.M. Vian, Dai cimiteri al potere temporale: note sulle origini della
proprietà ecclesiastica, in Vetera Christianorum 42 (2005) 307-316.
34 Cfr. almeno K. Beyschlag, Kallist und Hippolyt, in Theologische Zeitschrift 20 (1964)

103-124; l’Appendice di F. Jacques, Le schismatique, tyran furieux. Le discours polémique de


Cyprien de Carthage, in Mélanges de l’École Française de Rome, 94 (1982) 921-949, qui 948-
949; A. Brent, The Elenchos and the Identification of Christian Communities in Second-Ear-
ly Third Century Rome, in Aragione - Norelli (éds.), Des évêques, 275-314. E. Prinzivalli, s.v.
«Callisto», in Enciclopedia dei Papi, 237-246, ripercorre con acribia la notizia ippolitea e ne
discute numerosi ben plausibili correttivi.

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302 Le origini della cultura visuale cristiana

flette è confermata da tutta la tradizione e, argomento non certo margi-


nale, dal fatto che quel complesso funerario prenderà in seguito proprio
il nome di quel diacono, poi divenuto vescovo, successore di Zefirino35.
Ciò che qui importa è il contesto storico documentato dalla notizia
dell’assegnazione di Callisto «al cimitero». Questo fondamentale passag-
gio dell’Elenchos stimola, infatti, diverse considerazioni:
1. Già all’esordio dell’episcopato di Zefirino (vescovo di Roma dal
199 al 217), il cimitero cristiano36 di Roma era riconosciuto come
un bene ecclesiastico, come prova il fatto che della sua ammini-
strazione decide direttamente il vescovo37.
2. La gestione del cimitero della comunità rappresenta un incarico di
prestigio, tant’è che Ippolito presenta l’assegnazione di questa man-
sione a Callisto come una ricompensa che il nuovo vescovo assegnò
al diacono grazie al quale era riuscito ad assidersi sull’ambito soglio
episcopale romano38.

35 Non è certo se debba essere attribuito a Callisto il primo scavo delle regioni ipogee di

quel complesso (nel caso il «cimitero» a cui fa riferimento Ippolito sarebbe il solo soprater-
ra, il cimitero vero e proprio) o se il loro più antico nucleo fosse già stato inaugurato, come
mi parrebbe più verosimile.
36 Non è ovviamente necessario ipotizzare regioni cimiteriali ipogee che, come noto, si

ritiene abitualmente siano state scavate tra la fine del II secolo e gli inizi del III: cfr. per un
primo orientamento Pergola, Le catacombe romane, 51-58.
37 A partire dal IV secolo, come ben attesta la documentazione epigrafica (cfr. almeno

Guyon, La vente des tombes, 587-594), vi sarà un deciso intervento da parte del clero roma-
no anche nella compravendita dei singoli spazi funerari. Informazioni parallele alla notizia
ippolitea, per altro, si possono rinvenire per l’Africa cristiana; cfr. Tertulliano, A Scapula
3,1. Cfr. L. Spera, Forme di autodefinizione identitaria nel mondo funerario: cristiani e non
cristiani a Roma nella tarda antichità, in E. Dettori - C. Braidotti - E. Lanzillotta (curr.), οὐ
πᾶν ἐφήμερον. Scritti in memoria di Roberto Pretagostini, Quasar, Roma 2009 (Pubblica-
zione dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Dipartimento di Antichità e tra-
dizione classica), 2, 769-804, qui 779. Sul tema della proprietà ecclesiastica dei cimiteri pri-
ma di Costantino I, cfr. ancora G. Bovini, La proprietà ecclesiastica e la condizione giuridica
della Chiesa in età precostantiniana, Giuffrè, Milano 1949 (Pubblicazioni dell’Istituto di Di-
ritto Romano e dei Diritti dell’Oriente mediterraneo 28).
38 Si noti che la notizia di Ippolito di Roma, Elenchos 9,12,14-16, non riporta altri inca-

richi od offici che siano stati affidati da Zefirino a Callisto; ciò comporta che ricevere l’uf-
ficio «del cimitero» fosse considerato un premio sufficiente per ricompensare un’elezione
episcopale così prestigiosa.

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Il contesto genetico 303

3. Probabilmente l’amministrazione del cimitero richiedeva pronun-


ciate competenze gestionali se Callisto – la cui biografia era occu-
pata dalla vicenda, pur opaca nella distorsione polemica del reso-
conto di Ippolito, della sua attività di cambiavaluta / banchiere per
conto di Carpoforo – può essere considerato candidato adeguato
per quel ruolo39. Se quest’ultima considerazione è corretta, ne deve
conseguire l’idea di una necropoli già di considerevoli dimensioni,
intensamente sfruttata e dunque ben “rodata”.
Tali elementi si intersecano in una constatazione: gli spazi funerari
della Chiesa di Roma – gli stessi che custodiscono i più antichi documen-
ti visuali cristiani pervenutici 40 e che svilupparono un imponente cam-
pionario dell’“arte dei primi cristiani” –, direttamente implicati in una
vicenda che coinvolse l’elezione di due vescovi di Roma (Zefirino e Cal-
listo), sono una “proprietà collettiva” se non “ecclesiale”41 e, probabil-
mente, l’iniziativa che determinò per prima la “personalità giuridica”
delle Chiese. Prima dei luoghi di culto, prima degli ospitali e dei luoghi

39 Cfr. almeno Mazzarino, L’ impero romano, 2, 451-469; M. Mazza, Deposita pietatis.

Problemi dell’organizzazione economica in comunità cristiane tra II e III secolo, in Atti dell’Ac-
cademia Romanistica Costantiniana. IX Convegno internazionale, Edizioni scientifiche ita-
liane, Napoli 1993, 187-216; Sessa, The Formation of Papal Authority, 88-90.
40 Pur se condotta in una prospettiva prioritariamente archeologica, credo meriti di es-

sere menzionata la ricerca di Dresken-Weiland, Sarkophagbestattungen, ove chiaramente si


richiama la necessità di studiare i diversi monumenti (nel caso specifico, i sarcofagi cristia-
ni occidentali, di IV-VI secolo) entro il loro originale contesto. Per entrambi i contesti –
profano e cristiano –, ma purtroppo solo per la tipologia dei sarcofagi strigilati, cfr. Huskin-
son, Roman Strigillated.
41 Bertolino, Dagli ipogei, 14-16, elenca tre ipotesi circa i modi del “possesso” delle ca-

tacombe: l’immediata proprietà ecclesiale (così emergerebbe dagli Editti di Valeriano del
258 e di Gallieno del 260); la costituzione delle comunità in collegia e, in tal modo, una di-
versa forma di proprietà ecclesiale, solo non immediata, ma “mediata” da quell’istituto giu-
ridico; una proprietà individuale – di ricchi benefattori, giuridicamente intestatari del be-
ne, concesso poi alla Chiesa per le necessità di tutti (si veda il caso dell’epigrafe di Faltonia
che «costituì questo cimitero esclusivamente con i suoi beni e lo donò alla […] Chiesa [re-
ligioni]»: cfr. M. Carroll, Spirits of the Dead. Roman Funerary Commemoration in Western
Europe, Oxford University Press, Oxford 2006 [Oxford Studies in Ancient Documents],
261-262). Come segnala l’autore, non è necessario escludere nessuna di queste ipotesi, pen-
sando piuttosto a una coesistenza delle tre che, in ogni caso, convergono sulla natura eccle-
siale di questi luoghi (cfr. Bertolino, Dagli ipogei, 16).

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304 Le origini della cultura visuale cristiana

di sostegno per gli indigenti, le Chiese si impegnarono formalmente, in


quanto soggetti di diritto collettivi, nel rilevare e nel gestire i cimiteri 42.
Come giustamente segnala Emanuela Prinzivalli, quello di cui parla l’E-
lenchos è infatti senza dubbio
un cimitero comunitario, la cui concreta e visibile specificità è nel sostanziale
mutamento di statuto: un cimitero non più gentilizio o corporativo, ma della
comunità, e dunque aperto alla accoglienza di tutti i fratelli di fede, indipen-
dentemente dalla loro estrazione sociale. Non è casuale che questo carattere
comunitario – nella concezione e nella prassi – emerga, nel III secolo, tra le
istruzioni previste dalla Traditio apostolica in relazione alle norme gestionali dei
luoghi di sepoltura: «Non si imponga una pesante condizione per la sepoltura
nei cimiteri, perché la cosa [scil. il cimitero] è di tutti i poveri. Si paghi però il
compenso dovuto a chi scava la fossa ed il prezzo dei mattoni. Il vescovo prov-
veda alle necessità di vita di coloro che si prendono cura del cimitero e lì vivono,
ed eviti che questi pesino su coloro che vengono in questo luogo» 43.

Se l’“arte dei primi cristiani” ebbe negli spazi funerari il proprio Sitz
im Leben, essa non poté costituirsi in questi luoghi della Chiesa quale

42 L’osservazione mi pare rilevante: affermare che con i cimiteri romani si concretizzò

per la prima volta la “personalità giuridica” di queste Chiese (che guadagnavano in tal mo-
do la proprietà, il possesso, lo ius mortuum inferendi e lo ius sepulchri) significa documen-
tare l’origine della Chiesa come soggetto di diritto. È ovvio che la celebrazione della Pasqua,
l’annuncio del Vangelo, come pure il sostegno caritatevole agli indigenti occupassero, sin
dai primi anni della missione cristiana, un luogo privilegiato nelle comunità di credenti.
Ciò che qui si sottolinea non è la priorità dell’allestimento di cimiteri su queste ben più ri-
levanti pagine dell’agenda ecclesiale, ma la centralità che anche questi luoghi e la loro am-
ministrazione occuparono in essa: non, dunque, una periferia della vita di questi movimen-
ti, ma un argomento così sentito da spingere, esso per primo, le Chiese ad assumere un
profilo anche giuridicamente costituito, attraverso l’istituto della proprietà consorziata. Si
ricordi, per altro, che la sepoltura era, nel diritto romano (cfr. Corpus Iuris Civilis, Digesto
11,7,2 [Ulpiano, Libro 25 ad edictum]), res religiosa: la tomba infatti diventa locus (nel signi-
ficato fondiario di portio fundi) religiosus (sul valore dell’inumazione, cfr. R. Turcan, Ori-
gines et sens de l’ inhumation à l’ époque impériale, in Revue des études anciennes 60 [1958] 323-
347) a partire dal momento in cui riceve le spoglie del defunto; da quel momento diventa
inalienabile, extra commercium, poiché ricade nello ius divinum (cfr. F. De Visscher, Le régi-
me juridique des plus anciens cimetières chrétiens de Rome, in Analecta Bollandiana 69 [1951]
40-54; cfr. anche l’orizzonte tracciato da J.M.C. Toynbee, Death and Burial in the Roman
World, Thames and Hudson, London 1971 [Aspects of Greek and Roman Life]). La pro-
prietà e il possesso dei cimiteri, dunque, erano per le Chiese, in un’epoca di “persecuzione”,
gli unici diritti “sicuri”.
43 Prinzivalli, s.v. «Callisto», in Enciclopedia dei Papi, 238; la citazione interna è da Tra-

dizione apostolica 40.

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Il contesto genetico 305

risposta testarda ad alcuni capricci individuali poiché non vi si sarebbe


potuta impiantare quale fatto del tutto “privato”, almeno non nel senso
della sua fruizione. Essa fu sì, come detto, la risposta a committenze fa-
miliari se non individuali, ma costituì un repertorio di manifesti offerti
all’osservazione potenzialmente 44 di tutta la Chiesa e, in questi suoi esi-
ti “pubblici”, assunse un significato ed espresse un’incidenza di dimen-
sioni comunitarie.

2.2. L’utenza
Carlo Carletti, osservando la presenza di «porte ora scomparse ma di
cui rimangono chiarissime le tracce», invocò la «prova contraria» di un
uso esclusivamente privato – e familiare – degli ambienti decorati, per
lo più cubicolari, nelle catacombe 45. Penso che la richiesta dell’insigne
epigrafista possa dirsi soddisfatta sia dalla constatazione dello statuto
comunitario dei maggiori cimiteri, ipogei e catacombe cristiani sia dal-
la non univoca funzione delle porte (che non per forza servono a esclu-
dere visitatori, talora semplicemente servono a compiere il volume degli
spazi architettonici, a proteggere luoghi più delicati – come ambienti
interessati da estesi progetti pittorici –, a definire l’ordine planimetrico
di uno spazio ecc.) sia dal significato almeno martirologico ben presto
assunto dalle necropoli cristiane antiche. Spazi rivendicati anche giuri-
dicamente dalla Chiesa, riconosciuti quali monumentali reliquiari della
persecuzione, non offrirono certo la circostanza ideale per costituire
luoghi riservati, di stretta fruizione familiare, di natura esclusiva, in sen-
so etimologico.

44 Non è questa la sede per elencare cimiteri e ipogei privati e comunitari; ve ne furono

ovviamente di entrambe le tipologie (sul tema, per gli ipogei, cfr. il caso di studio discusso
da P. Pergola, Le catacombe romane: miti e realtà (A proposito del cimitero di Domitilla), in
A. Giardina [cur.], Società romana e impero tardoantico, 2: Roma: politica, economia, paesag-
gio urbano, Laterza, Roma - Bari 1986 [Collezione Storica], 333-350, qui 341-342); ciò che
importa osservare è che sin da principio – e sempre di più – gli spazi funerari cristiani rice-
vettero una connotazione collettiva (per via di proprietà, possesso e/o fruizione): “comuni-
taria” e, perciò, “ecclesiale”.
45 Carletti, Origine, committenza e fruizione, 459-460.

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306 Le origini della cultura visuale cristiana

Al contrario, i cimiteri cristiani di Roma divennero ben presto sta-


tiones di un crescente culto martirologico: limitandosi alle fonti più an-
tiche, già dal IV secolo, il Cronografo romano del 354 46 fornisce una
sorta di “mappa” dei cimiteri romani – nelle sue sezioni della Deposizio-
ne dei vescovi e della Deposizione dei martiri –, in ovvia correlazione ai
pellegrinaggi sulle tombe dei santi che avevano già iniziato a riconosce-
re in Roma una meta “naturale”47. Vi è poi il dossier epigrafico dei più
di cinquanta Carmi damasiani 48, che devono il nome al loro autore, il
vescovo di Roma, papa Damaso (il cui regno durò dal 366 al 384): con
lui il culto dei martiri si istituzionalizzò nella prassi religiosa e liturgica
romana 49.
Per anni ancora precedenti all’episcopato damasiano, vale la notizia
che Girolamo fornisce, rievocando ricordi della sua giovinezza:
Quand’ero ragazzo a Roma, e mi formavo nelle discipline liberali, ero soli-
to (solebam), con gli altri della stessa età e dello stesso proposito, girare d’attor-
no ai sepolcri degli Apostoli e dei martiri nei giorni domenicali (diebus domini-
cis sepulcra apostolorum et martyrum circumire); e spesso sono entrato nelle
cripte, scavate nelle profondità delle terre (crebro que cryptas ingredi quae, in
terrarum profunda defossae). Lungo le pareti, da entrambe le parti di chi entra,
si trovano i corpi di coloro che sono sepolti ( per parietes habent corpora sepulto-
rum) e tutte le cose sono a tal punto oscure che quasi si compie quel detto pro-
fetico: «I viventi scendano agli inferi», e raramente una luce, penetrata dall’al-
to, tempera l’orrore delle tenebre 50.

La pagina di Girolamo è particolarmente rilevante: essa fa riferimen-


to agli anni romani dello Stridonense, e va dunque situata alla metà del

46 Cfr. la recente edizione di J. Divjak - W. Wischmeyer (hrsg.), Das Kalenderhandbuch

von 354. Der Chronograph des Filocalus, Holzhausen, Wien 2014.


47 Merita di essere menzionato anche il nutrito numero dei “martirologi” che sul finire

del IV secolo iniziarono a essere prodotti, a partire dal Martirologio cartaginese, di poco po-
steriore.
48 Cfr. l’edizione di A. Ferrua (ed.), Epigrammata Damasiana, PIAC, Città del Vatica-

no 1942 (Sussidi allo studio delle antichità cristiane 2).


49 Le fonti per lo studio della Roma paleocristiana sono state bene illustrate nel secon-

do capitolo del Libro Primo (pagine 3-63) dell’Archeologia cristiana di Pasquale Testini (Edi-
puglia, Bari 19802).
50 Girolamo, Commento a Ezechiele 12,40, su Ez 40,5.

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Il contesto genetico 307

IV secolo. Girolamo riferisce la prassi liturgica – l’indicazione della con-


suetudine domenicale (solebam […] diebus dominicis) è in questo senso
dirimente –, attuata per lo meno dai giovani cristiani, di «girare d’attorno
(circumire)» alle tombe degli Apostoli e dei martiri. Si tratta di un
atto cultuale ‹che› non aveva il suo apice – né il suo ambito – nell’espletare i gesti
della compassione funebre, ma assumeva una precisa e sovente eversiva valenza
sacrale: attorno alle «arche» che raccoglievano le spoglie dei martiri, i cristiani
ripetevano la danza che Davide aveva eseguito attorno alle reliquie dell’Alleanza
(2Sam 6,14-23). Il corpo del martire – profeta per garanzia evangelica (Mc 13,11;
Mt 10,19-20; Lc 21,13-15) –, come il contenuto dell’arca, diventa il pegno con-
creto, potente, della nuova economia della salvezza; di più ancora, le reliquie so-
no […] le prime avvisaglie, i bagliori che finalmente certificano il profilarsi sull’o-
rizzonte della storia di quei cieli e terre nuovi […] del Regno51.

La narrazione di Girolamo mi pare collimi con le informazioni di cui


disponiamo e permette di rimarcare una fruizione di questi “spazi cora-
li” della Chiesa di Roma né esclusivamente familiare né unicamente fu-
neraria, a riprova del fatto che la più antica documentazione visuale cri-
stiana vide la luce nel cuore della prassi liturgica e della tradizione
ecclesiale delle origini.

51 Pelizzari, Vedere la Parola, 50. Sulla prassi del refrigerium, cfr. R. Cacitti, Sepulcro-

rum et picturarum adoratores. Un’ iconografia della Passio Perpetuae et Felicitatis nel culto
martiriale donatista, in Cacitti et alii, L’ara dipinta di Thaenae, 71-136, in part. 103-115.
Cfr. anche P.-A. Février, Le culte des morts dans les communautés chrétiennes durant le IIIe
siècle, in Atti del IX Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana, Roma, 21-27 settem-
bre 1975, PIAC, Città del Vaticano 1978 (Studi di antichità cristiana), 1, 211-274; 303-329;
E. González, The Christian Cult of the Dead in Early Third Century North Africa: Literary
Evidence and Material Contexts, in Early Christianity 4 (2013) 454-473. Un autentico clas-
sico sul tema rimane A. Stuiber, Refrigerium interim: die Vorstellungen vom Zwischen-
zustand und die frühchristliche Grabeskunst, Hanstein, Bonn 1957 (Theophaneia 11).

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IL LESSICO TIPOLOGICO
DELL’ICONOGRAFIA PALEOCRISTIANA

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I.

LA NASCITA DI UN LESSICO ICONOGRAFICO CRISTIANO:


LE CARATTERISTICHE DELLA “TIPOLOGIA VISUALE”

1. L’IMPORTANZA DEL VALORE TIPOLOGICO


NELLA GENESI DEI TEMI ICONOGRAFICI PALEOCRISTIANI

Prima di rivolgere l’attenzione ad alcuni progetti iconografici di par-


ticolare valore è necessario chiedersi se la codificazione ermeneutica e la
Grundlogik tipologica di questa primigenia tradizione visuale si siano
espresse unicamente a livello progettuale, nell’aggregazione dei diversi
temi su ciascun documento, o se esse non abbiano inciso anche in un
momento “preliminare”, concorrendo a definire l’identificazione e la de-
finizione formale dei diversi testimonia visuali che costituirono il primo
immaginario cristiano.
Alcune ricerche hanno già riccamente documentato la struttura erme-
neutica (e tipologica!) di alcuni temi iconografici paleocristiani1, renden-
do di fatto superflua un’analisi sistematica di questo lessico figurativo.
Ciò che si cercherà di fare nelle prossime pagine sarà la descrizione, at-
traverso alcuni casi di studio, delle quattro caratteristiche fondamentali
della prima tipologia visuale cristiana. In particolare, si rifletterà su:

1
Vedi supra, pp. 160-168. Volentieri rinvio a Fascher, Isaak und Christus, per Isacco; a Gei-
scher, Das Problem der Typologie, per Isacco e Giona; a H.R. Seeliger, ∏άλαδ μάρτνρες. Die
drei Jünglinge im Feuerofen als Typos in der spätantiken Kunst, Liturgie und patristichen Litera-
tur. Mit einigen Hinweisen zur Hermeneutik der christlichen Archäologie, in H. Becker - R.
Kaszynski, Liturgie und Dichtung. Ein interdisziplinäres Kompendium, 2: Interdisziplinäre
Reflexion, EOS, St. Ottilien 1983 (Pietas liturgica 2), 257-334, per i tre fanciulli ebrei. Per l’I-
talia, mi limito a segnalare la raccolta di M. Perraymond, Paradigmi di esegesi figurale nell’arte
paleocristiana, Aracne, Roma 2007 (A10 258), dove sono affrontati: il ciclo di Sansone; Tobia
e Tobiolo; Giobbe; Abacuc; la figura dell’ossesso; il miracolo dell’emorroissa; l’emorroissa e la
Cananea; l’iconografia dell’Iscariota; l’incredulità di Tommaso; la raffigurazione di Tabitha.

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312 Il lessico tipologico

1. la sua rilevanza quantitativa; l’ermeneutica visuale offre una gran-


de mole di informazoni rispetto all’impiego dei testi scritturistici
nelle origini cristiane: tentare una storia dell’esegesi cristiana an-
tica trascurando questi dati comporta una distorsione di quella
vicenda;
2. la sua prevalenza; il più antico immaginario cristiano non si è co-
stituito sui testi ma sulla loro interpretazione; per questo è possi-
bile affermare che, nella prima cultura visuale cristiana, il caratte-
re esegetico prevalse su quello illustrativo;
3. la sua ampiezza tematica; la più antica iconografia cristiana non si
limitò all’argomento soteriologico o, più latamente, teologico: da
strumento neutro quale fu, essa venne impiegata per sviluppare – o,
per lo meno, operò implicando – una materia assai più ricca;
4. l’intervento, in essa, del Sitz im Leben delle comunità; il coinvol-
gimento dell’ecclesiologia negli argomenti della tipologia produsse
una sorta di “consacrazione” del tempo della Chiesa (se le Scrittu-
re prefigurano il tempo delle comunità, la loro vicenda e il loro
“pellegrinaggio”, allora quel pellegrinare è ricapitolazione dell’E-
sodo, quella vicenda è “storia sacra”, quel tempo è provvidenzial-
mente preordinato alla salvezza, né più né meno di quanto narrato
nelle Scritture)2.

2. IL CASO DEI RACCONTI DI DANIELE:


LA RILEVANZA QUANTITATIVA

Il primo elemento della “tipologia visuale” paleocristiana su cui vorrei


attirare l’attenzione è quello della sua rilevanza già sul piano puramente

2 Torna di attualità, ancora una volta, l’equazione che il Prologo della Passione di Perpe-

tua e Felicita sviluppa tra gli «antichi esempi di fede» e i «nuovi»: si tratta di un paradigma
che spiega bene l’eccezionalità dello spazio concesso al tema ecclesiologico nell’impiego del-
la tipologia entro la tradizione latina (cfr. Daniélou, Le origini, 290-302, che fu il primo a
riconoscervi un carattere distintivo di quella tradizione). Pur sotto la definizione di «teolo-
gia simbolica », alcuni argomenti dell’ecclesiologia tipologica sono stati esemplarmente stu-
diati da Rahner, Simboli della Chiesa.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 313

quantitativo. Come si vedrà, la documentazione visuale può offrire una


ricca mole di dati integrabili nella ricostruzione della storia del pensiero
cristiano delle origini e di quelle stesse origini.
Si prenda il caso della storia della più antica esegesi cristiana: l’omis-
sione della documentazione visuale ne determina, infatti, significative
distorsioni, sin nella raccolta di quei realia, i “quanti obiettivi”, sui quali
la ricerca dovrebbe fondarsi. Descrivere solo su basi letterarie la storia
della più antica interpretazione cristiana delle Scritture, infatti, conduce
necessariamente a risultati artificiosi, scarsamente rappresentativi del pro-
filo storico di quelle più antiche comunità che produssero questa docu-
mentazione visuale, entro la quale, come unanimemente riconosciuto, le
tematiche scritturistiche occupano uno spazio decisivo.
Un caso di studio eloquente per descrivere l’incisività dell’apporto che
la “tipologia visuale” può fornire alla storia della prima esegesi cristiana
è offerto dalla ricezione iconografica dei cicli narrativi del libro di Da-
niele. Questi ultimi, del tutto marginali nella storia della fortuna “lette-
raria” del libro profetico3, sono viceversa largamente attestati nell’imma-
ginario paleocristiano, ove costituirono una rubrica di testimonia
figurativi tra le preferite di questa primigenia cultura visuale 4.

3 Cfr. R. Bodenmann, Naissance d’une Exégèse. Daniel dans l’Eglise ancienne des trois pre-

miers siècles, Mohr, Tubingen 1986 (Beitrage zur Geschichte der biblischen Exegese 28);
W.D. Tucker Jr., s.v. «Daniel: History of Interpretation», in M.J. Boda - J.G. McConville
(eds.), Dictionary of Old Testament Prophets, IVP Academic, Downers Grove (IL) 2012, 123-
132, in part. 126-129.
4 Styger, Die altchristliche Grabeskunst, 6, conta diciassette pitture e venticinque bassori-

lievi di tre fanciulli nella fornace ardente (Dresken-Weiland, Immagine e parola, 236-237, per-
viene a cifre più consistenti: più di venti raffigurazioni pittoriche e trentasette bassorilievi); sei
pitture e sette bassorilievi per il lamento di Susanna; due pitture e un bassorilievo per il “giu-
dizio di Daniele”; sei bassorilievi del ciclo di Bel e il drago; trentanove pitture e trenta basso-
rilievi della scena di Daniele nella fossa dei leoni (ancora una volta Dresken-Weiland, Imma-
gine e parola, 190-191, conta più esemplari: cinquantadue pitture e trentotto bassorilievi; su
questo tema, cfr. R. Sörries, Daniel in der Löwengrube. Zur Gesetzmäßigkeit frühchristlicher
Ikonographie, Reichert, Wiesbaden 2005: l’autore ne cataloga complessivamente trecentotren-
tasette esemplari). Per la fortuna di questi temi, cfr. H. Schlosser, s.v. «Daniel », in LCI, 1, 469-
473; M. Minasi, s.v. «Daniele », in Bisconti (cur.), Temi, 162-164. Sulla ricezione – iconogra-
fica e letteraria– dei cicli narrativi del libro di Daniele, queste pagine sono fortemente
debitrici della ricerca di Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, a cui ne-
cessariamente rimando per un approfondimento sul tema.

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314 Il lessico tipologico

Il libro di Daniele, come noto, si compone di materiali letterariamen-


te eterogenei5, generalmente suddivisi in sede critica entro un “ciclo hag-
gadico” (Dn 1 - 6; 13Vulgata - 14Vulgata) 6 e un “ciclo apocalittico” (7 - 12),
solo quest’ultimo redatto in prima persona. Dal primo, il c.d. “ciclo hag-
gadico”, provengono i “racconti” del libro di Daniele.
Celeste Valenti ha giustamente biasimato la tendenza critica a concen-
trare l’analisi prevalentemente – esclusivamente? – sulla ricezione del Da-
niele “apocalittico”:
Se, per un verso, questa tendenza della critica può capirsi se si considera la
reale prevalenza, nella letteratura paleocristiana, dei materiali estratti dalle “vi-
sioni” ‹di Daniele›, d’altra parte la capillare diffusione dei “racconti” nell’icono-
grafia stimola una rivalutazione del ruolo del Daniele “haggadico” nella forma-
zione dell’identità delle comunità cristiane. In altre parole, abbandonando
l’approccio che arbitrariamente separa lo studio della letteratura dall’analisi dell’i-
conografia, il quadro relativo alla fortuna di Daniele muta sensibilmente, lascian-
do emergere l’importanza sostanziale dei “racconti” in un distretto non periferi-
co della più antica documentazione cristiana 7.

5 È importante considerare la natura composita del testo che reca questi racconti. Da-

niele è infatti un libro che riscosse grande fortuna nell’antichità – giudaica e cristiana: in
quest’ultima fu tra i primissimi libri biblici ai quali venne applicato il genere del commen-
tario (è il celebre caso del Commento a Daniele dell’Ippolito d’Asia) – e che, forse anche per
questo motivo, conobbe una storia articolata, caratterizzata da numerosi interventi redazio-
nali ancora riconoscibili nella filigrana di un’imponente stratigrafia testuale, evidente già a
partire dal marcatore linguistico (sul tema, cfr. T. J. Meadowcroft, Aramaic Daniel and Greek
Daniel: A Literary Comparison, Sheffield Academic Press, Sheffield 1995 [Journal for the
Study of the Old Testament. Supplement Series 198]). Limitandoci a quest’unico dato, il li-
bro può essere suddiviso in tre sezioni: quella aramaica (Dn 2,4b - 3,23; 4 - 7,28: plausibilmen-
te il nucleo più antico del testo), quella ebraica (data dalla somma di 1,1 - 2,4a, il “Prologo”
al testo, e di 8 - 12, la sezione delle celebri visioni) e quella delle “glosse deuterocanoniche”,
in greco (l’inclusione di 3,24-90 [24-45 è la preghiera di Azaria; 46-50 è la “clausola della
fiamma”, un breve interludio descrittivo prima del solenne Cantico dei tre fanciulli nella
fornace di 51-90], il c.d. “Libro di Susanna”, del capitolo 13 Vulgata, e il racconto del confron-
to di Daniele con i sacerdoti di Bel e con il drago [14 Vulgata = Bel e il dragoLXX ]; questi ulti-
mi due capitoli, 13 Vulgata e 14 Vulgata, hanno guadagnato la loro posizione conclusiva solo a
partire dal V secolo, con la traduzione geronimiana).
6 Cfr. B. Marconcini, Daniele, Paoline, Milano 2004 (I libri biblici. Primo Testamento

28), 22. Cfr. anche Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, 5-6. Per hag-
gadah si intende quell’interpretazione che mira a ricavare dal testo il suo valore “spirituale” e
“parenetico”, costituendosi come un’ermeneutica che spesso è stata definita “omiletica”, in an-
titesi all’interpretazione legalistica o halakica; cfr. J. Maier, Il giudaismo del secondo tempio.
Storia e religione, Paideia, Brescia 1991 (Biblioteca di cultura religiosa 59), 163-166.
7 Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, 11.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 315

L’ampiezza dell’impiego dei materiali provenienti dai racconti di Da-


niele nella cultura visuale cristiana delle origini determina di per sé la
necessità di un profondo ripensamento della storia della ricezione del te-
sto di Daniele nelle diverse tradizioni cristiane. Come si vedrà tra breve,
inoltre, la rilevanza quantitativa di questa ricezione si accompagna alla
profondità della riflessione esegetica che, sin dalla prima definizione del-
le diverse figure incaricate di effigiare quei racconti, caratterizzò la gene-
si di questa rubrica del più antico lessico iconografico cristiano 8.

2.1. Tra matrice biblica e definizione ermeneutica


Il primo immaginario cristiano ha accolto quattro “racconti” del libro
di Daniele, due dei quali (la vicenda dei tre ebrei e quella di Susanna) ha
sviluppato in altrettanti cicli figurativi. Procedendo secondo la disposi-
zione dei testi nella Vulgata, si ritrovano:
a. la vicenda dei tre ebrei che rifiutarono di adorare la statua eretta
da Nabucodonosor (Dn 3);
b. il racconto di Daniele condannato alla fossa dei leoni (in real-
tà, l’episodio si duplica in Dn 6,17-24 e in 14Vulgata [= Bel e il
DragoLXX],31-42);
c. la storia della casta Susanna insidiata dai “vecchioni” (Dn 13 Vulgata
[= SusannaLXX]);
d. il confronto tra il profeta Daniele e il drago (Dn 14Vulgata [= Bel e il
DragoLXX],23-42).

a. I tre fanciulli ebrei.


Dalla lettura del terzo capitolo del libro di Daniele l’iconografia cri-
stiana delle origini ha elaborato un breve ciclo figurativo, composto pre-

8 Non sarà possibile ripercorrere la disamina proposta da Valenti, “Similes Ananiae, Aza-

riae et Michaeli extiterunt”. L’autrice distingue tra impiego dei racconti di Daniele «tipologi-
co» (25-337: per articolare il nesso fondamentale della teologia del martirio, che sta nel rap-
porto tra Pascha ex passione e testimonianza cristiana; per descrivere il caos apocalittico dei
tempi ultimi e il destino escatologico; per articolare la tipologia della Chiesa), «allegorico» (339-
380: per lo più in funzione parenetica) e «letterale» (382-413: per via della possibilità di isola-
re alcuni «cicli di Daniele», raffigurazioni, cioè, dei diversi episodi tratti da Daniele in serie).

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316 Il lessico tipologico

valentemente di due scene: quella dei tre ragazzi dinanzi all’idolo e la


raffigurazione della loro esposizione alla fornace 9. Oltre all’ovvio – quan-
to generico – rinvio ai temi della salvezza e della risurrezione, l’impiego
di questo racconto assunse ben presto, anche nella più antica letteratura
cristiana, la funzione di testimonium martirologico, entro uno schema
tipologico che riconosceva nei fanciulli ebrei la profezia del martirio del-
la Chiesa. Quello dei tre ebrei fu, infatti, un «martirio, ‹pur senza› mor-
te, perfetto (O martyrium ‹et sine› passione perfectum)», secondo l’icastica
definizione di Tertulliano10.
Tale tipologia visuale riscosse un successo enorme – ben superiore a
quello documentabile in ambito letterario –: Carlo Carletti conta com-
plessivamente centosettantasette esemplari delle scene di questo ciclo fi-
gurativo, ma è plausibile immaginare che tale conteggio debba essere
considerevolmente incrementato, sia in ragione dei cinquanta anni di
attività archeologica che hanno seguito la ricerca dell’insigne epigrafista
sia per via dell’integrazione dei materiali provenienti dalle tradizioni cri-
stiane antiche “orientali”, oltre a quelle latina e greca11.

Il primo studio sistematico dedicato a questo tema è stato quello di C. Carletti, I tre gio-
9

vani ebrei di Babilonia nell’arte cristiana antica, Paideia, Brescia 1975 (Quaderni di «Vetera
Christianorum» 9), in part., per il rifiuto a Nabucodonosor, 64-95; per la scena della forna-
ce, 25-63. Cfr. anche, però, la risposta di M. Rassart-Debergh, «Les trois hébreux dans la four-
naise» dans l’art paléochrétien. Iconographie, in Byzantion 48 (1978) 430-455. Cfr. Seeliger,
∏άλαδ μάρτνρες, in part. 306-316, per la struttura tipologica dell’impiego di questo raccon-
to (la natura martirologica dell’impiego di questo episodio è considerata prevalente dallo stu-
dioso); M. Dulaey, Les trois Hébreux dans la fournaise (Dn 3) dans l’ interprétation symbolique
de l’Église ancienne, in Revue des Sciences Religieuses 71 (1997) 33-59; F.M. Kulcak-Rudiger -
P. Terbuyken - M. Perkams - H. Brakmann, s.v. «Jünglinge im Feuerofen», in E. Dassmann
(hrsg.), Reallexikon für Antike und Christentum, 19, Hiersemann, Stuttgart 2001, 346-388.
10 Tertulliano, Scorpiace 8,7; cfr. però anche Id., L’ idolatria 15,8-9; Origene, Ai martiri

33. Tutto il capitolo 8 dello Scorpiace articola una rubrica di testimonia rivolti alla defini-
zione tipologica del martirio. Su questa costruzione argomentativa si è giustamente soffer-
mata Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, 277-290. Per il più ampio
riferimento al tema soteriologico, cfr. Dresken-Weiland, Immagine e parola, 234-236, che
segue da vicino Dulaey, Les trois Hébreux dans la fournaise, dove la prospettiva martirologi-
ca è considerata secondaria (cfr. ivi, in part. 34).
11 Cfr. almeno M. Rassart-Debergh, Les trois hébreux dans la fournaise en Égypte et en

Nubie chrétiennes, in Rivista degli studi orientali 58 (1984) 141-151; S. Chojnacki, Les trois
hébreux dans la fournaise: une enquête iconographique dans la peinture éthiopienne, in Rasse-
gna di Studi Etiopici 35 (1991) 13-40.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 317

Forse anche in ragione della sua grande fortuna, la configurazione


delle due scene di questo ciclo iconografico risulta sostanzialmente sta-
bile nei suoi tratti essenziali, replicando schemi che risultano sempre fa-
cilmente riconoscibili.

Figura 38: i tre fanciulli ebrei si rifiutano di adorare il simulacro. Particolare


del “sarcofago di Adelfia”, Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi, Siracusa.
(Wp. 29, t. 92,2; Rep. 2, 20; cfr. anche S.L. Agnello, Il sarcofago di Adelfia,
PIAC, Città del Vaticano 1956 [Amici delle catacombe 25]). Primo terzo del
IV secolo. L’immagine è tratta da H. Leclercq, s.v. «Hébreux (Les trois jeunes)»,
in DACL 6,2, 2107-2126, qui 2116, figura 5606 (nel riquadro è presentato il
dettaglio del re, in abiti militari, tratto da Garr. 5, t. 361,1). L’esempio riporta-
to in figura mostra gli elementi fondamentali di un gruppo figurativo (talora
integrato di ulteriori particolari – la presenza di militari; la sessione del re o del
magistrato; la presenza della stella ecc. – che tuttavia non interferiscono con la
composizione essenziale dell’episodio) che Testini, «Tardoantico» e «Paleocri-
stiano», 130-131, classificò tra le «scene iconograficamente definite» del primo
immaginario cristiano. È facile riconoscere il principale intervento ermeneutico
compiuto sul racconto profetico: il ben diverso simulacro che i giovani rifiuta-
no di adorare. In Dn 3,1 del simulacro «che il re aveva fatto erigere» (questa
formula si ripete nove volte nell’antefatto narrativo di 3,1-23) si descrivono so-
lo le impressionanti dimensioni: « Alta sessanta cubiti e larga sei» (circa ventisei
metri e settanta centimetri per due metri e sessantasette centimetri), chiaramen-
te non corrispondenti a quelle deducibili dalle proporzioni della figura. Ma non
sono le dimensioni dell’idolo a qualificare l’intervento ermeneutico compiuto
dalla definizione figurativa di questa scena. La statua d’oro, infatti, non viene
mai presentata nel libro prototestamentario come un’erma né è detto che essa
ritraesse le fattezze del sovrano; al contrario, per ben tre volte (Dn 3,12.14.18),
la venerazione dell’idolo viene associata al servizio degli dèi: «Sadràch, Mesàch
e Abdènego […] non servono i tuoi dèi e non adorano la statua d’oro che tu hai

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318 Il lessico tipologico

fatto erigere» (3,12). L’iconografia cristiana delle origini, promuovendo agli


inizi del III secolo la circolazione di questo soggetto – forse modellandolo sul
prototipo profano di Pelope ed Enomao, come per primo propose E. Becker,
Protest gegen den Kaiserkult und Verherrlichung des Sieges am Pons Milvius in der
altchristlichen Kunst der konstantinischen Zeit, in F.J. Dölger (hrsg.), Konstantin
der Grosse und seine Zeit. Gesammelte Studien. Festgabe zum Konstantins-Jubi-
läum 1913 und zum goldenen Priesterjubiläum von Mgr. Dr. A. de Waal, Herder,
Freiburg 1913 (Römische Quartalschrift Supplementheft 19), 155-190, in part.
158 –, dimostrò di aver recepito questo racconto quale testimonium martirolo-
gico e non semplicemente come episodio scritturistico. Lo si capisce proprio
dall’attualizzazione – che, di fatto, implica una rilettura tipologica del raccon-
to – dell’ingiunzione imposta ai tre fanciulli: nell’immagine che venne replica-
ta decine e decine di volte non si chiede ai tre ragazzi genericamente di compie-
re un atto idolatrico, ma di venerare un’effigie ben precisa, quella che ritrae il
sovrano, in evidente assonanza con la pratica inquisitoria dei magistrati roma-
ni: «In altre parole, il processo è stato ri-letto come un processo di adorazione
dell’imperatore, ovvero come la prova di fedeltà normalmente richiesta ai cri-
stiani durante le persecuzioni» (T.F. Mathews, Scontro di Dei. Una reinterpre-
tazione dell’arte paleocristiana, Jaca Book, Milano 2005 [Di fronte e attraverso
646 - Storia dell’arte 28], 46; sull’uso della ritrattistica imperiale nella forma-
zione della cultura popolare e nella repressione del cristianesimo, cfr. Tertullia-
no, Apologetico 10; Ando, Imperial Ideology and Provincial Loyalty, 206-215).
Nel sarcofago di Adelfia (vedi supra, figura 38), il re indossa l’abito militare
romano (tunica corta cinta con pantaloni e paludamentum: cfr. anche il “sarco-
fago della casta Susanna” di Arles [Wp. 32, t. 195,4; Rep. 3, 41]; Carletti, I tre
giovani ebrei, 71-72). Identica soluzione viene impiegata nel sottarco dell’arco-
solio della Catacomba di Marco e Marcelliano o Damaso, a Roma (Nestori,
Mar5: inizi del IV secolo) e sul fianco sinistro del “sarcofago di Catervio”, con-
servato presso la cappella della Santissima Trinità del duomo di Tolentino
(Wp. 29, t. 73,1; Rep. 2, 148: seconda metà del IV secolo). Già solo l’osserva-
zione di questi elementi antiquari permette di documentare un processo di “im-
medesimazione” del tempo del racconto biblico entro quello, attuale, della com-
mittenza cristiana. È interessante osservare come questa sorta di “fusione” veda
in ultima istanza prevalere l’attualità della committenza e della fruizione cristia-
ne: è il tempo presente – ciò che, nel meccanismo tipologico, costituisce l’antiti-
pologia del racconto – a prevalere su quello passato (non sono gli offerenti cristia-
ni ad abbigliarsi secondo antichi costumi o, anche solo, con abiti all’orientale).
Del resto, questa soluzione non desta stupore se commisurata alle sue ragioni teo-
logiche: nel presente della Chiesa si cela la verità delle antiche profezie e il fine
ultimo in vista del quale vennero misteriosamente ispirate le Scritture ed è proprio
in questa verità piena, ricapitolativa, finalmente dischiusasi nella vigilia del Regno,
che si cela ciò che ne costituì(sce) l’autentica intenzione e il fine provvidenziale.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 319

Figura 39: i tre fanciulli ebrei si rifiutano di adorare il simulacro. Fianco destro
del “sarcofago di Ancona”, Museo Diocesano, Ancona (Wp. 29, t. 14,4; Rep.
2, 149). Seconda metà del IV secolo. L’immagine è tratta da Garr. 5, t. 326,3.
Il sarcofago di Ancona offre un esempio evidente di questo processo di “irru-
zione dell’attualità” nel racconto di Dn 3. Tanto i caratteri con cui viene con-
notato il personaggio inquirente (la sella curulis su cui è assiso, infatti, nella
Roma antica era distintiva del potere giudiziario; era perciò apparato anche
consolare e, per questa via, imperiale) tanto le inequivocabili uniformi dei sol-
dati trasferiscono la vicenda prototestamentaria nello stesso Sitz im Leben dei
cristiani condotti a processo. Dn 3, dunque, fu introdotto nell’immaginario
cristiano come ermeneutica (tipologica) del testo biblico, non come sua illustra-
zione. «È certo significativo che le prime testimonianze della scena del rifiuto
risalgano proprio all’ultimo periodo della tetrarchia, epoca in cui il culto im-
periale raggiunse il suo apogeo. Gli imperatori si ritengono ormai figli della
divinità e come tali hanno diritto all’adoratio della propria persona e alla com-
pleta sottomissione dei sudditi […]. Le loro pretese divine si esasperano in oc-
casione della persecuzione. Diocleziano, rinnovando il tentativo di Decio, im-
pone ai sudditi di sacrificare agli dèi dell’impero. Le comunità vivono
nell’attesa di grandi sconvolgimenti e l’attuarsi dei provvedimenti imperiali, che
mirano a recidere alla base le strutture della Chiesa, consolidano la convinzio-
ne della venuta dell’Anticristo […]. Tale situazione politico-religiosa dovette
indubbiamente favorire la nascita della scena del rifiuto. Essa esprimeva in ter-
mini espliciti la posizione della comunità di fronte al problema della divinizza-
zione dell’imperatore. Colui che imponeva ai propri sudditi l’adorazione della
sua persona appariva infedele come la reincarnazione di Nabuchodonosor, il
precursore di tutti gli imperatori nemici del cristianesimo» (Carletti, I tre gio-
vani ebrei, 65-66).

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320 Il lessico tipologico

Figura 40: Noé nell’arca riceve la colomba che reca l’ulivo; i tre fanciulli ebrei
innalzano il loro cantico tra le fiamme della fornace mentre un addetto alimen-
ta il fuoco. Pannello sinistro di alzata (Lateranense 134), Musei Vaticani, Pio
Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t. 175,6; Rep. 1, 121). Fine III - inizi IV
secolo. L’immagine è tratta da Leclercq, s.v. «Hébreux (Les trois jeunes)», 2121-
2122, figura 5610. Analoga riflessione può essere sviluppata per la raffigurazio-
ne dell’esposizione alla fornace ardente. Anche questo soggetto denota una
sostanziale stabilità formale, pur non mancando la possibilità di integrazioni
iconografiche che, ancora una volta, non ne compromettono la leggibilità e
l’immediata riconoscibilità (si segnala, in particolar modo, l’eventuale presenza,
tra le fiamme, di un angelo, su cui si tornerà; cfr. D.E. Estivill, La imagen del
ángel en la Roma del siglo IV. Estudio de iconología, Pontificium Institutum
Orientale, Roma 1994, 85-110).

Figura 41: schema riassuntivo dell’alzata Lateranense 134 (Wp. 32, t. 175,6;
Rep. 1, 121; in grigio la porzione superstite descritta supra, e riportata in figura
40). Stando alle informazioni disponibili relative allo stato del Lateranense 134
al momento del suo rinvenimento (cfr. già Garr. 5, a pagina 142), l’alzata si

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 321

componeva anche di una tabula inscriptionis e di un secondo pannello – già


parzialmente compromesso al momento dello scavo –, del quale resta solo il
disegno pubblicato da Bosio, 3, t. 291. Questo perduto frammento iniziava con
la scena del profeta Giona gettato in mare, prospettando, dunque, la frequente
associazione tra la scena degli ebrei nella fornace e il Giona inghiottito dal mo-
stro (cfr. Dresken-Weiland, Immagine e parola, 238; cfr., per esempio, il coevo
Wp. 32, t. 176,2; Rep. 1, 894, conservato presso il Campo Santo Teutonico a
Roma). È interessante soffermarsi sulla densità semantica di questo abbinamen-
to, le cui ragioni sono inaccessibili se si prescinde da un approccio tipologico.
La più antica tradizione martirologica cristiana, infatti, considerava il martire
partecipe dell’immolazione pasquale di Cristo (cfr. 1Cor 5,6) non solo per via
dell’imitatio Christi (dunque in senso “ascendente”: il discepolo che imita il suo
maestro), ma anche sul piano dell’efficacia della sua propria passio (in senso
“discendente”: il sacrificio del Cristo si rinnova nella morte del martire). Si trat-
ta di un’adesione a quel sistema di significati tipico della tradizione giovannea,
lungo l’ideale tragitto teologico inagurato da Ap 7,14, passante per il Martirio
di Policarpo (§ 14,1-3), il Martirio di Pionio (§ 23,5), la tradizione teologica mi-
croasiana, ireneana e dell’Africa cristiana, e propenso a riconoscere al martirio
della Chiesa lo stesso valore del “grande sabato” pasquale di Cristo celebrato
nella grande notte (cfr. Cacitti, Grande sabato).

Figura 42: schema ermeneutico dell’alzata Lateranense 134. L’accostamento


tra la scena dei tre fanciulli ebrei nella fornace e quella del Giona gettato nelle
fauci della pistrice attiva, dunque, per via tipologica, il nucleo fondamentale
della teologia del martirio, raffigurando un manifesto di fede che situa l’auspi-
cio di salvezza per il defunto entro questo ideale della Chiesa – e della storia.
Più complesso il rapporto tra le due figure del pannello esaminato (Noè e i tre
ebrei). È merito di Celeste Valenti l’aver definito il Sitz im Leben teologico di
questo abbinamento, introducendo l’efficace definizione di «crasi di acqua e
fuoco» (“Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, 145-148) per un

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322 Il lessico tipologico

gruppo di cinque alzate (oltre a quella esaminata: 1. Wp. 32, t. 181,3; Rep. 1,
834, dei Musei Capitolini di Roma; 2. Wp. 32, t. 174,10; Rep. 1, 143, Latera-
nense 182; 3. Wp. 32, t. 181,4; Rep. 1, 637, del Cimitero dei santi Marco e
Marcelliano; 4. Wp. 32, t. 181,5; Rep. 1, 959, di Villa Doria Pamphili) che re-
plicano l’accostamento ora escusso. Lo stringente parallelo con Ireneo di Lione,
Contro le eresie 5,29,2, e con Metodio di Olimpo, La risurrezione 1,56,3, su cui
la studiosa attira l’attenzione, permette di motivare efficacemente questa aggre-
gazione visuale: « Ancora una volta, la connessione iconografica tra persecuzio-
ne e salvezza riproduce la paradossale concezione cristiana del martirio che situa
nel momento della morte del testimone il suo autentico dies natalis » (Valenti,
“Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, 147).

Figura 43: i tre ebrei nella fornace; i santi Cosma e Damiano, Antimo, Leonzio
ed Euprepio. Pittura su stucco (EA 73139) proveniente da Wadi Sarga, Egitto,
ora presso il British Museum di Londra. VI secolo (cfr. E.R. O’Connell - C.
Fluck, Die drei Glaubensgemeinschaften im Alltag, in Ead. et alii [hrsg.], Ein
Gott. Abrahams Erben am Nil: Juden, Christen und Muslime in Ägypten von der
Antike bis zum Mittelalter, Michael Imhof, Petersberg 2015, 174-175). Il docu-
mento riportato è composto di due parti, verosimilmente dipinte in momenti
diversi. La più antica, realizzata a linee rosse dalla mano migliore, coincide con
il pannello centrale dove i tre ebrei (Azaria è identificato mediante iscrizione)
e l’angelo (pure indicato mediante iscrizione sopra l’ala destra) sono raffigurati
in mezzo alle fiamme della fornace. Sotto la figura corre un’(incerta) iscrizione
copta, nella quale viene implicitamente stabilita l’identificazione tipologica tra
i fanciulli ebrei e «i sessanta martiri di Samalut; il loro giorno, dodicesimo ‹del
mese di› Mekheir. Hourkene il minore, mio fratello Mena il minore. ‹Nel nome
di› Gesù Cristo» (mi baso sullo scioglimento proposto dai curatori del British
Museum).

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 323

Figura 44: i tre ebrei nella for-


nace. Particolare di pittura su
stucco (EA 73139) proveniente
da Wadi Sarga, Egitto, ora pres-
so il British Museum di Londra.
VI secolo. L’interazione tra im-
magine e testo epigrafico denota
l’intenzione tipologica con cui,
già in questo primo documento,
venne adottata la scena protote-
stamentaria: per celebrare «i ses-
santa martiri di Samalut» (Sa-
malut è una località egiziana,
attualmente nel Governatorato
di Minya, sulla sponda occiden-
tale del Nilo; la città, fatta edificare da Elena, madre di Costantino I il Grande,
dal 328 ospitava un monastero dedicato alla vergine Maria; circa i martiri men-
zionati, essi sono del tutto ignoti alle fonti agiografiche: questa pittura è dunque
l’unica fonte di cui si disponga a loro riguardo), i monaci Hourkene e Mena
(così propongono i curatori del British Museum) raffigurarono i tre fanciulli
ebrei. È chiaro che l’evocazione di questo episodio prototestamentario avvenga
a causa di una sua già avvenuta lettura fortemente tipologica. In identica traiet-
toria si colloca anche la successiva vicenda di questo documento visuale: quan-
do si decise di ampliarne l’apparato figurativo, infatti, vennero iconizzati i san-
ti medici e i loro tre fratelli, tutti martiri secondo la celebre leggenda
agiografica. Per sottolineare ulteriormente il rapporto tipologico tra la vicenda
del libro profetico e quella dei martiri cristiani, non viene raffigurata (o evoca-
ta) la decapitazione dei cinque medici – causa effettiva della loro morte –, ma
la loro immissione nella fornace ardente, pure menzionata dalle fonti agiogra-
fiche ma a cui essi sopravvissero, così come sopravvissero alla lapidazione, alla
fustigazione, alla crocifissione, all’esposizione alle lance, al precipizio nel mare.
I cinque martiri, lambiti da fiamme che si sono già trasformate in altrettante
palme della vittoria (cfr. Daniélou, I simboli cristiani primitivi, 11-33), esprimo-
no dunque la ricapitolazione dell’episodio narrato in Dn 3 – in piena equiva-
lenza con «i sessanta martiri di Samalut». Entrambe le componenti di questo
straordinario documento rispondono dunque a una precisa intenzione tipolo-
gica: come i fanciulli ebrei sono esplicitamente osservati quali tipo dei «sessan-
ta martiri», così i cinque ritratti che verranno aggregati a questa prima acqui-
sizione ermeneutica sono intesi proseguirne l’argomentazione. Ogni martire
della Chiesa – quelli più antichi (i “santi medici” con i loro tre fratelli o disce-
poli) come i più recenti (i martiri di Samalut) – ricapitola in sé (cioè è antitipo
e “verità piena” de) il racconto profetico di Dn 3.

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324 Il lessico tipologico

Figura 45: il ciclo dei tre ebrei. Frammento marmoreo inciso, proveniente dal-
la chiesa di Saint-Caprais di Agen, ora andato perduto (Rep. 3, 9). Primo terzo
del IV secolo. L’immagine è tratta da Leclercq, s.v. «Hébreux (Les trois jeunes)»,
2118, figura 5607. Il ciclo iconografico dei tre ebrei si può ovviamente presen-
tare anche unitariamente, secondo forme narrative articolate semplicemente
tramite la giustapposizione delle due scene.

Il carattere tipologico della prima acquisizione del ciclo di Dn 3 mi


sembra venga precisato anche da un particolare sviluppo che esso imme-
diatamente ricevette: la correlazione – e, talora, la vera e propria crasi –
tra la scena del processo di fronte all’idolo e quella dell’arrivo dei Magi
al cospetto della maestà di Maria e del bambino Gesù12:

12 Salvo per le offerte recate al neonato, non vi è marcatore formale che permetta di di-

stinguere i tre ebrei dai Magi. Anche il numero dei componenti dei due gruppi (seppure,
come visto supra, pp. 130-133 e figure 8-9, la tradizione figurativa cristiana non sia stata
immediatamente unanime nel considerare di tre componenti la spedizione dei Magi: cfr.
F.P. Massara, s.v. « Magi», in Bisconti [cur.], Temi, 205-211, qui 206) ne facilitò l’equazio-
ne tipologica: infatti, benché il testo matteano si limiti a indicare l’arrivo di «alcuni magi
dall’Oriente» (Mt 2,1), «in base alla enumerazione dei tre doni, la maggior parte delle vol-
te (finché in modo esclusivo) fu stabilito il numero di tre» (R.E. Brown, La nascita del mes-
sia secondo Matteo e Luca, Cittadella, Assisi 20022, 257; già in Origene, Omelie su Genesi
14,3, si parla di «questi tre [isti tres]»). Alcuni studiosi (mi limito qui a citare ancora Car-
letti, I tre giovani ebrei, 107-112; Massara, s.v. « Magi», 208), tuttavia, hanno preferito par-
lare di una «derivazione iconografica » che avrebbe portato alla nascita della scena dei Ma-
gi di fronte a Erode, trasposizione figurativa dell’episodio di Mt 2,7-9. La ragione di questa
più prudente formulazione è l’eccentrico irrompere della stella nella scena del “processo”
ai tre personaggi in abito orientale (oltre che sul fianco del sarcofago del Museo Diocesa-
no di Ancona, riportato supra, p. 319, in figura 39, questa inclusione si ritrova anche sull’al-
zata del “sarcofago di Stilicone” di Milano [Wp. 32, tt. 188,1-189,2, qui t. 188,2; Rep. 2,
150; F. Rebecchi, n. 2a.28d: «Sarcofago cosiddetto di Stilicone », in Milano capitale dell’Im-

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 325

Il particolare più stupefacente della scena è l’identificazione dei tre fanciul-


li con i Magi […]. Ciò è stato respinto ‹dalla critica› come un errore, in base al
convincimento che gli artisti confusero le figure dei tre giovani con quelle dei
Magi, a causa della somiglianza degli abiti. Ma a nostro parere questo «errore»
era deliberato: gli artisti vollero identificare le due famose scene13.

Figura 46: i tre ebrei abbandonano l’idolo inseguendo la stella; tabula in-
scriptionis tra personaggi alati (angeli? eroti?); l’adorazione dei Magi. Fram-
menti di alzata, Maison Romane, Saint-Gilles-du-Gard (Wp. 32, t. 202,3;
Rep. 3, 492). Fine del IV secolo. L’immagine è tratta da Leclercq, s.v. «Héb-
reux (Les trois jeunes)», 2114, figura 5603. I due frammenti di alzata supersti-
ti di questo documento sono stati oggetto di ampia discussione critica. Come

pero romano: 286-402 d.C., Silvana, Milano 1990, 134; vedi infra, p. 327 e figura 48], sul
fianco del sarcofago di Tolentino [Wp. 29, t. 73,1; Rep. 2, 148; vedi supra, p. 318], sull’al-
zata di Saint-Gilles-du-Gardes [Wp. 32, t. 202,3; Rep. 3, 492; vedi infra, p. 326 e figura
47] e sulla perduta alzata di sarcofago della Collezione Mansfeld [dal Lussemburgo: cfr.
Leclercq, s.v. «Hébreux (Les trois jeunes)», 2114-215, figura 5604; F. Gerke, Der Trierer Agri-
cius-Sarkophag. Ein Beitrag zur Geschichte der altchristlichen Kunst in den Rheinland, Pau-
linus, Trier 1949 14, nota 62 e t. 3,5]). Se è vero che la stella è estranea al racconto di Dn 3,
d’altra parte, va osservato che anche la presenza dell’idolo (o del simulacro) da venerare lo
è rispetto al racconto matteano. Che nelle scene in cui compare insieme alla stella quest’ul-
timo elemento sia da considerarsi prevalente lo potrebbe dimostrare anche l’alzata di Saint-
Gilles-du-Gardes, una di quelle tradizionalmente associate al tema dei “Magi di fronte a
Erode”. Qui i tre personaggi, seguendo la stella, voltano le spalle a un idolo presidiato da
un soldato (con lancia e scudo) presso il quale non è (più) raffigurato alcun re/magistrato
(Wp. 32, t. 202,3, infatti, propone di reintegrare questo personaggio). Ben difficilmente,
infatti, si potrebbe considerare una raffigurazione del colloquio dei Magi con Erode una
scena che, omettendo l’interlocutore regale, recasse viceversa soltanto un idolo e una guar-
dia a presidiarlo.
13 Mathews, Scontro di Dei, 46. Sui presupposti già letterari di questa associazione, va

oggi menzionato G.J. Steyn, Kingdom and Magi: Comparative Notes on LXX Daniel, Philo
of Alexandria and Matthew’s Gospel, in E.G. Dafni (ed.), Studies on the Theology of the Sep-
tuagint (Studien zur Theologie der Septuaginta), 2: Divine Kingdom and Kingdoms of Men
(Gottesreich und Reiche der Menschen), Mohr Siebeck, Tübingen 2019 (Wissenschaftliche
Untersuchungen zum Neuen Testament 432), 111-123.

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326 Il lessico tipologico

già ricordato supra, nella nota 12 di questo capitolo, gli studiosi hanno spes-
so sentito la necessità di integrare la scena dell’abbandono dell’idolo con una
figura regale, come già proposto da Joseph Wilpert. Come si potrà osservare
dal prossimo confronto, però, questa integrazione introduce una dismisura
evidente tra i due pannelli, non sanabile neppure dall’inclusione della figura
di Giuseppe (per la verità non così frequente nell’iconografia dell’adorazione
dei Magi) alle spalle di Maria. Al contrario, senza pretendere la figura regale
e con la sola presenza del gruppo di madre e figlio nell’altro pannello, si ot-
tiene una corrispondenza pressoché esatta della misura dei due pannelli.

Figura 47: ipotesi ricostruttive dell’alzata della Maison Romane di Saint-Gil-


les-du-Gard (Wp. 32, t. 202,3; Rep. 3, 492). Fine del IV secolo. Entrambe le
immagini si basano sulla tavola Wp. 32, t. 202,3: il confronto “A” ne riporta
fedelmente l’ipotesi ricostruttiva; il confronto “B” ipotizza uno schema sempli-
ficato, meno invasivo, dei frammenti pervenutici. La proposta “B”, a mio giu-
dizio preferibile, rende ancor più immediatamente il rapporto tra i momenti,
tipologicamente e teologicamente interconnessi, del rifiuto dell’idolatria (dei
tre fanciulli ebrei, che le preferirono il supplizio, e dei martiri cristiani, che non
abiurarono la propria professione di fede) e della contemplazione della maestà
del Signore (venerata dai Magi e dischiusa ai martiri). Al di là del singolo caso,
pare rilevante la sovrapposizione che tra queste due vicende è stata consapevol-
mente favorita dalla prima produzione visuale cristiana. Come afferma ancora
Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, 313: «Una speciale
connessione tra la scena del rifiuto ‹di venerare l’idolo di Nabucodonosor› e
quella dei “Magi”, espressa tramite una varietà di differenti opzioni figurative
– dalla semplice giustapposizione dei temi alla loro crasi –, ne conferma l’inter-
pretazione quale allusione all’esperienza dell’intera comunità, posta di fronte
alla scelta tra le autorità secolari e la fede in Cristo».

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 327

Figura 48: i tre ebrei abbandonano l’idolo seguendo la stella; clipeo con ritratto
dei defunti sorretto da personaggi alati (angeli? eroti?); l’adorazione dei Magi.
Alzata del “sarcofago di Stilicone”, Sant’Ambrogio, Milano (Wp. 32, t. 188,1;
Rep. 2, 150). Seconda metà del IV secolo. L’immagine è tratta da Leclercq, s.v.
«Hébreux (Les trois jeunes)», 2118, figura 5606. Ancora una volta, i committenti
cristiani «immedesimarono […] i fanciulli con i Magi: per motivare il rifiuto ad
adorare la statua, i fanciulli mostrano la stella» (Wp. 32, pagina 290). Di nuovo,
però, è necessario sottolineare come sia il tertium comparationis tipologico a spie-
gare appieno le ragioni e l’organizzazione di questo fortunato abbinamento erme-
neutico. Alla base dell’accostamento tra queste due scene non sussiste solo – né
principalmente – la somiglianza formale tra i due gruppi di tre (i giovani ebrei e
i Magi). Li accomuna, anzi, il significato ultimo delle loro rispettive vicende: i
racconti, infatti, possono essere aggregati se li si considera espressione di una co-
erente riflessione attorno al tema che in Gv 4,23-24 Gesù stesso introduce: «È
giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spi-
rito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo ado-
rano devono adorarlo in spirito e verità». Il tema della vera adorazione non è un
tema unicamente né principalmente cultuale, o “liturgico”; esso viene introdotto
innanzi tutto quale marcatore escatologico del compiersi dei tempi. Non è un
caso che all’affermazione sul sopraggiungere dell’ora dei «veri adoratori» la Sa-
maritana risponda a Gesù: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo)…» (4,25).
Così come nella tradizione apologetica l’idolatria determinava non solo la con-
danna morale dell’idolatra ma anche la sua esclusione dal Regno, così la vera
adorazione prefigurava quel «contemplare faccia a faccia» di cui Paolo stesso si
era fatto profeta (1Cor 13,12) proprio per descrivere lo scarto tra l’«ora» e l’«allo-
ra». Riaffiora in queste pagine neotestamentarie – e si ritrova all’origine dell’ag-
gregazione tipologica che si sta esaminando – il tema arcaico dell’autentica ado-
razione quale marcatore della “presenza”: nel giorno del Signore, Israele potrà
finalmente adorarlo in autenticità, stando al suo cospetto, in mezzo alle nazioni
(cfr. Sal 22[21],27-28). La vera adorazione, in altri termini, non implica solamen-
te – e, forse, neppure prioritariamente – una forma di disciplina liturgica o, in
senso più ampio, cultuale. Essa si profila sull’orizzonte teologico protocristiano
come un marcatore escatologico, in senso proprio: avere autentico accesso alla
contemplazione del Padre significa, infatti, essere “alla sua presenza” e, perciò,
trovarsi in una condizione che certo non è più quella della storia mondana.

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328 Il lessico tipologico

Figura 49: schema ermeneutico dell’accostamento tra rifiuto della venerazione


dell’idolo (Dn 3) e adorazione dei Magi (Mt 2). Il grafico schematizza la struttu-
ra teologica della tipologia tra il rifiuto di venerare l’idolo, opposto dai fanciulli
ebrei, e il cammino intrapreso dai Magi, inseguendo la stella. Emerge il tertium
comparationis della vera adorazione in rapporto sia all’argomento escatologico sia
a quello martirologico. Il tragitto ideale dall’idolo alla stella trascrive, entro la
misura esistenziale, quella storia provvidenziale che dalla caduta di Israele porta
alla promessa del suo riscatto eterno. Si noti, però: questo itinerario ermeneutico
non può costituirsi su una scelta “di comodo”, non può, cioè, basarsi sull’ipotesi
che a portare alla consimile raffigurazione di queste due scene fu solo una sorta
di “pigrizia stilistica”. Se, infatti, si ipotizza che la scena dei tre fanciulli ebrei e
quella dei Magi siano state configurate similmente solo per garantire una sorta di
“ottimizzazione artigianale” (con un solo modello si potevano realizzare due sog-
getti diversi), diventerà ben difficilmente plausibile il raffinato meccanismo er-
meneutico esplorato in queste pagine. D’altra parte, se, come credo, la somiglian-
za tra queste due scene venne lucidamente prevista in ragione del loro valore
tipologico, se ne dovrà dedurre un’interpretazione ermeneutica già a monte del
processo di definizione del più antico lessico iconografico cristiano.

Le osservazioni sin qui condotte inducono a ritenere che il c.d. “ciclo


dei fanciulli ebrei” (Dn 3) si sia costituito nel primo immaginario cristia-
no non quale illustrazione del testo biblico ma quale vettore ermeneutico:
nel raffigurare la vicenda dell’intransigente rigore dei tre ragazzi, infatti,
la prima cultura visuale cristiana non intese assumere l’antico racconto,
ma rivendicare il (proto)tipo del proprio presente. Il ciclo dei fanciulli

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 329

ebrei, in altri termini, veniva raffigurato perché dichiarava l’identità pre-


sente dei cristiani. Non si può, dunque, ridurre queste immagini a un
generico augurio di salvezza: è necessario recepirle quali rivendicazioni
di quel fondamento profetico sul quale si basava la radicale adesione alla
storia sacra nella quale ai cristiani veniva chiesto di scegliere a quale re-
galità sottomettersi, se a quella divina o a quella umana.

b. Daniele nella fossa dei leoni.


Come segnalava già Ernst Dassmann, il tema di «Daniele ‹nella fossa
dei leoni› è tra le più antiche immagini bibliche ‹ad esser state recepite nel
lessico iconografico paleocristiano›; nella pittura è anche il primo motivo
tratto dall’Antico Testamento documentato»14. Si tratta, in altri termini,
di uno dei temi più importanti per cogliere la genesi e i primi sviluppi
della più antica tradizione visuale cristiana15.

14 Dassmann, Sündenvergebung, 258. Rispetto a questo testimonium, l’archeologo sot-

tolineava peraltro la necessità di non costringere i materiali iconografici entro la ridotta gri-
glia ermeneutica della letteratura c.d. patristica, constatando come, in quest’ultima, la for-
tuna di Dn 6 fosse modesta e, di fatto, assai stereotipata.
15 A questo soggetto è stata dedicata una ricca bibliografia; mi limito a rinviare a Wacker, Die

Ikonographie des Daniel in der Löwengrube; Sörries, Daniel in der Löwengrube; J. Ohm, Daniel und
die Löwen. Analyse und Deutung nordafrikanischer Mosaiken in geschichtlichem und theologischem
Kontext, Brill, München 2008 (Paderborner Theologische Studien 49); risultano in particolare di
estremo interesse le «linee guida» che l’autrice discute (ivi, 151-179) per una lettura contestuale dei
mosaici africani di Daniele nella fossa dei leoni. Per l’ovvia ermeneutica martirologica dell’episo-
dio, cfr. Cipriano, Lettera 57,8, e J. Lassus, Daniel et les martyrs, in Rivista di Archeologia Cristiana
42 (1966) 201-205. Per lo sviluppo iconografico del luogo del supplizio, cfr. A. Di Tommasi, Quan-
do il lacus diventa laqum. I caratteri iconografici della fossa dei leoni tra arti maggiori e arti minori,
in F. Bisconti - M. Braconi - M. Sgarlata (curr.), Arti Minori e Arti Maggiori. Relazioni e interazio-
ni tra Tarda Antichità e Alto Medioevo, Tau, Todi 2019, 699-756; mentre, per il significato dell’e-
ventuale presenza del profeta Abacuc, cfr. M. Perraymond, Abacuc e il cibo soterico: iconografia e
simbolismo (Dan. 14, 33-39), in Ead., Paradigmi di esegesi figurale, 65-85. Segnalo infine anche
R.B. Green, Daniel in the Lions’ Den as an Example of Romanesque Typology, Ph.D. Diss., Chica-
go (IL) a.a. 1947-1948, sia per la conferma della ricezione tipologica della scena (in part. 10-29) sia
per aver dimostrato che, a partire dall’XI secolo, la struttura formale di questo tema iconografico
mutò radicalmente, introducendo una sostanziale soluzione di continuità con la tradizione pale-
ocristiana (ivi, 5-9) che, in effetti, era già entrata in crisi in seguito ai cambiamenti introdotti dal
principato costantiniano. La notazione mi pare rilevante perché implica una costante riflessione
anche formale sulla scena, con ciò testimoniandone una coerente longevità. Il lavoro di sintesi di
Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, anche in questo caso, mi sembra il più
consistente dal punto di vista metodologico.

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330 Il lessico tipologico

Dal racconto di Dn 6 (e 14Vulgata) è stata ricavata una sola scena, quel-


la celebre del profeta, per lo più raffigurato nudo, in posa d’orante, af-
fiancato da due leoni: si tratta di un’iconografia semplice, basata su uno
schema tanto essenziale quanto riconoscibile, che riscosse uno straordi-
nario successo nella prima cultura visuale cristiana 16. Pur essendo del
tutto ragionevole affermare che al successo di questo soggetto possa aver
concorso anche la replicazione del racconto (Dn 6,17-24 e 14Vulgata [= Bel
e il DragoLXX], 31-42) – al netto di leggere modificazioni17 – nelle versio-
ni greche del libro profetico, reputo tuttavia che sia stata innanzi tutto
l’interpretazione tipologica di questa vicenda ad averne motivato l’ado-
zione. Ancora una volta, a mio avviso, non si dovrà ricondurre l’origine
di questa figura a uno sforzo illustrativo della pagina biblica, ma alla
possibilità di immedesimazione che essa forniva all’osservatore (il che è
solo un altro modo di descrivere la tipologia ecclesiologica), il quale cer-
to poteva riconoscere nel profeta attorniato dai leoni l’expositio ad bestias
dei molti martiri cristiani18.

16
Il catalogo di Sörries, Daniel in der Löwengrube, 37-144, conta trecentotrentasette
esemplari di questa scena. G. Noga-Banai, All-in-One: Expectations from Daniel in the Lions’
Den in Two Palestinian Cases, in Rivista di Archeologia Cristiana 97 (2021) 361-378, sottoli-
nea la fortuna di questo tema figurativo anche presso gli apparati sinagogali – uno dei rari
casi in cui lo stesso episodio biblico viene iconizzato tramite il medesimo schema figurati-
vo sia in tradizione paleocristiana sia in tradizione ebraica –, riconoscendo nella diffusione
di questo un sintomo del fatto che «la retorica visuale (visual rhetoric) creata per il testo bi-
blico fu comune alle diverse comunità » (ivi, 375), a riprova della matrice tutt’altro che “pro-
fana” di questa tradizione visuale.
17 Le più vistose aggiunte del secondo racconto sono: il numero dei leoni (sette) e la lo-

ro preparazione; l’intervento del profeta Abacuc e la permanenza nella fossa per sette gior-
ni anziché una notte soltanto. Come segnala M. Settembrini, Daniele, San Paolo, Cinisel-
lo Balsamo (MI) 2019 (Nuova Versione della Bibbia dai Testi Antichi 26), 183: «La pena,
infame in quanto toglie all’eroe la possibilità di avere una tomba, risulta ancor più grave di
quella inflittagli al capitolo 6, ove doveva trascorre tra i leoni una notte […]. La sua soprav-
vivenza, nondimeno, è simbolicamente possibile grazie a una misteriosa visita di Abacuc: la
parola dei profeti, il vero cibo che custodiscono per i fedeli, è lo strumento con cui Dio pro-
tegge coloro che lo amano».
18 Per l’area africana, cfr. M. Veronese, Quid gloriosius Danihele? Il ruolo di Daniele nel-

la predicazione di Cipriano, in Auctores Nostri 12 (2013) 265-279, in part. 266-270. Sul «con-
testo mediatico» del martirio antico, cfr. A. Carfora, I cristiani al leone. I martiri cristiani nel
contesto mediatico dei giochi gladiatorii, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2009 (Oi christianoi
10), 29-49; cfr. anche, in specifica relazione a questo tema figurativo, A. Kalinowski, A

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 331

Figura 50: Daniele nella fossa dei leoni


riceve il pane dal profeta Abacuc. Fianco
sinistro di sarcofago, Museo Cristiano,
Brescia (Wp. 32, t. 208,10; Rep. 2, 248).
350-360. L’immagine è tratta da H. Le-
clercq, s.v. « Astres », in DACL 1,2, 3005-
3033, qui 3012, figura 1042. La scena del
transito di Daniele nella fossa dei leoni si
presenta qui nella sua forma ordinaria,
già descritta più sopra: il profeta nudo (R.
Couzin, Uncircumcision in Early Chri-
stian Art, in Journal of Early Christian Studies 26 [2018] 601-629, ha notato
nella più antica documentazione visuale cristiana la mancata circoncisione,
tra gli altri, del profeta Daniele; volendo descrivere le implicazioni di questa
osservazione, si dovrebbe riconoscere in questo dato un ulteriore marcatore
tipologico, volto a trasferire fuori dell’alleanza giudaica la verità ermeneutica
del [proto]tipo biblico), in posa d’orante, al centro di due leoni che ne lambi-
scono le gambe (Dresken-Weiland, Immagine e parola, 195, riconosce nei leo-
ni raffigurati in questo tema iconografico animali ammansiti, in obbedien-
za, così propone la studiosa, alla tradizione esegetica letteraria). A questa
scena si associa qui una delle più ricche – e fedeli del testo biblico – raffigu-
razioni dell’arrivo del profeta Abacuc, condotto a Daniele da una mano divi-
na che lo afferra per i capelli (cfr. M. Kirgin, La mano divina nell’ iconografia
cristiana, PIAC, Città del Vaticano 1976 [Studi di antichità cristiana 31], 102;
in chiave ovviamente tipologica, in riferimento al pane eucaristico, la presen-
za di questo secondo personaggio diviene prevalente nell’impiego di questa
scena nei progetti iconografici delle mense eucaristiche scolpite: cfr. S. Pedo-
ne, Reconsidering the Decorated Marble Mensae from Laodicea of Phrygia in the
Istanbul Archaeological Museum, in Revue des Études Byzantines 76 [2018] 299-
329, qui 324-325) per apparecchiargli del cibo durante i sette giorni di per-
manenza nella fossa dei leoni. Si possono notare due particolari, introdotti
dal dettato figurativo di questo pannello: il primo è il numero delle stelle
(sette) che rievoca a mio avviso i computi del compimento escatologico (se-

Mosaic of Daniel in the Lions’ Den from Borj el Youdi (Furnos Minus) Tunisia: The Iconography
of Martyrdom and the Arena in Roman North Africa, in Antiquités Africaines 53 (2017) 115-
128. Ancora una volta Dulaey, I simboli cristiani, 129-135 (cfr. anche Ead., Daniel dans la
fosse aux lions, Lectures de Dn 6 dans l’Église ancienne, in Revue des Sciences Religieuses 72
[1998] 38-50), non ravvisa la matrice martirologica della scena (la segue Dresken-Weiland,
Immagine e parola, 187-196). Sul meccanismo tipologico che sovrintese alla ricezione di que-
sto soggetto, mi permetto di rinviare a quanto scritto in Pelizzari, «Vedere» la Parola: alle
origini dell’ iconografia cristiana, 730-740.

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332 Il lessico tipologico

condo il principio apocalittico della “settimana cosmica”: come la creazione


occupò una settimana, così il cosmo si compirà al termine del settimo mil-
lennio della storia, sulla base del computo di Sal 90[89],4 à 2Pt 3,8); il se-
condo è la presenza di un pesce, accanto al pane, tra i cibi che il profeta reca
al martire: «Con l’inserimento di tale simbolo […] era soddisfatta ogni esi-
genza esegetica, manifestando in più quella fusione tra Vecchio e Nuovo Te-
stamento, il cui indissolubile legame di continuità viene a configurarsi proprio
nel Cristo» (Perraymond, Abacuc e il cibo soterico, 68-69).

Figura 51: Giona gettato nelle fauci della pistrice; tabula inscriptionis; Daniele
nella fossa dei leoni riceve il pane da Abacuc; ritratto (incompiuto) di defunto
entro clipeo a conchiglia; il sacrificio di Isacco; tabula inscriptionis; il riposo di
Giona. Alzata di sarcofago (Lateranense 147), Musei Vaticani, Pio Cristiano,
Città del Vaticano (Wp. 29, t. 136,4; Rep. 1, 144). Inizi IV secolo. L’immagine
è tratta da Garr. 5, t. 384,3. Il ciclo iconografico di questo documento, già del
tutto leggibile nella rappresentazione parziale del suo frammento maggiore, è
stato tuttavia integralmente ricomposto – come già si può osservare nella tavo-
la di Joseph Wilpert – consentendo di scartare la possibilità di variationes figu-
rative. La presenza delle due tabulae, purtroppo non compilate, ritma il proget-
to iconografico di questo documento in tre campi, secondo lo schema seguente.

Figura 52: schema dell’alzata Lateranense 147. Il progetto iconografico del docu-
mento ora esaminato procede attraverso associazioni “concentriche” volte a situa-
re il defunto in un ben preciso “spazio teologico”, se mi si passa la definizione.
Ovviamente l’orizzonte ultimo del Lateranense 147 è descritto dalle due scene del
ciclo di Giona: la tipologia per eccellenza della tradizione cristiana delle origini.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 333

Figura 53: Giona gettato nel ventre del mostro; il riposo del profeta sotto il per-
golato. Particolari dell’alzata di sarcofago Lateranense 147, Musei Vaticani, Pio
Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 29, t. 136,4; Rep. 1, 144). Inizi IV secolo (la
linea a tratto più spesso indica la demarcazione tra i diversi frammenti dell’alza-
ta). Il ciclo di Giona codifica con evidenza un testimonium tipologico: lo si può
affermare per due ragioni. Innanzi tutto, perché come tale viene attribuito dai
redattori dei Sinottici all’insegnamento di Gesù, che menziona esplicitamente
un momento “decentrato” della vicenda del profeta (Gn 2,1; si tratta di un pas-
saggio dell’intreccio narrativo del libro profetico funzionale al raggiungimento
dell’acme della vicenda [la “conversione” finale di Giona]; esso, però, nel ricu-
pero sinottico, viene astratto dal proprio contesto letterario d’origine e rilancia-
to in ragione del significato tipologico che gli viene attribuito) quale «segno»
della sua Pasqua (cfr. Mt 12,38-41 || Lc 11,29-32; Mt 16,4 [à Mc 8,11-12]).
Secondariamente, perché, diversamente da quanto accaduto con i racconti dei
tre fanciulli ebrei e con quello di Daniele nella fossa dei leoni, l’iconografia cri-
stiana precostantiniana assunse solo una porzione della vicenda di Giona che,
da sola, stravolgeva il senso del libro profetico. Concludendo il racconto figura-
tivo con la gioia del profeta per il qiqajon miracoloso (Gn 4,6), se ne escludeva,
infatti, il disseccamento, la furia del profeta e, soprattutto, quell’ultimo dialogo
con YHWH sul quale poggia l’intera architettura argomentativa del testo proto-
testamentario che mirava all’ammansimento del profeta riottoso. Nella vicenda
di questo soggetto iconografico, la soglia cronologica è dirimente: a partire dal
principato costantiniano, farà la sua comparsa – e verrà sempre più spesso inclu-
so in questo ciclo figurativo – il tema del c.d. “Giona triste”, che, a giudizio di
Bonansea, Simbolo e narrazione, 83-85, dev’essere inteso come uno dei sintomi
di quella «“biblicizzazione” dell’iconografia» cristiana, segno di una «volontà
cosciente e consapevole di “biblicizzare” l’immaginario religioso cristiano attra-
verso la formulazione di un linguaggio artistico espressione diretta del testo sa-
cro» (così già Prigent, L’arte dei primi cristiani, 161). L’inclusione del “Giona
triste”, in altri termini, costituì uno degli strumenti che resero possibile il pas-
saggio da una tradizione visuale ermeneutica a una illustrativa. Come affermava

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334 Il lessico tipologico

ancora Pierre Prigent (ivi, 164): «La conclusione è che, decisamente, anche quan-
do le rappresentazioni si riferiscono a Giona, non è del tutto certo che siano
state create per illustrare il libro biblico, né per raccontare la storia del profeta
per come vi è riportata». L’enorme successo di questo soggetto figurativo (cfr. A.
Ferrua, Paralipomeni di Giona, in Rivista di Archeologia Cristiana 38 [1962] 7-69;
Ferrario, Il riposo di Giona; G. Pelizzari, Dal battesimo al regno: il sarcofago di
Giona, un’Apocalisse scolpita, in R. Guglielmetti [cur.], “L’Apocalisse nel medioevo”.
Atti del Convegno Internazionale dell’Università degli Studi di Milano e della So-
cietà Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino (S.I.S.M.E.L.). Gargnano
sul Garda, 18-20 maggio 2009, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, Firenze 2011
[Millennio Medievale 90], 2011, 37-80, per il celebre “sarcofago di Giona” [La-
teranense 119], e Bonansea, Simbolo e narrazione, che nel suo catalogo conta
complessivamente trecentosettantuno esemplari [più dieci scomparsi o privi di
documentazione fotografica] tra pitture, sarcofagi e rilievi, graffiti, mosaici, ter-
racotte, vetri, gemme, avori, metalli, tessuti e una miniatura), del tutto corri-
spondente alla sua fortuna in ambito letterario (cfr. Y.-M. Duval, Le Livre de
Jonas dans la littérature chrétienne grecque et latine. Source et influence du Com-
mentaire sur Jonas de saint Jérôme, Études Augustiniennes, Paris 1973; C. San-
morì, Il libro di Giona nel Cristianesimo delle origini: documenti e monumenti, in
A. Giudice - G. Rinaldi [curr.], Realia Christianorum, 2: La Bibbia e la sua ese-
gesi. Atti del Convegno, Napoli, 15 aprile 2016, Ante Quem, Bologna 2018 [Ri-
cerche 5], 91-107) ne fa un autentico preferito dell’“arte paleocristiana”. Oltre
all’istituzione sinottica, a giustificare il successo di questa “tipologia complessa”
(naufragio di Giona à immolazione di Cristo; liberazione / riemersione di Giona
à risurrezione di Cristo; riposo di Giona à anapausis di Cristo) credo abbia
concorso, almeno per la documentazione visuale, anche l’intersecarsi qui di nu-
merose simbologie già largamente circolanti in ambito cristiano. La nave, il legno
del suo scafo, il suo albero (quell’antenna crucis che rappresentò, sino a tutto il
IV secolo, una delle curces dissimulatae più ricorrenti: cfr. Minucio Felice, Otta-
vio 29,8: «Noi riconosciamo spontaneamente [naturaliter visimus] il segno della
croce sulla nave, mentre avanza a gonfie vele»; cfr. anche Rahner, Simboli della
Chiesa, 636-689), l’ancora, il «mare del mondo» (cfr. ivi, 455-509; cfr. esemplar-
mente Agostino, Enarrazioni sui Salmi 92,7), ma anche l’acqua… sono temi di
largo impiego nella letteratura e nella più antica iconografia cristiana. La matri-
ce tipologica di questo tema figurativo, se coniugata alla sua disposizione sull’al-
zata Lateranense 147, serve a puntualizzare quanto viene definito nel gruppo
centrale di questo documento. Il sintetico manifesto di fede entro il quale la com-
mittenza volle situare il ritratto commemorativo del defunto può essere inteso
soltanto alla luce di quell’orizzonte teologico (e storico-teologico) stabilito dai due
momenti della Pasqua sacrificale di Cristo (il Giona inghiottito dalla pistrice) e
della sua glorificazione (questo il significato tipologicamente assunto dalla scena
del riposo di Giona).

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 335

Figura 54: Daniele nella fossa dei leoni riceve il pane da Abacuc; ritratto (in-
compiuto) di defunto entro clipeo a conchiglia; il sacrificio di Isacco. Particola-
re dell’alzata di sarcofago Lateranense 147, Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città
del Vaticano (Wp. 29, t. 136,4; Rep. 1, 144). Inizi IV secolo (la linea a tratto più
spesso indica la demarcazione tra i diversi frammenti dell’alzata). Professato il
kerygma pasquale che era stato annunciato tipologicamente dal Cristo (il sacri-
ficio del servo sofferente, costretto a transitare per «tre giorni e tre notti nel
cuore della terra»: Mt 12,40), il gruppo centrale dell’alzata Lateranense 147 può
finalmente definire il tempo e la militanza in cui il defunto situò la propria vita.
Se, infatti, Daniele nella fossa dei leoni dev’essere recepito prioritariamente qua-
le tipologia del martirio (come credo dimostri l’ampia e convincente disamina
di Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, 158-202; cfr. anche
Salomonson, Voluptatem spectandi, 55-90), allora porre alla destra del proprio
ritratto funebre tale raffigurazione non può che esprimere l’adesione per lo me-
no di principio all’ideale dell’ecclesia martyrum (il documento è compatibile con
l’età tetrarchica, dunque potrebbe addirittura avere accolto le spoglie di un con-
fessore o di un martire). Ma qual è la radicale teologica di una postura ecclesio-
logica che teorizza la costituzione necessariamente alternativa al secolo e libera
dalle sue potestà della comunità dei credenti? Provvede a rispondere a questa
domanda l’altra tipologia che accompagna questo ritratto: il sacrificio di Isacco
(Gen 22). Come noto, sin da Melitone di Sardi, Frammenti 9-12 (cfr. R. Canta-
lamessa, I più antichi testi pasquali della Chiesa. Le omelie di Melitone di Sardi e
dell’Anonimo Quartodecimano e altri testi del II secolo, Edizioni Liturgiche, Roma
1972 [Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae”. Sectio Historica 33], 141-143; cfr.
anche Ireneo di Lione, Contro le eresie 4,5,4; Tertulliano, Contro i giudei 10,6;
13,20-22; Origene, Omelie su Genesi 8), questo episodio genesiaco venne rece-
pito dall’esegesi cristiana innanzi tutto come testimonium tipologico della Pasqua
di Gesù (per le implicazioni martirologiche di questa scena, cfr. R.A. Clements,
The Parallel Lives of Early Jewish and Christian Texts and Art: The Case of Isaac
the Martyr, in G.A. Anderson - R.A. Clements - D. Satran [eds.], New Approa-
ches to the Study of Biblical Interpretation in Judaism of the Second Temple Period
and in Early Christianity: Proceedings of the Eleventh International Symposium of

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336 Il lessico tipologico

the Orion Center for the Study of the Dead Sea Scrolls and Associated Literature,
9-11 January, 2007, Brill, Leiden - Boston [MA], 207-240, in part. 223-237).
Tale valutazione reputo prevalga anche in ambito visuale: basti a suffragare que-
sta impressione il fatto che tale scena viene abitualmente impiegata quale con-
trappunto alla raffigurazione della ricezione della Legge sul Sinai, in un ideale
dialogo tra le Alleanze, come ha efficacemente provato S. Mussinelli, Legge e
Sacrificio. Economie della salvezza nell’esegesi iconografica paleocristiana, M.A.
Diss., Milano a.a. 2018-2019 (per la fortuna di questo tema iconografico, cfr. I.
Speyart Van Woerden, The Iconography of the Sacrifice of Abraham, in Vigiliae
Christianae 15 [1961] 214-255, qui 243-248, che ne cataloga centonovantacinque
esemplari sino all’VIII secolo). Nel gruppo centrale dell’antefissa Lateranense
147, dunque, si replica quella medesima associazione tra il martirio del credente
e il sacrificio perfetto elevato da Cristo sulla croce che si è riscontrata già nel
progetto iconografico dell’alzata Lateranense 134 (vedi supra, figure 40-42 di
questo capitolo). Pur mutati i testimonia (i tipi), tuttavia, la coincidenza dei loro
referenti tipologici (gli antitipi) permette ai due documenti di sviluppare un di-
scorso analogo, se non in tutto, almeno per questa ecclesiologia martirologica.

Figura 55: il sacrificio di Isacco; il Buon Pastore; Daniele nella fossa dei leoni
(le iscrizioni recano in greco i nomi dei personaggi: « Abramo | Isacco | pastore
| Daniele»). Sarcofago, chiesa di Santa Cruz, Écija (Rep. 4, 48). Fine IV - inizi
V secolo. L’immagine è tratta da H. Leclercq, s.v. «Ecija», in DACL 4,2, 1725-
1726, figura 3901 (per questo pezzo, cfr. S. Vidal Álvarez, Problemas en torno
a la iconografía del Libro de Daniel en la escultura hispánica de los siglos IV-VII,
in Madrider Mitteilungen 43 [2002] 220-238, in part. 226-228; Di Tommasi,
Quando il lacus diventa laqum, 716-718). Questo documento, realizzato pove-
ramente, caratterizzato da un bassorilievo privo di tentativi prospettici e con-
notato dalla semplice alternanza tra due quote planari, quella dei soggetti e
quella dello sfondo, pur appartenendo a un’epoca tardiva e pur denunciando
una mano della quale non par lecito ipotizzare alcuna parentela con gli artigia-
ni di epoca precostantiniana, dimostra efficacemente la persistenza nella cul-
tura visuale cristiana sia delle tre iconografie che esso reca (la variante del

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 337

Daniele vestito non è infrequente: vedi infra, p. 390, figura 86) sia dell’intera-
zione, appena analizzata, tra il sacrificio di Isacco e la scena del lacus leonis.
Assumendo la prospettiva critica proposta in queste pagine, però, l’efficacia
documentaria del sarcofago di Santa Cruz può dimostrarsi ancora maggiore,
attestando anche la persistenza del paradigma religioso che soggiacque a quel
progetto iconografico. Questo sarcofago, infatti, concorre innanzi tutto ad at-
testare la fortuna di un’ermeneutica – l’associazione tra le tipologie di Daniele
e di Isacco, in chiave martirologica, ecclesiologica e cristologica – che non può
essere derubricata a ripetizione di uno schema iconografico circolante tra offi-
cine, dal momento che esso, a partire dalla fine della produzione urbana dei
sarcofagi, ricorrerà su documenti troppo distanti, geograficamente (Salonicco,
Gallie e penisola iberica: cfr. Dresken-Weiland, Immagine e parola, 233-234) e
stilisticamente, per essere considerati prodotti della medesima tradizione arti-
gianale.

La scena dell’expositio ad bestias di Daniele fu caratterizzata da un pe-


culiare sviluppo esegetico e figurativo. In più documenti – molti dei qua-
li provenienti dall’Africa romana – si osserva la sostituzione della figura
del profeta con quella di un cantaro ricolmo d’acqua.

Figura 56: due leoni rampanti ai lati di un cantaro ricolmo d’acqua. Mosaico,
basilica di Cresconio, Djémila (Algeria: cfr. Salomonson, Voluptatem spectandi,
69, figura 55a). VI secolo. L’immagine è tratta da Pelizzari, Vedere la Parola, 169,
figura 70. Giustamente Salomonson, Voluptatem spectandi, 70, 105, così com-
menta questo mosaico, posto sulla soglia della grande basilica fatta edificare dal
vescovo Cresconio: «Con il motivo del mosaico d’ingresso […] – che è essenzial-
mente di natura escatologica (cantharus: “fonte di vita”, tra leoni: “demoni di
morte”) – concorda, all’altra estremità della navata centrale, proprio davanti al
grande pannello con l’iscrizione metrica, il motivo sacramentale del “cantharos
affiancato da due cervi assetati” […] che è ad esso strettamente legato dallo sche-
ma ‹iconografico› e che si riferisce al battesimo e alla vita eterna ‹cfr. Sal 42-43(41-
42),2› […]. Entrambi i motivi sono chiaramente correlati al contenuto dell’iscri-
zione, in particolare alla tendenza escatologica che si esprime negli ultimi versi:

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338 Il lessico tipologico

“HUIUS ANIMA (scil. Cresconii) REFRIGERAT, CORPUS IN PACE QUIESCIT | RESUR-


RECTIONE EXPECTANS FUTURAM IN CHRISTO CORONA(m) | CONSORS UT FIAT
SANCTIS A SEDE REGNI CELESTIS ‹la sua anima gode il refrigerium, il corpo ripo-
sa in pace mentre attende in Cristo la futura corona di risurrezione, per divenire
compagno dei santi, nella sede del Regno dei cieli›”» (l’iscrizione di Cresconio
replica, al netto di minime varianti, quella di Alessandro a Tipasa, la cui chiusa
recita: «La sua anima gode il refrigerium, il corpo riposa in pace mentre attende
la futura prima risurrezione dai morti ‹cfr. Ap 20,4-6›, per divenire compagno dei
santi, nel possesso del Regno dei cieli»; sulla reiterazione di questa iscrizione, cfr.
N.S. Dennis, A Tale of Two Inscriptions: Tipasa, Djemila, and the Role of Textual
Icons in the North African Cult of Saints, in Mosaics 47 [2020] 20-32, da cui ho
tratto l’edizione di questi testi [cfr. ivi, 27, per una sinossi]). E ancora, sempre a
riguardo di questo modulo iconografico: «Ciò che il creatore di questa scena ha
voluto esprimere non è la liberazione fisica del profeta come è raccontato nella
Bibbia, ma la sua liberazione spirituale e la sua rinascita dopo le prove che ha su-
bito. […] Daniele “rinasce” dal “lago dei leoni”, come il cristiano rinasce dal
battesimo, o meglio come il martire cristiano rinasce dal suo secondo battesimo
“con il sangue”. Così, attraverso un semplice intervento iconografico, il tema di
Daniele si distacca (in modo più enfatico del solito) dal contesto storico del Pri-
mo Testamento per essere interpretato, su base puramente simbolica, nello spiri-
to del Nuovo Testamento» (Salomonson, Voluptatem spectandi, 71). La sostitu-
zione della raffigurazione del tipo del martire (Daniele) con il cantaro ottiene
dunque l’effetto di esprimere in forma quanto più icastica possibile il principio
teologico, ormai ampiamente consolidato nelle tradizioni cristiane, dei due bat-
tesimi: quello “d’acqua” e quello “di sangue”, entro una prassi argomentativa che
fonda tipologicamente i presupposti del proprio pensiero.

Credo si possa affermare che la sterminata fortuna della scena di Da-


niele nella fossa dei leoni documenti la centralità del processo di “tema-
tizzazione” dei testimonia iconografici. La sostanziale indifferenza con cui
si omise di distinguere in modo inequivoco tra le due condanne alla “fos-
sa dei leoni” inflitte a Daniele – o, anzi, la deliberata ricerca di un «nucleo
‹iconografico› neutro», capace di illustrarle entrambe19 – credo, appunto,
debba essere ricondotta a una sorta di preliminare “tematizzazione” del
soggetto raffigurato, il quale non venne acquisito per via del legame al

19 Minasi, s.v. «Daniele », in Bisconti (cur.), Temi, 162-164, qui 162; cfr. anche Di Tom-

masi, Quando il lacus diventa laqum, 704: «In realtà, ci troviamo davanti ad una scena sinte-
tica e neutrale, esito ultimo della volontà di fondere i due episodi delle esposizioni ai leoni».

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 339

suo prototipo biblico, ma per la spendibilità ermeneutico-tipologica di


quest’ultimo. Le raccolte di testimonia operavano rubricando brani pro-
totestamentari eterogenei per provare quanto più ampiamente la radice
biblica (secundum Scripturas) degli eventi della vicenda di Gesù e delle pre-
tese ecclesiologiche dei cristiani 20: due racconti (Dn 6,17-24 21 e 14Vulgata
[= Bel e il DragoLXX],31-42) che proponevano fatti (e argomenti) sostan-
zialmente sovrapponibili potevano, in una simile “cultura biblica”, risul-
tare del tutto interscambiabili.
Se si accetta che questa prima cultura visuale cristiana sia funzione di
quel paradigma ermeneutico, diventa più semplice capire perché non si
percepì la necessità di differenziare sul piano visuale tra le due pericopi
dell’expositio al lacus leonis: esse, pur ben distinte testualmente e lettera-
riamente, erano equivalenti dal punto di vista della loro ermeneutica ti-
pologica e quest’ultima era il reale argomento della trasposizione visuale.

c. Susanna
Il capitolo 13Vulgata (= SusannaLXX) del libro di Daniele rappresenta uno
dei più vistosi interventi della LXX su questo scritto profetico: in esso trovò
spazio il primo nucleo narrativo (poi rimodulato e ampliato da Teodozione)
del racconto della vicenda della casta Susanna 22. Va preliminarmente osserva-

20 T. Crespo Mas, Constantino el Grande y Daniel el profeta: problemas de iconografía e ideo-

logía en la Constantinopla constantiniana, in Lucentum 27 (2008) 87-99, in part. 93-97, descri-


ve con efficacia il tentativo di appropriazione dell’iconografia di Daniele durante la progetta-
zione della nuova ecclesiologia (imperiale) di Costantino I (cfr. il celebre passo di Eusebio, Vi-
ta di Costantino 3,49): l’operazione, come noto, si rivelò impraticabile – a mio avviso, proprio
per l’immediata valenza martirologica di questa scena – e per questo venne abbandonata, fa-
vorendo il declino di questa scena (e la sua progressiva estromissione dall’immaginario cristia-
no), sempre meno frequentemente impiegata e sempre più spesso relegata al decoro di piccoli
oggetti di uso personale.
21 Nella ricezione di entrambe le versioni di questa narrazione si può forse rintracciare anche

un elemento “qualificante” delle tradizioni cristiane; viceversa, infatti, per la centralità del rac-
conto ebraico (di contro a quello della LXX) nella definizione della cultura della diaspora ebrai-
ca, cfr. D. Helms, Konfliktfelder der Diaspora und die Löwengrube. Zur Eigenart der Erzählung
von Daniel in der Löwengrube in der hebräischen Bibel und der Septuaginta, De Gruyter, Berlin -
Boston (MA) 2016 (Beihefte zur Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft 446).
22 Cfr. E. Engel, Die Susanna-Erzählung. Einleitung, Übersetzung und Kommentar zum

Septuaginta-Text und zur Theodotion-Bearbeitung, Universitätsverlag - Vandenhoeck & Ru-

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340 Il lessico tipologico

to che, come la tradizione testuale (ed esegetica) di questa storia, anche la sua
ricezione iconografica presentò caratteri di particolare incertezza 23, sia quanti-
tativa sia ermeneutica. Per la prima è necessario osservare che né l’ampiezza
(il numero di scene) del ciclo figurativo che ne fu tratto né la codificazione
formale dei suoi diversi passaggi si fissarono mai in modo del tutto stabile.
Per la seconda, come si vedrà, l’oscillazione tra tipologia martirologica (Su-
sanna tipo della passione di Cristo e della Chiesa martire) e allegoria parene-
tica (Susanna modello per il credente) non potrà mai dirsi del tutto risolta.

Figura 57: punizione dei due anziani (cfr. Dn 13Vulgata [= SusannaLXX],61-62); in-
contro tra Susanna e Daniele (cfr. 13Vulgata [= SusannaLXX],45-46); Susanna pro-
cessata dagli anziani (cfr. 13Vulgata [= SusannaLXX],28-41); Susanna aggredita dagli
anziani sulla soglia di casa mentre si sta apprestando al bagno (Susanna si è sco-
perta il capo e si riconosce un’ancella che reca una patera ansata per il lavacro: cfr.
13Vulgata [= SusannaLXX],15-26); Susanna nel giardino spiata dai due anziani (cfr.

precht, Freiburg - Göttingen 1985 (Orbis Biblicus et Orientalis 61); sul contesto del “libro
di Susanna”, cfr. anche M. Segal, Dreams, Riddles, and Visions. Textual, Contextual, and In-
tertextual Approaches to the Book of Daniel, De Gruyter, Berlin - Boston (MA) 2016 (Beihefte
zur Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft 455), 180-199.
23 Cfr. H. Schlosser, Die Daniel-Susanna-Erzählung in Bild und Literatur der christlichen

Frühzeit, in W.N. Schumacher (cur.), Tortulae. Studien zu altchristlichen und byzantinischen


Monumenten, Herder, Roma - Freiburg - Wien 1966 (Römische Quartalschrift Supplement-
heft 30), 243-249; K.A. Smith, Inventing Marital Chastity: The Iconography of Susanna and the
Elders in Early Christian Art, in Oxford Art Journal 16 (1993) 3-24; C.B. Tkacz, Susanna as a
Type of Christ, in Studies in Iconography 20 (1999) 101-153. Si tratta per altro di un ciclo che
non riscosse un successo neppure lontanamente paragonabile a quello degli altri soggetti trat-
ti dal libro di Daniele: M. Sotomayor, Sarcófagos romano-cristianos de España. Estudio icono-
gráfico, Facultad de Teología, Granada 1975 (Biblioteca teológica Granadina 16), 45, nota
112, conta solo nove sarcofagi con questa scena, Styger, Die altchristliche Grabeskunst, 6, an-
novera anche sei riproduzioni pittoriche.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 341

13Vulgata [= SusannaLXX],7-14). “Sarcofago di Susanna”, chiesa di San Feliu, Girona


(Wp. 32, t. 196,1; Rep. 4, 56). Datato al 300-330. L’immagine è tratta da H. Le-
clercq, s.v. «Espagne », in DACL 5,1, 407-523, qui 509-510, t. 4193 (cfr. anche
Garr. 5, t. 377,3; un’ottima presentazione di questo documento è quella di Soto-
mayor, Sarcófagos romano-cristianos de España, 41-46; per questo sarcofago, però,
è riferimento d’obbligo anche quello a C. Boehden, Der Susannensarkophag von
Gerona. Ein Versuch zur typologischen Deutung des Susannenzyklus, in Römische
Quartalschrift 89 [1994] 1-25). Questo documento offre il caso di studio tipico
per “misurare” la massima ampiezza ottenuta nella tradizione visuale paleocristia-
na dalla vicenda di Susanna (si vedano anche le tre scene già apparse sulle pareti
laterali del primo settore della “Cappella greca” della Catacomba di Priscilla, il
cui apparato figurativo è generalmente datato tra il 230 e il 250: cfr. Wp. 03, tt.
14,1-2; Nestori, Pri39). Come la critica ha unanimemente osservato, la narrazione
del fregio di questo sarcofago corre da destra verso sinistra: Schlosser, Die Da-
niel-Susanna-Erzählung, 245, ha proposto di motivare questa caratteristica ipotiz-
zando una possibile dipendenza da un manoscritto ebraico illustrato (o forse,
meno puntualmente, da una tradizione figurativa ebraica o giudaico-cristiana),
ma tale ipotesi non può essere in alcun modo suffragata. In questa sede, d’altra
parte, credo sia sufficiente richiamare il dato “grezzo”: nemmeno in questo docu-
mento, che certamente privilegia un’impostazione narrativa, il progetto iconogra-
fico può dirsi del tutto privo di caratteri a(nti)-letterari, se così si può dire.

Per quanto riguarda il piano ermeneutico, è necessario distinguere tra


le due principali linee interpretative del testo già menzionate: quella alle-
gorica e quella tipologica.
Della prima credo sia facile immaginare l’origine e il significato: Su-
sanna offre un modello di virtù, di temperanza e di coerenza, del tutto
fruibile per il credente e, in special modo, per le credenti 24.
Dato l’indirizzo di questa ricerca, però, più interessante mi pare con-
siderare l’investimento tipologico operato sulla storia di Susanna. Già
Ippolito riconosceva nella vicenda dell’onesta moglie di Joakim una pro-

24 Cfr. Tertulliano, La corona 4,3; Clemente di Alessandria, Stromati 4,19,119; Novazia-

no, Il bene della pudicizia 8-9; Cirillo di Gerusalemme, Catechesi 16,31, ecc. Sul costituirsi dei
modelli del femminile nelle origini cristiane, resta a mio giudizio fondamentale lo studio di
E. Giannarelli, La tipologia femminile nella biografia e nell’autobiografia cristiana del IV seco-
lo, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma 1980 (Studi Storici 127); Ead., Apostole,
Diaconesse, Profetesse: Il difficile cammino delle origini, in D. Corsi (cur.), Donne cristiane e sa-
cerdozio. Dalle origini all’età contemporanea, Viella, Roma 2004 (I libri di Viella 41), 19-31.

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342 Il lessico tipologico

fezia della Chiesa perseguitata 25; Cipriano di Cartagine, spingendosi an-


cora oltre lungo questa stessa linea esegetica, riconobbe nella fanciulla
insidiata dagli anziani ( presbyteri) la tipologia della sua propria Chiesa,
minacciata da Felicissimo e dagli altri presbyteri che predicavano contro
l’episcopus, in quel momento distante dalla metropoli:
Da qui tuttavia, o fratelli amatissimi, da qui ammonisco e insieme indiriz-
zo: non prestate fede temerariamente a voci pericolose! Non concedete con fa-
cilità il consenso a parole fasulle! Non accogliete, al posto della luce, le tenebre,
al posto del giorno, la notte, al posto del cibo, la fame, al posto della bevanda,
la sete, il veleno, al posto della medicina, la morte, al posto della salvezza! Nep-
pure vi induca in errore l’età o l’autorità di quelli che corrispondono all’antica
perversione dei due anziani (ad duorum presbyterorum veterem nequitiam respon-
dentes): come quelli tentarono di corrompere e violare la casta (pudicam) Susan-
na, così anche questi, con dottrine adulterate, provano a corrompere la virtù
( pudicitiam) della Chiesa e a violare la verità evangelica 26.

Nella Lettera ciprianea, pur senza ricorrere esplicitamente al lessico “tec-


nico” dell’esegesi, si osserva chiaramente l’intervento delle Scritture quale
filtro per cogliere il significato della realtà e del presente. La pagina biblica
è impiegata dal vescovo per decifrare il significato di un tempo teologico
– quello attuale, della Chiesa – interinale e dunque ambiguo, sospeso tra il
“già” e un “non ancora”, tra la promessa del Regno e la minaccia del mar-
tirio, tra l’unità del Vangelo e la disgregazione delle comunità. La crisi che
minaccia di compromettere l’unità della Chiesa cartaginese, infatti, “cor-
risponde” alle insidie che gli anziani avevano teso a Susanna; il presente
che osserva Cipriano, dunque, espone il significato pieno, “attuale”, dei
racconti prototestamentari, che perciò si compiono (“si ricapitolano”, avreb-
be detto Ireneo) nel presente della Chiesa di Cartagine.
Cipriano […] è uno dei grandi maestri della tipologia biblica. Egli l’arric-
chisce soprattutto in un punto: la tipologia della Chiesa, sposa di Cristo; non
lascia spazio a nessun allegorismo; diffida persino degli abusi di una interpre-
tazione spirituale, seguendo, su questo punto, criteri sicuri 27.

25 Cfr. Ippolito, Commento a Daniele 1,14.


26
Cipriano di Cartagine, Lettere 43,4,3.
27 Daniélou, Le origini, 302.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 343

Figura 58: Daniele e il drago (A); un covone di grano (cacciata dal paradiso
terrestre [?]; [B’]); la trasgressione dei progenitori (B); tabula inscriptionis tra
personaggi alati (angeli? eroti?); la moltiplicazione dei pani (C); un anziano nel
giardino di Susanna (D’); il giudizio di Daniele (D). Alzata di sarcofago (Late-
ranense 136), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t.
197,4; Rep. 1, 146). Prima metà del IV secolo. L’immagine è tratta da Garr. 5,
t. 383,5 (in figura l’immagine è accompagnata dallo schema di lettura). Il pro-
getto iconografico di questa alzata di sarcofago presenta quattro o sei scene, a
seconda di come si interpretino due particolari (B’ e D’ nello schema), uno in
ogni pannello dell’alzata.
1. Il pannello di sinistra.

Figura 59: Daniele e il drago (A) e la caduta dei progenitori (B’ - B). Partico-
lare di alzata di sarcofago (Lateranense 136), Musei Vaticani, Pio Cristiano,
Città del Vaticano. Prima metà del IV secolo. L’immagine è ricavata da Garr.
5, t. 383,5. Questo pannello alterna due momenti principali: la sconfitta del
drago e il peccato dei progenitori. Il primo (A) raffigura Daniele mentre avve-
lena il drago, porgendogli la focaccia di pece ed esaurendone, in tal modo, il
culto fasullo (cfr. Dn 14Vulgata [= Bel e il dragoLXX ],23-30; si noti la resa figura-

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344 Il lessico tipologico

tiva dell’epilogo del racconto prototestamentario, illustrato attraverso la profa-


nazione di un altare, letteralmente ribaltato per terra). Accanto a questa scena, si
trova quella della caduta dei progenitori (B). Qui Adamo ed Eva sono ritratti
mentre contemporaneamente colgono il frutto dell’albero proibito (pare lecito
osservare che la simultaneità dell’azione, come meglio si vedrà anche infra, pp.
383-399, implica una riformulazione esegetica dell’episodio genesiaco: grazie
ad essa la responsabilità della colpa iniziale viene equamente attribuita a entram-
bi i protoplasti, anziché alla sola donna). Un dettaglio (B’) interviene a modi-
ficare vistosamente l’abituale raffigurazione di questo episodio: l’ingombrante
presenza, sotto l’albero proibito, di un covone di grano mietuto (B’). Tale det-
taglio, più sopra correlato alla cacciata dal paradiso terrestre, evoca l’espedien-
te figurativo con cui la più antica iconografia cristiana rappresentava la male-
dizione dei protoparenti, ai quali, in sanzione della loro trasgressione, venivano
consegnati «i simboli del lavoro» (cfr. D. Calcagnini, s.v. « Adamo ed Eva», in
Bisconti [cur.], Temi, 96-101, in part. 99), in trasparente allusione a Gen 3,17-19.

Figura 60: la «consegna dei simboli del lavoro». Particolare di sarcofago (La-
teranense 189), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t.
157,1; Rep. 1, 40). 300-330. L’immagine proposta in figura è un particolare
tratto da Garr. 5, t. 367,2. La trasgressione e la cacciata dei progenitori. Fianco
destro di sarcofago, Santa Engracia, Saragozza (Rep. 4, 149; Sotomayor, Sar-
cófagos romano-cristianos de España, 159-169, su questo pannello, 163). Seconda
metà del IV secolo. I particolari riportati in figura mostrano rispettivamente la
scena della cacciata e una sintesi tra il momento della trasgressione di Adamo
ed Eva e quello della consegna «‹del›l’agnello e ‹del›le spighe – simboli del lavo-
ro – ‹che› indicano la condizione materiale dell’umanità dopo la caduta dei
protoparenti (le spighe, il lavorare i campi; la pecora, il tessere, cioè l’attività
principale della donna nell’antichità)»: Calcagnini, s.v. « Adamo ed Eva», 99
(H. Kaiser-Minn, s.v. « Adam and Eve », in EEECA, 1, 10-13, qui 11, ipotizza
acutamente un ulteriore piano di significato: «È anche possibile che questi due
attributi indichino in modo prolettico le successive disposizioni per i sacrifici
[Gen 4,3-4; Es 13,2; Lv 27,30]: grano e agnello sono raffigurati in modo stra-

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 345

ordinariamente simile nell’iconografia di Caino e Abele»). Mi sembra che que-


sti due piani di significato possano, in fin dei conti, coesistere: dal punto di
vista cristiano, infatti, il culto prestato nella storia non rappresenta che una
circostanza interinale – legata al tempo “intermedio” e conclusivo sospeso tra
la consacrazione pasquale del Cristo e la venuta del suo Regno. Per i cristiani,
infatti, la Gerusalemme celeste non prevede più il tempio (si pensi ad Ap 21,22),
diversamente dalla grandiosa visione di Ez 40 - 48, quasi interamente occupata
dal grandioso edificio del tempio eterno (40 - 41). La constatazione della conta-
minatio che il dettaglio figurativo del grande covone introduce nella scena del-
la caduta raffigurata sull’alzata del Lateranense 136 permette di riconsiderare
anche la presenza del personaggio stante alle spalle di Adamo, anch’esso forse
eco del tema della sanzione dei due primi esseri umani, tema nel quale un per-
sonaggio virile, forse un angelo (cfr. Estivill, La imagen del ángel, 157-172),
consegna ai due progenitori i segni della loro punizione.
2. Il pannello di destra.

Figura 61: la moltiplicazione dei pani (C) e la vicenda di Susanna (D’ - D). Parti-
colare di alzata di sarcofago (Lateranense 136), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Cit-
tà del Vaticano. Prima metà del IV secolo. L’immagine è ricavata da Garr. 5, t. 383,5.
Si trovano qui le raffigurazioni dell’episodio neotestamentario della moltiplicazione
dei pani e di quello prototestamentario del giudizio di Daniele sugli anziani che
avevano cercato di stuprare Susanna, in parziale rilettura di Dn 13Vulgata [= Susan-
naLXX],50-64 (nel testo biblico, infatti, per due volte [vv. 55 e 59] è minacciata una
punizione eseguita «‹dal›l’angelo di Dio»; sul Lateranense 136, invece, l’aguzzino
del reo è evidentemente un essere umano). Quest’ultima scena raggruppa la gio-
vane, in abito matronale, Daniele assiso, in posizione frontale, e il colpevole che
subisce la punizione, venendo percosso sulla testa. Anche in questo pannello si
osserva l’inclusione di un marcatore iconografico (D’), tratto da un tema figura-
tivo non riprodotto per intero: il personaggio che sbircia tra i rami di un albero
del giardino rinvia infatti alla scena degli anziani che insidiano la casta Susanna;
qui, si noti, il personaggio non si protende verso la seducente fanciulla ma verso
una capsa ricolma di rotoli.

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346 Il lessico tipologico

Figura 62: Susanna nel giardino spiata dai due anziani. Particolare del “sarco-
fago di Susanna”, chiesa di San Feliu, Girona (Wp. 32, t. 196,1; Rep. 4, 56).
Datato al 300-330. L’immagine proposta in figura è un particolare tratto da
Garr. 5, t. 377,3 (vedi supra, p. 340, figura 57). Susanna nel giardino spiata dai
due anziani. Particolare del “Sarcofago della casta Susanna”, Musée de l’Arles
antique, Arles (Wp. 32, t. 195,4; Rep. 3, 41). Prima metà del IV secolo. L’im-
magine è tratta da Pelizzari, Vedere la Parola, 71, figura 26 (cfr. anche Boehden,
Der Susannensarkophag von Gerona, 20-23). La scena, raffigurata sul “sarcofago
di Susanna” gerundense in forme statiche e più solenni (per questo monumen-
to, Rep. 4, 56 parla di un esito «statuario nello stile della scultura», forse ricon-
ducibile a «una bottega romana trasferita nella penisola iberica, che attuava le
richieste […] della sua committenza sulla base del repertorio stilistico e icono-
grafico dei sarcofagi a fregio [pre-]costantiniani»), presenta gli stessi caratteri
che si ritrovano nell’inclusione dell’alzata Lateranense 136: si osservi in parti-
colare la funzione degli alberi, che creano una sorta di nascondiglio per i due
malintenzionati (il dettaglio sembrerebbe collimare con l’annotazione di Dn
13,15Teodozione, in cui esplicitamente si menzionano gli anziani nascosti nel giar-
dino). Resta ovviamente da spiegare la scelta di far protendere l’anziano verso
una capsa ricolma di testi. Se l’identificazione tipologica tra Susanna e la Chie-
sa può valere, come credo, anche per il Lateranense 136, allora l’anziano che
insidia la giovane Susanna diviene la profezia del persecutore che minaccia la
Chiesa. Su questo monumento, poi, tale implicazione tipologica viene svilup-
pata con particolare acutezza. È noto infatti che, almeno a partire dalle c.d.
“persecuzioni edittali”, da Decio in poi, fosse ingiunto innanzi tutto il sequestro
delle Scritture – da cui, per chi le consegnava, venne coniato il termine spregia-
tivo di traditor. Dunque nel dettaglio dell’anziano che cerca di afferrare la cap-
sa con i rotoli – particolare ovviamente del tutto estraneo al testo biblico – si
può riconoscere la trascrizione visuale, di marca tipologica, di quell’odioso co-
rollario della repressione anticristiana, il sequestro e la distruzione delle Scrit-
ture delle Chiese.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 347

Figura 63: schema riassuntivo del progetto iconografico del Lateranense 136
(Wp. 32, t. 197,4; Rep. 1, 146). Il progetto di questa alzata si può cogliere arti-
colandone il contenuto su due “piani di lettura”. Il primo riconduce le associa-
zioni iconografiche che caratterizzano ciascun pannello a un’argomentazione
storico-teologica, che potremmo dire “in forma narrativa”, nella quale scene
selezionate tipologicamente vengono giustapposte (né il gruppo A - B [B’] né
quello C - D [D’], infatti, possono essere considerati “illustrazioni” dei testi
biblici, dal momento che accorpano materiali letterariamente eterogenei). Il
secondo “livello di lettura”, invece, unifica il messaggio complessivo del pro-
getto di questa alzata tramite il ricorso a nessi ermeneutici in grado di precisa-
re il significato delle singole scene alla luce dello sviluppo complessivo del do-
cumento. Prima di descrivere analiticamente il manifesto che fu affidato al
Lateranense 136, si deve precisare la scansione del suo itinerario argomentativo;
è cioè necessario stabilire in quale ordine vadano osservate le scene qui raffigu-
rate. Per capirlo, basta prestare attenzione alla collocazione dei due dettagli (B’
e D’) che, introducendo un elemento narrativo rispetto a B e a D, permettono
di definire il verso della progressione dei due pannelli. La sanzione dei proge-
nitori segue la loro trasgressione (B à B’), così come il tentativo di stuprare
Susanna precede il processo degli anziani (D’ à D). Ciò posto, diventa sempli-
ce riconoscere che la lettura di questa alzata debba procedere dalla tabula in-
scriptionis verso l’esterno del rilievo. Diviene così possibile ripercorrere i due
“piani di lettura” che strutturano il documento:
1. La lettura dei singoli pannelli. Il pannello di sinistra articola la successione
tra due episodi il cui tertium comparationis è vistosamente stabilito dalla
presenza del medesimo marcatore figurativo: il draco (che per la verità è
«ophis » in Gen 3LXX e «drakōn» solo in Bel e il dragoLXX [= Dn 14Vulgata],23,
ma che, sulla scorta di Ap 12,9, tuttavia venne interpretato come “draco[-

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348 Il lessico tipologico

nis]” in entrambi i casi dalla tradizione latina: cfr. Arnobio il Giovane,


Commento ai Salmi 24,21; Agostino, Enarrazioni sui Salmi 103,4,11-13;
Agrestio, La fede 40,49 ecc.). Se, dapprima, l’alimento che il draco aveva
suggerito di assumere ai progenitori determinò l’allontanamento di questi
ultimi dal paradeisos edenico, “negli ultimi giorni” (il libro di Daniele era
abitualmente inteso quale profezia apocalittica, come prova la ricca lette-
ratura che da esso si sviluppò; cfr. L. DiTommaso, The Book of Daniel and
the Apocryphal Daniel Literature, Brill, Leiden - Boston [MA] 2005 [Studia
in Veteris Testamenti Pseudepigrapha 20]; Id., The Early Christian Daniel
Apocalyptica, in J.R. Daly [ed.], Apocalyptic Thought in Early Christianity,
Baker Academic, Grand Rapids [MI] 2009 [Holy Cross Studies in Patristic
Theology and History], 227-239), il draco verrà ucciso e le sue menzogne
saranno smascherate: «Vi era un gran drago e i Babilonesi lo veneravano
[…]. Daniele prese allora pece, grasso e peli e li fece cuocere insieme, poi
ne preparò focacce e le gettò in bocca al drago, che le inghiottì e scoppiò;
quindi ‹Daniele› soggiunse: “Ecco che cosa adoravate!”» (Dn 14Vulgata [= Bel
e il DragoLXX ],22-27). Sussistono dunque due possibili indirizzi semantici
– eventualmente anche coesistenti – che spiegano questa correlazione. Il
primo è storico-teologico e articola il passaggio dal tempo della storia,
inaugurato dalla sconfitta degli uomini, al tempo escatologico, inaugurato
dalla sconfitta dell’avversario (in questa prospettiva, il drago di Daniele è
ovviamente ricapitolazione del serpente genesiaco e tipo del drakōn apoca-
littico [Ap 12]: «Il grande drago, il serpente antico» [v. 9]; cfr. Ireneo di
Lione, Contro le eresie 5,21,1; identica associazione si ritrova sul vetro inci-
so di Homblières, del IV sec.: cfr. E. Coche de la Ferté, Antiquité chrétienne
au Musée du Louvre, de L’Oeil, Paris 1958, 109-110; Dulaey, I simboli cri-
stiani, 137). Il secondo indirizzo semantico è invece di natura soteriologica:
l’avvio della storia umana viene qui accostato al principio del tempo della
Chiesa, quest’ultimo segnato dallo smascheramento e dall’abbandono di
ogni idolatria. Venendo ora al pannello di destra, esso presenta più sinte-
ticamente il passaggio dal tempo vigiliare della Chiesa, scandito dal me-
moriale del sacrificio perfetto di Gesù, celebrato nella cena (anticipata dai
miracoli di moltiplicazione dei pani e, a sua volta, prefigurazione del ban-
chetto escatologico [cfr. 1Cor 11,26; Mc 14,24 ecc.]), al tempo del giudizio,
nel quale la casta Susanna – come visto, una tipologia della Chiesa («Su-
sanna era la figura della Chiesa, suo marito, Joakim, quella di Cristo […].
I due anziani rappresentano in figura i due popoli che cospirano contro la
Chiesa, quello dei circoncisi e quello delle genti»: Ippolito, Commento a
Daniele 1,14; cfr. Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extite-
runt”, 390-394; più in generale M. Cecchelli-Trinci, Studio su Susanna
nella interpretazione patristica e nell’antica iconografia cristiana, in M. Chia-
renza - R. Tommasi [curr.], Miscellanea di scritti e studi offerta a Giuseppe

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 349

L. Messina, A. Signorelli, Roma 1987, 3-31) – viene vendicata del torto


subito dai vecchioni, in evidente prefigurazione del giudizio ultimo: « Ac-
cendete le vostre lampade e attendete lo sposo, in modo che, non appena
busserà, voi lo riceviate, voi cantiate inni a Dio, per Cristo». Così, con
questa invocazione escatologica elevata in tempo di persecuzione, l’Ippoli-
to d’Asia conclude la lunga tipologia ecclesiologica del racconto di Susanna
(che egli ha sviluppato in Commento a Daniele 1,12-33).
2. La lettura complessiva del Lateranense 136. L’unitarietà dell’argomentazio-
ne di questa alzata emerge se si presta attenzione alle correlazioni tipologiche
che sussistono tra le scene dei due pannelli. Partendo ancora una volta dal-
le figure più prossime alla tabula inscriptionis, non potrà sfuggire il nesso
tra l’alimento che salva l’umanità (il «pane disceso dal cielo […]: chi mangia
questo pane vivrà in eterno»: Gv 6,58) e quello che la condannò («Del frut-
to dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non ne dovete
mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”»: Gen 3,3; questa
stessa correlazione tra il frutto genesiaco e il pane eucaristico si trova in
Origene, La preghiera 27,10; cfr. comunque Dresken-Weiland, Immagine e
parola, 217). Si tratta di una tipologia antitetica di semplice leggibilità.
Ugualmente mi pare sostenibile il nesso tra una scena di giudizio e la raffi-
gurazione della sconfitta del drago, associazione che si stabilisce correlando
le due figure più esterne di ciascun pannello: si tratta di una cifratura tipo-
logica dell’abituale scansione apocalittica che contempla, appunto, tanto la
valutazione di tutto il cosmo secondo la misura «del Regno e della sua giu-
stizia» (Mt 6,33) tanto lo spettacolo della sconfitta dell’avversario.
L’impiego dei racconti di Daniele in questa alzata non si limita, dunque, a ri-
chiamare – e a illustrare – profezie del compimento particolarmente fortunate,
presso i cristiani, ma consente l’elaborazione di un articolato progetto iconogra-
fico che, in quanto tale, è anche progetto ermeneutico e argomentativo: Danie-
le, quindi, non è l’argomento di queste figure ma la materia con cui esse arti-
colano il proprio manifesto.

Vi sono due ultimi elementi su cui vorrei attirare l’attenzione, entram-


bi legati all’impiego di Susanna come tipologia della Chiesa e di Cristo.
Il primo, già ampiamente discusso da Celeste Valenti, è quello che la stu-
diosa ha definito «una connessione problematica»28. Si può facilmente
rilevare, infatti, come la scena di Susanna afferrata per le braccia dai due
“vecchioni” abbia fornito il modello formale per la raffigurazione di un

28 Cfr. Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, 322-334, in part., per

la definizione menzionata, 333-334.

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350 Il lessico tipologico

personaggio femminile tra Pietro e Paolo29. Uso la generica formulazione:


«Un personaggio femminile», perché la critica tende a identificare questi
gruppi con altrettanti ritratti di defunte cristiane, i cui destini ultramon-
dani sarebbero stati affidati all’intercessione dei due Apostoli. L’ipotesi è
ovviamente del tutto ragionevole, ma mi chiedo se non sia possibile pro-
pendere piuttosto per una soluzione alternativa – o anche solo per un pia-
no di significato ulteriore. Come il cantaro aveva sostituito il ritratto di
Daniele nella scena della fossa dei leoni 30 per suggerire, attraverso una
tipologia positiva, l’equazione tra i due battesimi, “d’acqua” e “di san-
gue” 31, ora si potrebbe ipotizzare che la sostituzione di Susanna con la
Chiesa e dei “vecchioni” con i due “Principi degli Apostoli” voglia illu-
strare, attraverso una tipologia antitetica, il destino di gloria prospettato
a quella stessa Chiesa martire che, nella storia, aveva ricapitolato la casta
fanciulla minacciata dalla perversione e dalla crudeltà dei due anziani.

29
La critica è particolarmente titubante su questo “transito iconografico” né mi pare
particolarmente fiduciosa circa la possibilità di poter sempre distinguere incontrovertibil-
mente tra questi due temi iconografici né sull’incidenza quantitativa dell’iconografia della
donna tra Pietro e Paolo. Le ragioni di questa esitazione sono molteplici e mi limiterò qui a
presentarle schematicamente: 1. nella maggior parte dei casi, mancano marcatori risolutivi
per assegnare con sicurezza le scene all’una o all’altra tipologia (cfr. M. Minasi, s.v. «Susan-
na», in Bisconti [cur.], Temi, 282-284, qui 284: «Si tratta […] di uno schema che dà adito
a confusioni e sovrapposizioni con l’iconografia della defunta introdotta dai santi protet-
tori nel giardino celeste; solo in presenza di didascalie esplicitanti o del segnale iconografi-
camente inequivocabile della nudità della donna […] si può dunque riconoscere con certez-
za una raffigurazione del tema »); 2. l’iconografia degli anziani giudici può contemplare la
presenza di cartigli e rotoli, che favoriscono la sovrapposizione con Pietro e Paolo; 3. anche
la connotazione espressiva dei personaggi, soprattutto nei documenti che rivelano una mi-
nore perizia tecnica del loro artefice, è quasi sempre inutilizzabile.
30 Vedi supra, pp. 337-338.
31 Il tema dei due battesimi – di acqua e di sangue –, già teorizzato da Tertulliano e fre-

quente nella letteratura del martirio (cfr. M Giuli, “Lavacrum Sanguinis”: il battesimo di san-
gue e la sua efficacia in Tertulliano, Pontificia Universitas Lateranensis, Roma 1961; M.S.
Grogan, Baptisms by Blood, Fire, and Water: A Typological Rereading of the Passio S. Marga-
retae, in Traditio 72 [2017] 377-409), va interpretato come persistenza di una rubrica “sacra-
mentaria” della teologia del martirio. La testimonianza del credente, infatti, per il suo intrin-
seco valore, è in grado di esprimere un’efficacia sacramentaria i cui effetti equivalgono a
quelli dell’azione misterica battesimale. Nella Passione di Perpetua e Felicita, la visione di Di-
nocrate (§§ 8 - 9) documenta la credenza di un’efficacia battesimale del martirio anche per
terzi (cfr. C. Beretta, La visione di Dinocrate nella Passio Perpetuae come ermeneutica di 1Cor
15,29, in Annali Di Scienze Religiose 7 [2002] 195-223).

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 351

Figura 64: figura femminile tra Pietro e


Paolo, cattedrale di Notre-Dame, Cler-
mont-Ferrand (Puy-de-Dôme) (Wp. 29, t.
99,1; Rep. 3, 218). Primo terzo del IV seco-
lo. L’immagine è tratta da Pelizzari, Vedere
la Parola, 90, figura 31. Se la proposta in-
terpretativa avanzata nel testo è corretta, la
similarità con la scena di Susanna insidiata
è dunque voluta: «Creando un’inversione
semantica che, mentre cita la figura della
persecuzione, ne propone la sua retribuzio-
ne escatologica, questa costruzione icono-
grafica echeggia la costruzione esegetica che
si ritrova, per esempio, in Gal 3,13 dove,
mentre Paolo cita Dt 21,23 – il cui significato negativo non è discutibile –, at-
traverso l’antitipo pasquale, inverte l’originale connotazione» (ibidem).

L’ultimo punto che reputo necessario menzionare a proposito della


tipologia visuale del racconto di Susanna è dato da uno straordinario e
noto documento: l’arcosolio di Celerina.

Figura 65: Susanna, in forma di agnello, tra i due anziani, in forma di lupi.
Parapetto dell’arcosolio di Celerina, Catacomba di Pretestato, Roma (Wp. 03,
t. 251; Nestori, Pre5). Seconda metà IV secolo. L’immagine è tratta da H. Le-
clercq, s.v. «Suzanne », in DACL 15,2, 1742-1752, qui 1749-1750, figura 10976.
Il parapetto dell’arcosolio di Celerina (su questo celebre progetto iconografico,
cfr. ora F. Bisconti, L’arcosolio di Celerina in Pretestato. Fasi e significati della
decorazione pittorica, in Rivista di Archeologia Cristiana 81 [2005] 21-52) ripor-
ta quello che più volte è stato definito un unicum della tradizione iconografica
paleocristiana: la raffigurazione dell’episodio della seduzione di Susanna, ri-
letto attraverso i termini di Mt 10,16 (Lc 10,3), crea un’ovvia sintesi tipologica
tra la vicenda della donna ebrea e la condizione dei discepoli del Signore. Su-

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352 Il lessico tipologico

sanna diviene così, anche secondo questo documento, tipologia ecclesiologica.


L’espediente iconografico qui sperimentato, spesso accostato ad Asterio Sofista,
Omelia 13 sul Salmo 7 29,4, mostra innanzi tutto la libertà con cui i materiali
scritturistici venivano impiegati nella definizione dei progetti iconografici di
questi documenti. Fare di Susanna tra gli anziani un agnello in mezzo ai lupi
non può essere confuso con un generico augurio di salvezza: è evidente che il
nucleo di questa scelta figurativa risieda nella “coniugazione tipologica” dell’e-
pisodio prototestamentario entro l’economia nuova della Chiesa. D’altra parte,
l’assioma tipologico che il parapetto di questo arcosolio sviluppa, viene pun-
tualizzato e, si licet, radicalizzato cristologicamente dalla lunetta: «Nella lunet-
ta dell’arcosolio anche il Cristo viene raffigurato come agnello (si vedono tre
agnelli in un paradeisos, dei quali quello centrale – corrispondente a quello
identificato con l’iscrizione “Susanna” – sottostà a un monogramma) adottan-
do quella simbologia proveniente dal racconto della Pasqua di Es 12,21-27,
trasferita sul servo sofferente (Is 53, in particolare v. 7), e recepita sia nell’epi-
stolografia neotestamentaria (cfr. 1Cor 5,7; 1Pt 1,19) sia nella letteratura gio-
vannea (cfr. Gv 1,29; 19,34), specialmente in Apocalisse ‹dove per ben ventot-
to volte il Cristo escatologico è adombrato sotto le sembianze di un agnello›»
(Pelizzari, Vedere la Parola, 79).

Figura 66: un agnello tra due pecore; il monogramma tra due colombe. Lunet-
ta dell’arcosolio di Celerina, Catacomba di Pretestato, Roma (Wp. 03, t. 251;
Nestori, Pre5). Seconda metà IV secolo. L’immagine è un particolare di Peliz-
zari, Vedere la Parola, 78, figura 27. La lunetta dell’arcosolio ricupera la figura
dell’agnello, proiettandola ora su uno sfondo differente: esso non è più minac-
ciato dai lupi, ma pascola in uno spazio paradisiaco in mezzo ad altre pecore;
esso non è più correlato a Susanna – o al credente –, ma è associato a Cristo
stesso, come testimoniano tanto il monogramma che lo sovrasta tanto il busto
clipeato del Cristo che troneggia all’apice del sottarco.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 353

Figura 67: schema riassuntivo dell’arcosolio di Celerina (Wp. 03, t. 251; Ne-
stori, Pre5; in grigio le due aree riportate supra, nelle figure 65-66). Si osservi
come questo progetto iconografico proceda seguendo la profondità dei piani
pittorici, dal più esterno (quello della parete) al più interno (quello della lunet-
ta). Se prima la tipologia Susanna - Chiesa presenta all’osservatore l’“autorap-
presentazione ideale” della comunità dei discepoli del Signore nella storia, suc-
cessivamente la tipologia agnello - Cristo definisce l’orizzonte escatologico (e
paradisiaco!) al quale si orientano le speranze della Chiesa (e, si noti: una tipo-
logia cristologica femminile!). Com’è ovvio, non si tratta di generici “paradigmi
di salvezza”, ma di un’autentica, pur breve, teologia della storia: il tempo del
presente reca già in sé i caratteri della salvezza futura, che dunque si presenterà
come una trasfigurazione della storia. La stessa figura, quella dell’agnello, rias-
sume in sé il nucleo profetico della vicenda di Susanna, la posizione della Chie-
sa nella storia e il fondamento cristologico delle attese di salvezza (sul meccani-
smo ermeneutico che sorregge il progetto di questo documento, cfr. anche
Pelizzari, Vedere la Parola, 79-80).

L’iconografia della storia di Susanna costituiva un caso di studio di


particolare interesse. La sua meno consolidata struttura figurativa, in-
fatti, rappresentava l’occasione ideale per verificare se l’impiego tipolo-
gico di questo repertorio figurativo fosse una sorta di conseguenza ob-
bligata della sua rigorosa codificazione iconografica (poiché i diversi
soggetti biblici non erano artisticamente malleabili, non fu possibile
impiegarli se non come “unità tematiche” precostituite) o se, viceversa,

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354 Il lessico tipologico

tale codificazione formale non debba essere considerata una conseguen-


za di quell’approccio ermeneutico-tipologico alle Scritture (il repertorio
figurativo cristiano delle origini si codificò “naturalmente”, dato il suo
impiego quale raccolta di testimonia visuali in ermeneutiche tipologiche
visuali).
Il breve itinerario documentario percorso credo abbia mostrato come
l’incertezza dell’iconografia di queste scene non abbia minato le moda-
lità, solidamente tipologiche, del loro impiego visuale. In altri termini:
anche dove la codificazione figurativa di questi testimonia risulta non del
tutto perfezionata, la Grundlogik e il Grundgesetz di questa tradizione e
cultura visuale rimangono solidamente ermeneutici e, più nel dettaglio,
espressamente tipologici.

d. Daniele e il drago
Assai più contenuto è il discorso relativo all’impiego figurativo dell’ul-
timo capitolo del libro di Daniele della Vulgata, dal quale la prima cul-
tura visuale cristiana trasse soltanto la scena del confronto tra il profeta
e il drago (Dn 14Vulgata [= Bel e il DragoLXX],23-42)32.
Prima di considerare l’impiego iconografico di questo racconto, è ne-
cessario sottolineare l’evidente intento anti-idolatrico che esso dichiara
sia negli estremi della sua struttura narrativa, il cui apice è ovviamente la
soppressione del culto fasullo, sia negli snodi attraverso i quali si dipana
il suo intreccio:
La scena centrale attesta un diffuso motivo popolare, spesso di tenore umo-
ristico, in cui un eroe nutre un drago con materiali ardenti, fusi, combustibili o
semplicemente glutinosi che “combattono il fuoco con il fuoco”, causandone la

32 Si tratta di un soggetto che riscosse una fortuna assai più contenuta di quella degli

altri temi tratti dal Dn. Styger, Die altchristliche Grabeskunst, 6, conta di questo tema sol-
tanto sei raffigurazioni (ma, come sempre, è una cifra da rivedere; in questo caso in modo
ancor più significativo: il solo Rep. 3, ne cataloga quattordici esempi); altri esemplari sono
menzionati da R. Sörries, s.v. «Daniel », in EEECA, 1, 396-397, qui 396. Per una prima in-
troduzione all’ermeneutica del drago nelle origini cristiane, cfr. M.P. Ciccarese, Animali
simbolici. Alle origini del bestiario cristiano, 1: Agnello Gufo, EDB, Bologna 2002 (Bibliote-
ca Patristica 39), 379-392.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 355

distruzione […]. Ma il motivo delle mazai 33 richiama specificamente l’usanza


greca, ben radicata, di dare da mangiare ai sacri serpenti torte d’orzo e miele […].
Il testo aramaico originale, quindi, deve essere esso stesso sorto entro un ambien-
te fortemente ellenizzato34.

Qualsiasi lettore cristiano di II o III secolo avrebbe dunque senz’altro


potuto riconoscere in questo episodio biblico la piena attualità non solo
dei valori che esso veicolava (la dialettica tra idolatria e “vero culto”: cfr.
Gv 4,23-24), ma anche della prassi religiosa che in quella pagina veniva
dichiarata sconfitta 35. Questo duplice elemento di “attualità” rappresenta
com’è ovvio il presupposto ideale per uno sviluppo tipologico del raccon-
to prototestamentario: ciò contro cui il profeta Daniele aveva combattuto
sino al martirio per expositio ad bestias era la medesima menzogna – e la
medesima prassi – a cui i cristiani si opponevano, sino al martirio. Il nu-
cleo profetico della narrazione biblica non poteva risultare più attuale.
La primigenia cultura visuale cristiana mi sembra abbia intensificato
lo sforzo ermeneutico su questo episodio, introducendo almeno un se-
condo esito interpretativo. Si possono, infatti, osservare due sviluppi fi-
gurativi prevalenti: quello “paradisiaco” e quello “templare”.

33 Maza, “torta”, è il termine che la LXX, al v. 27, impiega per indicare la focaccia che

il profeta porge al serpente, causandone l’esplosione.


34 D. Ogden, Drakōn: Dragon Myth and Serpent Cult in the Greek and Roman Worlds,

Oxford University Press, Oxford 2013, 384. È opinione diffusa che il racconto, pervenutoci
soltanto nelle versioni greche della LXX e di Teodozione, possa risalire a prima del II secolo
a.e.v. e che dunque possa essere sorto e circolato originariamente in un primo canovaccio ebrai-
co. «L’idea che motiva la scelta della pece è evidentemente quella di dispiegare il fuoco stesso
del drago contro di esso: mentre il drago accende la pece con il suo ardore, si surriscalda dall’in-
terno ed esplode»: Id., Dragons, Serpents, and Slayers in the Classical and Early Christian Worlds.
A Sourcebook, Oxford University Press, Oxford - New York (NY) 2013, 190. Per l’uso di of-
frire torte d’orzo e miele agli idoli serpentiformi, cfr. Pausania, Periegesi della Grecia 6,20,2-
6; 9,39,l; Claudio Eliano, La natura degli animali 11,16. È ragionevole opinione dell’autore
che il racconto di Dn 14Vulgata [= Bel e il DragoLXX],23-42, abbia avuto un ruolo consistente,
anche dal punto di vista agiografico, nella genesi di tutti quei santi “uccisori del drago (o del ser-
pente)” (Filippo, Teodoro, Giorgio, Patrizio ecc.). J.R. Trotter, Another Stage in the Redactional
History of the Bel Story (Dan 14:1-22): The Evidence of Polemic against Foreign Priests and the
Focus on Daniel in the Old Greek, in Journal for the Study of Judaism in the Persian, Hellenistic
and Roman Period 44 (2013) 481-496, ritiene che la prima versione greca enfatizzi questo ca-
rattere anti-idolatrico ancor più della versione di Teodozione.
35 Cfr. Ogden, Drakōn, 364-367. Per la sola tradizione latina, cfr. ancora Id., The Dragon in

the West: From Ancient Myth to Modern Legend, Oxford University Press, Oxford 2021, 42-58.

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356 Il lessico tipologico

Figura 68: Daniele porge al drago le focacce avvelenate. Particolare di sarco-


fago (Lateranense 179), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp.
32, t. 228,7; Rep. 1, 60). Metà del IV secolo. L’immagine è un particolare del-
la tavola di Joseph Wilpert. Daniele avvelena il drago. Particolare dal pannello
di sinistra dell’alzata Lateranense 136, Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del
Vaticano (Wp. 32, t. 197,4; Rep. 1, 146). Prima metà del IV secolo (vedi supra,
le figure 58-59; 61 di questo capitolo). Il testo di Dn 14Vulgata (= Bel e il Dra-
goLXX),23-42 non precisa il luogo in cui si trovava il drago, sicché da questo
punto di vista le opzioni disponibili agli artigiani cristiani erano potenzialmen-
te illimitate. Le soluzioni concretamente percorse furono, però, soltanto due.
La più frequente, che sopra si è classificata come “paradisiaca”, è quella attesta-
ta dai due esempi riportati in figura: il drago (/serpente) si protende verso il
profeta Daniele, distaccandosi parzialmente dall’albero su cui sta avvolto; il
profeta gli sottopone un alimento tondeggiante, di cui esso si nutre. Si tratta
dell’antitesi plastica della scena della caduta dei progenitori, nella quale sono
Adamo ed Eva a ricevere il frutto tondeggiante da un identico serpente (/drago),
che pure sta avvolto su un albero (vedi infra, pp. 383-399). In alcuni casi, come
quello già analizzato dell’alzata Lateranense 136, l’abbinamento con l’episodio
protologico è esplicitamente esibito.

Figura 69: Daniele porge al dra-


go le focacce avvelenate. Fram-
mento di sarcofago, Château de
Grozon, Ardèche (Wp. 32, t.
197,1; Rep. 3, 251). Seconda
metà del IV secolo. L’immagine
è tratta da Wp. 32, t. 197,1. Co-
me si può vedere, in questo caso
è stata modificata radicalmente
la collocazione del drago: esso
non compare più, come il serpente genesiaco, dalle fronde di un albero, ma fuo-

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 357

riesce da un edificio che ricorda chiaramente una cella templare e di fronte al


quale sta l’altare ancora fumante. Mi sembra prudente affermare che tramite que-
sta soluzione figurativa si sia voluto enfatizzare il significato anti-idolatrico dell’e-
pisodio. Qui, infatti, ciò che il profeta Daniele distrugge è un idolo vivo venerato
in un tempio. D’altra parte, come ricorda Didimo di Alessandria, Su Zaccaria 5,5
(su Zc 13,8-9), nel culto del drago e nell’omaggio alla statua si devono riconosce-
re le forme più gravi dell’idolatria: «Molti di coloro che furono deportati dal loro
Paese e dalla loro patria per vivere come prigionieri nel Paese dei loro conquista-
tori abbandonarono del tutto il culto ‹di Dio› e adorarono gli idoli […]. Si pro-
strarono davanti a Bel e al drago e anche davanti ‹alla statua› del re Nabucodo-
nosor; altri, senza spingersi a tanto, mantennero l’ebraismo, ma contravvennero
alla sua Legge […]: tali furono, nella loro follia perversa, i vecchi malfattori e
coloro che con essi convennero nel condannare la castissima Susanna».

Figura 70: Daniele avvelena il drago; Mosè riceve le tavole della Legge; ta-
bula inscriptionis tra personaggi alati (angeli? eroti?); Daniele nella fossa dei
leoni; Pietro e il cane di Simon Mago (Atti di Pietro e Simone 9-12). Alzata
del “sarcofago dei santi Simone e Giuda Taddeo”, San Giovanni in Valle, Ve-
rona (Wp. 29, t. 150,2; Rep. 2, 152). Seconda metà del IV secolo. L’immagi-
ne è un particolare di Garr. 5, t. 333. Parlando di questo sarcofago, giusta-
mente S. Maffei, Verona illustrata, 3, Jacopo Vallarsi e Pierantonio Berno, in
Verona 1732, 107, ebbe ad affermare: «Quel monumento parla più d’un libro».
Pur non essendo possibile in questa sede affrontarne integralmente il proget-
to iconografico, il giudizio di Maffei si prova adeguato anche considerando
la sola alzata. Si osserva qui, enfatizzato dalla vistosa simmetria degli edifici,
l’abbinamento tra la scena dell’avvelenamento del drago e quella del prodigio
compiuto da Pietro sul cane di Simon Mago (per questo episodio, cfr. G. Lut-
tikhuizen, Simon Magus as a Narrative Figure in the Acts of Peter, in J.N.
Bremmer [ed.], The Apocryphal Acts of Peter: Magic, Miracles and Gnosticism,
Peeters, Leuven 1998 [Studies on the Apocryphal Acts of the Apostles 3], 39-
51, qui 45-48). L’abbinamento è interessante perché associa una tipologia an-
ti-idolatrica (Daniele) a un racconto antiereticale (Simon Mago era ritenuto
il capostipite della gnosi e, per questa ragione, era considerato il leggendario
iniziatore dell’“eresia”). Altrettanto interessante pare l’abbinamento tra la
consegna delle tavole e il Daniele nella fossa dei leoni, qui, io credo, evocato
quale tipologia cristologica (cfr. Origene, Contro Celso 7,57; Pseudo-Tertul-

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358 Il lessico tipologico

liano, Carme contro Marcione 3,201; Ohm, Daniel und die Löwen, 203-206):
ne emerge in tal modo il nesso tra la Prima e la Nuova Alleanza, l’una carat-
terizzata dalla Legge, l’altra dal sacrificio perfetto elevato da Cristo in modo
decisivo e tuttavia perpetuato nel martirio della Chiesa. Si sviluppa dunque,
su questa alzata, un’argomentazione per antitesi: se al centro si riconoscono i
momenti decisivi e positivi delle Alleanze, nella Legge e nella Pasqua (con i
corollari della fedeltà a quel nomos divino e dell’integrazione a quella Pasqua
sino alla disponibilità al martirio), ai lati vengono presentati i due grandi
sconfitti: l’idolatria e l’eresia.

Figura 71: Daniele di fronte al drago morto. Particolare di fron-


te di sarcofago, Château de Grozon, Ardèche (Wp. 29, t. 38,1;
Rep. 3, 61). Seconda metà del IV secolo. L’immagine è tratta da
E. Le Blant, Étude sur les sarcophages chrétiens antiques de la ville
d’Arles, Imprimerie nationale, Paris 1878, t. 10. Come si può ve-
dere, in quest’unico caso viene immortalato il momento succes-
sivo all’attuazione dello stratagemma di Daniele: il profeta non
ha più in mano la focaccia avvelenata e il drago giace ai suoi pie-
di, morto. Per quale ragione si è deciso, in questo caso, di trasgre-
dire lo schema iconografico prevalente che raffigura l’avvelena-
mento della mostruosa creatura?

Figura 72: Abramo compie il sacrificio gradito a YHWH; Mosè con la Legge;
un Apostolo porge a Gesù i pani per la moltiplicazione; Gesù; un Apostolo por-
ge a Gesù i pesci per la moltiplicazione; Pietro; Daniele di fronte al drago mor-
to. Fronte di sarcofago, Château de Grozon, Ardèche (Wp. 29, t. 38,1; Rep. 3,
61). Seconda metà del IV secolo. L’immagine riporta la tavola di Wp. 29. An-
cora una volta, come già visto accadere, il progetto iconografico del documen-
to prevale sulla restituzione dei singoli temi, come qui succede per due volte.
Oltre alla settima scena – caratterizzata dalla raffigurazione del drago morto ai

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 359

piedi di Daniele –, infatti, anche la scena del sacrificio di Abramo, nella prima
nicchia, presenta caratteri di atipicità. Il Patriarca, infatti, sta di fronte all’alta-
re senza Isacco approntato per l’immolazione, tiene il pugnale abbassato e, ac-
canto a lui, alla sua destra, vi è solo il montone. Anche in questo caso, con
un’apprezzabile modifica dell’abituale definizione iconografica della scena,
viene colto l’epilogo del celebre episodio genesiaco, il momento del sacrificio
che produce la benedizione di YHWH (Gen 22,16-18). Il tertium comparationis
dell’altare – acceso e pronto all’immolazione dell’offerta nella prima nicchia,
oramai profanato nell’ultima – determina naturalmente la correlazione tra le
due figure (apparentate anche dall’identica postura dei due personaggi). Simil-
mente, il nesso tra Mosè, riconoscibile per i lunghi capelli (si tratta di un carat-
tere talora impiegato per la figura del Patriarca: cfr. il cubicolo C della Cata-
comba di Via Latina [Dino Compagni]: A. Ferrua, Le pitture della nuova
catacomba di Via Latina, PIAC, Città del Vaticano 1960 [Monumenti di Anti-
chità Cristiana. II Serie 8], t. 33,1; 34-35; Nestori, Din3), e Pietro, identificato
dal gesto del ter negabis (l’indice puntato verso il proprio volto), non fa che ri-
lanciare la tipologia di Pietro “nuovo Mosè” che tanta fortuna ebbe nella lette-
ratura cristiana delle origini, pur essendo stata introdotta proprio dalla tradi-
zione visuale (cfr. Sotomayor, S. Pedro, 147-152; Pelizzari, Dal battesimo al regno,
56-61). Va detto che la critica spesso preferisce prudentemente limitarsi a rico-
noscere nella seconda e sesta nicchia di questo sarcofago genericamente due
figure di apostolo, da ricongiungere al gruppo centrale con la moltiplicazione
dei pani (cfr. P.-A. Février, Sarcophages d’Arles, in Id., La Méditerranée de
Paul-Albert Février, recueil d’articles, École française de Rome, Roma 1996 [Col-
lection de l’École française de Rome 225], 2, 1091-1149, qui 1124; Rep. 3, pa-
gina 45). A mio giudizio tale cautela è eccessiva, perché sottostima l’importan-
za dei due elementi connotanti già richiamati – la capigliatura (personaggio
della seconda nicchia) e, soprattutto, la postura (personaggio della sesta nicchia)
– che mi sembra riscattino queste due figure da quelle di personaggi generici.
Se dapprima l’altare era il nesso visibile tra le due scene più esterne di questo
fronte, ora il tertium comparationis è rappresentato dal rotolo dissigillato che
entrambi i personaggi esibiscono: se spingere questo particolare sino a illustra-
re la dialettica tra i due Testamenti potrà sembrare forse pretesa eccessiva, limi-
tarsi a osservare in questa dialettica l’ideale dialogo tra Israele e la Chiesa mi
pare accettabile. Da ultimo, il gruppo centrale illustra il miracolo della molti-
plicazione dei pani e dei pesci (Mc 6,30-44 || Mt 14,13-21 || Lc 9,12-17 || Gv
6,1-13; Mc 8,1-9 || Mt 15,32-39). Anche limitandosi al solo ductus figurativo,
dunque, è possibile affermare che i marcatori iconografici delle scene di questo
sarcofago stabiliscono tre gruppi figurativi: quello più esterno, contraddistinto
dalla presenza dell’altare; quello intermedio, segnalato dalla ripetizione del ro-
tolo dissigillato; quello interno, contrassegnato dai pesci presentati a Gesù per
la moltiplicazione.

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360 Il lessico tipologico

Figura 73: schema riassuntivo del progetto iconografico del sarcofago del
Château de Grozon, Ardèche (Wp. 29, t. 38,1; Rep. 3, 61). Come mostra lo sche-
ma, la struttura ermeneutica di questo documento visuale è tanto semplice quan-
to significativa. Il sistema tipologico che organizza il fronte del sarcofago offre le
tre coordinate fondamentali dell’appartenenza alla comunità: al centro, il dato
sacramentale, la cena – che è anche celebrazione pasquale (dunque professione
kerygmatica: cfr. 1Cor 11,26-29) e prefigurazione escatologica –; in posizione
intermedia, il dato etnico, nel senso dell’appartenenza al “popolo eletto”, ed eccle-
siologico; all’esterno, il dato religioso, con l’antitesi tra il vero culto, reso al vero Dio,
e il falso culto, esigito dagli idoli, destinato a essere smascherato.

---

L’escussione dei diversi materiali iconografici ispirati al libro di Da-


niele ha permesso di ricavare tre dati circa il rapporto tra la struttura co-
dificata di questi temi visuali e le modalità ermeneutiche di questa tra-
dizione “artistica”.
1. Il lessico visuale paleocristiano non è composto da illustrazioni
bibliche ma da «vettori ermeneutici»; queste immagini, in altri
termini, non sviluppano un catalogo di archetipi (“paradigmi di
salvazione”; “modelli morali”; “parenesi visuali” ecc.), ma defini-
scono un repertorio strumentale, un’autentica «raccolta di testi-

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 361

monia visuali» predisposta in vista del loro impiego ermeneutico.


Ciascuno di questi temi, cioè, offre un’intera gamma di poten-
ziali significati; è poi tramite l’interazione ermeneutica con le
altre figure che, di volta in volta, ogni soggetto assume un preci-
so valore.
2. La codificazione di questi “temi” è stata successiva a un prelimi-
nare «processo di tematizzazione» di quegli episodi biblici: ciò che
veniva fissato in immagine non era il racconto ma il suo potenzia-
le tipologico. Ciò che si osserva su questi documenti non è l’acco-
stamento di narrazioni bibliche ma l’interazione tra diversi testi-
monia, articolati in discorsi ermeneutici.
3. La codificazione di questo immaginario iconografico non deter-
minò la natura ermeneutica di questa tradizione visuale, ma fu
questa Grundlogik a favorire la codificazione del primigenio reper-
torio figurativo cristiano.

2.2. Ripensare la storia dell’esegesi cristiana antica


L’impiego asimmetrico delle diverse sezioni del libro di Daniele nella
documentazione – letteraria e visuale – delle origini cristiane determina
conseguenze significative sia per la storia della prima esegesi cristiana sia
per la definizione dello spazio critico da assegnare alla più antica produ-
zione “artistica” cristiana.
Per ciò che concerne il primo e più vistoso di questi argomenti, paiono
evidenti le necessità, non più rinviabili, di un’escussione sistematica dei
materiali visuali e dell’integrazione dei dati così raccolti con i realia emer-
si dall’analisi della prima letteratura cristiana. Si tratta di premesse inelu-
dibili per tentare una descrizione rappresentativa dell’antica ricezione cri-
stiana delle Scritture – e, nello specifico, del libro di Daniele – e non solo
della loro ricezione letteraria 36. La differenza tra queste due opzioni criti-

36 Limitatamente al libro di Daniele, come si è visto, un ottimo tentativo in questa pro-

spettiva è già stato condotto da Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”,
a cui, ancora una volta, ben volentieri rinvio.

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362 Il lessico tipologico

che è, come visto, sensibile né – il che forse restituisce un dato ancor più
rilevante – i risultati sin qui raccolti tramite il ricorso pressoché esclusivo
alla documentazione letteraria sembrano in grado di offrire un campione
realmente rappresentativo della cultura biblica delle origini cristiane. Nel
caso qui assunto a campione, i realia raccolti dalla produzione visuale,
infatti, sovvertono già a partire dalla base statistica i parametri che la do-
cumentazione letteraria sembrava aver solidamente stabilito.
Il secondo argomento, più interno alla critica della prima cultura vi-
suale cristiana, ha importanti ricadute metodologiche. La diversa valoriz-
zazione di Daniele (in letteratura impiegato prioritariamente per i suoi
materiali visionari, in iconografia per quelli narrativi) rende infatti im-
praticabile quel principio proiettivo, non infrequentemente abbracciato
dalla letteratura critica, che presuppone che il documento visuale non
possa che rilanciare principi e contenuti già attestati in sede letteraria. In
altri termini, l’iconografia può aver illustrato solo ciò che i “Padri” han-
no stabilito – o anche solo intuito. Tale principio di subalternità della
fonte visuale è spesso divenuto un bias ordinario della critica di questa
monumentale produzione: anziché promuovere un’indagine comparativa,
i dati raccolti in sede critico-letteraria vengono impiegati per perimetra-
re lo “spazio di possibilità” dei significati dell’immagine.
Il caso del libro di Daniele dimostra l’inapplicabilità di questo approc-
cio – che è dannoso non solo in questo caso – e suggerisce, a mio avviso,
di classificarlo ormai definitivamente nell’archivio dei principi metodo-
logici ormai riconosciuti bisognosi di una profonda revisione.

3. IL CASO DEL “MIRACOLO” DELLE OSSA ARIDE:


LA RILEVANZA QUALITATIVA

Se l’impiego del libro di Daniele ha offerto alla valutazione dell’o-


riginalità del sistema ermeneutico della prima tradizione “artistica”
cristiana un argomento di ordine quantitativo, il caso che vorrei con-
siderare ora ne pone in evidenza un carattere, questa volta, di natura
qualitativa.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 363

In un numero significativo di documenti “artistici” paleocristiani 37


viene raffigurato un prodigio che non trova alcun corrispondente diretto
né negli scritti neotestamentari né nella tradizione speculativa ed erme-
neutica c.d. “patristica”. Nell’apparato iconografico di questi documenti,
infatti, si osserva Gesù mentre compie il celebre prodigio narrato da Ez
37,1-14 della ricomposizione e risurrezione delle ossa inaridite: il Messia,
raffigurato come attore storico38, con una virga (la “bacchetta” delle sce-

37
M. Perraymond, s.v. «Visioni», in Bisconti (cur.), Temi, 302-304, qui 303 (cfr. anche
Ead., Sogni, visioni e profezie nell’antico cristianesimo: Abramo, Giacobbe, Ezechiele, Pastore
d’Erma, Felicita e Perpetua, in Augusinianum 29 [1989] [= Sogni, visioni e profezie nell’anti-
co cristianesimo: XVII Incontro di studiosi dell’Antichità Cristiana, Roma, 5-7 maggio 1987]
549-563), ne conta undici esemplari: Rep. 1, 5 (Wp. 32, t. 219,1; Lateranense 121,1; vedi
infra, pp. 364-365); 7 (Wp. 29, t. 123,3; Lateranense 116); 12 (Wp. 29, t. 103,4; Latera-
nense 191; vedi infra, pp. 376-379); 14 (Wp. 32, t. 215,7; Lateranense 180; vedi infra, pp.
380-382); 23 (Wp. 32, t. 206,5-7; Lateranense 135; vedi infra, pp. 457-459); 176 (presso il
Cimitero di San Sebastiano, a Roma); 693 (Wp. 32, tt. 194,4.7; presso San Lorenzo fuori
le mura, a Roma); 807 (presso i Musei Capitolini, a Roma); Rep. 2, 11 (Wp. 29, t. 9,2; pres-
so la chiesa di San Marcello, a Capua); Rep. 4, 55 (cfr. Sotomayor, Sarcófagos romano-cri-
stianos de España, 29-39; presso la chiesa di San Feliu a Girona, Spagna); e il frammento di
coperchio rinvenuto al Coemeterium Maius di Roma (cfr. F. Bisconti, Un coperchio di sarco-
fago paleocristiano nel Cimitero Maggiore, in Quaeritur inventus colitur. Miscellanea in ono-
re di Padre Umberto Maria Fasola, B, PIAC, Città del Vaticano 1989 [Studi di antichità cri-
stiana 40], 21-49, figura 19). A questi va aggiunto per lo meno il Lateranense 186 (Rep. 1,
21; Wp. 32, t. 235,7). Nel complesso, si tratta di documenti riconducibili a una cronologia
di primo quarto del IV secolo, eccezion fatta per il frammento di coperchio del Coemete-
rium Maius, datato tra il regno del solo Gallieno (260-268) e l’avvio della tetrarchia (293).
38 Le ricerche iconografiche sono inclini a distinguere tra le raffigurazioni del Gesù

“agente storico” rispetto a quelle della maestà del “Cristo-Logos”, a seconda che il personag-
gio venga presentato come un giovinetto imberbe oppure come un adulto con la barba (le
due facce maggiori del c.d. “sarcofago di Stilicone” di Milano [Wp. 32, tt. 188,1-2; Rep. 2,
150; cfr. anche O. Steen, The Iconography of the Sarcophagus in S. Ambrogio. Hope for Salva-
tion through the Word of Christ, in Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia 15
{2001} 283-294, in part. 286-290] alternano proprio queste due iconografie: su un lato si
osserva il Gesù assiso, mentre commenta un testo che tiene aperto, in posa docente, accer-
chiato dai Dodici; specularmente, sull’altra faccia lunga del sarcofago, si trova invece il Cri-
sto glorificato, stante, tra Pietro che reca la croce glorificata, e Paolo, colto nel gesto dell’ac-
clamatio, e gli altri dieci apostoli [forse un riferimento al fatto che sia il Cristo risorto, dopo
la morte di Giuda?]). Naturalmente tale distinzione non può essere assunta in modo mec-
canico, né si può dimenticare che questa differenziazione non sia immediata (da principio,
l’immaginario cristiano impiegava solo il primo schema figurativo) né che essa emerga pa-
rallelamente al definirsi di una cristologia “trionfale” nel dibattito teologico post-costanti-
niano (cfr. F. Bœspflug, Dieu et ses images. Une histoire de l’Éternel dans l’art, Bayard, Mont-
rouge 2008, 73-86; Bernardi, I colori di Dio, 37-39, riconosce invece nel Cristo con la bar-

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364 Il lessico tipologico

ne miracolose)39 tocca un corpo nudo, sdraiato – solo o tra altri corpi,


eventualmente attorniati da teschi – che, destato, si ritrova in piedi e vi-
vo accanto a Gesù. A seconda della disponibilità dello spazio, ad assiste-
re alla scena può esservi un secondo personaggio, talora identificato dal-
la critica con il profeta Ezechiele stesso.

Figura 74: la risurrezione delle ossa aride; i Magi giungono al cospetto di Maria e
di Gesù bambino. Fronte di sarcofago di infante (Lateranense 121,1), Musei Vati-
cani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t. 219,1; Rep. 1, 5; cfr. anche W.
Neuss, Das Buch Ezechiel in Theologie und Kunst bis zum Ende des 12. Jahrhunder-
ts, mit besonderer Berücksichtigung der Gemälde in der Kirche zu Schwarzrheindorf;
ein Beitrag zur Entwicklungsgeschichte der Typologie der christlichen Kunst, vornehm-
lich in den Benediktinerklöstern, Aschendorf, Münster 1912 [Beiträge zur Geschichte
des alten Mönchtums und des Benediktinerordens 1-2], 2, 144-145). Primo quarto
del IV secolo. L’immagine si basa su Pelizzari, Vedere la Parola, 95, figura 32. Que-
sto documento offre una delle più dettagliate raffigurazioni cristiane del miracolo
delle ossa aride: Gesù tocca con una virga un cadavere che giace tra altre parti ana-
tomiche umane – un teschio stilizzato e una testa “ricomposta” –; due personaggi
nudi, stanti, simbolizzano due corpi risuscitati; alle spalle di Gesù, infine, fa capo-
lino un secondo personaggio (il profeta Ezechiele? un Apostolo?), che osserva atten-
tamente l’accaduto. Come prova anche la seconda scena raffigurata sul fronte di
questo piccolo sarcofago – allestito evidentemente per raccogliere le spoglie di un
bambino (è complessivamente lungo solo ottantacinque centimetri) –, gli artigiani
che scolpirono queste figure vollero arricchire quanto più possibile di dettagli figu-
rativi entrambe le immagini che qui ritornano: i Magi procedono accompagnati dai

ba innanzi tutto un esperimento di realismo ritrattistico [un modo di avvicinarsi al tipo so-
matico mediorientale]).
39 Su questo attributo iconico, cfr. ancora M. Dulaey, Le symbole de la baguette dans l’art

paléochrétien, in Revue des Études Augustiniennes 19 (1973) 3-38, in part. 6; 21-23.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 365

cammelli; le loro offerte sono calligraficamente descritte; la stella è realizzata con


accuratezza, gli abiti animano un vivace panneggio che è reso con accuratezza. La
preferenza per una figurazione ricca di dettagli consente di valutare questo esem-
plare della scena della ricomposizione delle ossa aride come il prototipo “ideale” di
questo tema iconografico, una tra le sue più complete attestazioni. Al contrario,
come si vedrà, non di rado questo modello figurativo verrà fortemente sintetizzato
e integrato figurativamente ad altre scene. Per quanto attiene al progetto iconogra-
fico di questo documento (per cui cfr. anche Pelizzari, Vedere la Parola, 95-96),
giova osservare innanzi tutto la raffinatezza esegetica dell’abbinamento di testimonia
che qui si osserva: se, infatti, qui sono accostati Ez 37,1-14 e Mt 2,1-12, d’altra par-
te ciò non avviene prima che il brano prototestamentario sia stato traslato nella vi-
cenda gesuana, facendo del Cristo-Logos l’attore del segno che, nel racconto biblico,
si compiva per azione dello Spirito («“Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uo-
mo e annunzia allo spirito: ‘Dice il Signore Dio: ‘Spirito, vieni dai quattro venti e
soffia su questi morti, perché rivivano’’”. Io profetizzai come mi aveva comandato
e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi: erano un eserci-
to grande, sterminato»: Ez 37,9-10). L’abbinamento tra queste due scene mi sembra
voglia attestare una cristologia escatologica: se, infatti, il tertium comparationis tra i
due racconti biblici è dato proprio dal tema della signoria (di YHWH e di Cristo) che
entrambi gli episodi declinano, d’altra parte, la qualifica escatologica rappresenta
un carattere interno a entrambe queste definizioni della regalità. Il riscatto finale di
Israele promesso da YHWH, che la straordinaria visione delle ossa aride aveva de-
scritto proprio nei termini di una manifestazione della signoria di Dio («Dice il
Signore Dio: “Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popo-
lo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore,
quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò
entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che
io sono il Signore. L’ho detto e lo farò”»: Ez 37,12-14), nell’episodio dell’epifania
iniziava a compiersi, allorché quegli uomini dell’Oriente riconobbero la stella del
Signore, giungendo «per adorarlo» (Mt 2,1-2; questo brano inverte la traiettoria
della sconfitta del popolo di Dio: non è più Israele ad abbandonare la sua terra per
andare, suddito, nelle patrie delle genti, ma sono queste a giungere in Israele per
prestare omaggio al re dei re). Come notano H.W. Basser - M.B. Cohen, The Gospel
of Matthew and Judaic Traditions: A Relevance-based Commentary, Brill, Leiden-Bo-
ston (MA) 2015 (Brill Reference Library of Judaism 46), 61-62, in Mt 2,11 si met-
te in scena proprio il momento della proclamazione del Regno: «“Cadere con la
faccia a terra” ‹come i Magi› era la posizione finale di adorazione (per il Sommo
Sacerdote e le persone nel Tempio) (Mishnah Yoma 6,2). In questa posizione il Sa-
cerdote dichiarava la suprema gloria del Regno di Dio. Che i doni debbano essere
portati al Messia è menzionato nella tarda fonte Esodo Rabbah 35,5, che afferma che
tutti i popoli li porteranno, l’Egitto prima, poi l’Etiopia, ma nessun dono sarà ac-
cettato da Edom (Roma)».

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366 Il lessico tipologico

Ancora una volta, come meglio si vedrà di seguito, la documentazione


visuale dimostra di non recepire in modo subalterno l’elaborazione della
tradizione letteraria cristiana, ma anzi di procedere, in parallelo ad essa,
sviluppando autonomamente i propri contenuti. Se prima, nel caso di
Daniele, la selezione dei testimonia diversificava nettamente le due produ-
zioni documentarie (letteraria e visuale), ora è l’indirizzo dell’ermeneutica
di questo racconto a confermare l’autonomia tra le due fonti.

3.1. Un “miracolo iconografico”?


Come annotava già Jean Daniélou, Ez 37,1-14 «fa parte delle più an-
tiche raccolte ‹cristiane› di testimonia» 40: l’impiego visuale di questo epi-
sodio non introduce, dunque, alcun materiale inedito nella tradizione
ermeneutica delle comunità di credenti in Gesù, il Cristo 41.
Va detto, infatti, che l’impiego della visione delle ossa aride rilancia uno
tra i più precoci testimonia della Pasqua cristiana, le cui prime attestazioni
sono già di epoca neotestamentaria: sin dal celebre inno di Mt 27,51-53 42
(in particolare ai vv. 52-53), l’adempimento prodigioso di quella profezia
visionaria veniva rivendicato come un luogo privilegiato per significare ti-
pologicamente la funzione di Gesù quale Messia del Regno di Dio 43. Si

40 Cfr. Daniélou, Études d’exégèse judéo-chrétienne, 111-121. Cfr. anche H. Riesenfeld,

The Resurrection in Ezechiel XXXVII and in the Dura Europos Paintings, Akademiska
Bokhandeln, Uppsala 1948 (Uppsala Universitets Arsskrift 11); J. Grassi, Ezekiel XXXVII.
1-14 and the New Testament, in New Testament Studies 11 (1965) 162-164.
41 Cfr. Neuss, Das Buch Ezechiel, 1, 23-106; G. Otranto, Ezechiele 37,1-14 nell’esegesi

patristica del secondo secolo, in Vetera Christianorum 9 (1972) 55-76; N. Bossu, Une prophétie
au fil de la tradition. L’oracle des ossements desséchés (Ez 37,1-14) et ses relectures chrétiennes,
entre herméneutique et théologie, Gabalda, Pendé 2015 (Études Bibliques. Nouvelle série 69).
42 Oltre a Riesenfeld, The Resurrection, e Grassi, Ezekiel XXXVII. 1-14, cfr. anche R. Aguir-

re Monasterio, Exegesis de Mateo: 27,51 b-53: para una teología de la muerte de Jesús en el Evan-
gelio de Mateo, Editorial Eset, Vitoria 1980 (Biblica Victoriensia 4), 241-272; D. Senior, Mat-
thew’s Special Material in the Passion Story. Implications for the Evangelist’s Redactional
Technique and Theological Perspective, in Ephemerides Theologicae Lovanienses 63 (1987) 272-
294, in part. 282, e ora A. Pessina, Analisi filologica e storico-teologica di un inno pasquale pri-
migenio. Il caso di Mt 27,51b-53, Ph.D. Diss., Milano a.a. 2017-2018, 26-37.
43 La pagina di Ez 37,1-14, ricavata probabilmente sotto l’influsso del Proto-Zaccaria

(> Zc 14), aveva per l’appunto la funzione di raffigurare il “giorno del Signore” (cfr. M. No-
bile, Ez 37,1-14 come costitutivo di uno schema cultuale, in Biblica 65 [1984] 476-489, in par-

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 367

noti: il primo ricorso ermeneutico della visione delle ossa inaridite ha una
duplice funzione.
1. Per un verso esso mira ad affermare che Gesù è colui che adempie
la gloriosa profezia escatologica di Ezechiele: lui quello che ha il
potere di ricostituire l’Israele antico, lui quello che lo predispone
per lo scontro finale contro l’avversario e le sue schiere; lui, dunque,
quello che sta al vertice dell’intero arco della storia della salvezza.
E tutto questo nel momento dell’immolazione della vittima per-
fetta, del sacrificio che ricapitola tutti i sacrifici e, perciò, soddisfa
tutte le antiche Alleanze 44.
2. Per altro verso, però, questa stessa tipologia qualifica anche quello
della Chiesa come tempo escatologico: dall’immolazione di Cristo
prende avvio la stagione del compimento, il tempo in cui la signo-
ria di YHWH finalmente si manifesta, il tempo in cui il Regno si
predispone.
Il movimento biunivoco di questa esegesi, che mentre attesta la veri-
dicità dell’affermazione kerygmatica “Gesù è il Cristo” qualifica (i tempi
de) la Chiesa, accerta sia il Vangelo cristiano del compimento sia l’antica
profezia del Regno, in una dialettica che spesso propende più per quest’ul-
tima qualifica escatologica che per la funzione cristologica.
I profeti hanno annunciato due sue ‹del Cristo› parusie. Una, compiuta,
‹quando è giunto› come uomo disprezzato e sofferente; la successiva, quando
verrà dai cieli con la gloria, con le schiere dei suoi angeli, com’è stato predetto:

ticolare 481-487). Non a caso la menzione dell’«esercito grande, sterminato» con cui l’esten-
sore del racconto qualifica, in Ez 37,10, l’Israele antico fatto risorgere dalle ossa inaridite,
ravvivate dal passaggio dello spirito di YHWH, ha una chiara connotazione apocalittica, rive-
lata proprio dalla costituzione militare di questo popolo risuscitato: «Gli eserciti nemici, co-
me le acque primordiali dell’abisso, si sollevano per ricoprire la terra, al pari di un uragano
(kaššó’ â) o di una nube gigantesca (kecānān) (Ez 38,9). È una sfida troppo grande per Israele
[…] per pensare ad un normale avvenimento storico; inoltre, l’evocazione di caratteri cosmi-
ci connotanti gli eserciti invasori […] richiama necessariamente l’intervento del Dio creatore,
che solo può abbattere le forze avverse. L’azione di Dio consisterà […] in un abbattimento sto-
rico-cosmico di eserciti nemici, minacciosi come le acque primordiali del caos» (ivi, 485).
44 Per questo più antico paradigma pasquale, cfr. ancora Cantalamessa, La Pasqua del-

la nostra salvezza, in part. 158-177.

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368 Il lessico tipologico

allora farà destare i corpi di tutti gli uomini nati, rivestirà di incorruttibilità
quelli che ne sono degni, mentre quelli degli iniqui, ‹resi› eternamente capaci
di provare sensazioni fisiche, li destinerà al fuoco eterno con i demoni malvagi.
Chiariremo ora come siano stati predetti anche questi eventi futuri. In tal mo-
do è stato annunciato per mezzo del profeta Ezechiele: «Si congiungerà giun-
tura a giuntura e osso a osso e le carni si desteranno di nuovo. E ogni ginocchio
si piegherà dinanzi al Signore, e ogni lingua lo professerà» 45.

Con il progressivo tramontare del più antico paradigma teologico cri-


stiano – e il conseguente subentrargli di una teologia “della risurrezione” –,
con gli inizi del III secolo, attorno alla visione di Ezechiele si animerà una
tradizione ermeneutica nuova, piuttosto nutrita, che non correlerà più il
racconto profetico alla passione del Cristo, come fatto da Mt 27,52-53,
ma ritroverà in esso una profezia della risurrezione, «mistero difficile da
comprendere», come ragionevolmente affermava Origene 46.
L’impiego visuale di questo brano non è direttamente riconducibile a
nessuna delle opzioni qui brevemente richiamate: pur collocandosi con-
tenutisticamente in maggiore prossimità al primo indirizzo ermeneutico
– quello più antico, legato alla riflessione sul compimento e sul carattere
escatologico della professione di fede cristologica –, esso si esprimerà at-
traverso un approccio originale. Emergeranno in questa tradizione docu-
mentaria, infatti, diversi caratteri di peculiarità, tra i quali vorrei segna-
lare i due a mio avviso prevalenti:
1. L’impiego visuale di Ez 37,1-14 presuppone innanzi tutto un nesso
tipologico a tal punto stretto da trasformare la profezia antica in
biografia del Cristo (il Messia prende il posto dello spirito profe-
tizzato da Ezechiele e, in virtù della sua propria potenza, compie
il miracolo, che dunque non è più “visione” ma “azione”) 47.

45 Giustino, Apologia (I) 52,3-6 (cfr. anche Id., Dialogo con Trifone 80 [cfr. Otranto, Ezechie-

le 37,1-14]; Tertulliano, La risurrezione 29-30). Si noti come, nel testo del martire romano, la
profezia di Ezechiele venga significativamente intrecciata al testimonium di Fil 2,10-11: Is 45,23.
46 Origene, Commento al Vangelo di Giovanni 10,233; su questa stessa linea ermeneuti-

ca, cfr. anche Cirillo di Gerusalemme, Catechesi 18,1. Una panoramica più ampia si può
avere in Bossu, Une prophétie au fil de la tradition.
47 Si noti che la definizione figurativa di questo testimonium visuale è avvenuta sceglien-

do di inserire la figura del Cristo, in controtendenza con ciò che accadde nella progettazio-

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 369

2. In secondo luogo – ma si tratta in parte di una conseguenza di quan-


to già osservato –, nel primo immaginario cristiano, la visione delle
ossa aride non viene impiegata per profetare un evento (la Pasqua, la
risurrezione, il compimento finale), ma per precisare una cristologia.
La scelta di far operare il segno prodigioso direttamente a Cristo –
anziché il limitarsi ad accostare la scena prototestamentaria a episodi del
Nuovo Testamento – è l’indice di un approccio ermeneutico tipologico
radicalizzato: ciò che Manuel Sotomayor ha teorizzato di poter conside-
rare una “legge” dell’iconografia cristiana delle origini.
Alle «leggi iconografiche» riconosciute ed esposte da De Bruyne, forse do-
vremmo aggiungere quella che possiamo chiamare la “legge della subrogatione
(subrogación)”. Nell’iconografia dei sarcofagi, infatti, si rileva un’abitudine in
un certo senso generalizzata secondo la quale, in determinati casi, si rimpiazza
il vero protagonista della scena con un altro personaggio al quale non corrispon-
de propriamente la materialità di quella azione, bensì la sua applicazione tipo-
logica. Così vediamo accadere, per esempio, nelle famose scene chiamate “il
castigo di Adamo ed Eva” o “consegna dei simboli del lavoro” e in quella della
visione di Ezechiele delle “ossa aride”48.

Se certo non è possibile estendere oltre i casi menzionati da Sotomayor


l’efficacia di questa “norma ermeneutica”, d’altra parte essa è certamente
indicativa di una tendenza complessiva maturata entro questa produzio-
ne figurativa: ciò che generalmente veniva impiegato per documentare il
nesso profetico fra prefigurazione e compimento, qui poteva assumere
una forza tale da tradursi in una “riscrittura cristologica” dei testi biblici.
La prima cultura visuale cristiana può dunque essere intesa come un esi-

ne della maggior parte dei soggetti prototestamentari accolti nella primigenia tradizione
iconografica cristiana. In altri termini, nella presenza eccentrica – dal punto di vista lette-
rario – del Cristo nella valle delle ossa aride non si deve riconoscere né una “necessità figu-
rativa” (si potevano percorrere altre soluzioni) né il riflesso di un’abitudine, dal momento
che solo in questo caso e nella «consegna dei simboli del lavoro» ad Adamo ed Eva il Cristo
si sostituisce agli attori prototestamentari.
48 M. Sotomayor, Una posible “ ley” de la iconografía paleocristiana: la “ ley de la subroga-

ción”, in Archivo Español de Arqueología 45-47 (1972-1974) 205-212, qui 205. Il riferimen-
to interno alla citazione è ovviamente ai due contributi di Lucien de Bruyne: Les «lois» de
l’art paléochrétien comme instrument hermeneutique, pubblicati rispettivamente in Rivista di
Archeologia Cristiana 35 (1959) 105-186; e 39 (1963) 7-92.

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370 Il lessico tipologico

to caratteristico della più antica ermeneutica delle comunità di credenti


in Gesù, il Cristo. Si noti: «un esito caratteristico»; il caso di Ez 37,1-14,
infatti, non può essere classificato né come l’illustrazione di esegesi già
svolte altrove (un autore cristiano ha introdotto nella sua opera questo
espediente ermeneutico che le immagini provano a illustrare) né come
l’applicazione di un approccio interpretativo comune a una pericope bi-
blica trascurata dalla c.d. tradizione “patristica” (come si è visto analiz-
zando il “Daniele haggadico”).
Qui, infatti, un comune approccio interpretativo (l’esegesi tipologica)
venne applicata a un brano già ampiamente attestato nella tradizione let-
tariara cristiana delle origini (Ez 37,1-14) producendo, però, un esito ca-
ratteristico: l’attribuzione a Gesù della potenza di (ri)costituire l’Israele
escatologico.

Figura 75: la «consegna dei simboli del lavoro»; la guarigione del paralitico; il
miracolo delle nozze di Cana; l’ingresso in Gerusalemme; la guarigione del
cieco nato; la ricomposizione delle ossa aride; la risurrezione di Lazzaro. Fronte
di sarcofago (Lateranense 186), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vati-
cano (Wp. 32, t. 235,7; Rep. 1, 21; cfr. anche Neuss, Das Buch Ezechiel, 2, 148;
E. Dinkler, Der Einzug in Jerusalem. Ikonographische Untersuchungen im An-
schluss an ein bisher unbekanntes Sarkophagfragment, Westdeutscher, Opladen
1970 [Arbeitsgemeinschaft für Forschung des Landes Nordrhein-Westfalen.
Geisteswissenschaften 167], 19). Primo terzo del IV secolo. L’immagine è trat-
ta da Garr. 5, t. 313,4. Su questo fronte di sarcofago a ciclo continuo è possibi-
le osservare entrambi i soggetti per i quali Manuel Sotomayor aveva isolato la
«legge della subrogazione»: la «consegna dei simboli del lavoro» e la risurrezio-
ne delle ossa aride, qui presentata in una delle configurazioni più sintetiche che
presenta soltanto un corpo ricomposto accanto a Gesù. Il fronte di sarcofago
riportato in figura non presenta difetti di leggibilità né per cadute di porzioni

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 371

del documento né per ambiguità iconografiche. Si può osservare anzi come


tutte le scene seguano linearmente lo schema figurativo più attestato di ciascun
episodio. Si osservi anche l’acribia con cui alcune scene qui riprodotte seguano
il dettato scritturistico. Si prenda il caso dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme,
scena che raffigura il glorioso introito del c.d. “ciclo della passione” narrato in
tutti e quattro i Vangeli canonici (cfr. Mc 11,4-11 || Mt 21,6-9 || Lc 19,32-38;
Gv 12,14-16). La scena qui raffigurata dimostra di preferire la narrazione mat-
teana – che presenta il Sondergut (materiale caratteristico) di Mt 21,1-5, dove
sono menzionati l’asina e il puledro (qui raffigurato tra le zampe della cavalca-
tura di Gesù) – o, al massimo, quella sinottica di Mc 11,8 || Mt 21,8, le uniche
versioni a richiamare fronda di palma e mantello (entrambi raffigurati: l’una a
terra, tra le zampe dell’asina, l’altro mentre viene steso di fronte a Gesù). L’e-
strema attenzione al racconto biblico che questa scena attesta (cfr. Dinkler, Der
Einzug in Jerusalem, 47-59) impedisce di considerare gli interventi ermeneutici
compiuti sull’episodio della sanzione dei progenitori e della risurrezione delle
ossa aride come approssimazioni al testo biblico.

Figura 76: schema riassuntivo del progetto iconografico del sarcofago Latera-
nense 186 (Wp. 32, t. 235,7; Rep. 1, 21). Come mostra lo schema, per cogliere
la struttura del progetto iconografico di questo fronte di sarcofago è necessario
raggruppare in tre gruppi le scene che ne compongono il fregio. Seguendo la
ripartizione presentata in figura, si osserva nel gruppo di sinistra l’accostamen-
to dell’episodio che stabiliva la sanzione della colpa originale di Adamo ed Eva
(la «consegna dei simboli del lavoro») a quel miracolo che, nella redazione si-
nottica (Mc 2,1-12 || Mt 9,1-8 || Lc 5,17-26), esplicitamente attribuiva a Gesù
il potere di «rimettere i peccati» (Mc 2,5.9-10 || Mt 9,2.5-6 || Lc 5,20-21.23-24:
cfr. M. Dulaey, Les paralytiques des Évangiles dans l’ interprétation patristique.
Du texte à l’ image, in Revue d’Études Augustiniennes et Patristiques 53 [2006]
287-323, in part. 288-295). Si noti la “subrogazione” (per usare ancora il lessi-
co di Sotomayor, Una posible “ ley”) di Gesù nella prima scena, che produce
l’esito di attribuire al Logos anche la sanzione originale della colpa – dunque il
giudizio del peccato nella sua interezza: dalla condanna iniziale alla misericor-
dia finale –, in un accrescimento teologico probabilmente volto a escludere la
possibilità di interpretare la remissione dei peccati annunciata da Gesù come

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372 Il lessico tipologico

un dono del Padre (Gesù non si limita a comunicare la misericordia di YHWH,


egli ha in sé la potenza di rimettere il peccato) e a sottolineare il ruolo giudizia-
le di Gesù («di nuovo [palin, iterum] verrà per giudicare», secondo l’espressione
del Simbolo niceno-costantinopolitano). Dunque le scene del gruppo di sinistra
articolano una sorta di “teologia della colpa e della sua remissione”, sottoli-
neando il ruolo di giudice che spetta al Cristo. Il gruppo centrale orbita ovvia-
mente attorno alla scena dell’ingresso in Gerusalemme. Si tratta, com’è noto,
di una profezia della regalità escatologica di Cristo che, rilucendo immediata-
mente prima dell’immolazione del sacrificio perfetto, ne anticipa l’esito. In che
relazione si possono porre le altre due scene di questo gruppo con quella cen-
trale? L’episodio delle nozze di Cana (Gv 2,1-11) è ovviamente il più semplice
da motivare: il senso dell’intero racconto, infatti, è quello di annunciare Gesù
come colui che porta il “vino buono” a conclusione della festa nuziale, dunque
al compimento delle nozze e, fuor di metafora, al termine della storia (l’impie-
go escatologico di questa immagine nella tradizione giovannea, per significare
il legame ultimo tra Dio e il suo popolo, mi pare sia stato descritto efficacemen-
te da L. Pedroli, Dal fidanzamento alla nuzialità escatologica. La dimensione
antropologica del rapporto tra Cristo e la Chiesa nell’Apocalisse, Cittadella, As-
sisi 2007 [Studi e Ricerche. Sezione biblica]). In tal modo, dunque, il segno
compiuto a Cana di Galilea intende programmaticamente presentare l’incar-
nazione del Logos come l’avvio del tempo escatologico (il carattere fondamen-
talmente, benché non esclusivamente, escatologico del «primo segno» giovan-
neo [2,11] credo possa dirsi dimostrato da A. Villeneuve, Nuptial Symbolism in
Second Temple Writings, the New Testament and Rabbinic Literature. Divine
Marriage at Key Moments of Salvation History, Brill, Leiden - Boston [MA] 2016
[Ancient Judaism and Early Christianity 92], 124-131): la correlazione tra que-
sto segno e l’ingresso in Gerusalemme mi pare enfatizzi il tertium comparationis
del compimento, della regalità escatologica del Cristo. Meno evidente è il di-
scorso relativo alla guarigione del cieco. Rivolgendo l’attenzione ai più antichi
materiali documentari, è possibile elencare due racconti di guarigione di un
cieco: Mc 8,22-26 (il cieco di Betsaida) e 10,46-51 (il cieco Bartimeo, presso
Gerico; da questo racconto dipendono anche Mt 20,29-34 [che però presenta
caratteri armonizzanti dei due racconti marciani, caratteri in parte condivisi da
Vangelo di Nicodemo 6,2, secondo la recensione greca “A”], Lc 18,35-43). La
critica non è concorde sull’origine di Gv 9,1-41 e sulla sua eventuale correlazio-
ne a uno (o entrambi) i testi di Marco. Limitandomi al resoconto del prodigio,
mi limito a osservare che il racconto marciano della guarigione del cieco di
Betsaida introduce l’elemento tattile (il toccare gli occhi: Mc 8,23), elemento
rilanciato da Gv 9,6; al contrario, nel miracolo di Bartimeo, Gesù si limita a
«dire», ad annunciare la guarigione (Mc 10,52). Non è questa la sede per risol-
vere il problema storico redazionale appena evocato; basti qui osservare che,
nella restituzione iconografica, la guarigione del cieco è esplicitamente associa-

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 373

ta all’azione del toccare gli occhi (questo è l’elemento distintivo della scena che,
caso raro nelle figure di miracolo, non implica l’uso della bacchetta: Gesù toc-
ca con la sua mano gli occhi spenti del cieco): la matrice di questa figura può
dunque essere soltanto Mc 8,22-26 o Gv 9,1-41. Oltre al ruolo del contatto
nell’attuazione del miracolo, un secondo elemento accomuna questi racconti:
entrambi finalizzano l’azione miracolosa alla precisazione del significato esca-
tologico della venuta del Cristo. Il racconto di Marco è preludio al celebre scam-
bio di battute sull’identità cristologica di Gesù, che ha evidenti ricadute tanto
pasquali quanto escatologiche («Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i vil-
laggi intorno a Cesarea di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo:
“Chi dice la gente che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista, altri
poi Elia e altri uno dei profeti”. Ma egli replicò: “E voi chi dite che io sia?”. Pie-
tro gli rispose: “Tu sei il Cristo”»: Mc 8,27-29; cfr. R. von Bendemann, Vedere
e comprendere (La guarigione in due fasi del cieco senza nome) Mc 8,22-26, in R.
Zimmermann [cur.], Compendio dei miracoli di Gesù, Queriniana, Brescia 2018,
480-491, in part. 488-490). In modo ancor più esplicito, nel dialogo risolutivo
del racconto di Giovanni, Gesù si presenta come «il figlio dell’uomo» (Gv 9,35),
viene riconosciuto come «Signore» e riceve la proskynēsis (9,38), afferma: «Io
sono venuto in questo mondo per giudicare» (9,39): « Al fatto raccontato si ag-
giungono così aspetti cristologici […], ampliamenti simbolici […] e conseguen-
ze escatologiche (giudizio/salvezza nei vv. 39-41)» (J. Frey, Vedere o non vedere?
(La guarigione del cieco nato) Gv 9,1-41, in Zimmermann [cur.], Compendio dei
miracoli, 1002-1024, qui 1013). Se questa lettura è corretta, l’ingresso regale di
Gesù in Gerusalemme viene “predicato”, spiegato, da due altri testimonia: il
vino della fine delle nozze, quello del compimento, e il miracolo che dischiude
la natura escatologica del Regno in vista del quale Gesù è consacrato, unto,
Cristo. Naturalmente, questa ermeneutica poggia su una solida filigrana pa-
squale: tanto le nozze di Cana sono un’anticipazione dell’«ora» di Cristo – che
in Giovanni è il momento della glorificazione sulla croce –, tanto l’ingresso in
Gerusalemme è l’avvio tragico della vicenda pasquale di Gesù, tanto Mc 8,31 e
Gv 10,11 (nel discorso successivo al miracolo del cieco nato) anticipano il tema
della passione di Cristo. L’ultimo gruppo di questo fronte è il più semplice da
descrivere: sono qui associati due paradigmi di risurrezione, l’uno apertamente
apocalittico (la ricomposizione delle schiere escatologiche, dell’Israele, «esercito
grande, smisurato» di Ez 37,1-14, qui v. 10) l’altro evidentemente soteriologico
(la risurrezione individuale di Lazzaro, colui che “Gesù amava”: Gv 11 [per l’al-
lusione, cfr. v. 3]). Quest’ultimo gruppo figurativo, dunque, mentre conferma
l’aspettativa cristiana della risurrezione, ne precisa l’orizzonte: nella più antica
teologia dei credenti in Gesù, il Cristo, quella cristiana non è mai solo una vi-
cenda individuale. Nel suo insieme, il progetto iconografico del Lateranense 186
affronta tre temi: una teleologia o storia della colpa, dalla sua introduzione alla
sua remissione, una cristologia escatologica e, infine, una soteriologia, anch’essa,

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escatologica. Nei due gruppi più esterni il tema della colpa e del compimento
riceve una declinazione universale (Adamo ed Eva e la ricomposizione dell’Israe-
le escatologico) e individuale (la remissione dei peccati del paralitico e la risur-
rezione di Lazzaro), in un ideale contrappunto che ribadisce il carattere insieme
universale e particolare della professione di fede in Gesù, il Cristo, re escatolo-
gico (gruppo centrale).

3.2. La matrice ermeneutica e liturgica


La complessa architettura esegetica proposta per l’impiego icono-
grafico di Ez 37,1-14 richiede, per sostenersi, di poggiare su un Sitz
im Leben storico-critico credibile e in grado di motivarne l’origine. È
infatti prassi di metodo consolidare le soluzioni critiche più onerose
(come, per esempio, in questo caso, presumere una progettazione con-
tenutistica così raffinata per documenti, come sono quelli visuali, la
cui interpretazione presenta necessariamente una quota di aleatorietà)
verificandone la coerenza al contesto storico dei documenti analizzati.
Tale principio critico è teso a scongiurare il rischio di apportare conte-
nuti al documento anziché ricavarli da esso.
Nella discussione delle premesse di metodo dell’«approccio ermeneu-
tico» alla primigenia tradizione visuale cristiana, è già stato invocato il
contesto liturgico quale “spazio di possibilità” per questa particolare for-
ma di esegesi codificata: la prima cultura visuale cristiana, si è detto, non
fa che replicare i modi (non gli esiti) di quello specifico approccio alle
Scritture che strutturò la più antica prassi cultuale cristiana. Il caso del
genere del lezionario, costituitosi attraverso la stessa Grundlogik tipologi-
ca che si è postulata per questa primigenia tradizione figurativa, rappre-
senta uno dei dati più incoraggianti a sostegno dell’approccio critico e
metodologico che qui si sostiene 49.
In questa traiettoria critica si colloca in modo particolarmente felice il
caso di Ez 37,1-14. La testimonianza di Girolamo di Stridone permette di
documentare l’ampia fortuna liturgica di questa pericope: «La visione è

49 Vedi supra, pp. 145-197.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 375

famosa, e viene celebrata per mezzo della proclamazione di tutte le Chiese


di Cristo (Famosa est visio, et omnium ecclesiarum Christi lectione celebra-
ta)»50. Tale semplice notazione, che echeggia quanto noto dell’impiego li-
turgico del libro di Ezechiele51, offre il contesto ideale per situare l’origine
di un’esegesi tanto originale quanto “impegnativa”, dal punto di vista teo-
logico. “Riscrivere le Scritture”, passando dal nesso profetico (la visione di
Ezechiele anticipatrice della vicenda gesuana) all’affermazione dell’inter-
vento cristologico, per di più nel compimento del prodigio (la ricomposizione
delle ossa aride non più come profezia ma come azione; non più come ope-
ra dello Spirito ma come manifestazione della potenza del Cristo) presup-
pone un’intensa riflessione teologica e ragioni la cui forza sia direttamente
proporzionale all’incisività dell’intervento ermeneutico. Il che esplicitamen-
te documenta il Sitz im Leben liturgico di questa interpretazione52.
La “sintassi liturgica” – per la quale ciò che è celebrato conferisce si-
gnificato a ogni parte dell’actio, connotandola – è infatti alimentata dal
presupposto dell’unitarietà del mistero: è in quest’ottica che il lezionario
sceglie e aggrega i diversi testimonia di ciascuna celebrazione ed è di nuo-
vo proprio per questa stessa “sintassi liturgica” che la proclamazione del-
le Scritture e il memoriale della Pasqua possono coesistere coerentemen-
te nello stesso momento cultuale.

Girolamo, Commento a Ezechiele 11,37,1-14; cfr. Neuss, Das Buch Ezechiel, 1, 65-75.
50

Cfr. Neuss, Das Buch Ezechiel, 1, 63-65.


51
52 Va ricordato che l’efficacia del culto cristiano delle origini non veniva dedotta, com’e-

ra nella religiosità del mondo romano, dal “rigore filologico” del rito; al contrario essa si
commisurava alla vivacità – anche carismatica – dell’azione dello Spirito sulla comunità ce-
lebrante. Anche la liturgia della Parola era, in questo “spazio storico”, un’occasione creativa
– non passiva –, di ri-elaborazione dei testi; in questo contesto si deve cogliere il Sitz im Le-
ben e la matrice della primigenia tradizione visuale cristiana e, nello specifico di queste pa-
gine, l’officina dell’ermeneutica di Ez 37,1-14. «La liturgia da una parte, con la sua prero-
gativa di riprodurre e rappresentare “sacramentalmente” l’evento – e renderlo nuovamente
evento, qui e ora – e l’iconografia dall’altra, con la sua peculiarità di cogliere la struttura
simbolica del reale e di esprimerlo attraverso un codice suo proprio, non sono semplici sur-
fettazioni di una Parola sigillata in forma scritta ma sono le componenti imprescindibili di
una “ermeneutica codificata” nella quale l’azione liturgica funge da catalizzatore tra Paro-
la e Immagine. In questo intreccio – e non in uno sforzo intellettuale di decodificare un te-
sto scritto – si esplica l’esegesi della Scrittura come esegesi viva e professata »: G. Visonà,
Prefazione, in Pelizzari, Vedere la Parola, 7-12, qui 8.

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376 Il lessico tipologico

Figura 77: il sacrificio di Isacco; la guarigione del cieco nato; la guarigione del
paralitico; la moltiplicazione dei pani; Pietro guarisce l’emorroissa; la colpa di
Adamo ed Eva; la ricomposizione delle ossa aride. Fronte di sarcofago (Latera-
nense 191), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t. 184,1;
Rep. 1, 12; cfr. anche Neuss, Das Buch Ezechiel, 2, 147). Primo terzo del IV
secolo. L’immagine è tratta da Garr. 5, t. 312,1. Il frammento raffigurato da
Garrucci è stato in seguito ricomposto, permettendo la restituzione dell’intero
fronte.

Figura 78: fronte: il sacrificio di Isacco; la guarigione del cieco nato; la guari-
gione del paralitico; la moltiplicazione dei pani; Pietro guarisce l’emorroissa; la
colpa di Adamo ed Eva; la ricomposizione delle ossa aride. Fianco sinistro: i tre
giovani ebrei nella fornace. Fianco destro: Daniele nella fossa dei leoni; Pietro
fa scaturire l’acqua dalla roccia. Sarcofago (Lateranense 191), Musei Vaticani,

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 377

Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, tt. 184,1; 190,9-10 [= Wp. 29, 103,4];
Rep. 1, 12). Primo terzo del IV secolo. Le immagini sono tratte da Wp. 32, tt.
184,1; 190,9-10. Le tavole di Joseph Wilpert permettono di riconoscere l’intero
ciclo figurativo di questo sarcofago. Volendo prendere le mosse dai due fianchi,
è facile constatare come essi si impegnino in un dialogo di tema martirologico.
Se, infatti, sul fianco sinistro sono ritratti i tre ebrei mentre sciolgono il loro
cantico nel mezzo della fornace ardente (vedi supra, pp. 315-329), su quello de-
stro l’alternanza tra Daniele nella fossa dei leoni e la subrogatio di Pietro che fa
scaturire miracolosamente acqua dalla roccia per Processo e Martiniano (acqui-
sizione tipologica del miracolo di Es 17,1-7; vedi infra, pp. 440-443) ricalca il
sistema teologico dei “due battesimi”, di sangue e d’acqua. Dunque il progetto
del fronte di questo sarcofago dev’essere situato entro questo “orizzonte teolo-
gico”: la predicazione del martirio cristiano.

Figura 79: schema riassuntivo del progetto iconografico del fronte del sarcofa-
go Lateranense 191 (Wp. 32, t. 184,1; Rep. 1, 12). Ancora una volta, come già
visto per il fronte del sarcofago Lateranense 186, per descrivere il progetto di
questo fregio è necessario suddividere le immagini che qui si susseguono in tre
gruppi, secondo lo schema proposto. Il gruppo di sinistra associa due temi ico-
nografici: il sacrificio di Isacco (Gen 22) e il miracolo della guarigione del cie-
co nato (Mc 8,22-26; Gv 9,1-41). Quale nesso si può stabilire tra questi due
testimonia? Per comprenderlo è necessario ricuperare la funzione tipologica che
il racconto del sacrificio di Isacco esplica nell’immaginario figurativo cristiano
delle origini (per la fortuna di questo racconto nell’esegesi cristiana, cfr. Da-
niélou, Sacramentum futuri, 97-111; M. Dulaey, La grâce faite à Isaac. Gn 22,1-
19 à l’ époque paléochrétienne, in Recherches Augustiniennes et Patristiques 27
[1994] 3-40; più generalmente, per la circolazione in antico di questo brano
biblico, cfr. L. Kundert, Die Opferung, Bindung Isaaks, 1: Gen 22,1-19 im Alten
Testament, im Frühjudentum und im Neuen Testament, Neukirchener, Neukir-

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378 Il lessico tipologico

chen-Vluyn 1998 [Wissenschaftliche Monographien zum Alten und Neuen


Testament 78]; Id., Die Opferung, Bindung Isaaks, 2: Gen 22,1-19 in frühen
rabbinischen Texten, Neukirchener, Neukirchen-Vluyn 1998 [Wissenschaftliche
Monographien zum Alten und Neuen Testament 79]). «Il sacrificio di Abramo
è l’esempio stesso del sacrificio perfetto […]. Questo spiega perché i primi cri-
stiani, già nel Nuovo Testamento, abbiano visto in Isacco una figura profetica
di Cristo» (Dulaey, I simboli cristiani, 117): tale è anche il significato prevalen-
te che la scena corrispondente assume nel suo fortunato impiego figurativo (per
l’iconografia di questo soggetto, cfr. I. Speyart van Woerden, The Iconography
of the Sacrifice of Abraham, in Vigiliae Christianae 15 [1961] 214-255; in part.
243-255, dov’è stilato un catalogo degli esemplari censiti; per il carattere tipo-
logico dell’impiego iconografico di questo racconto, cfr. Fascher, Isaak und
Christus; Geischer, Das Problem der Typologie, 51-190; Suntrup, Präfigurationen,
482-516). Dunque la domanda da cui si sono prese le mosse a ben vedere non
riguarda il nesso tra il racconto genesiaco e la guarigione del cieco, ma quello
che venne istituito tra il valore tipologico del testimonium tratto da Genesi e
l’episodio neotestamentario. In altri termini: il nesso tra la Pasqua sacrificale di
Cristo (questo era il prevalente significato tipologico di Gen 22: cfr. Daniélou,
Sacramentum futuri, 97-111; N. Füglister, Il valore salvifico della pasqua, Pai-
deia, Brescia 1976 [Supplementi al Grande Lessico del Nuovo Testamento 2],
247-248) e la guarigione del cieco nato di Mc 8,22-26 (o Gv 9,1-41). Si è già
visto che la connessione tra questo miracolo e l’immolazione del perfetto sacri-
ficio pasquale è esplicitamente stabilita dai redattori dei due Vangeli: «E comin-
ciò a insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere ripro-
vato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo
tre giorni, risuscitare» (Mc 8,31: cfr. P. Hoffmann, Mk 8,31: zur Herkunft und
markinischen Rezeption einer alten Überlieferung, in Id. [hrsg.], Orientierung an
Jesus. Zur Theologie der Synoptiker. Für Josef Schmid, Herder, Freiburg - Basel
- Wien 1973, 170-204; cfr. anche Gv 10,11). Dunque il gruppo di sinistra di
questo fronte di sarcofago associa il miracolo del vedere (o del credere: cfr. von
Bendemann, Vedere e comprendere, 488) al nucleo dell’annuncio kerygmatico
(come già stabilì Paolo, che vincolava la propria missione all’annuncio del sa-
crificio pasquale di Cristo; cfr. 1Cor 2,2: «Ritenni infatti di non sapere altro in
mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso»). Venendo ora al gruppo
centrale, reputo che in esso si debba riconoscere l’elaborazione di un’ecclesiolo-
gia del tutto singolare. Le due scene più esterne raffigurano due miracoli che
esplicitamente tematizzano la remissione dei peccati (la guarigione del parali-
tico di Mc 2,1-12 || Mt 9,1-8 || Lc 5,17-26) e il superamento del tema della pu-
rità (la guarigione dell’emorroissa di Mc 5,25-34 || Mt 9,20-22 || Lc 8,43-48;
si noti, per altro, che in quest’ultima scena si assiste a una subrogatio petrina,
riconosciuta già da J. Ficker, Die altchristlichen Bildwerke im christlichen Museum
des Laterans, E.A. Seemann, Leipzig 1890, 149-150: il personaggio che sana la

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 379

donna è infatti visibilmente connotato attraverso i caratteri somatici solitamen-


te impiegati per definire i ritratti petrini). Al centro di questo radicale paradig-
ma della remissione/superamento del peccato/impurità sta la scena della molti-
plicazione dei pani (cfr. Mc 6,30-44 [anche 8,1-9]; Mt 14,13-21 [anche
15,32-39]; Lc 9,12-17; Gv 6,1-13); ancora una volta, quale il nesso? Anche in
questo caso reputo necessario partire dal significato ermeneutico, qui eviden-
temente eucaristico, di quest’ultimo miracolo. Si tratterà dunque di valutare la
connessione che sia potuta sussistere tra cena memoriale e remissione dei pec-
cati. Tale nesso, come noto, è esplicitamente enunciato sin dalla tradizione si-
nottica: «Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo:
“Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’Alleanza, versato per molti,
in remissione dei peccati”» (Mt 26,27-28: cfr. G. Michelini, Il sangue dell’Al-
leanza e la salvezza dei peccatori. Una nuova lettura di Mt 26 - 27, G & B Press,
Roma 2010 [Analecta Gregoriana 306], 79-201). Infine, la cifra ecclesiologica
di questo gruppo. Mi pare che essa emerga da almeno due scelte compiute nel-
la progettazione di questa parte del fregio: 1. porre al centro delle tre figure
proprio quella che rinviava al fondamento sacerdotale e cultuale delle comuni-
tà cristiane; 2. la subrogazione di Pietro, ritratto qui mentre guarisce la donna
affetta da uno dei più gravi casi di impurità elencati dai codici normativi della
Legge (cfr. Lv 15,19-30), verosimilmente nel tentativo di pervenire a una solu-
zione figurativa capace di riprendere il celebre lascito di Gv 20,22-23: «Disse:
“Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi
non li rimetterete, resteranno non rimessi”».

Figura 80: la ricomposizione delle ossa aride. Particola-


re di fronte di sarcofago (Lateranense 191), Musei Vati-
cani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t. 184,1;
Rep. 1, 12). Primo terzo del IV secolo. Foto dell’autore.
L’ultimo gruppo di questo fronte è probabilmente il più
semplice da presentare; in esso vengono accostati i due
momenti estremi della storia della salvezza: la caduta dei
progenitori e la costituzione dell’Israele escatologico. Si
osserva qui una sintetica teologia della storia, tracciata
attraverso la menzione dei suoi estremi: quello protolo-
gico (Gen 3,1-7) e quello escatologico (Ez 37,1-14). Nel
complesso, il fronte di questo sarcofago, entro l’orizzon-
te martirologico definito dall’apparato figurativo dei
suoi due fianchi, richiama tre elementi: il fondamento
pasquale della professione di fede, un’ecclesiologia soteriologica (la comunità
come luogo dello spezzare del pane e della remissione del peccato) e una sinte-
tica storia della salvezza, non descritta per il suo svolgimento, ma identificata
dal suo avvio e dalla sua conclusione.

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380 Il lessico tipologico

Come si è potuto vedere, il sarcofago Lateranense 191 ha elaborato un


discorso ermeneutico che, attraverso l’associazione di testimonia letteraria-
mente eterogenei, ha saputo sinteticamente argomentare tre rubriche teo-
logiche: cristologia, ecclesiologia e teologia della salvezza. In tale comples-
so itinerario contenutistico, la centralità concessa alla moltiplicazione dei
pani mi pare possa essere ora chiamata a surrogare per altra via la notizia
trasmessa dal Commento a Ezechiele di Girolamo: il Sitz im Leben dell’im-
piego di Ez 37,1-14 – e dunque anche il contesto storico entro il quale potè
maturare la sua riscrittura iconografica – fu innanzi tutto cultuale. Fu, in
altri termini, la proclamazione comunitaria («lectione », nel passo dello
Stridonense) – ciò che costituiva la c.d. “liturgia della Parola” con cui si
inaugurava la celebrazione della cena memoriale – a stimolare la radica-
lizzazione cristologica del significato tipologico in base al quale questa
pagina biblica venne accolta e impiegata dalle più antiche Chiese cristiane.

Figura 81: Pietro fa scaturire l’acqua dalla roccia; l’arresto di Pietro; la ricom-
posizione delle ossa aride; una figura femminile; la guarigione del cieco nato; la
moltiplicazione dei pani; l’ingresso in Gerusalemme. Fronte di sarcofago (Late-
ranense 180), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t. 215,7;
Rep. 1, 14; cfr. anche Neuss, Das Buch Ezechiel, 2, 148; Dinkler, Der Einzug in
Jerusalem, 19). Primo terzo del IV secolo. L’immagine è tratta da Garr. 5, t. 312,1.
La struttura di questo fronte di sarcofago è di più semplice lettura: anch’essa
tripartita in altrettanti gruppi, dispone le diverse figure più ordinatamente, ac-
costando rispettivamente le scene petrine (gruppo di sinistra), quelle taumatur-
giche (gruppo centrale) e quelle pasquali (moltiplicazione dei pani à cena e
ingresso in Gerusalemme).

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 381

Figura 82: schema riassuntivo del progetto iconografico del fronte del sarcofago
Lateranense 180 (Wp. 32, t. 215,7; Rep. 1, 14). Il gruppo di sinistra e quello di de-
stra sono senza dubbio i più semplici da leggere, per evidenti ragioni: 1. aggregano
materiali agiograficamente coerenti (due episodi petrini e due episodi gesuani); 2.
introducono una chiara traiettoria narrativa (prima l’arresto di Pietro e poi il segno
operato per i suoi carcerieri; prima la moltiplicazione dei pani e poi l’avvio del ciclo
pasquale: cfr. Dinkler, Der Einzug in Jerusalem, 55-59); 3. associano episodi ricon-
ducibili a rubriche teologiche coerenti: la Chiesa, per Pietro; la Pasqua, per le due
scene gesuane (per il valore eucaristico della moltiplicazione dei pani, già affermato
in Gv 6 [in part. vv. 30-58], cfr. anche J.-M. van Cangh, La multiplications des pains
et l’eucharistie, Cerf, Paris 1975, in part. 19-38; M. Dulaey, Symbole des Évangiles
(Ier-VIe siècles). Le Christ médecin et thaumaturge, Librairie Générale Française, Paris
2007 [Le livre de poche. Histoire 613], 223-252). Più interessante mi pare il gruppo
centrale, composto da due soggetti scritturistici (la ricomposizione delle ossa aride
e la guarigione del cieco nato) accostati a un personaggio femminile. Prima di cer-
care di identificare la matrona che occupa il centro di questo fregio, vale la pena di
prestare attenzione alle due scene “bibliche” che la accompagnano. Va innanzi tut-
to osservato che esse offrono una sorta di “chiave di lettura” per i due gruppi accan-
to ai quali sono situate. La ricomposizione dell’Israele escatologico (“miracolo”
delle ossa aride) ha un’evidente ricaduta ecclesiologica, qualificando la comunità dei
credenti come realtà e insieme ricapitolazione di quell’«esercito grande, sterminato»
(Ez 37,10) che avrebbe manifestato alle genti la signoria di YHWH. Allo stesso modo,
come già si è potuto riscontrare per i sarcofagi Lateranense 191 e 186, il miracolo
della guarigione del cieco nato – soprattutto nelle versioni di Mc 8,22-26 e Gv 9,1-
41, le probabili matrici del testimonium visuale – era strutturalmente rivolto a de-
scrivere la fede nel Cristo pasquale. Posta dunque questa funzione rispetto ai grup-
pi sinistro e destro, è anche possibile correlare tra loro queste scene? Io credo che un
nesso si possa rintracciare prestando attenzione allo scambio conclusivo del raccon-
to di Gv 9: «Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: “Tu
credi nel Figlio dell’uomo (eis ton uion tou anthrōpou )?”. Egli rispose: “E chi è, Si-
gnore (kyrie), perché io creda in lui?”. Gli disse Gesù: “Tu l’hai visto: colui che par-
la con te è proprio lui”. Ed egli disse: “Io credo, Signore!”. E gli si prostrò innanzi»
(vv. 35-38; cfr. M. Müller, «Have You Faith in the Son of Man?» (John 9,35), in New

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382 Il lessico tipologico

Testament Studies 37 [1991] 291-294; H. Ito, The Significance of Jesus’ Utterance in


Relation to the Johannine Son of Man: A Speech Act Analysis of John 9:35, in Acta
Theologica 21 [2001] 57-82; B.E. Reynolds, The Johannine Son of Man and the Hi-
storical Jesus. John 9:35 as a Test Case, in P.N. Anderson - F. Just - T. Thatcher [eds.],
John, Jesus, and History, 3: Glimpses of Jesus through the Johannine Lens, SBL, Atlan-
ta [GA] 2016 [Early Christianity and Its Literature 18)] 459-468). In questo brano
si assiste all’equazione di due titoli di particolare pregnanza: «Figlio dell’uomo» e
«Signore». La loro associazione presuppone una valutazione già pienamente cristo-
logica del primo, mentre è noto che esso conobbe una plurale ricezione semantica
nelle tradizioni del Primo Testamento (l’appellativo è ancora oggi considerato una
crux interpretum: per una panoramica su questa formula e sulla sua interpretazione,
cfr. D.R. Burkett, The Son of Man Debate: A History and Evaluation. Cambridge
University Press, Cambridge 1999 [Society for New Testament Studies Monograph
Series 107]). Non potendo in questa sede ricuperare nemmeno per sommi capi tale
dibattito, mi pare sufficiente osservare come, limitandosi a Ez 37,1-14, tale appella-
tivo ritorni tre volte (vv. 3; 9; 11; torna ottantasette volte nel libro di Ezechiele; cfr.
W.G. Fowler - M. Strickland, The Influence of Ezekiel in the Fourth Gospel. Inter-
textuality and Interpretation, Brill, Leiden - Boston [MA] 2018 [Biblical Interpreta-
tion 167], 109-112) e come questo possa aver costituito il tertium comparationis per
accostare le due scene. Dunque la figura femminile, al centro di questa duplice
predicazione del Cristo, «Figlio dell’uomo» e «Signore», può candidarsi facilmente
ad essere icona della Chiesa, colei che professa Gesù come il Cristo Signore e colei
che raccoglie quell’«esercito grande, sterminato» che attende il ritorno del Figlio
dell’uomo.

---

L’attenzione prestata all’iconografia del “miracolo” della ricomposi-


zione delle ossa aride credo abbia posto in evidenza ciò che è stato defi-
nito “rilevanza qualitativa” dell’ermeneutica visuale delle origini cristiane.
L’impiego tipologico delle Scritture che in questa documentazione si può
osservare, come già più volte sottolineato, si espresse con libertà e talora
anche con un’“intensità” solo di rado sperimentate dalla tradizione te-
stuale.
Ancora una volta è emerso con chiarezza come la condivisione della
medesima Grundlogik tipologica abbia finito per costituire il presupposto
dell’autonomia della produzione visuale cristiana rispetto alle coeve tra-
dizioni letterarie: il comune approccio alle Scritture che queste fonti de-

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 383

notano, infatti, non solo non vincolò l’una (quella visuale) a un ruolo
subalterno all’altra (quella letteraria), ma offrì quella strumentazione ri-
velatasi fondamentale per un’elaborazione autenticamente originale di
contenuti teologici.
Dal punto di vista critico, poi, tale condiviso approccio ermeneutico
si rivela fondamentale per impostare un confronto, criticamente fondato,
tra documenti eterogenei quanto a tipologia, ma consimili quanto a strut-
tura logica.

4. IL CASO DELLA CADUTA DEI PROGENITORI:


L’AMPIEZZA TEMATICA

«Dalla donna ha avuto origine il peccato e per causa sua tutti moria-
mo» (Sir 25,33). In questa sintesi del Siracide si può riconoscere il più
comune esito interpretativo del racconto della caduta dei progenitori53:
«Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli
occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne
mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne man-

53 Tale lettura non fu tuttavia univoca. Anche in ambito cristiano sone note interessan-

ti eccezioni: cfr., per esempio, il Frammento (pseudo-ireneano? Viene classificato come


Frammento 14 del Lugdunense, ma A. von Harnack, Geschichte der altchristlichen Literatur
bis Eusebius, Hinrichs, Leipzig 19582, 2,1,2,521, ne ipotizzava un’origine marcionita) che
ritorna in Anastasio il Sinaita, Commento all’Esamerone 10 (PG 89, 1013-1014; cfr. J.M.
Higgins, Anastasius Sinaita and the Superiority of the Woman, in Journal of Biblical Litera-
ture 97 [1978] 53-56): «Perché il serpente non ha attaccato l’uomo, invece della donna? Di-
ci che l’ha sedotta perché lei era la più debole tra i due. Al contrario! Nella trasgressione del
comandamento, ‹Eva› si è mostrata la più forte, veramente l’“aiuto” per l’uomo (cfr. Gen
2,18). Perché lei resistette al serpente da sola. Mangiò dall’albero, ma opponendo resisten-
za e con dissenso, e dopo essere stata trattata con perfida astuzia. Adamo, invece, ha man-
giato il frutto dato dalla donna senza nemmeno cominciare a combattere, senza una paro-
la di contraddittorio: una perfetta dimostrazione di consumata debolezza e di un’anima
vile. La donna, inoltre, può essere scusata; lei ha lottato con un demone ed è stata sconfit-
ta. Ma Adamo non potrà trovare scuse nell’essere stato sconfitto da una donna! Egli stesso
aveva ricevuto personalmente il comandamento da Dio. La donna, infine, quando ricevet-
te da Adamo il comando, deve essersi sentita trascurata: perché non era stata giudicata de-
gna di conversare con Dio o perché poteva sospettare che Adamo le avesse dato il coman-
do di sua spontanea volontà ». È istruttiva dell’impatto culturale di Gen 1 - 3 la storia
dell’ermeneutica (anche femminile) che ne ha tracciato A.J. Benckhuysen, The Gospel accor-
ding to Eve: A History of Women’s Interpretation, IVP Academic, Downers Grove (IL) 2019.

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384 Il lessico tipologico

giò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi»
(Gen 3,6-7)54.
Il mito genesiaco dell’originale allontanamento dei protoparenti, Adamo
ed Eva, dal paradiso terrestre stabilì anche nella tradizione cristiana delle
origini i capisaldi di un’antropologia per lo meno androcentrica, se non
esplicitamente misogina55. Neppure la tipologia antitetica Eva - Maria, as-
sai cara alla c.d. “tradizione patristica” 56, di fatto sanerà del tutto il vulnus
introdotto dall’ermeneutica “di genere” dell’episodio genesiaco: Maria, in-
fatti, fattasi mediatrice di salvezza, riscatta la colpa di Eva, ma solo al prez-
zo della consacrazione della sua sessualità. Mentre il femminile viene re-
dento nella verginità, il maschile non subisce analoga richiesta né la
condanna delle prerogative virili di Adamo.
Il racconto genesiaco, per altro, presenta due narrazioni della creazio-
ne dell’essere umano: la più antica, “jahvista”, riporta il celebre episodio
del sonno di Adamo, durante il quale YHWH «gli tolse una delle costole

54 Una buona analisi del tema di genere, in relazione a Gen 1 - 3 nel contesto delle tra-

dizioni prototestamentarie è stata sviluppata da C. Meyers, Discovering Eve. Ancient Israe-


lite Women in Context, Oxford University Press, Oxford - New York (NY) 1988 (in parti-
colare i primi 5 capitoli: 3-122).
55 Si tratta di un testo che ha plasmato la percezione dei generi nelle tre culture bibli-

che, quella giudaica ed ebraica, quella cristiana e quella dell’Islam (cfr. K.E. Kvam - L.S.
Schearing - V.H. Ziegler [eds.], Eve and Adam: Jewish, Christian, and Muslim Readings on
Genesis and Gender, Indiana University Press, Bloomington [IN] - Indianapolis [IN] 1999,
in part. 128-155; C. Böttrich - B. Ego - F. Eißler, Adam und Eva in Judentum, Christentum
und Islam, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2011, in part. C. Böttrich, Adam und Eva
im Christentum, ivi, 79-137, qui 100-103; M. Caspi, Eve in Three Traditions and Literatu-
res: Judaism, Christianity, and Islam, Edwin Mellen, Lewiston [NY] 2004 [Studies in reli-
gion and society 66]). Per il primo uso cristiano di Gen 1 - 3, cfr. ancora Daniélou, Sacra-
mentum futuri, 3-54. Di struttura «irrimediabilmente androcentrica » di questo racconto
ha parlato D.J.A. Clines, What Does Eve Do to Help? and Other Readerly Question to the Old
Testament, Sheffield Academic Press, Sheffield 1990 (Journal for the Study of the Old Te-
stament. Supplement 94), 25-48. Di recente sul tema è intervenuta incisivamente C. Simo-
nelli, Eva, la prima donna. Storia e storie, Mulino, Bologna 2021 (Intersezioni 561).
56 Si tratta di una tradizione di lunga durata: cfr. Odi di Salomone 19,6-11; Giustino, Dia-

logo con Trifone 100,5-6 ecc.; cfr. H. Koch, Virgo Eva - virgo Maria. Neue Untersuchungen über
die Lehre von der Jungfrauschaft und der Ehe Mariens in der ältesten Kirche, De Gruyter, Berlin
1937 (Arbeiten zur Kirchengeschichte 25); L. Cignelli, Maria nuova Eva nella patristica greca
(sec. II-V), Studio teologico Porziuncola, Assisi 1966 (Collectio Assisiensis 3); R. Murray, Mary,
the Second Eve in the Early Syriac Fathers, in Eastern Churches Review 3 (1971) 372-384.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 385

e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che
aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo» (Gen 2,21-22);
la più recente, “sacerdotale”, si limita alla più poetica formula «maschile
e femminile li creò» (Gen 1,27). Come è ovvio, il riconoscimento nella
donna di una creatura creata da creatura (racconto “jahvista”) offrì un
ulteriore argomento alla svalutazione del genere femminile57. Non è sco-
po della presente ricerca né ripercorrere la storia di questa ermeneutica né
definire le antropologie che in essa affondarono le proprie radici58; d’altra
parte, come si vedrà, attraverso l’escussione della documentazione icono-
grafica sarà possibile ricostruire le tracce di una reazione a questa, pur
prevalente, teoria del genere.
Il caso di studio ora preso in considerazione credo possa dimostrare
l’originalità di questa argomentazione ermeneutica: denotando ancora
una volta una Grundlogik tipologica (in questo caso si intervenne diret-
tamente sul tipo per valorizzarne il significato reputato autentico), alcuni
documenti visuali affrontarono una tematica, quella dello statuto antro-
pologico del femminile, la cui discussione non solo non rientrava nell’a-
genda teologica dei primi secoli cristiani, ma era anzi da questa presup-
posta nell’univoca svalutazione della donna quale «ianua diaboli»59.

4.1. Tra matrice biblica e caratterizzazione esegetica


L’iconografia della trasgressione di Adamo ed Eva è una delle più ri-
conoscibili e tra le più attestate nella produzione visuale paleocristiana 60.

Cfr. per esempio Ambrogio, Il paradiso 10,48.


57

Merita di essere segnalato, perché vistosamente in controtendenza, il profilo eroico


58

attribuito a Eva dalle tradizioni gnostiche. Essendosi questa progenitrice dell’umanità ri-
bellata, con la sua trasgressione, alle disposizioni del Demiurgo (nella teologia gnostica il
Dio creatore è colui che scinde la primigenia unità del pleroma, dando così avvio a quel fe-
nomeno di frammentazione del perfetto che conduce alla dispersione e alla contaminazio-
ne con la materia), ne ha ottenuto al genere umano l’accesso alla conoscenza (cfr. Gen 3,6-
7), unica possibilità per l’anima di fare ritorno nel pleroma.
59 Tertulliano, L’eleganza delle donne 1,1.
60 Styger, Die altchristliche Grabeskunst, 6, ne conta diciannove raffigurazioni pittoriche e

cinquanta sculture; Dresken-Weiland, Immagine e parola, 19, ne conta ventisei pitture e settan-
tatré sculture (di diverso avviso, nonostante le quantità cospicue, Dulaey, I simboli cristiani,

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386 Il lessico tipologico

Le prime raffigurazioni di questo episodio risalgono alla prima metà del


III secolo e provengono dal c.d. battistero di Dura Europos, dall’ambien-
te 13 della necropoli di Cimitile, a Napoli, e dal cimitero di San Genna-
ro, pure a Napoli 61.
Lo schema iconografico fondamentale è piuttosto semplice: Adamo
ed Eva, raffigurati nudi, mentre con una mano si coprono i genitali,
stanno ai lati dell’albero genesiaco, sul quale abitualmente è avvolto il
serpente.
Come si vedrà, questo modello contempla numerose “varianti”: la
presenza o meno del serpente, la postura dei due personaggi, il trattenere
o il mangiare il frutto sono solo alcune delle più rilevanti. La critica ten-
de a valorizzare in senso didascalico-illustrativo queste diverse caratteri-
stiche, pretendendo di poter assegnare alle diverse combinazioni il com-
pito di raffigurare ora il momento che precede, ora quello che attua, ora
quello che segue la trasgressione compiuta da Adamo ed Eva 62. Sono

172). Cfr. Già A. Breymann, Adam und Eva in der Kunst des christlichen Alterthums, Otto
Wollermann, Wolfenbüttel 1891; J. Flemming, Die Ikonographie von Adam und Eva in der
Kunst vom 3. bis zum 13. Jahrhundert, Ph.D. Diss., Jena a.a. 1953-1954. Questa scena,
peraltro, ritorna anche sul c.d. “sarcofago di Prometeo”, uno straordinario monumento di of-
ficina romana, del principio del IV secolo (conservato nei Musei Capitolini di Roma: cfr. Koch
- Sichtermann, Römische Sarkophage, figura 215), che descrive, attraverso un fregio quanto mai
ricco, il mito della creazione dei primi uomini da parte di Prometeo e di Atena: «L’interesse
del sarcofago è poi ancora accresciuto dal fatto che dietro la scena della fucina, proprio sul
bordo, sono raffigurati Adamo ed Eva. Si tratta dunque, evidentemente, di un sarcofago uti-
lizzato e forse addirittura ordinato da cristiani o da ebrei. La loro intenzione era dunque quel-
la di contrapporre al mito greco della creazione la storia della prima coppia umana secondo il
racconto della Genesi. Ma questo viene fatto in una forma discreta e appartata, come se si
volesse dirlo e nasconderlo al tempo stesso. Abbiamo qui a che fare con uno degli esempi più
interessanti dell’epoca di transizione dai sarcofagi “pagani” a quelli cristiani»: Zanker - Ewald,
Vivere con i miti, 60. La fortuna dell’associazione tra il mito di Prometeo e il racconto gene-
siaco è provata anche da un secondo “sarcofago di Prometeo” (Koch - Sichtermann, Römische
Sarkophage, figura 214), questa volta conservato al Louvre di Parigi, dove sul fronte si vedono
i due progenitori ricevere il frutto dal serpente in una formulazione figurativa insolita (cfr. H.
Kaiser-Minn, s.v. « Adam and Eve », in EEECA, 1, 10-12, qui 10).
61 Cfr. Calcagnini, s.v. « Adamo ed Eva», 96; Dresken-Weiland, Immagine e parola, 218-219.
62 Si tratta, in ogni caso, di un’operazione di non semplice finalizzazione soprattutto in ra-

gione del fatto che questa pretesa ricerca di “fedeltà illustrativa” tradisce però la scansione nar-
rativa del testo genesiaco, come ammette anche Calcagnini, s.v. « Adamo ed Eva», 97-98: «Si può
constatare che nell’immagine il diverso atteggiamento ‹dei progenitori›, pur corrispondendo a

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 387

piuttosto scettico circa la reale possibilità di poter spingere così in là l’in-


terpretazione dei singoli temi iconografici. Il già considerato processo di
“tematizzazione” tipologica dei testimonia 63, infatti, operò con queste fi-
gure esattamente come agì con gli equivalenti testuali: la pericope, il bra-
no o anche solo la profezia prescelti, caricati di un rilevante valore erme-
neutico, potevano essere citati e impiegati intervenendo – talora anche
vistosamente – sul loro dettato testuale. Poiché, infatti, il testimonium
non è tale né in ragione del suo contenuto testuale (le parole con cui si
esprime) né in ragione del contenuto letterario (gli antichi eventi che nar-
ra) ma in virtù della sua funzione profetica (la “realtà nuova” in cui esso
si ricapitola), è evidente che se ne possa plasmare tanto la costituzione
testuale quanto il resoconto narrativo originali, senza che questo ne com-
porti una “falsificazione” o una compromissione.

Figura 83: la caduta dei progenitori. Fianco sinistro di sarcofago, Musée Saint-Ray-
mond, Toulouse (Wp. 32, t. 182,1; Rep. 3, 514). Fine IV secolo. L’immagine è trat-
ta da Garr. 5, t. 312,4. Il fregio del fianco di questo sarcofago (a cui corrisponde,
sul lato destro, il tema di Daniele nella fossa dei leoni) testimonia la persistenza del
modello compositivo classico della scena della trasgressione di Adamo ed Eva. La
raffigurazione, sintetizzata alle sue parti fondamentali, vuole rappresentare insieme
il momento della seduzione (il serpente che si rivolge a Eva – o, come vedremo, ad
Adamo), quello della colpa (il cogliere il frutto, l’averlo colto o anche il mangiarlo)
e quello dei suoi esiti (la percezione della nudità e l’approntamento di costumi in-
trecciati da foglie, secondo Gen 3,7).

precisi momenti che nel racconto della Genesi si succedono l’uno all’altro, non rispetta il rap-
porto temporale della fonte». Cfr. anche L. Pani Ermini, Una mensa paleocristiana con bordo isto-
riato, in Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte 1 (1978) 89-117.
63 Vedi supra, pp. 185-189.

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388 Il lessico tipologico

Figura 84: la caduta dei progenitori. Frammento di vetro


verde, probabilmente fondo di coppa. Museo Sacro della Bi-
blioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano (C.R. Morey,
The Gold-Glass Collection of the Vatican Library. With Addi-
tional Catalogues of Other Gold-Glass Collections, Biblioteca
Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1959 [Catalogo del
Museo Sacro della Biblioteca Apostolica Vaticana 4], numero
47). IV secolo. L’immagine è tratta da H. Leclercq, s.v. «Ève »,
in DACL 5,1, 923-938, qui 935, figura 4237. Questo fram-
mento vitreo enfatizza la naturale propensione narrativa di
questa scena: come si può facilmente osservare, infatti, si vede qui dapprima il ser-
pente mentre porge il frutto a Eva e poi quest’ultima mentre lo consegna ad Adamo.

Figura 85: la trasgressione dei progenitori; ritratto della defunta davanti al parape-
tasma sorretto da Pietro e Paolo; tabula inscriptionis tra personaggi alati (angeli?
eroti?); il ciclo di Giona (il profeta gettato in mare e il riposo di Giona sotto la zuc-
ca); Gesù preannuncia a Pietro il triplice tradimento. Fronte di sarcofago con alza-
ta (Lateranense 154), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 29, t.
120,2; Rep. 1, 77; cfr. anche Sotomayor, S. Pedro, 52, nota 73). Primo terzo del IV
secolo. L’immagine è tratta da Garr. 5, t. 316,4. Il semplice progetto iconografico
di questo fronte di sarcofago sottolinea esplicitamente la valenza paradigmatica
della colpa assunta dal tema della trasgressione di Adamo ed Eva: è in particolare il
contrappunto stabilito dai due pannelli dell’alzata a favorire questa deduzione in-
terpretativa. Se, infatti, sul pannello di sinistra si osservano, da una parte, il ricordo
della caduta che pregiudicò al genere umano la permanenza nel giardino edenico e,
dall’altra, il ritratto della defunta orante, glorificata nella nuova dimora ultramon-
dana (questo significa il parapetasma) “dischiusa” da Pietro e Paolo, sul pannello di
destra è stato raffigurato il presupposto di quella salvezza: la Pasqua di Cristo (se-
condo il tema, già giudaico, del “prezzo di sangue”, della funzione espiatrice dell’im-

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 389

molazione pasquale: cfr. Füglister, Il valore salvifico della Pasqua, 87-121; 327-330).
Al centro del fronte, la scena dell’annuncio della triplice negazione di Pietro si pone
come una sorta di sintesi tra confessione della colpa e ottenimento della misericor-
dia: «Il contenuto delle scene ‹che replicano la triplice negazione di Pietro› evidenzia
una relazione con il perdono e la grazia, che si riscontra anche in altri numerosi
testimoni […]: in essi Pietro è “il prototipo dell’uomo caduto e di nuovo risollevato
dalla misericordia divina”» (Dresken-Weiland, Immagine e parola, 129; la citazione
interna è da G. Stuhlfauth, Die apokryphen Petrusgeschichten in der altchristlichen
Kunst, de Gruyter, Berlin - Leipzig 1925).

4.2. La centralità del tema di genere


Il dettaglio su cui vorrei attirare l’attenzione in questa sede è la postu-
ra delle mani dei protoplasti. Accanto alla più frequente immagine di Eva
che coglie il frutto proibito o addirittura se ne nutre, si osservano, infat-
ti, due “varianti” di estremo interesse, dal punto di vista ermeneutico:
1. entrambi i progenitori colgono il frutto;
2. Adamo coglie il frutto mentre Eva lo osserva.
La fluidità di questo particolare iconico non può essere superficial-
mente ridotta a un errore imputabile agli artigiani cristiani; al contrario,
in esso andrà riconosciuto un intervento ermeneutico sul dettato testua-
le biblico volto a ristabilire il significato fondamentale della pericope: non
una definizione del femminile ma una motivazione della lontananza di
Dio e della solitudine del genere umano 64.

a. «Il giusto sceglie il frutto, il peccatore le foglie»


(Ambrogio, Il paradiso 13,64):
la trasgressione dei progenitori
Tra le due “varianti” allo schema con cui viene abitualmente restitui-
to iconograficamente l’episodio di Gen 3, senza dubbio la più diffusa è

64 Senza soffermarsi sui casi di rimodulazione di questo tema iconografico, ne analizza

il significato in termini di storia di genere anche S.M. Salvadori, Sin and Redemption, Sexua-
lity and Gender. Adam and Eve in the Funerary Art of Late Antique Rome, in J.D. Alchermes
- H.C. Evans - T.K. Thomas (eds.), αναγηματα εορτδεα. Studies in Honor of Thomas F. Ma-
thews, Philipp von Zabern, Mainz am Rhein 2009, 271-282.

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390 Il lessico tipologico

quella che osserva entrambi i progenitori cogliere – o nutrirsi – dei frutti


dell’albero proibito 65. Ciò che pare non privo di interesse è la constata-
zione del contesto figurativo, non di rado correlabile a donne, defunte o
committenti, entro il quale questa riformulanzione viene offerta.
Un caso di autodeterminazione ermeneutica?

Figura 86: la risurrezione di Lazzaro; Daniele nella fossa dei leoni; gruppo centrale
(due matrone e una ragazza attorno al Buon Pastore); la trasgressione dei progenitori;
il battesimo di Gesù. Fronte di sarcofago, Saint-Pierre (Sainte-Quitterie), Aire-sur-L’A-
dour (Landes), Francia (Wp. 29, t. 65,5; 32, tt. 175,3-4; Rep. 3, 18). Fine IV secolo.
L’immagine è tratta da Garr. 5, t. 301,3. Non è possibile esaminare per intero questo
sarcofago che viene giustamente considerato uno dei più importanti della tradizione
paleocristiana (cfr. F. van der Meer, À propos du sarcophage du Mas d’Aire, in G.B.
Pighi [éd.], Mélanges offerts à mademoiselle Christine Mohrmann, Spectrum, Utrecht
- Anvers 1963, 169-176) e uno dei più significativi della c.d. “tradizione gallica” del-
la scultura cristiana antica (cfr. M. Immerzel, Les ateliers de sarcophages paléochrétiens
en Gaule: la Provence et les Pyrénées, in Antiquité Tardive 2 [1994] 233-249, qui 239).
Oltre al fronte che qui si esamina, sui fianchi esso presenta due scene del ciclo di Gio-
na (il profeta gettato in mare [lato sinistro] e il suo riposo sotto il pergolato di zucche
[lato destro]) mentre sui due pannelli dell’alzata, ai lati della tabula inscriptionis non
compilata, stanno il sacrificio di Isacco e la guarigione del paralitico (pannello di si-
nistra), Giona rigettato dalla pistrice e Tobia e il pesce.

65 Oltre agli esempi qui considerati, cfr. anche Nestori, Dom77, il fianco sinistro del sar-

cofago conservato presso la chiesa di Notre-Dame di Manosque (Alpes-des-Haute-Provence:


Rep. 3, 282; Wp. 32, t. 192,3, dove però è raffigurato ancora mutilo, senza la reiterazione del-
la metà pannello con la figura di Eva) e l’originale iconografia del fianco destro del c.d. “sar-
cofago dei santi Simone e Giuda Taddeo”, conservato nella cripta di San Giovanni in Valle a
Verona (Wp. 29, t. 190,7; Rep. 2, 152), dove la trasgressione dei progenitori non si limita a se-
gnalare che entrambi colsero il frutto proibito, ma addirittura propone che ne abbiano accu-
mulato una cesta ciascuno. Più in generale, volentieri rinvio alla rassegna stilata da Calcagni-
ni, s.v. « Adamo ed Eva», 98.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 391

Figura 87: schema riassuntivo del progetto iconografico del fronte del sarcofa-
go di Saint-Pierre (Sainte-Quitterie), Aire-sur-L’Adour (Landes), Francia (Wp.
29, t. 65,5; 32, tt. 175,3-4; Rep. 3, 18). Fine IV secolo. Lo schema evidenzia i
due gruppi principali del sarcofago, posti ai lati di quell’ensemble centrale com-
posto dal Buon Pastore e da quel particolare consesso tutto femminile che gli
si stringe attorno, caso unico di tutta la più antica tradizione figurativa cristia-
na. Il gruppo di sinistra presenta per la verità una seconda raffigurazione carat-
teristica di questo fregio: l’immagine di Daniele in dalmatica («una tipologia
specifica di tunica lunga tardo-antica, indossata senza cintura, importata
nell’Impero dalla Dalmazia nel II secolo d.C. Era considerata particolarmente
effeminata, tanto da suscitare scandalo quando indossata da uomini; presto,
però, divenne anche veste di prestigio ed entrò a far parte delle vesti utilizzate
dall’aristocrazia e all’interno della corte imperiale. Venne adottata nell’abbiglia-
mento dei diaconi solo a partire dal IV secolo […] mentre in precedenza essa
era parte dell’abbigliamento proprio del pontefice e abito proprio e distintivo
del vescovo»: S. Piccolo Paci, Storia delle vesti liturgiche. Forma, immagine e
funzione, Ancora, Milano 2008, 322; forse, però, è possibile risalire sino al tar-
do III secolo: cfr. già Liber Pontificalis, Eutichiano 2; Questioni sull’Antico e
Nuovo Testamento 46 [PL 35, 2246]; cfr. anche H. Leclercq, s.v. «Dalmatique »,
in DACL 4,1, 111-119) di fronte a un solo leone, assopito ai suoi piedi. Mi pare
che questa soluzione iconografica presupponga un intervento ermeneutico assai
forte che, ancora una volta, emerge con chiarezza solo presupponendo il signi-
ficato tipologico che l’episodio di Dn 6,17-24 e 14Vulgata (= Bel e il Dra-
goLXX),31-42 doveva avere agli occhi di coloro che scelsero questo tema per ar-
ticolare il progetto di questo fregio. Se, infatti, Daniele nella fossa dei leoni
raffigurava il (proto)tipo del martire cristiano esposto ad bestias (e, di conse-
guenza, connotava anche l’ideale di Ecclesia martyrum al quale si rifaceva la
comunità di coloro che di questa storia si consideravano espressione ed eredi),
raffigurare il profeta al sicuro, in abiti liturgici, poteva rappresentare la soluzio-
ne visuale per enfatizzare proprio quest’orizzonte teologico del martirio cristia-
no, inteso qui come predicato ecclesiologico di quella comunità sacerdotale che
celebrava, nella sua storia, gli eventi della salvezza. Risulta in tal modo chiara
l’associazione con la risurrezione di Lazzaro, prefigurazione della risurrezione

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392 Il lessico tipologico

dei credenti in Gesù, il Cristo. Il pannello di destra è di ancor più semplice let-
tura perché abbina il manifesto della trasgressione protologica – la cui respon-
sabilità è qui chiaramente condivisa dai due personaggi che simultaneamente
protendono il braccio verso l’albero proibito per coglierne i frutti (per il signi-
ficato del “tendere il braccio”, cfr. Pseudo-Ippolito, Sulla Pasqua 50; Agostino,
Sulla Genesi, contro i manichei 2,22,34; Esichio di Gerusalemme, Omelia pa-
squale 1,3; Efrem, Sul Diatessaron 20,23-24 ecc.; cfr. Dulaey, I simboli cristiani,
180-181) – a quel battesimo per la remissione dei peccati che fu considerato, sin
dalla predicazione paolina, l’“atto di nascita” del credente e lo strumento ine-
ludibile per l’ottenimento della salvezza (la bibliografia sul tema è ovviamente
sterminata: reputo tuttavia che G. Barth, Il battesimo in epoca protocristiana,
Paideia, Brescia 1987 [Studi Biblici 79], 116-140, restituisca ancora una delle
propettive più intelligenti su questo argomento). Ciò che colpisce è che questa
riscrittura di Gen 3 avvenga su un sarcofago sviluppato attorno al ritratto di tre
donne disposte attorno al Buon Pastore: in questa professione di fede martiro-
logica, la salvezza e la risurrezione che vengono attese sono esplicitamente cor-
relate a una storia il cui prologo tragico non può che essere pienamente proprio
di ogni essere umano, non delle donne specialmente.

Figura 88: ritratto della defunta tra personaggi alati (angeli? eroti?); la creazio-
ne della donna; la trasgressione dei progenitori; i tre Magi (?). Frammento di
alzata di sarcofago, Museo Archeologico Nazionale, Napoli (Wp. 32, t. 185,9;
Rep. 2, 180). Fine III - inizi del IV secolo. L’immagine è tratta da Wp. 32, t.
185,9. Questo frammento di soli cinquantasette centimetri restituisce uno tra
i documenti visuali a mio avviso più significativi delle origini cristiane. La co-
stituzione solo frammentaria del pezzo ne rende impraticabile la descrizione del
progetto iconografico; d’altra parte, anche limitandosi a ciò che ne è sopravvis-
suto, è possibile ricavare alcune informazioni di fondamentale rilevanza per la
contestualizzazione delle due scene genesiache che qui si osservano:
1. Il sarcofago era destinato a una o due donne: lo provano sia il frammento
di ritratto sia la porzione di inscrizione che menziona « MATER FILIAE ».

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 393

2. Tutte le scene di questo pannello hanno a che fare con il genere femminile:
un sarcofago, si potrebbe forse affermare, di donne, per le donne e relativo
alle donne (il che già implica un’autodeterminazione femminile del tutto
inedita nelle fonti letterarie cristiane che, tra fine III e inizi IV secolo, sono
scritti di uomini, per lo più per uomini e quasi sempre riguardo a uomini).

Figura 89: la creazione della donna. Partico-


lare da frammento di alzata di sarcofago, Mu-
seo Archeologico Nazionale, Napoli (Wp. 32,
t. 185,9; Rep. 2, 180). Fine III - inizi del IV
secolo. L’immagine è tratta da Leclercq, s.v.
«Ève », 927, figura 4234. L’elemento più signi-
ficativo di questo frammento risiede ovvia-
mente nel breve ciclo genesiaco che qui si os-
serva. Esso è composto di due sole scene: la
creazione dell’essere umano e la caduta. Nella
prima scena si osserva ciò che Rep. 2, 180, pa-
gina 69, ha singolarmente definito la «Creazione dell’uomo e di Eva (Erschaffung
des Menschen bzw. Evas). Cristo siede come creatore rivolto a destra […] e pone le
dita della sua mano destra sul volto di Eva. Appoggia le dita della mano destra sul
volto di Eva, che sta in piedi di fronte a lui» (si noti che nel pezzo non è presente
Adamo!). Si tratta di un unicum figurativo che riformula la tradizionale struttu-
ra di questo tema iconografico che abitualmente osserva il Cristo-Logos – o il
Padre o tre figure identiche – mentre tocca una silhouette umana che intenzio-
nalmente è connotata dagli stessi tratti somatici del Creatore (vedi infra, l’esempio
in figura 121): è una sintesi dei due resoconti genesiaci, quello “favoloso” del cor-
po plasmato (donde il dettaglio del tocco; cfr. Gen 2,7: racconto “jahvista”) e
quello “lirico” dell’essere umano come «immagine e somiglianza» di Dio (donde
il dettaglio dei volti identici; cfr. Gen 1,26-27: racconto “sacerdotale”). Su questo
frammento, come anticipato, tale consueta costruzione figurativa viene ripensata:
qui il Cristo-Logos (la figura è quella di un giovane, dunque non è il Padre) sta
creando la donna, plasmandola «a sua immagine e somiglianza» (lo rivendicano
tanto la rispettiva postura dei due tanto la mano del Creatore che vistosamente
tocca il volto della creatura). Anche la figura successiva – quella che rappresenta
la trasgressione dei protoparenti – procede nello stesso solco ermeneutico, riela-
borando il racconto genesiaco, come accade sul sarcofago di Saint-Pierre (Sain-
te-Quitterie: vedi supra, figura 86): anche qui la trasgressione viene compiuta
simultaneamente da Adamo ed Eva, con l’ulteriore precisazione della condivisio-
ne dello stesso frutto. Nello stesso momento, entrambi i progenitori colsero lo
stesso frutto: «Non vi è più maschile e femminile» (Gal 3,28) verrebbe da dire,
rileggendo Paolo. Il pur poco che è sopravvissuto di questo sarcofago sembra voler

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394 Il lessico tipologico

chiarire l’infondatezza dei due presupposti teologici che venivano impiegati per
affermare la subalternità – se non proprio l’inferiorità – della donna all’uomo: né
Eva è “creatura di creatura” né il genere ha avuto nulla a che fare con la trasgres-
sione che portò alla separazione tra Creatore e creature. Al contrario: anche Eva
è, nella pienezza del suo femminile, «immagine e somiglianza» di Dio e l’uomo
non può attribuire ad altri la sua condizione storica. A conclusione di questa (pro-
to)teologia femminista elaborata a partire dalla proposta di un’ermeneutica auto-
noma di Gen 1 - 3, dopo aver riscattato Eva, viene offerto il paradigma di Maria,
la donna che ha reso possibile la salvezza di tutto il genere umano. Non paghe di
aver escluso che sia stata colpa femminile la caduta del genere umano, le commit-
tenti di questo sarcofago ci tengono a ricordare agli spettatori di questo manifesto
teologico che fu però una donna – né poteva essere altrimenti – ad aver offerto la
propria maternità perché potesse aver luogo l’incarnazione del Logos divino.

b. «Adamo, per aver steso la mano, ha attirato su di noi la morte»


(Esichio di Gerusalemme, Omelia pasquale 1,3):
Adamo, il trasgressore
Prima di concludere vorrei prestare attenzione anche alla “variante”
della scena della trasgressione di Gen 3 meno frequente: quella che attri-
buisce ad Adamo, invece che a Eva, l’iniziativa di cogliere il frutto proi-
bito dell’albero 66.
Non credo sia possibile sovrastimare la rilevanza della fattispecie ico-
nografica a cui si sta per prestare attenzione. Priscilla Buongiorno ha
correttamente riconosciuto in questo “filone documentario” la possibili-
tà di rettificare in profondità la descrizione dell’antico ideale cristiano
della donna e del femminile, con esiti profondamente divergenti da quel-
li ricavabili dalla sola escussione dei testi della c.d. “letteratura patristica”.

66 Oltre agli esempi riportati, cfr. anche la scena sul fianco destro del sarcofago di San-

ta Engracia, a Saragozza (Rep. 4, 149; Sotomayor, Sarcófagos romano-cristianos de España,


159-169, in part. 163; vedi supra, figura 60) e il frammento di Villa Albani, a Roma (Rep.
1, 923; Wp. 32, t. 191,1), del primo terzo del IV secolo. A questo elenco va forse aggiunto
il sarcofago datato al 330-340 e conservato presso il Musée de l’Arles antique (Rep. 3,40;
Wp. 29, t. 122,3; nella scena riportata su questo sarcofago l’avambraccio sinistro di Ada-
mo, quello rivolto all’albero, è perduto, ma la postura del braccio è compatibile con l’ipo-
tesi che il progenitore stesse cogliendo il frutto, mentre per certo non lo sta facendo Eva;
questa ipotesi è contemplata anche da Dresken-Weiland, Immagine e parola, 283, nota 1031).
Cfr. anche la rassegna di Calcagnini, s.v. « Adamo ed Eva», 98.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 395

Figura 90: la risurrezione di Lazzaro; la guarigione del cieco nato; la tra-


sgressione di Adamo; la guarigione del paralitico; ritratto di matrona; il mi-
racolo delle nozze di Cana; il sacrificio di Isacco; Pietro fa scaturire l’acqua
dalla roccia. Fronte di sarcofago, Real Academia de la Historia, Madrid (Wp.
29, t. 111,1; Rep. 4, 81; cfr. anche Sotomayor, Sarcófagos romano-cristianos de
España, 59-66). Prima metà del IV secolo. L’immagine è tratta da Garr. 5,
t. 376,3. Prima di dedicare attenzione al progetto iconografico del fronte di
questo sarcofago, vorrei soffermarmi sulla scena della trasgressione che pre-
senta con ogni evidenza un’inversione dei ruoli di Adamo e di Eva che la
critica non ha faticato a osservare. L’originalità di questo impianto iconogra-
fico è stata fatta oggetto di diversi tentativi interpretativi, molti dei quali
miravano a minimizzarne la portata o a escluderne premesse ermeneutiche
così originali come qui si sta proponendo: « A sinistra, guardando il sarcofa-
go, si trova Adamo, in posizione frontale forzata: mentre con la sinistra tiene
la solita foglia di vite (in parte scolpita e in parte solo sgraffiata), incrocia il
braccio destro davanti al petto, quasi ad altezza delle spalle, estendendolo a
sinistra e aprendo la mano per mostrare Eva come causa della sua disobbe-
dienza » (Sotomayor, Sarcófagos romano-cristianos de España, 60; Rep. 4, 81,
p. 187, si limita a riportare: « Adamo […], rivolto verso l’albero, indica la
chioma ‹dell’arbusto› con la mano destra in un gesto di adlocutio»; di altro
avviso, concorde con quanto si sta proponendo, è Calcagnini, s.v. « Adamo ed
Eva », 98). La proposta di Manuel Sotomayor (ma anche la descrizione del
Repertorium) pare difficilmente ricevibile per due ragioni:
1. il gesto di Adamo è del tutto compatibile con quello non di rado compiu-
to da Eva, quando già non stringe il frutto tra le mani (vedi anche solo
supra, figura 86), il che rende difficile sostenere ora un’interpretazione
dissimile;
2. sussistono almeno altri due casi che, impiegando schemi iconografici me-
no essenziali di questo (sul sarcofago della Real Academia de la Historia
manca, per esempio, il serpente), impiegano la stessa soluzione figurativa.

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396 Il lessico tipologico

Figura 91: lastra di Vittorina. Cimitero dei Giordani, Roma (ICUR 9, 24521;
cfr. D. Calcagnini, Minima Biblica. Immagini scritturistiche nell’epigrafia fune-
raria di Roma, PIAC, Città del Vaticano 2006 [Studi di Antichità Cristiana 61],
62). Prima metà del IV secolo. Foto dell’autore. « Abramo ed ed Eva». Partico-
lare della c.d. “coppa di Podgorica”, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo (cfr.
P. Levi, The Podgoritza-Cup. Notes and Comments, in Heythrop Journal 4 [1963]
55-60; S. Nagel, Die Schale von Podgorica. Bemerkungen zu einem außer-
gewöhnlichen christlichen Glas der Spätantike, in Bonner Jahrbücher 213 [2013]
165-198). Metà del IV secolo. L’immagine è un particolare della tavola Garr. 6,
463,3. La trasgressione di Adamo. Particolare del fronte di sarcofago della Real
Academia de la Historia, Madrid (Wp. 29, t. 111,1; Rep. 4, 81; cfr. anche Soto-
mayor, Sarcófagos romano-cristianos de España, 59-66). Prima metà del IV se-
colo. L’immagine è un dettaglio della tavola Wp. 29, t. 111,1. La parentela tra
le tre figure mi pare, da un punto di vista strettamente iconografico, evidente.
Nel caso della lastra di Vittorina e della c.d. “coppa di Podgorica”, la presenza
del serpente rivolto verso Adamo non fa che enfatizzare l’intervento sul raccon-
to dell’episodio genesiaco. I commentatori, per altro, non hanno difficoltà a
osservare la tipicità di queste scene. Meno semplice è la descrizione della lastra
di Vittorina per via dell’incertezza del tratto e della povertà stilistica del risul-
tato. Alcuni commentatori (cfr. Calcagnini, Minima Biblica, pagina 89) rico-
noscono un frutto nella mano destra Eva, ma non si può escludere che si tratti
semplicemente del tentativo di raffigurare una mano aperta, come la destra di
Adamo. Di certo c’è solo che Adamo è prossimo all’albero e verso di lui è rivol-
to il serpente, Eva invece è lontano e «sembra allontanarsi dall’albero (poggia

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 397

sulla gamba destra, mentre ha la sinistra flessa)» (ibidem). Più semplice è l’ana-
lisi della scena che si ritrova nella decorazione della “coppa di Podgorica”: «La
rappresentazione della caduta contiene anche una caratteristica singolare. Seb-
bene i progenitori si trovino nella consueta disposizione, ai lati dell’albero del
paradiso, il serpente che lì si snoda non si rivolge, come d’abitudine, a Eva, ma
ad Adamo: un’eccezione nella realizzazione artistica» (Nagel, Die Schale von
Podgorica, 175). Si potrà obiettare che l’iscrizione associata a questa scena, vi-
sibilmente erronea, rende impossibile attribuire all’iconografia della coppa una
particolare valenza ermeneutica: «“Abram et et Evam” è l’iscrizione che descrive
l’immagine del peccato dei progenitori […]. La confusione è innegabile. […] Si
può presumere che l’incisore, come la maggior parte degli artigiani dell’epoca,
non sapesse leggere e scrivere autonomamente, il che non sorprende a un tasso
medio di alfabetizzazione di circa il 5-10% nelle province occidentali dell’Im-
pero Romano» (ivi, 185). In altri termini: come si può attribuire a un analfa-
beta (almeno funzionale) – incapace persino di scrivere “Adamo ed Eva” – le
competenze necessarie per elaborare un’ermeneutica così complessa qual è quel-
la che qui si sta proponendo? Come già ricordato più supra (pp. 155-157), men-
tre l’attitudine al linguaggio figurativo poteva affinarsi nella prassi quotidiana
della cultura romano-imperiale, le competenze ermeneutiche necessarie per
impostare questi interventi esegetici sul testo venivano affinate nella prassi cul-
tuale delle comunità cristiane dove la “liturgia della Parola” costituiva una sor-
ta di “formazione permanente” dei discepoli di Gesù, il Cristo. I documenti
riportati in figura credo attestino solidamente l’esistenza di questa “variante”
all’iconografia della trasgressione dei progenitori.

Figura 92: schema riassuntivo del progetto iconografico del fronte del sarcofago
della Real Academia de la Historia, Madrid (Wp. 29, t. 111,1; Rep. 4, 81). Prima
metà del IV secolo. L’organizzazione ermeneutica di questo documento mi pare
solidamente costruita per abbinamenti speculari che si sviluppano avendo nel grup-

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398 Il lessico tipologico

po centrale il loro asse. Le due figure che stanno nel mezzo di questo fregio, la
guarigione del paralitico e la matrona in posa di orante, mi pare vogliano formu-
lare un augurio di salvezza per la donna lì ritratta (se, come credo, questo personag-
gio femminile raffigurasse la defunta, si tratterebbe ancora una volta del sarco-
fago di una donna, né un simile augurio avrebbe senso altrimenti): il miracolo di
Mc 2,1-12 || Mt 9,1-8 || Lc 5,17-26, su cui già molto si è riflettuto, qui è riprodotto
come prototipo della remissione dei peccati accordata dal Cristo e riguardata come
la premessa dell’accesso al Regno. «Il creatore dell’universo, il Verbo di Dio che
all’inizio plasmò l’uomo, avendo visto che la sua creatura era stata contaminata dal
male, la guarì in ogni modo, ora rinnovando‹ne› le diverse membra – riportandole
ad essere come erano state plasmate all’inizio – ora rendendo in un solo istante sa-
no e integro un individuo umano, rendendolo perfetto in vista della risurrezione»
(Ireneo di Lione, Contro le eresie 5,12,6). Il primo “luogo teologico” chiamato a
restituire le ragioni della speranza nutrita dalla defunta (cfr. 1Pt 3,15) è espresso da
una sintetica teologia della storia – analoga ad altre già osservate in precedenza –:
a conclusione della storia umana (avviata con la trasgressione dei progenitori), Cri-
sto è giunto per inaugurare i tempi ultimi (come indica il «primo segno» delle noz-
ze di Cana), avviando la vigilia di quel Regno nel quale la defunta sperava di esse-
re ammessa. Il fulcro di questa teologia della storia, ciò che ha fatto scoccare l’ora
della vigilia del Regno, è stato quel sacrificio perfetto che Cristo ha elevato sulla
croce (qui effigiata dalla tipologia del sacrificio di Isacco) e al quale si indirizzava
anche il segno della guarigione del cieco nato (vedi supra, pp. 377-378). Infine,
tramite l’accostamento tra il prodigio dell’acqua miracolosa e la risurrezione di
Lazzaro, viene espressa la garanzia del fatto che quel Vangelo universale – l’avven-
to del Regno e il compimento della storia secolare – rappresenti anche una “notizia
buona” individuale – rivolta, cioè, alla salvezza personale dei singoli credenti. Si
noti ancora che, nella successione delle tre immagini alla destra del gruppo centra-
le, si può riconoscere anche una “storia nuova”: l’Incarnazione di Cristo (il suo av-
vento alla festa nuziale), la Pasqua e il tempo della Chiesa, connotato dall’ammini-
strazione del battesimo: « Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni,
battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19).

---

Pur se non esaustiva, l’analisi dell’impiego del testimonium protote-


stamentario di Gen 3,1-7 ha permesso di constatare come la Grundlogik
della primigenia cultura visuale cristiana abbia fornito uno strumento
argomentativo impiegato con grande versatilità e creatività dalla commit-
tenza di questi monumenti: l’ipotesi che una prima, rudimentale teologia
di genere abbia iniziato a farsi strada sul fregio di questi documenti “fem-

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 399

minili”67 credo possa dirsi almeno in parte documentata. Se una simile


conclusione, promosse ulteriori indagini, potesse essere recepita come
dato consolidato, se ne dovrebbe dedurre, agli inizi del IV secolo, non
solo l’esistenza di un originale nucleo teologico cristiano sul femminile
ma anche – e sarebbe fatto forse ancor più significativo – una teologia
delle donne cristiane sul femminile 68.
Un primo, considerevole, tentativo di autodeterminazione, compiuto
ingaggiando un dibattito ermeneutico sulle Scritture secondo la prassi
“ordinaria” delle comunità cristiane.

5. IL CASO DELLA RISURREZIONE DI LAZZARO:


L’INTERVENTO DELL’ATTUALITÀ

Si è già potuto osservare, in relazione al ciclo dei tre fanciulli ebrei 69,
un fenomeno particolare: l’introduzione di dettagli figurativi presi
dall’attualità delle comunità cristiane in parziale riscrittura dell’episodio
prototestamentario70. Questo dato è stato valutato alla luce della Grund-

Tutti i documenti analizzati in queste pagine dei quali si potesse identificare la com-
67

mittenza hanno dimostrato di essere legati a donne: il Lateranense 154 (Rep. 1, 77; supra,
figura 85) recava il ritratto di una matrona davanti al parapetasma; il sarcofago di Saint-Pier-
re (Sainte-Quitterie) di Aire-sur-L’Adour (Landes; Rep. 3, 18; supra, figura 86) pone attor-
no al Buon Pastore un gruppo di tre donne, due matrone e una ragazza; il frammento del
Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Rep. 2, 180; supra, figura 88) oltre a ritrarre una
donna, reca il lacerto epigrafico « MATER FILIAE »; il sarcofago della Real Academia de la Hi-
storia di Madrid (Rep. 4, 81; supra, figura 90) riporta al centro del fregio il ritratto di una
matrona in posa d’orante; la lastra di Vittorina (ICUR 9, 24521; supra, figura 91) la com-
memora nel breve testo epigrafico graffito la «ίενεμερεντε ίδετπρδνα».
68 Nella compilazione di questo capitolo ho potuto giovarmi del confronto critico con

Priscilla Buongiorno (Durham University), attualmente impegnata in una ricerca dedicata


ai “prototipi del femminile” nella cultura visuale delle origini cristiane. I risultati prelimi-
nari di questo studio, ai quali ho potuto accedere per cortesia dell’autrice, mi pare lascino
presagire consistenti innovazioni nel panorama della storia del femminile nelle origini cri-
stiane, il cui indirizzo complessivo, per ciò che ho potuto valutare, mi è parso coerente con
quanto emerso nel corso di queste pagine.
69 Vedi supra, pp. 315-329.
70 Uno tra gli esempi più semplici da rievocare è quello dell’uniforme dei soldati raffi-

gurati a presidio dell’erma alla cui venerazione i tre ebrei si sottraggono: il palmare paralle-
lo con le insegne militari romano-imperiali introduce un’evidente distopia rispetto al con-
testo storico del racconto prototestamentario, ovviamente altro (perché antico, perché

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400 Il lessico tipologico

logik tipologica di questa primigenia cultura visuale nel senso che, essen-
do il testimonium raffigurato un tipo del Cristo e della Chiesa – secondo
la prassi ermeneutica “latina” 71 –, allora la sua dimensione di piena veri-
tà si doveva ricercare nel presente, in quell’antitipologia – cristologica ma
anche ecclesiologica – che comprendeva sia l’ideale della Chiesa sia anche
la sua storia.
Nelle ultime pagine di questo capitolo, vorrei provare a documentare
come il caso ora menzionato non rappresenti un’eccezione alla normale
prassi figurativa cristiana, ma un suo tratto caratteristico che pure con-
corre ad attestarne la fondamentale struttura ermeneutica: ancor prima
di essere inseriti nell’organizzazione progettuale dei singoli documenti, i
testimonia “artistici” erano già stati oggetto di un primo intervento erme-
neutico che ne aveva orientato la selezione e la configurazione iconogra-
fica, per esaltarne non tanto l’originale narrazione quanto il valore erme-
neutico. Già in questa fase “ideativa”, il significato antitipologico era
considerato prevalente sul nucleo tipologico; per questo, l’“intrusione”
del presente in vicende antiche dovette essere considerato come una coe-
rente valorizzazione dei diversi testimonia.
Il caso della risurrezione di Lazzaro mi sembra uno dei più efficaci per
documentare questo processo.

5.1. La risurrezione come emancipazione dal culto degli idoli


Tra i soggetti tratti dal Nuovo Testamento, la risurrezione di Lazzaro
(Gv 11,1-44) è senza dubbio uno di quelli che tornano con maggiore fre-

orientale) rispetto a quello romano. Vi è chi ha motivato questa circostanza richiamando


l’impiego, da parte degli artigiani cristiani, di modelli e figurine più comuni; dal mio pun-
to di vista, si tratta di una spiegazione almeno in parte difettosa, perché trascura – tra le al-
tre cose – l’esplicita connotazione orientale conferita alla raffigurazione dei tre fanciulli,
connotazione che ben difficilmente si può pensare di armonizzare con una simile trascura-
tezza per la realizzazione del gruppo inquirente. Detto altrimenti: questa spiegazione intro-
duce una contraddizione nella progettazione di questa scena perché postula che per metà
essa sia l’esito dell’applicazione di criteri di ordine “pratico” (facilitare il lavoro degli arti-
giani), per l’altra metà di esigenze “filologiche” (soffermarsi puntigliosamente sull’origina-
le contesto del racconto biblico).
71 Vedi supra, pp. 189-197.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 401

quenza nel primigenio immaginario cristiano72: l’effigie del «migliore


esempio della risurrezione»73 compare precocemente, con caratteri so-
stanzialmente definiti, e persiste a lungo tanto nell’iconografia funeraria
quanto sulle mense marmoree tanto nelle arti minori. La scena, capace
di prospettare sia il destino di salvezza predisposto per il credente sia la
potenza divina del Cristo sia la veridicità della sua risurrezione, viene
preferenzialmente abbinata al “miracolo” dell’acqua fatta scaturire dalla
roccia o ad altre scene di carattere battesimale74, in una connessione che
restituisce efficacemente sia l’itinerario della “vita pubblica” di Gesù –
secondo la narrazione giovannea – sia l’itinerario religioso del credente:
rinato nel battesimo e destinato a risorgere in Cristo.
Colui che camminando calpestò le onde salse del mare,
colui che fa rivivere i semi morenti della terra,
colui che potè infrangere i lacci letali della morte,
‹colui che potè,› dopo le tenebre, dopo che per tre volte il sole rifulse, il fratello,
fra i vivi, restituire a Marta, ‹sua› sorella:
che costui dalle ceneri farà risorgere Damaso, io lo credo75.

A queste parole papa Damaso affidava la propria speranza di risurre-


zione, dimostrando così quanto sentito fosse questo testimonium nella
coscienza cristiana antica.

72 Styger, Die altchristliche Grabeskunst, 7, conta cinquantatré pitture e trentasei rilievi di

questa scena; Dresken-Weiland, Immagine e parola, 21, molte di più: sessantasei pitture e cen-
touno rilievi; «L’iconografia della resurrezione di Lazzaro è il tema neotestamentario più raf-
figurato nelle catacombe; a parte il miracolo della fonte, è il tema più popolare tra tutti i te-
mi vetero- e neotestamentari» (ivi, 176). Su questo tema iconografico, cfr. R. Darmstädter,
Die Auferweckung des Lazarus in der altchristlichen und byzantinischen Kunst, Druck, Bern
1955; J.S. Partyka, La résurrection de Lazare dans les monuments funéraires des nécropoles chré-
tiennes à Rome. (Peintures, mosaïques et décors des épitaphes). Étude archéologique, iconographique
et iconologique, Zakład Archeologii Śródziemnomorskiej PAN, Warszawa 1993 (Travaux du
Centre d’Archéologie Méditerranéenne de l’Académie Polonaise des Sciences 33).
73 Tertulliano, La risurrezione 53,3.
74 Cfr. Dassmann, Sündenvergebung, 283-289; Partyka, La résurrection de Lazare, 71-

74; 91-94; Dresken-Weiland, Immagine e parola, 178. Attingendo ancora una volta ai dati
forniti dalla studiosa tedesca, e limitandoci al caso del “miracolo” della fonte, si contano
trentadue progetti iconografici pittorici che associano tale prodigio alla risurrezione di Laz-
zaro e trentaquattro che fanno altrettanto su sarcofagi.
75 Damaso, Epitaffio per sé; presso il Cimitero di Marco e Marcelliano (ICUR, 4, 12418).

Cfr. Ferrua (ed.), Epigrammata Damasiana, 111-113.

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402 Il lessico tipologico

Di questa scena vorrei prendere in considerazione un solo elemento,


evidentemente dissonante dal dettato evangelico: la restituzione figura-
tiva della tomba di Lazzaro. Nel quarto Vangelo canonico si legge una
descrizione dettagliata del sepolcro che aveva raccolto il corpo dell’amico
di Gesù (Gv 11,38-39.41-44) e della scena che si anima durante il celebre
miracolo:
Intanto Gesù, ancora profondamente commosso, si recò al sepolcro; era una
grotta (spēlaion)76 e contro vi era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pie-
tra!» […]. Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre ti
ringrazio perché mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho
detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato».
E, detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, con i
piedi e le mani avvolti in bende e il volto coperto da un sudario.

Non sussiste alcun dubbio in merito alla configurazione che i redat-


tori del quarto Vangelo hanno voluto conferire a questo sepolcro eppure
l’iconografia cristiana antica stabilmente adotta un’altra configurazione:
La rappresentazione della tomba di Lazzaro, impropriamente detta «edico-
la», si discosta dal sepolcro di tipo palestinese descritto nel testo giovanneo (Gv
11,38) e ripete invece il modello monumentale degli edifici funerari romani a
tempio, come mostrano le cortine murarie stilizzate, le fenestrellae e gli acroteri
della tomba su alcune pitture77.

Il dato mi pare rilevante: benché di questo sepolcro fosse disponibile


una descrizione evangelica chiara, facilmente traducibile in immagini, la
committenza cristiana preferì sperimentare una soluzione figurativa dif-
forme, introducendo la configurazione “templare” della tomba di Lazzaro.

76 L. Morris, The Gospel according to John, Eerdmans, Gran Rapids (MI) 1971 (The New

International Commentary on the New Testament), 559, richiama giustamente l’uso del me-
desimo lessico in Mc 11,17 e in Eb 11,38. Era in ogni caso un tipo di sepoltura comune nella
Giudea dei tempi di Gesù, per lo più riservata alle persone più benestanti (cfr. E.M. Meyers -
J.F. Strange, Archaeology, the Rabbis, and Early Christianity, Abingdon, Nashville [TN] 1981,
97-98). Più di recente, cfr. R. Zimmermann, Modello nel vivere e nel morire (Il risuscitamento
di Lazzaro) Gv 11,1-12,11, in Id. (cur.), Compendio dei miracoli, 1025-1054, qui 1037-1039.
77 M. Guj, s.v. «Lazzaro», in Bisconti (cur.), Temi, 201-203, qui 202. A un’ampia disa-

mina della tipologia «a tempio» della tomba di Lazzaro è dedicato l’ottavo capitolo di Par-
tyka, La résurrection de Lazare, 60-69 («L’edicola funeraria di Lazzaro»).

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Figura 93: la risurrezione di Lazzaro. Particolare di fronte di sarcofago (Lateranen-


se 184), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 29, t. 139,1;
Rep. 1, 39). Primo terzo del IV secolo. Particolare di fronte di sarcofago, Musée de
l’Arles antique, Arles (Wp. 29, t. 152,5; Rep. 3, 34). Particolare di fronte di sarco-
fago (Lateranense 178), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 29,
t. 86,3; Rep. 1, 44). Primo terzo del IV secolo. Le immagini sono tratte da Pelizza-
ri, Dal battesimo al regno, 54, nota 32. Come mostrano le tre figure appena ripor-
tate, anche nelle diverse configurazioni della scena (con o senza il personaggio fem-
minile, con maggiore o minore spazio a disposizione, con diverso orientamento
ecc.), lo schema templare della tomba di Lazzaro viene per lo più rispettato.

Figura 94: la risurrezione di Lazzaro; testo epigrafico. Lastra marmorea graffita


proveniente dal Cimitero Maggiore e ora presso i Musei Vaticani, Lapidario cri-
stiano, Città del Vaticano (ICUR 1, 1587 = 8, 22407; cfr. anche Calcagnini, Mi-
nima Biblica, 2; Partyka, La résurrection de Lazare, numero 82). Pieno IV secolo.
L’immagine è tratta da H. Leclercq, s.v. «Lazare », in DACL 8,2, 2009-2086, qui
2031-2032, figura 7004. Anche la “lastra di Dato e Bonosa” – come numerose
altre, per la verità (cfr. Calcagnini, Minima Biblica, 6; 27; 43; 46; 49; 54; 56; 64;
71) – reca la raffigurazione del miracolo della risurrezione di Lazzaro: nonostan-
te l’evidente povertà stilistica di questo documento, la tomba del defunto amico
di Gesù è descritta con grande cura, con l’avvertenza di farne emergere il profilo
templare (cfr. Partyka, La résurrection de Lazare, numero 82 del catalogo).

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404 Il lessico tipologico

È necessario chiedersi se la scelta di rimarcare con tanta costanza


questo dettaglio possa essere ricondotta unicamente all’uso funerario
coevo – che pure, com’è evidente, ricorreva a questa tipologia sepolcra-
le monumentale solo in rari casi, per lo più espressione dei più alti stra-
ti sociali.
Se, infatti, come si è visto, la “riscrittura delle Scritture” praticata da
questa documentazione dev’essere correlata a un preciso intento seman-
tico perseguito con gli strumenti dell’ermeneutica, abitualmente tipo-
logica, e se, come già segnalato, questa scena venne recepita nel primo
immaginario cristiano per significare la condizione futura del creden-
te78, perché negare la possibilità che questa connotazione del sepolcro
di Lazzaro fosse dotata di una precisa intenzione? Non mi pare una for-
zatura postulare che questo dettaglio figurativo così caro al primigenio
immaginario cristiano rispondesse al desiderio di sottolineare anche il
nucleo religioso della professione di fede in Gesù, il Cristo: il cristiano
si incammina verso la propria risurrezione nello stesso momento in cui
decide di abbandonare gli idoli e il loro culto fasullo. Assunta questa
prospettiva, la matrice “templare” dei monumenti qui raffigurati non
potrà più essere intesa né soltanto né principalmente come il riflesso
di una pratica funeraria – minoritaria – romana, ma come un’esplici-
ta equazione tra la speranza che proviene dalla professione di fede e il
rifiuto degli idoli.

78 Wp. 29, tt. 139,1-4, non seguito dalla critica contemporanea (cfr. Partyka, La résur-

rection de Lazare, 53; era d’accordo con lo studioso tedesco Stuiber, Refrigerium interim,
185), segnala quattro casi in cui – a mio avviso persuasivamente – egli riconosce su altret-
tanti sarcofagi figure di Lazzaro dai tratti somatici femminili. Ove l’osservazione dello stu-
dioso tedesco fosse ricevuta, si tratterebbe di un’evidente sostituzione (subrogatio extrabibli-
ca, se si volesse rilanciare la categoria introdotta da Sotomayor, Una posible “ ley”), un caso
in cui l’attualità interviene forse bruscamente nel racconto biblico. È chiaro che questo ti-
po di rivendicazione (il credente sta di fronte a Cristo come Lazzaro, nutrendo la stessa aspet-
tativa di amicizia e di vita) non è pensabile fuori da una cultura esegetica fortemente tipolo-
gica: il presente della Chiesa – e, dunque, dei cristiani committenti di questi monumenti – è
l’interlocutore di quei testi e, nella coscienza di questi cristiani, ne è anche la realizzazione;
“confondere i piani”, come forse si direbbe oggi, o forse addirittura intersecarli del tutto, in
realtà non è una forzatura delle Scritture, ma un loro coerente utilizzo.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 405

5.2. L’ irruzione dell’attualità


Il caso brevemente richiamato ha voluto sottolineare il ruolo determi-
nante dell’attualità nell’impiego dei materiali scritturistici e nella gestio-
ne di quel repertorio di testimonia visuali che costituì il lessico di questa
primigenia tradizione figurativa cristiana.
Il “presente” della Chiesa, del resto, è una coordinata essenziale della
tipologia latina, per come l’ha descritta Jean Daniélou79: se la verità delle
Scritture è nel loro compimento profetico (nell’antitipo che era profetato dal
tipo) e se la Chiesa è antitipo al pari di Gesù, il Cristo, allora il presente
della Chiesa è verità delle Scritture. Da qui deriva anche il passo ulteriore:
se i credenti, con la loro vicenda, animano il presente della Chiesa, allora la
loro diviene storia sacra, compimento essa stessa delle profezie antiche.
Da qui l’orizzonte martirologico di molte costruzioni tipologiche di
questa tradizione visuale; da qui l’attualizzazione di molti racconti bibli-
ci; da qui anche l’intrusione di alcuni credenti nei racconti biblici.

Figura 95: il Buon Pastore; Giona gettato nelle fauci della pistrice; Giuliana,
nell’arca, riceve la colomba; tabula inscriptionis (cfr. ICUR 1, 1658); il paradiso;
il ritratto di Giuliana di fronte al parapetasma, il panneggio alle spalle della
defunta che ne significa abitualmente la dimora ultraterrena. Fronte di sarco-
fago, (Lateranense 236), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp.
29, t. 57,5; Rep. 1, 46; cfr. anche Pelizzari, Vedere la Parola, 114-116). Fine III
secolo-inizi IV. L’immagine è tratta da Garr. 5, t. 301,2. Ciascuna delle due
figure monumentali che stanno nei pannelli laterali di questo fronte – il Buon
Pastore e Giuliana – richiama la porzione del monumentale fregio centrale che

79 Vedi supra, pp. 189-197.

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406 Il lessico tipologico

non gli è prossima – e dunque, il Buon Pastore richiama il paradiso, Giuliana


il mare agitato. Si tratta di una sorta di chiasmo figurativo che ha come obiet-
tivo quello di rinsaldare l’unità progettuale di questo straordinario documento
iconografico: Giuliana, che si augura certo di far parte di quel gregge sicuro –
forse addirittura di essere quell’unica pecora sulle spalle del Pastore, mentre
viene ricondotta all’ovile – è tuttavia memore della traversata non semplice
della vita. E così il Buon Pastore, che vigila sulla vita delle pecore che gli sono
affidate, è d’altra parte indirizzato verso quel pascolo sicuro al quale ha condot-
to il suo piccolo gregge.

Figura 96: schema riassuntivo del progetto iconografico del fronte di sarcofago,
(Lateranense 236), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 29,
t. 57,5; Rep. 1, 46). Nel progetto di questo sarcofago, la vicenda umana, che
pure naturalmente si rispecchia nell’immagine del navigare in acque non sem-
pre pacifiche, diventa intarsio di temi biblici. Se, infatti, la colomba che annun-
cia la salvezza attesa sembra giungere a Giuliana – che l’aspetta nell’arca della
sua esistenza – proprio da quegli alberi che stanno dov’è il Buon Pastore, d’altra
parte anche lo stesso mare grosso in cui lei ha navigato è qui “redento” dall’im-
mersione del profeta Giona e dal suo sacrificio, quasi a dire che la vita – nella
quale si è vegliata la salvezza – è già stata consacrata dalla croce, che l’ha resa
pegno di risurrezione. Se Giuliana può ora prendere il posto di Noè è perché
questa antica cristiana rivendica di essere anche lei, con la sua vicenda umana
complessa, un frammento di profezia e, perciò, un frammento del compimento.
Opera qui forse anche la visione ultima di Ap 21,1, che, mentre mostra l’avven-
to della Gerusalemme celeste, annuncia che «il mare non c’era più». Anche nel
progetto iconografico di questo sarcofago, infatti, il giardino in cui il gregge
pascola sereno (si noti la postura della pecora che osserva Giuliana, forse anti-
cipatoria del Buon Pastore del Mausoleo di Galla Placida; vedi infra, figura 140)
ferma le acque del mare ai cui flutti impetuosi sostituisce lo scorrere dolce di
un ruscello, al quale alcune pecore si stanno abbeverando sicure.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 407

Figura 97: la defunta, nell’arca, riceve la colomba; il banchetto escatologico


davanti al parapetasma. Frammento di alzata di sarcofago, Collegio al Campo
Santo Teutonico, Roma (Wp. 32, t. 255,7; Rep. 1, 893; cfr. J. Fink, Noe der
Gerechte in der frühchristlichen Kunst, Böhlau, Münster - Köln 1955 [Beihefte
zum Archiv für Kulturgeschichte 4], 11, nota 41; 12, nota 44; 43, note 202-
203). Fine III secolo-inizi IV. L’immagine è tratta da Wp. 32, t. 255,7. In ma-
niera assai più succinta, questo frammento di alzata sviluppa un manifesto teo-
logico sovrapponibile a quello, affidato a un progetto iconografico ben più
raffinato, del sarcofago di Giuliana: anche qui la defunta, al posto di Noè, ri-
ceve la colomba (qui sì prioritariamente simbolo della salvezza battesimale: cfr.
R.P.J. Hooyman, Die Noe-Darstellung in der frühchristlichen Kunst: Eine christ-
lich-archäologische Abhandlung zu J. Fink: Noe der Gerechte in der frühchristli-
chen Kunst, in Vigiliae Christianae 12 [1958] 113-135) e questo le dischiude ora
il banchetto celeste. Le portate che Joseph Wilpert aveva ipotizzato nella sua
tavola sono ovviamente del tutto inverificabili, a eccezione dei pani, di cui resta
traccia nel frammento stesso; la postura del solo commensale superstite rende
plausibile anche la presenza del vino. Se questa coppia di alimenti fosse confer-
mata, si potrebbe pensare a un’evocazione della cena comunitaria come antici-
pazione del banchetto escatologico (sulla scorta di Mc 14,25 || Mt 26,29 || Lc
22,18). Se così fosse, nel frammento di questa alzata si dovrebbe riconoscere la
rilettura soteriologica dei due momenti fondamentali della prassi cultuale cri-
stiana delle origini: battesimo e cena. Si noti come i due pezzi ora osservati re-
cuperino ciascuno un aspetto di 1Pt 3,18-21 (« Anche Cristo è morto una volta
per sempre per i peccati […] per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne,
ma reso vivo nello spirito. E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli
spiriti che attendevano in prigione; essi avevano un tempo rifiutato di credere
quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbri-
cava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo
dell’acqua. Figura, questa, del battesimo, che ora salva voi»):
1. Il sarcofago di Giuliana, grazie all’associazione tra defunta / Noè e Giona
gettato nel ventre della pistrice (quest’ultima scena tipologia della morte
sacrificale del Cristo), richiama con evidenza la funzione ricapitolativa del-

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408 Il lessico tipologico

la passione e morte del Cristo (l’esito soteriologico di quell’immolazione


perfetta è infatti atteso sin da quando YHWH «pazientava nei giorni di
Noè»).
2. Il frammento ora osservato, d’altra parte, enfatizza, mi sembra, il valore bat-
tesimale della tipologia di Noè, qui osservato come preludio della partecipa-
zione al banchetto eucaristico, a sua volta osservato come compimento della
cena eucaristica.
Oltre all’espediente iconografico sperimentato, l’elemento che accomuna questi
due documenti, e che si pone in piena continuità con l’impostazione teologica
di 1Pt, è proprio l’ingresso a pieno titolo dell’attualità nella storia della salvezza.
Tale principio – enunciato in termini generali in 1Pt e declinato alla biografia
e alla sepoltura di due donne cristiane in questi sarcofagi – radicalizza gli idea-
li dell’“eredità” o del “mito di fondazione” eliminando la distinzione tra il
piano del prototipo e quello dell’esito. Se, infatti, l’eredità o il mito fondativo
si muovono su un piano necessariamente “altro” rispetto a quello dell’erede o
dell’identità costituita (gli uni sono esiti conclusi nel passato – storico o mitico
non cambia –, gli altri sono caratteri vivi del presente), non così avviene per la
storia che queste scelte figurative presuppongono: essa, infatti, nella coscienza
di questi cristiani continua a svolgersi, senza soluzione di continuità, proseguen-
do nella vicenda presente della Chiesa e, per suo tramite, nella biografia dei
singoli credenti.

L’attualità dei committenti di questa prima arte cristiana era dunque


un argomento che la Grundlogik tipologica attivò ermeneuticamente, at-
traverso una rilettura scritturistica della storia, tutta quanta reputata
ugualmente “santa”. Torna di nuovo attuale il Prologo della Passione di
Perpetua e Felicita che esplicitamente si interroga sull’efficacia degli «an-
tichi» e «nuovi esempi della fede», sorprendentemente concludendo che,
secondo il traboccare della grazia stabilito per il compimento dei tempi (se-
cundum exuberationem gratiae in ultima saeculi spatia decretam) 80, sono da
reputarsi più rilevanti (maiora) ‹gli esempi di fede› più recenti, perché sono gli
ultimi.

Il presente di quelle comunità e di quei cristiani era dunque percepito


quale capitolo privilegiato di quella stessa storia della salvezza il cui rac-
conto era stato affidato alle Scritture: la tipologia non era altro che lo

80 Passione di Perpetua e Felicita, Prologo 1,3.

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 409

strumento ermeneutico impiegato per dimostrare la piena appartenenza


del presente a quell’unica vicenda provvidenziale. In questo senso, la pri-
migenia cultura visuale cristiana non fa altro che raccogliere e documen-
tare questo radicale sistema di pensiero teologico.

---

Nel complesso, l’itinerario condotto sino a questo punto ha posto in


evidenza alcuni caratteri della tipologia visuale cristiana. Nello specifico
si è prestata attenzione a quattro coordinate:
1. La sua rilevanza quantitativa. Considerare l’ermeneutica visuale
delle origini cristiane potrebbe modificare, talora sensibilmente, la
percezione della storia dell’esegesi cristiana delle origini. La validi-
tà di questa constatazione, per altro, è sottolineata dal più ampio
spettro sociale da cui provenne e a cui fu rivolta la primigenia pro-
duzione figurativa cristiana. Attraverso questa fonte documentaria,
infatti, è possibile accedere a versanti delle origini cristiane – si pen-
si, per esempio, alle competenze esegetiche del populus ecclesiae –
sostanzialmente inaccessibili a ricostruzioni storiografiche basate
esclusivamente sul ricorso alla documentazione testuale.
2. La sua rilevanza qualitativa. La tipologia visuale non si limitò né a
raffigurare esiti ermeneutici elaborati in ambito letterario – si pen-
si al caso del miracolo delle ossa aride o a quello del nesso erme-
neutico tra Pietro e Mosè, tipologia verosimilmente introdotta in
ambito iconografico e solo successivamente recepita in letteratura –
né alla “misura” che in quel contesto documentario abitualmente
si osserva. L’“intensità” dell’ermeneutica tipologica visuale, infatti,
non di rado condusse ad autentiche riscritture dei testi biblici (si
pensi al caso della subrogatio): ciò che nel sistema tipologico stabi-
liva l’unitarietà dei Testamenti (il nesso tra tipo e antitipo), qui
radicalizzato e spinto sino alle estreme conseguenze, divenne l’oc-
casione di un’autentica appropriazione – talora anche biografica –
dei materiali biblici e di una loro riformulazione.

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410 Il lessico tipologico

3. La sua ampiezza tematica. Produzione “dal basso” delle comuni-


tà cristiane antiche, questa ricca documentazione figurativa non
di rado si sofferma su argomenti che, o del tutto assenti o univo-
camente discussi in ambito c.d. “patristico”, riscossero qui ampia
attenzione e spesso originale formulazione. Valse anche il contra-
rio: temi e argomenti sovrarappresentati nella documentazione
letteraria risultano qui o del tutto assenti o per lo meno margi-
nali. L’osservazione di questa produzione “artistica” pone neces-
sariamente la domanda: è sicuro che il ritratto storiografico
dell’agenda religiosa, ideale e teologica delle origini cristiane ri-
specchi fedelmente – o anche solo adeguatamente – le voci che
essa realmente contenne?
4. La sua attualità. La prima cultura visuale cristiana diede voce a
un’ideale religioso che, assumendo l’attualità della Chiesa come la
naturale prosecuzione della storia sacra narrata dalle Scritture, era
assolutamente incline a considerare queste ultime del tutto perme-
abili al presente cristiano. Nei disegni di queste pitture, tra i rilie-
vi di questa scultura, nei dettagli della glittica, dell’oreficeria e
della vetreria cristiane, le Scritture sfumano nelle pieghe di una
vicenda insieme corale e individuale, nutrita di attualità e che ri-
spetto a questa sente la necessità di saper pronunciare una parola
autorevole e ferma. Il presente del popolo di Dio è promosso qui a
tempo sacro, a tempo che può interloquire con le Scritture, senza
limitarsi più ad esserne semplicemente lo spettatore.
Vi è un ultimo elemento che mi pare urgente almeno evocare: l’effi-
cacia di questa cultura visuale. Si è già sottolineato che le prime imma-
gini cristiane non furono semplicemente ricettrici di una speculazione
“alta”, letteraria, prodotto di una “gerarchia” – se non ecclesiastica alme-
no intellettuale – che, di fatto, avrebbe ricalcato il confine dell’alfabetiz-
zazione, ponendo da una parte i pochi “autori” e dall’altra il ben più nu-
trito ma passivo pubblico degli “uditori”. L’ermeneutica visuale ha
infatti dimostrato la vivacità intellettuale e teologica di questo presuppo-

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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 411

sto “pubblico” che, in modo del tutto autonomo, frequentò le Scritture,


le interpretò secondo gli strumenti appresi nella liturgia (di qui la centra-
lità del modello tipologico) e le impiegò liberamente per affermare idee
(dalle personali aspettative soteriologiche a complessi assiomi teologici)
che dunque per lo più non trovano immediato o plausibile referente nel-
la coeva produzione c.d. “patristica” 81.
Il punto che ora vorrei richiamare è ancora ulteriore. Come già altro-
ve sottolineato 82 e come più volte emerso dall’analisi della documenta-
zione qui considerata, non di rado questa cultura visuale si rivelò a tal
punto incisiva sulla coscienza collettiva – identitaria, religiosa, teologica –
di questi gruppi da condizionarne la produzione letteraria. Dunque non
solo le immagini non furono subalterne ai testi, non solo furono autono-
me nell’elaborazione del proprio messaggio, ma talora furono esse la ma-
trice di quella materia che, successivamente e in modo subalterno, venne
recepita in letteratura.

L’originalità di questa documentazione risulterà con ancor maggiore efficacia nel ca-
81

pitolo dedicato all’analisi di alcuni progetti iconografici (nella prossima Sezione). Se infat-
ti già ora, avendo concentrato l’attenzione sui caratteri generali dell’ermeneutica visuale pa-
leocristiana (sia ideali, rispetto alla sua Grundlogik, sia attuali, rispetto al suo Grundgesetz),
si è potuto avere un saggio dell’autonomia di questa produzione figurativa, d’altra parte sarà
con l’analisi di singoli documenti, considerati nella loro integrale costituzione progettuale,
che l’originalità dell’eleborazione teologica di questa fonte potrà emergere ancor più distin-
tamente. Quanto appena asserito equivale, in ambito letterario, ad affermare, per esempio,
che altro è descrivere introduttivamente i principi che nel complesso connotarono l’esegesi
alessandrina, altro è osservarne concretamente l’applicazione in un certo commentario di
Origene, o la loro sopravvivenza nell’opera di Eusebio ecc.
82 Mi limito a rinviare ancora a due mie ricerche dove la questione è più ampiamente

considerata: Dal battesimo al regno, e Vedere la Parola, 62-72, dove alcuni casi di studio so-
no descritti e dove più ampi riferimenti bibliografici sono riportati.

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I MODELLI COMPOSITIVI
DELLA PIÙ ANTICA DOCUMENTAZIONE VISUALE
CRISTIANA

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I.

L’IMPORTANZA DEL “PROGETTO ICONOGRAFICO”.


SCRITTURE, IMMAGINE ED ERMENEUTICA

L’itinerario compiuto credo permetta di cogliere l’insidiosità di un


pregiudizio critico che ancora riaffiora negli studi sulla prima produzio-
ne visuale cristiana: l’ipotesi che i diversi documenti in essa realizzati si
limitino a declinare gallerie di “paradigmi di salvazione”, sostanzialmen-
te equivalenti1.
La ricerca di un unitario Grundprinzip per questa iconografia 2 – per
lo più riconosciuto nell’augurio di salvezza o, al limite, in casi di partico-
lare “benevolenza critica”, nella speculazione soteriologica – non di rado
ha condotto la ricerca a considerare il primo lessico iconografico paleo-
cristiano come una sorta di antologia biblica di vicende di riscatto e sal-
vezza, analoghe dal punto di vista semantico e dunque interscambiabili
nell’uso. A questo repertorio paradigmatico, gli artigiani che realizzarono
i diversi monumenti cristiani avrebbero di volta in volta attinto senza se-
guire una particolare ratio contenutistica, ma limitandosi ad affastellare

Questo approccio di fatto porta a considerare “descritto” il documento visuale del qua-
1

le si siano riconosciuti i diversi soggetti raffigurati. La domanda circa le ragioni che avreb-
bero orientato tanto la scelta dei temi (su questo specifico argomento, cfr. però J.
Dresken-Weiland, Société et iconographie. Le choix des images des sarcophages paléochrétiens
au IVe siècle, in M. Galinier - F. Baratte [éds.], Iconographie funéraire romaine et société: Cor-
pus antique, approches nouvelles?, Presses universitaires del Perpignan, Perpignan 2013 [Hi-
stoire del l’art 3], 247-257) quanto la loro concreta disposizione su ciascun monumento vie-
ne considerata, quando posta, sostanzialmente fuorviante. Poiché al documento viene
attribuita una funzione semplice – formulare per il defunto il generico auspicio di avere ac-
cesso alla salvezza promessa dal Cristo ai suoi discepoli –, il presupposto di una ragione spe-
cifica per la scelta dei costituenti iconografici di ciascun monumento e per la loro configu-
razione complessiva viene reputato un sovraccarico interpretativo arbitrariamente imposto
a questi prodotti visuali.
2 Vedi supra, pp. 147-148.

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416 I modelli compositivi

teorie più o meno nutrite di questi exempla salvationis, rispettando solo


la disponibilità di spazio e di risorse economiche su cui avrebbero potuto
contare.

---
Excursus
L’Ordo commendationis animae

Vi è un testo eucologico che, a far seguito dagli studi di Edmond Le Blant 3,


è abituale vedere citato per “giustificare” questo approccio critico alla prima
tradizione visuale cristiana: l’Ordo commendationis animae (quando infirmus est
in extremis) del Messale Romano.
Si tratta di un rituale che, dopo una lunga litania inaugurata dalla ripeti-
zione delle invocazioni Kyrie eleēson e Christe eleēson 4, contiene un’orazione (la
terza) che si dilunga in una serie di quindici suppliche. La prima, con valore di
prologo, chiede: «Ricevi il tuo servo, o Signore, nel luogo della sua auspicata
salvezza, ‹che gli proviene› dalla tua misericordia». Dalla seconda alla quindi-
cesima invocazione, si ripete la formula: «Libera, o Signore, la sua anima (Li-
bera, Domine, animam eius)», e, dalla terza in poi, viene declinato un elenco di
tredici “paradigmi – questi sì – di salvazione” («Libera, o Signore, la sua anima,
come hai liberato… [Libera… sicut liberasti…]»):
1. Enoc ed Elia «dalla morte tipica di questo mondo»;
2. Noè «dal diluvio»;
3. Abramo «da Ur dei Caldei»;
4. Giobbe «dalle sue afflizioni»;
5. Isacco «dal sacrificio e dalla mano di suo padre, Abramo»;
6. Lot «da Sodoma e dalla fiamma del fuoco»;

3 Cfr. Le Blant, Étude sur les sarcophages chrétiens antiques, XXVI-XXXIX. Queste pagine

verranno riedite in Id., Les bas-reliefs des sarcophages chrétiens et les liturgies funéraires, in Re-
vue Archéologique 38 (1879) 223-241, qui 229-230, che, di fatto, ripubblica la sezione con-
clusiva dell’Introduzione della sua più nota ricerca sui sarcofagi paleocristiani di Arles.
4 Nella sua costituzione finale, l’Ordo propone, dopo introito breve e aspersione, una

lunga litania dei santi – aperta e chiusa da Kyrie e Christe eleēson – a cui seguono sette ora-
zioni e le preghiere «in expiratione ». In generale cfr. L. Gougaud, Étude sur les Ordines Com-
mendationis Animae, in Ephemerides Liturgicae 49 (1935) 3-27.

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L’ importanza del “progetto iconografico” 417

7. Mosè «dalla mano del Faraone, re degli Egiziani»;


8. Daniele «dalla fossa dei leoni»;
9. I tre fanciulli «dalla fornace del fuoco e dalla mano del re iniquo»;
10. Susanna «dal falso crimine»;
11. Davide «dalla mano del re Saul e dalla mano di Golia»;
12. Pietro e Paolo «dalle carceri»;
13. «la beatissima Tecla, vergine e martire, dai terribili tormenti».
I sei casi segnalati in corsivo corrispondono ad altrettanti temi della prima
iconografia cristiana5; paralleli a questo formulario si rinvengono sia in ambito
epigrafico sia in ambito letterario 6. Con la valorizzazione dell’Ordo commenda-
tionis animae si ritenne di aver finalmente trovato la matrice della prima cultu-
ra visuale cristiana (e, con essa, il Grundprinzip di questa tradizione figurativa):
una raccolta di prototipi della salvezza eterna accordata da YHWH. Era del resto
una conclusione piuttosto semplice da trarre: una preghiera funeraria avrebbe
ispirato un’“arte” funeraria.
L’ipotesi di Edmond Le Blant venne “consacrata” negli studi dal Manuale
di Henri Leclercq, il quale citava l’Ordo tra le “influenze giudaiche” della prima

Anche la vicenda di Tecla è protagonista di innumerevoli restituzioni visuali (cfr. S.J.


5

Davis, The Cult of Saint Thecla: A Tradition of Women’s Piety in Late Antiquity, Oxford Uni-
versity Press, Oxford - New York [NY] 2001 [The Oxford Early Christian Studies]; A. van
den Hoek - J.J. Hermann, Thecla the Beast Fighter: A Female Emblem of Deliverance in Ear-
ly Christian Art, in Iid., Pottery, Pavements and Paradise. Iconographic and Textual Studies
on Late Antiquity, Brill, Leiden - Boston [MA] 2013 [Vigiliae Christianae, Supplements
122], 65-106; G. Pelizzari, La discepola ribelle. Tecla di Iconio nel ciclo agiografico degli Atti
di Paolo, Paoline, Milano 2017 [Saggistica Paoline 79]); d’altra parte la sua vicenda non co-
stituì mai un tema – o un ciclo definito – iconografico di particolare successo; per questa
ragione, nell’elenco dei paradigmi dell’Ordo l’ultimo non è stato segnalato in corsivo.
6 Per i materiali epigrafici cfr. ancora Le Blant, Étude sur les sarcophages chrétiens antiques,

XXI-XXVI (= Id., Les bas-reliefs, 223-228). Per il resto, cfr. Prigent, L’arte dei primi cristiani,
223-236, che richiama, per esempio, due controverse Orazioni pseudo-ciprianee (cfr. ivi,
225-228; cfr. anche W. Hartel [ed.], Cyprianus [Pseudo-Cyprianus], Opera omnia, 3: Ope-
ra spuria, Österreichischen Akademie der Wissenschaften, Wien 1871 [Corpus Scriptorum
Ecclesiasticorum Latinorum 3,3], 144-151; cfr. anche J. Ntedika, L’ évocation de l’au-delà
dans la prière pour les morts: Étude de patristique et de liturgie latines (IVe-VIIIe siècle), Nau-
welaerts, Louvain - Paris 1971 [Recherches Africaines de Théologie 2]); alcuni testi marti-
rologici però tardivi (Martirio di Eusebio; Atti di Anania e Pietro 13; Passione di Filippo 12);
Costituzioni apostoliche 5,7,2 (ma qui il contesto è diverso: nel passo delle Costituzioni ven-
gono, infatti, enumerate tipologie della risurrezione); Gregorio di Nazianzo, Orazione 24
10, ecc.

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418 I modelli compositivi

“arte” cristiana 7, presupponendo una – remota – matrice midrashica per la pre-


ghiera sulla quale il direttore dell’École Française de Rome aveva per primo
attirato l’attenzione.
Da allora il parallelo tra il primo immaginario cristiano e la terza orazione
dell’Ordo – che ha nella coppa di Podgorica un suo caposaldo argomentativo 8
– è divenuto una sorta di “rubrica fissa” degli studi, di volta in volta rilanciata
per suffragare l’assioma critico che nega la possibilità di riconoscere in questa
tradizione visuale significati ulteriori al generico auspicio di salvezza per i cri-
stiani defunti.
Ciò posto, è però necessario dire che il punto debole di questo presupposto
critico è drammaticamente evidenziato dalla cronologia della preghiera 9. L’Or-
do, infatti, non può essere fatto risalire a prima del IV secolo (avanzato), come
prova anche la presenza delle invocazioni iniziali Kyrie eleēson e Christe eleēson,
la cui comparsa è in Oriente, nella liturgia delle Chiese di Antiochia e di Ge-
rusalemme, non prima della metà del IV secolo10. Nel complesso, infatti, no-
nostante l’appassionata difesa di Pierre Prigent, di fatto non c’è modo né di
documentare una retrodatazione al III secolo (o addirittura al II, se si accetta
la proposta cronologica qui avanzata per gli albori della produzione visuale cri-

Cfr. H. Leclercq, Manuel d’archéologie chrétienne depuis les origines jusqu’au VIIIe siècle,
7

Letouzey et Ané, Paris 1907, 1, 110-111. La discussione della matrice giudaica occupa ivi le
pagine 103-126.
8 Vedi infra, pp. 461-462. Vanno ovviamente citati anche i paralleli della “coppa di Co-

lonia” (Morey, The Gold-Glass Collection, 347) e della coppa di Homblières (ivi, 349), en-
trambe ora al British Museum di Londra (vedi infra, pp. 463-465). A queste si può associa-
re anche il fondo di piatto vitreo a figure d’oro conservato alla Pusey House di Oxford
(Morey, The Gold-Glass Collection, 366), tutte posteriori al IV secolo.
9 Lo rilevano lucidamente Le Blant, Étude sur les sarcophages chrétiens antiques, XXVII, Le-

clercq, Manuel d’archéologie chrétienne, che perciò tenta di risalire alla matrice giudaica, e anche
Prigent, L’arte dei primi cristiani, 223-224, ma lo denuncia apertamente solo Finney, The Invisible
God, 283-284: «La cronologia è ancora il principale problema critico. Nessuna delle preghiere
di petizione, funerarie o non funerarie, può essere datata prima del IV secolo, al più presto.
Perciò non può esserci alcuna prova positiva di una connessione storica tra l’iconografia funeraria
[…] e le preghiere di petizione basate su paradigmi biblici». Sulla genesi delle «tradizioni litur-
giche dell’assistenza ai malati», cfr. Metzger, L’Église dans l’Empire Romain, 2: Les célébrations,
608-619, che però purtroppo non prende in considerazione l’Ordo commendationis animae.
10 Cfr. M. Righetti, Manuale di storia liturgica, 3: L’eucarestia: sacrificio, messa e sacra-

mento, Ancora, Milano 1949, 170-174; cfr. anche A. Nocent, Storia della celebrazione dell’eu-
caristia, in S. Marsili et alii (cur.), Anàmnesis, 3,2: La liturgia, i sacramenti. Eucaristia: teo-
logia e storia della celebrazione, Marietti, Genova - Milano 19892, 179-270, in part. 203;
217-223; McGowan, Il culto cristiano dei primi secoli, 241-242.

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L’ importanza del “progetto iconografico” 419

stiana)11 della terza orazione dell’Oratio né di rintracciare fonti eucologiche


funerarie cristiane così risalenti – che al momento non sono state rinvenute, ma
solo induttivamente presupposte (e ricercate).
D’altra parte, a me sembra che sia l’impostazione complessiva di questo di-
battito a scontare un vizio d’origine: ne sono discutibili, infatti, sia il presuppo-
sto metodologico (trovare il testo da cui dipendono le immagini) sia l’univocità
del senso (poiché sussistono evidenti somiglianze tra una preghiera del IV se-
colo e l’immaginario che già si ritrova sostanzialmente consolidato sin dagli
esordi del III, allora il testo eucologico deve aver recepito fonti – letterarie, ça
va sans dire – ben più antiche) sia l’effettiva prossimità tra la terza orazione
dell’Ordo e il primigenio immaginario cristiano (solo sei su tredici “paradigmi
di salvazione” dell’orazione sono condivisi con la prima iconografia cristiana e
tra questi mancano – alcuni tra – i più diffusi: per esempio Giona…).
La soluzione non può ovviamente essere quella di trascurare l’Ordo commen-
dationis animae e gli evidenti punti di contatto che lo accostano all’immaginario
cristiano delle origini, ma semplicemente quella di riconsiderarne il ruolo e la
“posizione”, si licet, di fronte a quella tradizione iconografica. Si può, in altri ter-
mini, affermare che l’Ordo echeggi – anziché fondare – la più antica cultura vi-
suale cristiana, tale ricezione essendo stata plausibilmente favorita dalla comune
struttura tipologica dell’ermeneutica liturgica e di quella visuale paleocristiane.
Insomma: l’Ordo commendationis animae non mi sembra possa restituirci
una fonte – tanto meno il prototipo – del primo immaginario cristiano, ma
piuttosto un esito di quest’ultimo; la riprova, cioè, non della subalternità di
queste immagini rispetto a quei testi, ma dell’efficacia che questa cultura visua-
le esercitò nel plasmare la coscienza cristiana delle origini, condizionando talo-
ra la redazione di quei materiali letterari che di essa furono il prodotto.
D’altra parte, superando l’ipotesi di un rapporto diretto tra l’Ordo e la prima
produzione visuale cristiana – ipotesi sulla quale la ricerca si è soffermata in
modo pressoché esclusivo –, sussiste anche un’altra possibilità critica, che forse
merita di essere menzionata.
Si è già fatto riferimento a diverse antiche preghiere (in particolare quelle
di Terzo libro dei Maccabei 6,2-15 e di Costituzioni apostoliche 7,37)12, del tut-

Vedi supra, pp. 201-237.


11

Vedi supra, p. 207, nota 22. Il Terzo libro dei Maccabei viene abitualmente datato al
12

I secolo a.e.v. (cfr., per il contesto storico di questo libro, S.R. Johnson, Historical Fictions

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420 I modelli compositivi

to estranee all’ambito funerario, costruite secondo la forma dell’“invocazione


per prototipi”. In esse, infatti, vengono evocati esempi13 della benevola prote-
zione accordata da YHWH in tempo di persecuzione («Re di grande potenza,
Dio altissimo, Onnipotente, che governi misericordiosamente tutto il creato,
guarda la discendenza di Abramo, o Padre, i figli del santo Giacobbe, popolo
del tuo resto, che periscono come forestieri in terra straniera»; e, dopo una ric-
ca casistica, il testo conclude con l’invocazione: «E ora, tu che detesti l’inso-
lenza, misericordioso e protettore di tutti, rivelati subito ai figli d’Israele, ol-
traggiati dalle genti senza Legge»)14 o dell’ascolto e del favore con cui accoglie
le offerte dei suoi figli («Tu che hai adempiuto le promesse fatte per mezzo dei
profeti, tu che provasti misericordia per Sion, tu che hai avuto compassione
per Gerusalemme, esaltando in essa, con la nascita di Cristo, il trono di Davi-
de, tuo servo, […] accogli ora le suppliche del tuo popolo […] come già acco-
gliesti i doni dei giusti nelle generazioni antiche» segue una ricca casistica
esemplificativa)15.
L’“invocazione per prototipi”, dunque, assunta sin qui come tratto saliente
dell’Ordo commendationis animae non è una forma eucologica introdotta dalla
preghiera del Messale Romano, ma va fatta risalire a modelli assai più antichi,
verosimilmente abbozzati già entro le tradizioni giudaiche del Secondo Tempio
e, da lì, assorbiti progressivamente – e diffusamente – nella prassi liturgica di
diverse tradizioni cristiane (le Costituzioni apostoliche vengono attribuite all’am-
bito antiocheno; l’Ordo commendationis animae, anch’esso, a mio avviso, da
ascrivere a questa tradizione, è di ambito romano). Emergono due dati:

and Hellenistic Jewish Identity: Third Maccabees in Its Cultural Context, University of Cali-
fornia Press, Berkeley [CA] - Los Angeles [CA] - London 2004 [Hellenistic Culture and
Society 43], per la datazione 129-141). Le Costituzioni apostoliche sono un’antologia di ma-
teriali canonico-liturgici d’uso ecclesiastico raccolta al più tardi entro il 380, ma composta
di documenti riconducibili a epoche ben più risalenti. In particolare, il libro settimo ripor-
ta, tra i capitoli 33 e 45, materiali eucologici di cui è stata osservata l’affinità con preghiere
giudaiche ed ebraiche (si tratta dunque di una sezione plausibilmente ben più antica del IV
secolo; sul settimo libro, cfr. C.N. Jefford, Power and Tradition in Apostolic Constitutions 7,
in D.V. Meconi [ed.], Sacred Scripture and Secular Struggles, Brill, Leiden - Boston [MA]
2015 [The Bible in Ancient Christianity 9], 62-84; sulla struttura compositiva delle Costi-
tuzioni apostoliche, cfr. E.M. Synek, Die Apostolischen Konstitutionen: ein «christlicher Tal-
mud» aus dem 4. Jh., in Biblica 79 [1998] 27-56).
13 Tra i quali vi è sempre anche Giona.
14 Terzo libro dei Maccabei 6,2-3.9.
15 Costituzioni apostoliche 7,37.

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L’ importanza del “progetto iconografico” 421

1. Il nucleo originale di questa forma eucologica era tipologico (e questo sì


fu un carattere condiviso dalla primigenia tradizione visuale cristiana).
2. La destinazione originale di queste preghiere non era funeraria (se dun-
que un tratto caratteristico dev’essere assegnato all’Ordo commendationis
animae, dunque, esso deve essere l’aver trasportato questa forma eucolo-
gica nella prassi funeraria; l’ambito semmai in cui queste invocazioni si
svilupparono fu “proto-martirologico” [Terzo libro dei Maccabei]).
Si profilano dunque due soluzioni: o, come detto, mantenendo un riferi-
mento esclusivo tra Ordo commendationis animae e iconografia paleocristiana,
si avanza l’ipotesi di una dipendenza del primo dalla seconda; oppure, dilatan-
do lo spettro critico a questa intera forma eucologica, si suppone che essa abbia
influito sia sulla prima tradizione visuale cristiana (per la fortuna liturgica di
queste preghiere) sia sulla genesi dell’Ordo (per via di dipendenza testuale).
Ciò che credo si possa ricavare è il rilancio della matrice tipologica, vera in-
tersezione tra questa forma eucologica e il primo immaginario cristiano, e la
decadenza del modello del “paradigma di salvezza” offerto al defunto. I tipi
biblici che in queste preghiere vengono rubricati (secondo il meccanismo delle
raccolte di testimonia) non necessariamente vengono spesi per annunciare la
salvezza ultraterrena, ma si prestano ai più diversi impieghi teologici: dalla de-
signazione del martire (il testimone osteggiato dal secolo che YHWH difende)
alla definizione della Chiesa (colei che innalza il sacrificio gradito a Dio).

---

Se si abbandona il fragile riferimento all’Ordo commendationis animae,


quel che resta del presupposto menzionato più sopra configura un ap-
proccio sostanzialmente pregiudiziale all’“arte” dei primi cristiani, che
non di rado finisce per tradursi in un atteggiamento rinunciatario soprat-
tutto di fronte alla possibilità di descrivere il progetto iconografico che
di volta in volta organizza la morfologia di questi più antichi documenti
visuali cristiani16.

16 Lo specifico riferimento al progetto iconografico si motiva per via del fatto che l’ipote-

si stessa della sua esistenza risulta credibile solo nella misura in cui non si postuli né l’equiva-
lenza semantica dei diversi temi iconografici cristiani né l’univoca finalizzazione di questa pro-

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422 I modelli compositivi

Ma cosa induce a confidare nell’esistenza di una progettualità a mon-


te di queste associazioni?
Preliminarmente, e da un punto di vista puramente metodologico, è
d’obbligo ricordare che ogni dismissione documentaria (il considerare
tracce del passato in tutto o in parte irrilevanti) è “onerosa” per il critico:
gli “costa”, cioè, una valida motivazione. In altri termini: non si dovreb-
be essere chiamati a dar ragione della scelta di ricercare un’interpretazio-
ne che valorizzi più ampiamente il documento; semmai se ne dovrebbe
spiegare la svalutazione.

Figura 98: l’agnello moltiplica i pani. Pittura della lunetta minore del c.d. “cu-
bicolo di Leone”, Catacomba di Commodilla, Roma (Nestori, Com5). 375-380.
L’immagine è tratta da Pelizzari, Vedere la Parola, 189, figura 83. Questa piccola
pittura, che decora la lunetta dell’intradosso del “cubicolo di Leone” di Commo-
dilla – una sorta di nicchia (cfr. J.G. Deckers - G. Mietke - A. Weiland, Die Ka-
takombe “Commodilla”. Repertorium der Malereien mit einem Beitrag zu Geschichte
und Topographie von Carlo Carletti, PIAC, Città del Vaticano 1994 [Roma Sot-
terranea Cristiana 10], 3, tavola RC Com. 5,3), forse predisposta per il culto mar-
tiriale –, replica un sintetico progetto iconografico che campisce già uno spazio
tra gli intercolunni del registro inferiore del c.d. “sarcofago di Giunio Basso”.

duzione monumentale (l’auspicio di salvezza). Se, al contrario, si riconosce che i diversi


testimonia visuali espressero significati caratteristici e se pare lecito ipotizzare una diversifica-
zione nell’intento argomentativo dei diversi documenti figurativi paleocristiani (il fregio di
un sarcofago; l’apparato pittorico di un arcosolio; la decorazione aurea di un vetro ecc.), allo-
ra ha senso presupporre che gli strumenti con cui tale diversificazione venne espressa siano
stati: 1. la scelta dei temi da raffigurare su ciascun monumento e, soprattutto, 2. l’organizza-
zione della disposizione che avrebbero assunto. Proprio attraverso selezione e disposizione
dell’apparato figurativo di ciascun monumento paleocristiano si poteva precisarne l’ambito
argomentativo e fissare quelle connessioni ermeneutiche tra i diversi testimonia visuali in esso
impiegati, attraverso le quali si sarebbe sviluppato il manifesto di ciascun documento.

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L’ importanza del “progetto iconografico” 423

Figura 99: l’agnello moltiplica i pani. Particolare del c.d. “sarcofago di Giunio
Basso” del 359. Museo del Tesoro di San Pietro, Città del Vaticano (Wp. 29, t.
13; Rep. 1, 680). L’immagine è tratta da H. Leclercq, s.v. «Pain», in DACL 13,1,
436-461, qui 452, figura 9368. Si osserva in questo singolare gruppo l’associa-
zione – evidentemente di natura tipologica – tra la figura dell’agnello e il mira-
colo della moltiplicazione dei pani. Ovviamente il significato di questo proget-
to si determina prioritariamente attraverso la tipologia Cristo-agnello che ha un
chiaro significato escatologico, come la simbolica dell’Apocalisse giovannea
apertamente dichiara (cfr. M.R. Hoffmann, The Destroyer and the Lamb: The
Relationship between Angelomorphic and Lamb Christology in the Book of Reve-
lation, Mohr, Tübingen 2005 [Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen
Testament 203], 113-147). D’altra parte si tratta di un’immagine che ricorre già
nelle prime lettere dell’epistolario paolino autentico (cfr. 1Cor 5,6), che strut-
tura la cristologia del quarto canonico (cfr. Gv 1,29.36) e che, ovviamente, as-
sume un ruolo decisivo in vista della Pasqua sacrificale del Cristo (cfr. Gv 19,36;
1Pt 1,19). Dunque questo sintetico progetto iconografico attribuisce al Cristo
escatologico – raffigurato in quanto agnello sacrificale, compimento delle Scrit-
ture (cfr. Es 12; Is 53,7; Ger 11,19 ecc.) – l’azione del miracolo della moltipli-
cazione dei pani. Tale associazione, ovviamente significativa di per sé, moltipli-
ca il suo potenziale semantico se si riconosce la funzione liturgica (eucaristica
o legata al refrigerium) dell’intradosso sul quale si apre questa nicchia: quel
miracolo si ripete di nuovo per i credenti. Questo, d’altra parte, non è nemme-
no l’ultimo livello di lettura che questo progetto iconografico consente di per-
correre. Come esplicitamente annotato sin dalla prima documentazione lette-
raria cristiana, tanto il banchetto eucaristico (cfr. 1Cor 11,26; Lc 22,17)
quanto il luogo della sepoltura dei martiri (cfr. Ap 9,10) attribuiscono costitu-
tivamente alla prima ritualità cristiana evidenti caratteri escatologici. La lunet-
ta dell’intradosso del c.d. “cubicolo di Leone” esalta efficacemente tale conno-
tazione, evocando il miracolo che meglio di ogni altro rinvia alla cultualità
cristiana del banchetto sacro (cena eucaristica e refrigerium) tramite una raffi-
gurazione del Cristo-agnello, tipologia del suo sacrificio pasquale e del prossimo
trionfo apocalittico. Il caso esaminato può essere ridotto a un decoro inciden-
tale? La progettualità iconografica che si è ora evocata può essere considerata
una sovrastruttura estranea al documento e alla sua finalità? Ovviamente sì, ma

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424 I modelli compositivi

se la soluzione alternativa alla spiegazione fornita in questa sede si limita a sot-


tolineare l’originale variatio iconografica che in questa lunetta si riscontra, elu-
dendo la domanda relativa alle ragioni di tale intervento figurativo, essa si di-
mostra una risposta incapace di comprendere interamente il documento.

Passando ora alla mera constatazione obiettiva, vorrei richiamare per


prima cosa la corrispondenza contestuale: si sono sottolineati i moltepli-
ci parallelismi tra le raccolte di testimonia letterarie e le raccolte di testi-
monia visuali. Tale analogia coinvolge tanto i rispettivi lessici quanto la
loro concreta applicazione. L’ipotesi di un progetto iconografico erme-
neutico (tipologico) favorisce una migliore contestualizzazione di questa
documentazione. In secondo luogo, il fatto che alcuni progetti si ripeta-
no rende possibile ipotizzare che alcune elaborazioni contenutistiche fu-
rono riconosciute particolarmente significative e, perciò, vennero repli-
cate. Ben difficilmente si potrebbe giustificare una simile circostanza se
il nucleo contenutistico di questi documenti non fosse altro che l’espres-
sione della generica fiducia di sperimentare la stessa salvezza già cono-
sciuta dai diversi protagonisti dei racconti biblici.

Figura 100: sarcofago in alto. Registro superiore: la risurrezione di Lazzaro;


imago clipeata del sole; in cielo, un angelo suona il corno (cfr. l’analoga scena
del sarcofago Rep. 4, 64; Sotomayor, Sarcófagos romano-cristianos de España,
147-156; altri studiosi propongono una protome del vento); Pietro fa scaturire

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L’ importanza del “progetto iconografico” 425

acqua dalla roccia; arresto di Pietro; il Buon Pastore custodisce le pecore in un


ovile (di foggia templare? basilicale?). Registro inferiore: un pescatore riceve gli
attrezzi per pescare; Giona viene gettato nelle fauci del mostro; Noè riceve la
colomba; Giona viene rigettato dal mostro sulla spiaggia; il riposo di Giona (tra
animali impuri; si distinguono chiocciole, lucertole e granchi); il pescatore pe-
sca numerosi pesci. Fronte del c.d. “sarcofago di Giona” (Lateranense 119),
Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 29, t. 9,3; Rep. 1, 35).
Fine III secolo. Sarcofago in basso: il Buon Pastore; Giona viene gettato nelle
fauci del mostro; in cielo, due angeli suonano il corno (cfr. ancora il parallelo
del sarcofago Rep. 4, 64; Sotomayor, Sarcófagos romano-cristianos de España,
147-156; protomi dei venti?); il pescatore pesca dal mare di Giona; un edificio
(di foggia templare? basilicale?); Giona viene rigettato dal mostro sulla spiaggia;
il riposo di Giona; il Buon Pastore. Fronte del c.d. “sarcofago di Giona”, Ny
Carlsberg Glyptotek, Copenaghen (Wp. 29, t. 59,3; Rep. 2, 7). Fine III secolo.
L’immagine riporta il confronto fra due sarcofagi (accostando le rispettive ta-
vole di Joseph Wilpert), entrambi di officina romana (il Lateranense 119 è sta-
to rinvenuto «in Vaticano» [Bosio, 103]; il sarcofago della Ny Carlsberg Glyp-
totek è stato trovato, sempre a Roma, presso Porta Angelica, lungo le mura
leonine), l’uno destinato alla sepoltura di un adulto, l’altro a quella di un bam-
bino (il sarcofago vaticano misura due metri e trentatré centimetri di lunghez-
za; quello di Copenaghen un metro e venticinque; in figura le immagini sono
riportate nella stessa scala). Com’è stato abbondantemente osservato dalla cri-
tica, il sarcofago più piccolo riprende – sia semplificando, per il minor spazio,
sia leggermente modificando (si osservi la sostituzione dei due pescatori con
altrettante figure del Buon Pastore e, di fronte all’edificio monumentale, del
pescatore al posto del Buon Pastore) – il progetto iconografico del Lateranen-
se 119 (vi è chi ha ipotizzato di riconoscere una terza ripresa di questo pro-
getto iconografico nel sarcofago del British Museum di cui si parlerà infra,
pp. 443-445). I due sarcofagi presentati nell’ultima immagine stanno senz’altro
ai vertici della produzione “artistica” paleocristiana. Soprattutto il Lateranense
119 è giustamente riguardato come uno degli esercizi più pregevoli di tutta la
plastica cristiana di età precostantiniana. André Grabar (L’arte paleocristiana
(200-395), Feltrinelli, Milano 1967 [Il mondo della figura], 142) sottolinea ef-
ficacemente l’incisività della resa “pittorica” di questo celebre monumento: «La
facciata di qualche sarcofago di quest’epoca è un vero quadro: […] il sarcofago
n. 119 del Museo del Laterano offre il migliore esempio del genere. Alcuni temi
iconografici […] vi sono sapientemente intrecciati in funzione della composi-
zione generale, che ne risulta pittoricamente unitaria. Se su altri sarcofaghi pre-
dominano ricerche di tipo architettonico, qui è evidente una ricerca di conti-
nuità spaziale». Il convincente risultato stilistico di questo monumento rende
facilmente presumibile l’impiego di maestranze particolarmente perite e docu-
menta, di conseguenza, una committenza particolarmente facoltosa.

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426 I modelli compositivi

Figura 101: il pescatore e il pastore. Bassorilievo, Landesmuseum Mainz. IV


secolo. L’immagine è tratta da H. Leclercq, s.v. « Mayence », in DACL 11,1, 24-
33, qui 27-28, figura 7854. L’esempio appena riportato documenta la prossimi-
tà ideale tra le due simbologie (del pescatore e del pastore) sulla cui alternanza
si costituiscono le differenze progettuali dei due “sarcofagi di Giona” ora presi
in esame. Basti la sintetica descrizione che diede Joseph Wilpert del piccolo
sarcofago di Copenaghen: «La fronte ‹del sarcofago della Ny Carlsberg Glyp-
totek› mostra una copia, in parte molto ridotta e semplificata, di quella del
sarcofago Lateranense 119 […]. Nelle tre scene di Giona, fedelmente copiate dal
modello, sorprende il posto dominante della pistrice» (Wp. 29, pagina 85; già
L. von Sybel, Christliche Antike. Einführung in die altchristliche Kunst, 2: Plastik,
Architektur und Malerei, Elwert, Marburg 1909, 113-114, esplicitamente parla-
va di «ripetizione della composizione»). Non è questa la sede per dettagliare i
contenuti di questo fortunato progetto iconografico (per questo mi permetto
di rimandare a quanto già scritto in Pelizzari, Dal battesimo al regno, a cui rin-
vio anche per la bibliografia riportata e, in particolare, ivi, 71-73, per il paral-
lelo con il progetto iconografico dei mosaici di Aquileia); qui vorrei semplice-
mente attirare l’attenzione sul fatto che il fregio del Lateranense 119 si
caratterizza per diverse “eccentricità” rispetto alla più comune prassi figurativa
dei sarcofagi paleocristiani. Basti osservare il fatto che lo spazio più rilevante
del progetto iconografico (il centro) è speso per raffigurare il ravvolgersi del
ventre della pistrice, un caso del tutto inedito nella tradizione figurativa cristia-
na delle origini. Si osservi anche il ciclo di Giona che, dal registro inferiore,
prorompe in quello superiore, stabilendo nessi sia figurativi sia contenutistici
con le immagini che occupano quella parte del sarcofago. Mi limito a segnala-
re la congruenza della successione: risurrezione di Lazzaro (vita pubblica di
Gesù) à crux dissimulata nell’albero della nave diretta verso Tarsis (Pasqua; cfr.
Rahner, Simboli della Chiesa, 613-689) à ciclo Petrino (tempo della Chiesa)
à riposo di Giona (glorificazione del Cristo escatologico) à Buon Pastore che
vigila sul suo gregge, finalmente ricoverato in un edificio monumentale (Geru-
salemme celeste).

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L’ importanza del “progetto iconografico” 427

Figura 102: confronto fra la disposizione del ciclo di Giona sul fronte del sarco-
fago Lateranense 119 e del fronte del sarcofago della Ny Carlsberg Glyptotek. La
china superiore è tratta da Pelizzari, Dal battesimo al regno, 70, figura 19; quella
inferiore è ricavata dall’immagine pubblicata ivi, 46, figura 10 (le immagini sono
accostate nella stessa scala). Il confronto proposto in figura permette di cogliere
con immediatezza, grazie all’esempio della disposizione delle tre scene del ciclo
di Giona, l’identica scansione che accomuna il progetto iconografico dei due mo-
numenti ora presi in esame. Di fronte al caso di evidente dipendenza progettuale
del sarcofago della Ny Carlsberg Glyptotek, credo non ci si possa limitare a evo-
care il successo di un modello figurativo fortunato. Il nesso mi pare infatti di
ordine innanzi tutto contenutistico, per almeno due ragioni:
1. I diversi momenti dell’avventura del profeta Giona servono, nel Lateranense
119, a scandire i passaggi di una straordinaria teologia della storia che, dalla
vita pubblica di Gesù, si spinge sino alla contemplazione del gregge custodi-
to nell’ovile escatologico. Nel sarcofago della Ny Carlsberg Glyptotek questa
funzione non può essere svolta con altrettanta ampiezza – per via del ben
minore numero di scene dispiegabili su una superficie dimezzata rispetto a
quella del sarcofago vaticano. D’altra parte viene sperimentata un’interessan-
te sostituzione iconografica che, mi sembra, riformuli – pur se in modo assai
sintetico – lo stesso itinerario. Si osserva qui, infatti, l’inedita associazione tra
un pescatore (simbolo, per via di Mc 1,14-18 || Mt 4,12-20; Lc 5,4-11, del tem-
po della Chiesa) e una costruzione in mattoni e tegole – dunque un edificio
monumentale – che può rinviare sia alla dimora escatologica (la Gerusalem-
me celeste; ulteriore “citazione” del Lateranense 119) sia, per l’essere fondata
sulla stessa terra rocciosa dove sta il Giona che riposa (tipologia del Cristo
glorificato), alla «casa edificata sulla roccia» di Mt 7,24-27 || Lc 6,47-49, che,

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428 I modelli compositivi

nel testo matteano, è metafora esplicativa di un detto escatologico: «Non


chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che
fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (7,21-23, qui 21). Tempo della
Chiesa e tempo del Regno, a restituzione, dunque, non dell’apparato figura-
tivo ma del manifesto teologico del sarcofago ora ai Musei Vaticani.
2. Se ciò che lega i due sarcofagi fosse semplicemente la ripetizione di un sistema
figurativo fortunato, non avrebbe ragion d’essere la modifica del suo sistema
decorativo – semmai, ove fosse stato necessario, come in questo caso, una sua
semplificazione. Sul fronte del Ny Carlsberg Glyptotek, invece, si osserva la
sostituzione del “ciclo della pesca” – che sul Lateranense 119 lambiva il mare
di Giona illustrando il momento preliminare (la consegna degli attrezzi) e
quello conclusivo (il pescatore che sta traendo un pesce dall’acqua) della cat-
tura di un pesce – con due raffigurazioni del Buon Pastore. Al di là del signi-
ficato puntuale di questa sostituzione, è infatti chiaro che essa implichi un
intervento di ordine contenutistico, che trasferisce su un piano non solamen-
te “figurativo” il legame tra questi due documenti.
Il caso posto da questi due sarcofagi mi sembra richiami la centralità della ri-
costruzione del progetto iconografico di questi monumenti come momento
critico decisivo per lo studio e la critica di questa documentazione (ad analoga
conclusione conduceva anche l’altro caso di ripetizione progettuale osservato
supra, figure 98-99): ciò non nega né riduce l’importanza di una corretta valo-
rizzazione dei diversi temi iconografici, ma sottolinea l’urgenza di combinare
questo primo versante dello sforzo iconologico con l’analisi e la discussione di
quel progetto che, di volta in volta, imposta, organizza e articola il messaggio
di questi documenti visuali.

Nelle prossime pagine, attraverso l’analisi di alcuni casi di studio par-


ticolarmente significativi, si cercherà di riflettere su alcune caratteristiche
della struttura tipologica denotata dalla più antica progettualità icono-
grafica cristiana. Non è ovviamente scopo di queste pagine stabilire del-
le “leggi”, come provò a fare Lucien de Bruyne17, ma soltanto attirare
l’attenzione su alcune peculiarità che caratterizzarono questa primigenia
tradizione figurativa cristana.

1. LA CORRELAZIONE TIPOLOGICA
La prima caratteristica su cui vorrei attirare l’attenzione è già stata am-
piamente osservata nelle pagine precedenti. Ciò che qui ho pensato di

17 Cfr. de Bruyne, Les «lois» de l’art paléochrétien.

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L’ importanza del “progetto iconografico” 429

definire «correlazione tipologica» non è altro che la struttura fondamen-


tale della tipologia: il rapporto esegetico stabilito tra un tipo e un antitipo,
a dare la corretta interpretazione di entrambi i termini della correlazione18.
Assumere la tipologia come Grundlogik e Grundgesetz di questa tradi-
zione visuale implica di per sé presupporre l’esistenza di un progetto ico-
nografico a monte della realizzazione di questi documenti: dal momento
che, infatti, i singoli temi iconografici non concorsero a elaborare i ma-
nifesti affidati a questi monumenti autonomamente, ma solo in relazione
ad altri temi – replicando il nesso tra tipo e antitipo o presupponendolo –,
è evidente che la loro selezione e disposizione non possano essere consi-
derate casuali o prive, appunto, di attenta progettualità.
Per comprendere questa prima produzione figurativa cristiana, dunque,
non basta decifrare la “teoria dei paradigmi” – che pure può restituire una
quota di significato di questi documenti – che si sussegue su ciascun pez-
zo; è necessario interrogarsi circa i nessi che di volta in volta vennero isti-
tuiti tra i diversi temi che si osservano. La funzione del progetto iconogra-
fico, in questo senso, si rivela criticamente decisiva: il documento esprime
ciò che la sua progettazione ha determinato elaborando un discorso erme-
neutico attraverso la correlazione tra diversi testimonia visuali.

18 Benché si presenti come un metodo esegetico “meccanico”, basato sulla constatazio-

ne del nesso tra tipo e antitipo, in realtà la tipologia si caratterizza per un tratto fortemen-
te creativo: sta ad essa, infatti, di volta in volta stabilire i rapporti ermeneutici sui quali strut-
tura la sua interpretazione delle Scritture. In altri termini: pur definendosi come il
tentativo di riconoscere il “disegno provvidenziale” che misteriosamente, da sempre, preor-
dina e armonizza la storia della salvezza, di fatto l’approccio tipologico si concretizzò in una
ricerca di “prove” scritturistiche con le quali sostanziare il presupposto di quell’unitario “di-
segno provvidenziale”. L’esegesi tipologica, dunque, è un tentativo – non univoco – di spie-
gare le Scritture, il cui principio qualificante è di interpretare le Scritture con le Scritture
(e, in ambito latino, la storia della Chiesa con le Scritture). Dunque l’Antico fonda e moti-
va il Nuovo, ma anche il Nuovo, attraverso la ricapitolazione dell’Antico, ne fornisce final-
mente il significato pieno, talora anche al prezzo di stravolgerne il senso apparente. Si pen-
si al riposo di Giona: nel racconto prototestamentario, rappresenta la condizione di pace
illusoria che soddisfa le lamentele del profeta indignato e ha l’esplicita funzione di rendere
ancora più evidente il disseccamento del pergolato, quest’ultimo il momento decisivo dell’e-
pisodio che ha la funzione di fare emergere la giustizia di YHWH; sottoposto a ermeneutica
tipologica, però, il riposo sotto al qiqajon assume un valore integralmente e pienamente po-
sitivo, definito dal suo antitipo: la glorificazione del Cristo (vedi anche supra, pp. 333-334).

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430 I modelli compositivi

1.1. Il “sarcofago dell’Esodo” (Wp. 29, t. 157,2; Rep. 2, 12):


un manuale di esegesi tipologica
Il caso che vorrei prendere in considerazione è un sarcofago cristiano
conservato nella Galleria C del Camposanto monumentale di Pisa19. La
datazione di questo pezzo, attribuito a officine romane, è ai primi decen-
ni del IV secolo (310-330)20: potrebbe trattarsi di un sarcofago di età
precostantiniana o della prima età costantiniana: dunque un documento
legato all’ultima grande persecuzione – o perché realizzato in quegli anni
o perché memore di quella stagione.
Si tratta di un sarcofago a mio giudizio singolarmente sottovalutato
dalla critica 21, per lo più menzionato solo in relazione alla presenza qui
di due soggetti del ciclo di Esodo, meno frequenti nella più antica icono-
grafia cristiana: la scena della manna e delle quaglie (registro superiore;
Es 16 [in part. vv. 14-18]; cfr. anche Nm 11)22 e quella di Mosè che si

19 Cfr. R. Papini, Pisa, 2, Libreria dello Stato, Roma 1931-1932 (Catalogo delle cose

d’arte e di antichità d’Italia 2,2), 79 (numero 119); P.E. Arias - E. Gabba - E. Cristiani,
Camposanto monumentale di Pisa, 1: Le antichità, Pacini, Pisa 1977, 168 (numero C 19). Cfr.
anche A. Soper, Latin Style on Christian Sarcophagi of the Fourth Century, in Art Bulletin 19
(1937) 148-202, qui 155- 156, figura 9.
20 Così Rep. 2, 12 (pagina 6).
21 La mia opinione è, viceversa, che il “sarcofago dell’Esodo” sia uno dei documenti più

rilevanti della più antica produzione “artistica” cristiana. Cfr. G. Pelizzari, «Dominus Legem
dat». Le origini cristiane tra Legge e leggi: la documentazione iconografica, in “Lex et Religio”:
Atti del XL Incontro di Studiosi dell’Antichità Cristiana. Roma, 10-12 maggio 2012, Institutum
Patristicum Augustinianum, Roma 2013 (Studia Ephemeridis Augustinianum 135), 729-769,
qui 753- 757; Id., Vedere la Parola, 212-215; Id., L’adozione critica, 28-30; Id., Manifestos of the
Kingdom. Early Christian Iconography and Biblical Hermeneutics. A New Methodological Ap-
proach, in A. Eusterschulte (hrsg.), Figurales Wissen, Harrassowitz, Wiesbaden c.d.s. (Episte-
me in Bewegung. Beiträge zu einer transdisziplinären Wissensgeschichte).
22 Si vedano i paralleli con: 1. il frammento di alzata di sarcofago, datato al primo terzo del

IV secolo, conservato al lapidarium annesso al Musée Calvet di Avignone (Wp. 32, t. 209,2; Rep.
3, 162); 2. Il fronte di sarcofago, della metà del IV secolo, ora presso il Musée des Beaux-Arts di
Carcassonne (Rep. 3, 203); 3. il frammento di sarcofago dell’ultimo terzo del IV secolo, conser-
vato presso il Quartier Trinquetaille di Arles (Rep. 3, 142); 5. il frammento di sarcofago, in onice
africano ma realizzato da un’officina dell’Italia settentrionale, dell’ultimo terzo del IV secolo, con-
servato presso il Museo Cristiano di Brescia (Rep. 2, 249); 5. il fianco destro del sarcofago, della
fine sel IV secolo, del Musée Granet ad Aix-en-Provence (Wp. 29, t. 97,2; Rep. 3, 21). Insieme al
frammento del lapidarium annesso al Musée Calvet di Avignone, la scena ha in questo sarcofago
la sua più antica attestazione nell’immaginario cristiano delle origini che ci sia pervenuta.

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L’ importanza del “progetto iconografico” 431

scioglie i calzari (registro inferiore; Es 3)23. Queste due scene, unitamen-


te alla presenza di altri due (o tre) soggetti tratti dal ciclo biblico del pel-
legrinaggio dall’Egitto alla terra promessa, mi hanno portato a proporre
per questo documento la dicitura di “sarcofago dell’Esodo”.

Figura 103: registro superiore: Myriam intona il suo canto (ritratto di matrona?);
il miracolo delle quaglie e della manna; Mosè riceve le tavole della Legge; ritratto
clipeato dei defunti; il passaggio del Mar Rosso. Registro inferiore: La risurrezio-
ne di Lazzaro; la moltiplicazione dei pani; il sacrificio di Isacco; Daniele nella
fossa dei leoni; Mosè si scioglie i calzari; l’arresto di Pietro; Pietro fa scaturire ac-
qua per i carcerieri Processo e Martiniano. Fronte del c.d. “sarcofago dell’Esodo”,
Camposanto monumentale, Pisa (Wp. 29, t. 157,2; Rep. 2, 12). 310-320. L’im-
magine riporta la tavola di Joseph Wilpert. «Secondo un’iscrizione del XIV seco-
lo incisa sul coperchio medievale, il sarcofago venne riutilizzato: “S(epulchrum)
Bonaiuta Gamelli”» (ivi, pagina 5). Si tratta plausibilmente di un sarcofago di
officina romana, anche se di ciò non si può avere certezza, dal momento che non
è possibile ricostruire la storia di questo monumento, oltre al reimpiego del XIV
secolo. Prima di entrare nel merito del progetto iconografico di questo documen-
to, vale la pena di ripercorrere la serie di testimonia visuali che qui sono stati raf-
figurati: in alcuni casi, infatti, è necessario discutere alcuni dettagli che, date le
numerose lacune del sarcofago, si possono prestare a opposte letture.

23 Si vedano i paralleli con: 1. il frammento di sarcofago, datato al secondo terzo del IV secolo,

ora conservato al Louvre di Parigi (Rep. 3, 425); 2. la scena del registro superiore del frammento di
sarcofago del SMPK Museum für Spätantike und Byzantinische Kunst di Berlino, datato all’ulti-
mo terzo del IV secolo (Wp. 32, t. 205,4; Rep. 2, 71). Il “sarcofago dell’Esodo” di Pisa, dunque, re-
stituisce la più antica attestazione figurativa di questo episodio prototestamentario sopravvissuta.

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432 I modelli compositivi

Figura 104: il “sarcofago dell’Esodo”. Camposanto monumentale, Pisa (Wp. 29,


t. 157,2; Rep. 2, 12). 310-320. L’immagine riporta la tavola Garr. 5, t. 364,3. La
tavola di Raffaele Garrucci permette una lettura più semplice di questo fronte,
oggi purtroppo ancor più consumato di come lo poteva osservare ancora Joseph
Wilpert, prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, durante il quale, il
27 luglio 1944, un bombardamento alleato fece divampare il terribile incendio
che fuse il tetto di piombo del Camposanto monumentale di Pisa, danneggò gli
affreschi e coinvolse numerose sculture e sarcofagi ivi conservati, alcuni dei qua-
li andarono in frantumi. Uno dei problemi caratteristici di questo fronte è la per-
dita di quasi tutte le parti realizzate in altorilievo o al tutto tondo, il che rende
problematico il riconoscimento di alcune scene e di alcuni personaggi.

Figura 105: Myriam intona il suo canto (ritratto di matrona?); il miracolo


delle quaglie e della manna; Mosè riceve le tavole della Legge; ritratto clipeato
dei defunti; il passaggio del Mar Rosso. Ipotesi ricostruttiva del registro supe-
riore del c.d. “sarcofago dell’Esodo”, Camposanto monumentale, Pisa (Wp.
29, t. 157,2; Rep. 2, 12). 310-320. L’immagine è stata ricavata da Pelizzari,
Vedere la Parola, 211, figura 95. Il riconoscimento dei testimonia visuali di
questo registro pone, in realtà, solo pochi problemi. Il primo – forse il più si-
gnificativo – riguarda il personaggio che si trova all’estremità sinistra di questo

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L’ importanza del “progetto iconografico” 433

registro. Ciò che rimane di questa figura comprende l’abbigliamento – fino


alle spalle – e la postura della mano sinistra: il primo permette di riconoscerne
il genere femminile (si notino le analogie con il ritratto della donna nel clipeo
centrale); mentre la seconda si presta ad almeno due letture, che sia il gesto di
chi indica (e dunque un espediente figurativo per attirare l’attenzione sul mi-
racolo della manna e delle quaglie di Es 16: così propone Rep. 2, 12 [pagina
5]) o che sia una “posa d’orante”, come a me pare più verosimile. In questo
caso, si avrebbe una figura matronale in posa d’orante: secondo Rep. 2, 12,
pagina 5, per altro, sono leggibili le tracce del braccio destro, purtroppo anda-
to perduto (nella ricostruzione il braccio non è stato aggiunto). La mano del
braccio sinistro, in compenso, risulta a palma aperta, esattamente com’è d’a-
bitudine nella raffigurazione degli oranti. Quale potrebbe essere il significato
di questa figura? Se si accetta l’ipotesi del personaggio orante, potrebbe aver
senso richiamare l’episodio del cantico di Myriam (Es 15,20-21; sulla fortuna
della figura di Myriam, cfr. A. Siquans, Miriam’s Image in Patristic and Rab-
binic Interpretation, in Ephemerides Theologicae Lovanienses 96 [2020] 521-536;
C.A. Evans, Celebrating Victory from the Sea of Reeds to the Eschatological Battle
Field: Miriam’s Timbrels and Dances in Exodus 15 and Beyond, in Biblical Theo-
logy Bulletin 51 [2021] 206-214) che, a giudizio di numerosi critici, dovrebbe
rappresentare la forma più arcaica dei due cantici del Mar Rosso, e dunque
fornire il palinsesto per il cantico di Mosè (Es 15,1-18 [cfr. anche gli altri “can-
tici femminili” di Gdc 5 e Gdt 16]; per il dibattito sulla questione della prio-
rità, cfr. J.G. Janzen, Song of Moses, Song of Miriam: Who Is Seconding Whom?,
in The Catholic Biblical Quarterly 54 [1992] 211-220). Il secondo tema su cui
la critica ha attirato l’attenzione è quello del rapporto tra i due personaggi ri-
tratti nel clipeo. È stato ipotizzato che l’assenza dell’“abbraccio” tra i due ri-
tratti possa indicare che la coppia raffigurata non fosse sposata. Il dettaglio
non mi pare così significativo. Ciò che mi pare rilevante sottolineare, invece,
è che tutte le scene presenti su questo registro superiore rinviano a episodi nar-
rati nell’Esodo: Myriam che scioglie il suo cantico (Es 15); il miracolo della
manna e delle quaglie (Es 16); Mosè che riceve la Legge (Es 20); il passaggio
del Mar Rosso (Es 13,7 - 14,29). Benché la fonte letteraria sia omogenea, d’al-
tra parte, l’ordine con cui sono disposte le figure non corrisponde alla narra-
zione. È forse necessario sin da subito attirare l’attenzione su questa peculiare
configurazione paradossale del registro superiore di questo sarcofago. Benché,
infatti, le matrici bibliche di tutti i temi qui scolpiti provengano indifferente-
mente dallo stesso libro del Pentateuco, d’altra parte la loro concreta disloca-
zione su questo fronte è tale da sovvertire l’intreccio narrativo del racconto
prototestamentario. In altri termini, anche in questo caso non è possibile par-
lare propriamente di un intento illustrativo del documento visuale rispetto al
documento letterario: questo registro infatti non dipende dal racconto dell’eso-
do di Israele, ma lo reinterpreta.

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434 I modelli compositivi

Figura 106: la risurrezione di Lazzaro; la moltiplicazione dei pani; il sacrificio


di Isacco; Daniele nella fossa dei leoni; Mosè si scioglie i calzari; il ter negabis;
l’arresto di Pietro; Pietro fa scaturire acqua per i carcerieri Processo e Martinia-
no. Ipotesi ricostruttiva del registro inferiore del c.d. “sarcofago dell’Esodo”,
Camposanto monumentale, Pisa (Wp. 29, t. 157,2; Rep. 2, 12). 310-320. L’im-
magine è stata ricavata da Pelizzari, Vedere la Parola, 211, figura 95. Il registro
inferiore presenta una raccolta di testimonia visuali ben più eterogenea di quan-
to non sia accaduto su quello superiore. Ritornano qui:
1. la risurrezione di Lazzaro narrata da Gv 11 (forse aggregata all’episodio dell’e-
morroissa [Mc 5,25-34 || Mt 9,18-26 || Lc 8,40-56] come potrebbe sugge-
rire la postura della donna ai piedi di Gesù, che qui sembra protendere una
mano verso il lembo della veste del Cristo);
2. la moltiplicazione dei pani (Mc 6,30-44 || Mt 14,13-21 || Lc 9,12-17 || Gv
6,1-13; Mc 8,1-9 || Mt 15,32-39);
3. il sacrificio di Isacco (Gen 22,1-18);
4. Daniele nella fossa dei leoni (Dn 6,17-24; 14Vulgata [= Bel e il DragoLXX],31-42);
5. Mosè di fronte al roveto ardente (Es 3,1-22 [+ 4,1-17]);
6. l’annuncio della triplice negazione di Pietro (Mc 14,30-31 || Mt 26,34-35 ||
Lc 22,33-34 || Gv 13,37-38);
7. l’arresto di Pietro;
8. il miracolo dell’acqua per Processo e Martiniano (queste ultime due scene
dipendono dagli Atti dello Pseudo-Lino: cfr. Pelizzari, Dal battesimo al re-
gno, 56-63).

Come si può osservare dalla descrizione appena fornita, la sola enu-


merazione dei temi raffigurati su questo sarcofago non solo non è in gra-
do di definirne il messaggio complessivo, ma anzi favorisce l’impressione
che il “sarcofago dell’Esodo” si limiti ad affastellare una congerie di epi-
sodi biblici tra loro sconnessi. Ma è davvero così?

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L’ importanza del “progetto iconografico” 435

Figura 107: progetto iconografico del registro superiore del c.d. “sarcofago dell’E-
sodo” (Wp. 29, t. 157,2; Rep. 2, 12). Come si è già annotato più sopra, l’ordine del-
le figure che organizza il registro superiore di questo sarcofago esclude l’intento il-
lustrativo: che si recepisca o meno l’ipotesi di riconoscere nella matrona orante – che
inaugura, sulla sinistra, questa serie di testimonia – il ritratto di Myriam che intona
il canto dopo il passaggio del Mar Rosso (Es 15,20-21), l’ordine delle altre tre figu-
re di questo registro non rispetta la successione del libro prototestamentario (si ri-
trovano, infatti, Es 16 à 20 à 13,7 - 14,29). Se, però, si valorizza la soluzione di
continuità che il ritratto dei due defunti introduce, il quadro cambia. Nel pannello
di sinistra, infatti, si può ricuperare la corretta successione (Es 15 à) Es 16 à 20.
Allo stesso tempo, la grande scena del pannello di destra è chiaramente orientata
verso il clipeo centrale (l’Israele fuggitivo è infatti a ridosso del ritratto clipeato,
mentre gli Egiziani che inseguono sono prossimi al margine destro del sarcofago).
Nel complesso, dunque, sembra più corretto affermare che i due pannelli ricupera-
no ciascuno una porzione di Esodo, rispettivamente la stipula dell’Alleanza (Myriam
che rende grazie, il nutrimento miracoloso e la concessione della Legge) e la fuga
dall’Egitto. Il ritratto dei due defunti viene a trovarsi così al centro di questa “storia
sacra”, immerso tra i profili degli Israeliti pellegrini verso la Terra Promessa (alla
destra e alla sinistra del ritratto si trovano infatti personaggi di gruppi familiari, in
evidente allusione all’Israele in cammino). È interessante soffermarsi su questo pri-
mo elemento, che già implica di per sé una ricezione tipologica del testo di Esodo.
Anche limitandosi a questo solo registro, infatti, si può affermare che non sia il testo
biblico a organizzare questa serie di immagini (come osservato, esse non ne rispet-
tano la trama), ma il suo impiego in relazione – o anche solo rispetto – al ritratto
clipeato centrale, verso il quale procedono tanto il racconto dell’Alleanza quanto la
fuga di Israele. Torna qui, pur se per il momento in una declinazione ancora solo
individuale (ma si vedrà fra poco la ben più ampia portata teoretica del manifesto
teologico codificato dal progetto iconografico di questo sarcofago), la rivendicazio-
ne della pretesa cristiana di essere “Israele di Dio” (cfr. F. Manns, L’Israël de Dieu.
Essais sur le christianisme primitif, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1996 [Stu-
dium Biblicum Franciscanum – Analecta 42], in part. 75-101; il tema è però vastis-
simo, di recente ne ha sperimentato un originale approccio lessicografico G. Harvey,
The True Israel: Uses of the Names Jew, Hebrew and Israel in Ancient Jewish and
Early Christian Literature, Brill, Leiden 1996 [Arbeiten Zur Geschichte Des An-
tiken Judentums Und Des Urchristentums 35]). L’inclusione del clipeo entro questa

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436 I modelli compositivi

serie di testimonia e il fatto che questi procedano verso di esso sembrano voler affer-
mare l’appartenenza di questi cristiani al “vero Israele”, la Chiesa, che tale poteva
definirsi solo per via tipologica.

Figura 108: progetto iconografico del registro inferiore del c.d. “sarcofago
dell’Esodo” (Wp. 29, t. 157,2; Rep. 2, 12). Ancor più interessante è il progetto
iconografico del registro inferiore. Anche qui è necessario suddividere i testimo-
nia visuali che qui si ritrovano in due gruppi, rispettivamente riconducibili a
quello alla sinistra di Daniele nella fossa dei leoni e a quello posto alla sua de-
stra. Partendo dal pannello di sinistra, si osservano due scene neotestamentarie
(l’ultimo segno giovanneo – la risurrezione di Lazzaro – e la moltiplicazione dei
pani e dei pesci), gli unici due miracoli di Gesù raffigurati su questo sarcofago,
e un episodio prototestamentario (il sacrificio di Isacco). I due miracoli deter-
minano una breve narrazione, una sorta di “ciclo gesuano” che procede verso
l’esterno del sarcofago (in Giovanni, il miracolo della moltiplicazione dei pani
è narrato al capitolo 6, la risurrezione di Lazzaro all’11; in tutte le “armonie
evangeliche” la moltiplicazione dei pani precede il segno di Betania). Quale
relazione con il sacrificio di Isacco? Ovviamente tipologica: il tema genesiaco
offre il paradigma tipologico – di segno pasquale – per comprendere la vicenda
di Gesù. Analogo discorso si può fare per il pannello di destra. Qui il “ciclo
petrino” è rappresentato estensivamente, nei suoi tre momenti fondamentali
(cfr. Sotomayor, San Pedro), narrativamente disposti ancora una volta verso l’e-
sterno del sarcofago. Anche qui la vicenda di Pietro è preceduta dalla sua tipo-
logia, Mosè mentre riceve la chiamata (la tipologia Pietro-Mosè è antica; ap-
partiene già alla letteratura pseudo-clementina: cfr. K.J. Ruffatto, Moses
Typology for Peter in the Epistula Petri and the Contestatio, in Vigiliae Christia-
nae 69 [2015] 345-367; in generale, per la fortuna della tipologia mosaica già in
ambito cristologico, cfr. W.A. Meeks, The Prophet-King: Moses Traditions and
the Johannine Christology, Brill, Leiden 1967 [Novum Testamentum, Supple-

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L’ importanza del “progetto iconografico” 437

ments 14], in part. 286-319; D.C. Allison, The New Moses: A Matthean Typolo-
gy, Fortress Press, Minneapolis [MN] 1993). I due tipi prototestamentari – il
sacrificio di Isacco e la vocazione di Mosè a guidare Israele («Ora va’! Io ti man-
do dal faraone. Fai uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!»: Es 3,10) – ri-
cevono il compimento in «Cristo, nostra Pasqua, ‹che› è stato immolato» (1Cor
5,6) e in quel Pietro che riceve il triplice comando: «Pasci le mie pecore» (Gv
21,15-17). All’intersezione tra questi due piani, cristologico ed ecclesiologico,
la tipologia martiriale per eccellenza, quella di Daniele nella fossa dei leoni.

La riflessione svolta sui due registri di questo sarcofago credo permet-


ta di porre già in evidenza un primo dato: i testimonia visuali scelti per
questo sarcofago sono organizzati in cicli di struttura chiaramente erme-
neutica: nel registro superiore, il racconto di Esodo fornisce lo “spazio
ideale” entro il quale si colloca l’esperienza del credente, quel pellegrinag-
gio che sin da subito diviene l’emblema della «cittadinanza paradossale»
del cristiano24; nel registro inferiore, la dimensione martirologica della
professione di fede definisce l’intersezione tra una cristologia pasquale e
un’ecclesiologia ancora intrisa della memoria della recente “grande perse-
cuzione” dioclezianea.
Resta da osservare, però, quello che a me pare essere l’autentico capo-
lavoro di questo documento: la correlazione tra i due registri del fronte.

24 Si noti innanzi tutto la matrice tipologica di questa associazione: i due defunti cristia-

ni – in quanto parte della Chiesa – ricapitolano il pellegrinaggio degli antichi Israeliti. Più che
un’istanza dei due individui per i quali fu scolpito il sarcofago, opera qui la rivendicazione cri-
stiana di essere il “vero Israele”, secondo quella teologia della sostituzione che ricevette singo-
lare impulso con Giustino di Roma (cfr. G. Visonà [cur.], S. Giustino, Dialogo con Trifone, Pao-
line, Milano 1988 [Letture cristiane del primo millennio 5], 58-70; F. Manns, L’Israel de Dieu.
Essais sur le christianisme primitif, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1996 [Studium Bibli-
cum Franciscanum, Analecta 42], 113-130). L’idea di far parte del “popolo di Dio pellegrino”
è un carattere fondamentale della più antica ecclesiologia cristiana: ritorna icasticamente
espresso sin dalla c.d. Prima lettera di Clemente Romano, dove la comunità di Roma si defini-
sce «Chiesa di Dio che vive da straniera (paroikousa) a Roma » e scrive «alla Chiesa di Dio che
vive da straniera a Corinto» (su questa formula, cfr. E. Peterson, Il prescritto della Prima let-
tera di Clemente, in Id., Chiesa antica, giudaismo e gnosi, Paideia, Brescia 2021 [Scritti scelti
di Erik Peterson 10], 301-313 [ed. or. Nijkerk 1950]) e strutturerà la splendida pagina di A
Diogneto 5 (in part. 5,5: « Abitano ciascuno la sua patria, ma come stranieri residenti; a tutto
partecipano attivamente come cittadini, e a tutto assistono passivamente come stranieri; ogni
terra straniera è per loro patria, e ogni patria terra straniera »: tr. it.: E. Norelli [cur.], A Dio-
gneto, Paoline, Milano 1991 [Letture cristiane del primo millennio 11], 89).

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438 I modelli compositivi

Figura 109: progetto iconografico del c.d. “sarcofago dell’Esodo” (Wp. 29, t.
157,2; Rep. 2, 12). Lo schema proposto mostra l’integrazione che sussiste tra i
due registri di questo straordinario documento visuale: la diretta correlazione
tipologica tra i testimonia del registro superiore e quelli del registro inferiore. E
così alla matrona in posizione orante (Myriam?) del registro superiore corri-
sponde la donna che si protende verso il Cristo nella scena della risurrezione di
Lazzaro del registro inferiore; alla «manna del deserto ‹che› i vostri padri man-
giarono e perirono» corrisponde «il pane vivo, disceso dal cielo ‹del quale› se
uno ne mangia vivrà in eterno», secondo la tipologia che i redattori di Giovan-
ni attribuiscono al Cristo stesso (cfr. Gv 6,48-51); alla ricezione della Legge sul
Sinai, momento decisivo dell’economia antica, corrisponde una tipologia della
Pasqua sacrificale di Cristo, momento decisivo dell’economia nuova; al ritratto
dei defunti corrisponde il prototipo del martire; all’Israele pellegrino corrispon-
de l’Israele Nuovo, guidato dal Nuovo Mosè. La correlazione tipologica che
organizza puntigliosamente la struttura del progetto iconografico di questo
sarcofago mi sembra meriti di essere adeguatamente sottolineata. Il “sarcofago
dell’Esodo” può essere a buon diritto definito “un manuale di esegesi tipologi-
ca” sia per la corrispondenza ubiqua di tipi e antitipi sia per le modalità di rice-
zione e impiego dei materiali scritturistici: il Primo Testamento fornisce la ma-
teria (qui i passi più pregnanti di Esodo), ma è il Nuovo a definirne il
significato. Il parallelo con l’uso liturgico cristiano delle Scritture – e con la
struttura dei lezionari – mi pare evidente.

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L’ importanza del “progetto iconografico” 439

Figura 110: l’acqua che ha salvato Israele;


l’acqua che salva il nuovo Israele. Partico-
lare del c.d. “sarcofago dell’Esodo”, Cam-
posanto monumentale, Pisa (Wp. 29, t.
157,2; Rep. 2, 12). 310-320. L’immagine
riporta un dettaglio della tavola Wp. 29,
t. 157,2. «Che tale sia la struttura di que-
sto progetto iconografico lo dimostra il
confluire dell’acqua di Esodo nell’acqua
miracolosa che Pietro ottiene ai suoi car-
cerieri: acqua lustrale, che disseta e salva»
(Pelizzari, L’adozione critica, 30). Nel dettaglio che chiude questo fronte di sar-
cofago vi è una sorta di tipologia nella tipologia: l’acqua lustrale in cui il cri-
stiano si immerge per ottenere la vita ricapitola quell’acqua attraverso la quale
Israele «camminò all’asciutto, mentre le acque erano per loro una muraglia a
destra e a sinistra» (Es 14,22): «Il passaggio del Mar Rosso fu lo strumento per
la salvezza di Israele e il battesimo lo fu per i cristiani» (E. Ferguson, Baptism
in the Early Church. History, Theology and Liturgy in the First Five Centuries,
Eerdmans, Grand Rapids [MI] - Cambridge 2009, 152).

Il “sarcofago dell’Esodo” credo ponga in evidenza il delta tra un’ana-


lisi solo “lessicale” di questa documentazione – tesa, cioè, esclusivamente
al riconoscimento dei diversi temi figurativi impiegati in questi prodotti
visuali – e una che si proponga anche una lettura “sintattica” o proget-
tuale. Senza una discussione della struttura ermeneutica di questi docu-
menti, infatti, essi finiscono per apparirci poco più di un confuso affa-
stellare di paradigmi (di santità, di salvezza, di soccorso, poco importa);
al contrario, porre al vertice della disamina critica la ricostruzione del
progetto iconografico che di volta in volta orientò la scelta dei testimonia
e ne organizzò la disposizione significa moltiplicare l’efficacia documen-
taria di questi più antichi prodotti visuali cristiani.
Il “sarcofago dell’Esodo” ha mostrato anche il funzionamento ordi-
nario della correlazione tipologica: sia nel registro inferiore sia nel rap-
porto tra i due registri, il meccanismo che unifica il progetto iconografi-
co di questo sarcofago è per l’appunto quello di correlare tipo e antitipo,
profezia e realtà, prefigurazione e compimento: storia e ricapitolazione
escatologica.

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440 I modelli compositivi

2. LA TRASLAZIONE TIPOLOGICA
Quello della tipologia fu, come già si è osservato, un «sistema»25: er-
meneutico, innanzi tutto, ma non solo. Esso determinò infatti un approc-
cio teologico complesso, che non si limitava a una meccanica ricerca di
profezie – esplicite, cioè già presentate come tali nei libri prototestamen-
tari, o implicite, cioè riconosciute soltanto ex post, dagli esegeti cristiani,
retroproiettando la loro storia sacra sulle vicende di Israele – per legitti-
mare le convinzioni religiose e teologiche dei credenti in Gesù, il Cristo.
Fu piuttosto uno sguardo complesso sulla storia della salvezza – e sulle
Scritture solo di conseguenza –, un tentativo di affermarne la lineare coe-
renza anche nel mezzo di tutte le curve che essa viceversa aveva affrontato.
Divenne ben presto anche un criterio per comprendere il presente di co-
munità che vivevano nel convincimento di sperimentare i tempi della
grande vigilia del Regno: poiché quest’ultimo era l’argomento tanto delle
aspettative di Israele quanto del Vangelo cristiano (lo era già del magiste-
ro di Gesù!), la convinzione di essere il popolo della vigilia, che già radu-
nava i cittadini del Regno in attesa del suo avvento, portò all’estensione
del sistema tipologico anche alla discussione del presente delle Chiese 26.

25 Vedi supra, pp. 181-182. La definizione è presa da Korshin, Typologie als System.

Sull’attualità dell’approccio tipologico nel dibattito teologico corrente (per lo più nell’am-
bito dell’ermeneutica figurativa), cfr. B.J. Ribbens, Typology of Types: Typology in Dialogue,
in Journal of Theological Interpretation 5 (2011) 81-95, che distingue tra tipologie cristolo-
giche, tropologiche (o morali) e analogiche.
26 Pare interessante osservare come uno degli scritti protocristiani più apertamente vinco-

lati al lessico e all’immaginario prototestamentario, Apocalisse (cfr. J. Fekkes, Isaiah and


Prophetic Traditions in the Book of Revelation: Visionary Antecedents and Their Development,
Sheffield Academic Press, Sheffield 1994 [Journal for the Study of the New Testament. Sup-
plement 93]; S. Moyse, The Old Testament in the Book of Revelation, Sheffield Academic Press,
Sheffield 1995 [Journal for the Study of the New Testament. Supplement 115]; G.K. Beale,
John’s Use of the Old Testament in Revelation, Sheffield Academic Press, Sheffield 1998 [Jour-
nal for the Study of the New Testament. Supplement 166]; B. Kowalski, Die Rezeption des
Propheten Ezechiel in der Offenbarung des Johannes, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 2004
[Stuttgarter Biblische Beiträge 52]), sia prioritariamente volto a cifrare il significato del tem-
po vissuto dalla Chiesa. Come giustamente osservato da E. Corsini, Apocalisse prima e dopo,
SEI, Torino 1980, 32-34, l’ideale di profezia al quale si conforma la redazione di Apocalisse
è quello prototestamentario “classico”, che non ha per oggetto la predizione del futuro, ma di
rendere manifesto il giudizio di YHWH sul presente. Dunque tutta la trama scritturistica con

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L’ importanza del “progetto iconografico” 441

Scritture, Cristo e Regno sono le tre polarità che si attivano recipro-


camente entro il sistema tipologico, sprigionandone in tal modo tutto il
potenziale creativo. La tipologia, che celava la chiave interpretativa di
questa realtà complessa, diveniva in tal modo lo strumento che consen-
tiva agli autori cristiani di cogliere la verità delle Scritture, di sostanziare
la propria cristologia e di motivare il tempo in cui vivevano.
D’altra parte, questa stretta connessione favoriva esiti di traslazione
tipologica: quel fenomeno per cui, sulla base del «sistema» tipologico,
cadeva la separazione tra i suoi tre argomenti (Scritture, cristologia e at-
tesa del Regno), favorendo la traslazione di elementi dell’uno nell’altro.
La primigenia tradizione visuale cristiana è particolarmente utile per
cogliere questo peculiare fenomeno. Mi limito qui a richiamare alcuni
esempi già emersi nelle pagine precedenti.
1. I casi di subrogazione 27 (traslazioni cristologiche). In almeno due
circostanze – la presenza del Cristo-Logos nella scena della «con-
segna dei simboli del lavoro»28 ai progenitori (à Gen 3,16-24) e il
“miracolo” delle ossa aride (à Ez 37,1-14) – si è potuta osservare
l’attribuzione al Cristo di episodi prototestamentari che ovviamen-
te non lo vedevano protagonista 29.
2. Il caso della traslazione dei tre fanciulli ebrei - Magi (traslazione
scritturistica). Nonostante l’inefficace tentativo della critica di di-
stinguere tra la scena dei tre fanciulli ebrei di fronte a Nabucodo-

cui viene redatto il testo illumina proprio quell’intersezione, insieme cristologica, ecclesiolo-
gica ed escatologica, data dal presente di «una comunità alla fine della storia » (ricupero qui
l’efficace titolo della ricerca, dedicata alla tradizione di Qumran, di Ludwig Monti).
27 Riprendo ovviamente il lessico di Sotomayor, Una posible “ ley”.
28 Per questa definizione, vedi supra, pp. 344-345.
29 Nel caso specifico della subrogazione cristologica opera in modo visibile la teologia del

Logos che il Prologo di Gv 1,1-18 formalmente inaugura (sulla struttura già ermeneutica an-
che di questa prima formulazione, cfr. J.L. Ronning, The Jewish Targums and John’s Logos
Theology, Hendrickson, Peabody [MA] 2010). Il principio della preesistenza del Logos e del-
la sua funzione di mediazione dell’azione di YHWH, sin dalla creazione («Tutto è stato fatto
per mezzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste […]. Il mondo fu fat-
to per mezzo di lui»: Gv 1,3.10b), fissò ovviamente le coordinate fondamentali per travali-
care il semplice nesso profetico tra Primo Testamento e Nuovo, spingendosi sino al ricono-
scimento – misterioso ma reale – del Cristo-Logos sin dal principio (cfr. Gv 1,1-3).

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442 I modelli compositivi

nosor e una fantomatica raffigurazione dei tre Magi di fronte a


Erode 30, si è osservato come la presenza della stella di fronte ai
fanciulli ebrei mentre rifiutano di adorare l’erma del sovrano sia
propriamente un caso di traslazione tipologica.
3. Il caso di Pietro che compie il miracolo dell’acqua fatta scaturire
dalla roccia (traslazione scritturistica ed ecclesiologica). Si tratta di un
esempio di grande interesse anche perché, sul piano cronologico, pre-
cede le prime narrazioni letterarie di questo prodigio31, dimostran-
do dunque l’efficacia di questa documentazione visuale, non solo
non subalterna ai materiali letterari, ma talora fonte di questi ultimi.
4. Il caso della subrogazione del defunto al posto di Noè o al posto
di Lazzaro32 (traslazione ecclesiologica). Il presupposto di questa
sostituzione è da ricercarsi ovviamente nell’estensione ecclesiologi-
ca dell’ermeneutica tipologica: poiché quella della Chiesa è, al pa-
ri di quella di Israele, storia sacra, essa interloquisce con le Scrittu-
re dalla stessa “posizione teologica”.
Quelli appena menzionati sono casi in cui il nesso tipologico è a tal
punto stretto da permettere a tipo e antitipo di confondersi insieme, sino
a perdere la distinzione tra essi. Ne nasce una cultura scritturistica inten-
samente creativa, nella quale il testo si dimostra straordinariamente mal-
leabile, ancora pronto a recepire profondi interventi redazionali.
I due casi che si esamineranno di seguito forniscono due esempi tra
molti possibili del modello di traslazione tipologica forse più interessante:

Vedi supra, pp. 324-329.


30

Cfr. già P. Franchi de’ Cavalieri, Come i ss. Processo e Martiniano divennero i carcerie-
31

ri dei principi degli apostoli?, in Studi e Testi 22 (1909) 35-39; cfr. anche Pelizzari, Dal bat-
tesimo al regno, 56-61.
32 Fu Joseph Wilpert a sottolineare la peculiarità di alcune raffigurazioni femminili di Lazza-

ro: «Tutti ‹questi sarcofagi› mostrano il parallelo fra scene di Cristo e scene di Pietro; tutti ‹mostra-
no› la defunta orante fra santi; perciò la mummia di Lazzaro è quasi sempre femminile» (Wp. 29,
pagina 127). Si tratta, come facilmente osservava Wilpert, della trascrizione della defunta entro la
storia sacra di Gesù, entro le Scritture: «Il Giona pastore ‹il riferimento è al sarcofago che si vedrà
infra, figura 136› ha un analogon perfetto nella IVLIANAE, rappresentata nell’arca e al posto di Noè
‹vedi supra, pp. 405-406›, e nelle mummie femminili di Lazzaro sui sarcofagi che contenevano o
dovevano contenere il corpo d’una defunta» (ivi, pagina 153; i quattro migliori esemplari di questa
traslazione iconografica a giudizio dell’archeologo romano sono raccolti nella tavola Wp. 29, t. 139).

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L’ importanza del “progetto iconografico” 443

quello che riscriveva le Scritture con le Scritture per definire un proprio


manifesto teologico.

2.1. Il sarcofago del British Museum (Rep. 2, 243)


L’esempio da cui vorrei prendere le mosse è dato da uno straordinario
sarcofago a vasca, attualmente conservato al British Museum di Londra
che lo ha acquistato nel 1957 da un privato, che lo custodiva nel giardino
della sua tenuta tra Ilminster e Bath, probabilmente eredità di un Grand
Tour di età moderna 33. Non si dispone, quindi, di alcuna informazione
circa il luogo di rinvenimento o a proposito della sua vicenda in età me-
dioevale. D’altra parte, la critica tende ad assegnare a questo sarcofago
una datazione piuttosto alta, tra il 260 e il 300 34.

Figura 111: una pecora accovacciata; la nave diretta verso Tarsis e il mostro
marino; Giona rigettato dal mostro; il riposo di Giona. Fronte di sarcofago,
British Museum, Londra (Rep. 2, 243; cfr. anche E. Dinkler, Abbreviated Re-
presentations, in Weitzmann [ed.], Age of Spirituality. Late Antique, 396-448,
qui 397-399; Snyder, Ante pacem, 78). Fine del III secolo. Il pannello frontale

Cfr. S. Walker, Catalogue of Roman Sarcophagi in the British Museum, British Museum
33

Press, London 1990 (Corpus Signorum Imperii Romani. Great Britain), 59-60, numero 76.
34 A favore della datazione più alta si è espressa Walker, Catalogue, mentre assai mag-

giore consenso ha trovato una collocazione attorno alla fine del III secolo (cfr. H. Rosenau,
Problems of Jewish Iconography, Gazette des Beaux-Arts 56 [1960], 5-18, in part. 13-18; così
anche la scheda di Rep. 2, 243).

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444 I modelli compositivi

di questo sarcofago presenta un progetto iconografico molto semplice che si


limita a riprodurre il ciclo di Giona nella sua formulazione più comune, quella
in tre momenti. L’ipotesi stravagante di Rosenau, Problems of Jewish Iconography
(cfr. anche Ead., The Jonah Sarcophagus in the British Museum, in Journal of the
British Archaeological Association 24 [1961] 60-66), secondo la quale si tratte-
rebbe di un sarcofago di committenza giudaica, è stata pressoché immediata-
mente rifiutata dalla critica che giustamente ha riconosciuto in questo monu-
mento un prodotto di committenza cristiana (cfr. M. Lawrence, Three Pagan
Themes in Christian Art, in M. Meiss [ed.], Essays in Honor of Erwin Panofsky,
New York University Press, New York [NY] 1961 [De Artibus Opuscula 40],
323-335, in part. 325-327, che correla il sarcofago del British Museum ai due
“sarcofagi di Giona” di Roma e di Copenaghen: vedi supra, pp. 424-428). Si
possono osservare due elementi di caratterizzazione:
1. la diversa proporzione delle tre scene (il riposo del profeta è di registro mol-
to superiore a quello degli altri due episodi, come facilmente si può intuire
comparando le dimensioni degli altri personaggi [marinai e Giona stesso
mentre viene rigettato dalla pistrice]; analoga soluzione si ritrova, in fun-
zione anche lì progettuale, nei mosaici di Aquileia: cfr. Pelizzari, Il Pastore
ad Aquileia, 79-128);
2. la figura della pecora che riposa, collocata al di sopra dell’imbarcazione da
cui Giona verrà gettato in mare (si tratta di un espediente figurativo non
nuovo, come dimostra l’alzata Wp. 32, t. 171,6; Rep. 1, 590 del cimitero di
Pretestato a Roma, dove si osserva la medesima soluzione; vedi anche infra,
pp. 497-501).
I due elementi appena richiamati credo convergano nell’identificare il vertice
semantico di questo pannello nella scena del riposo di Giona, tipologia della
glorificazione del Cristo e, dunque, presupposto delle speranze di risurrezio-
ne dei credenti. Come già visto supra, pp. 333-334, raggiungere il pergolato
di Giona era il modo, simbolico e tuttavia assai “concreto”, con cui l’icono-
grafia cristiana delle origini descriveva l’ingresso nel Regno. Il progetto ico-
nografico di questo fronte, dunque, risulta di immediata lettura e coincide
con la “tipologia complessa” di Giona, qui puntualizzata in modo discreto
attraverso una ragionata differenziazione delle dimensioni delle scene e grazie
all’inclusione della pecora nel mare di Giona. Entrambi gli espedienti figu-
rativi impiegati dagli artigiani di questo fronte sono noti alla tradizione ico-
nografica già romana (la sproporzione delle figure era un “luogo comune”
dell’arte romana e uno dei suoi strumenti espressivi più frequentati, così
com’era diffuso il ricorso alla tecnica dell’inclusione di un tema nell’altro o del-
la contaminazione iconografica). Resta, però, da verificare se i fianchi di que-
sto monumento non permettano di puntualizzare ulteriormente il significato
di questo fronte.

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L’ importanza del “progetto iconografico” 445

Figura 112: la pistrice sotto il pergolato di Giona; un pavone si prepara a consumare


una zucca, sotto il pergolato di Giona. Fianchi sinistro e destro di sarcofago, British
Museum, Londra (Rep. 2, 243). Fine del III secolo. Con forza pregnante ed eversiva,
l’ermeneutica del sarcofago del British Museum sviluppa il teologumeno cristiano
fondamentale, quello della salvezza ottenuta da Cristo, in una prospettiva che credo
si possa definire origeniana o, per lo meno, origenista. Sui pannelli laterali di questo
sarcofago, infatti, si osserva la declinazione del marcatore figurativo del pergolato in
due esiti caratteristici: se sul lato destro il pavone, figura dell’anima del defunto, si
appresta a beccare uno di quei frutti chiamati a connotare il riposo della glorificazio-
ne di Cristo, sul lato sinistro, sotto il medesimo pergolato, si può vedere riposare
quello stesso mostro in balia del quale il profeta era stato abbandonato. Diversamen-
te da una serie di avori più tardivi (si pensi alla pisside eburnea conservata presso
l’Hermitage di San Pietroburgo, ma proveniente da Milano, e alla sua copia bavarese
[Garr. 6, 437,2-3], o alla coperta dell’evangelario di Murano conservata presso il Mu-
seo Nazionale di Ravenna) che modificano la scena del riposo di Giona, mostrando
il profeta sdraiato sulle spoglie del mostro – sintesi quanto mai efficace della sconfit-
ta di quest’ultimo –, ora invece sembra di osservare il riscatto della pistrice, il suo
ingresso in quello stesso riposo che è del Cristo e, per effetto e per il tramite del suo
sacrificio, di tutti i credenti. Nella tradizione teologica origeniana tale destino uni-
versale di salvezza (apocatastasi) assumeva i contorni di una reintegrazione edenica
“prelapsaria” (precedente alla trasgressione dei progenitori), secondo la quale tutte le
creature saranno richiamate nell’unico fine del creato: la salvezza (Origene, I principi
1,6,1; per l’Occidente si consideri Sulpicio Severo, Vita di Martino 22,5, dove Marti-
no di Tours si offre di promettere salvezza anche al diavolo, poiché sono gli ultimi
tempi). «L’apocatastasi significa l’esaltazione e il compimento della mediazione di
Cristo […]. Solo l’apocatastasi rende ragione fino in fondo della morte di Cristo, per-
ché ne sancisce l’effetto universale»: E. Prinzivalli, s.v. « Apocatastasi», in A. Monaci
Castagno (cur.), Origene. Dizionario: la cultura, il pensiero, le opere, Città Nuova,
Roma 2000, 24-29, qui 27-28 (cfr. anche A. Méhat, “Apocatastase”. Origène, Clément
d’Alexandrie, Act. 3,21, in Vigiliae Christianae 10 [1956] 196-214; M. Simonetti, La
morte di Gesù in Origene, in Rivista di storia e letteratura religosa 8 [1972] 3-41).

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446 I modelli compositivi

Come si può vedere, questo sarcofago offre ai suoi spettatori dapprima


il racconto biblico e poi la sua interpretazione, sviluppata a partire da una
riscrittura dell’episodio prototestamentario operata rielaborando i mate-
riali del testo stesso: la pistrice che riposa sotto la cucurbita, infatti, raffi-
gura il tentativo, non privo di efficacia, di affermare, attraverso i contenu-
ti forniti dalla tipologia del “segno di Giona”, l’universalità della salvezza
che Cristo ha ottenuto tramite l’immolazione del sacrificio perfetto.

2.2. Il sarcofago di San Celso (Wp. 32, tt. 243,4-6; Rep. 2, 250)
Il secondo esempio di traslazione tipologica su cui vorrei attirare l’atten-
zione è fornito da un sarcofago conservato a Milano, in una cappella latera-
le della chiesa di Santa Maria presso San Celso. Delle origini del sarcofago
si sa poco; le prime notizie utili riguardano il suo impiego per l’allestimento
dell’altare maggiore della chiesa del monastero di San Celso che l’arcivesco-
vo Landolfo II da Carcano nel novembre 997 decise di far erigere.
L’iconografia del sarcofago lascia presumere che sia da considerare pro-
duzione di officina milanese 35, mentre la cronologia – a mio giudizio da
collocare al più tardi durante il principato di Costanzo II (350-361) – vie-
ne in genere stabilita in base a una valutazione stilistica del pezzo: «Le
nobili teste del Cristo e degli Apostoli, sulla fronte, e del S. Pietro, sul
fianco destro, sono ispirate certamente ai sarcofagi romani dell’età di Co-
stanzo, tra i quali emerge quello a due registri del Museo Pio Cristiano,
dal cimitero di Lucina, con in alto i ritratti di due fratelli entro clipeo
‹Wp. 29, tt. 91; 93,2; 153,1; Rep. 1, 45›»36.

35 Così Rep. 2, 250, pagina 88, motiva l’ipotesi della provenienza da un’officina mila-

nese: «È insolito che Pietro e Paolo indossino campagi ‹stivaletti› invece dei sandali. La raf-
figurazione della guarigione dell’emorroissa mostra una composizione che si discosta dal
modello abituale […]. Oltre a un’iconografia non nota dai sarcofagi della città di Roma, è
anche stilisticamente indipendente. È stata quindi accettata un’officina milanese». Concor-
da con questa ipotesi anche F. Rebecchi, n. 5a.2g: «Sarcofago con scene del Nuovo Testamen-
to», in Milano capitale dell’Impero, 333-334, qui 334.
36 Così Rebecchi, n. 5a.2g: «Sarcofago con scene del Nuovo Testamento», 334.

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L’ importanza del “progetto iconografico” 447

Figura 113: la capanna della natività con una figura angelica (?); i tre Magi se-
guono la stella; Cristo tra Pietro e Paolo; le donne al sepolcro ricevono la visione
dell’angelo; l’incredulità di Tommaso. Fronte di sarcofago, Santa Maria presso
San Celso, Milano (Wp. 32, tt. 243,4-6; Rep. 2, 250; cfr. anche D. Knipp, ‘Chri-
stus Medicus’ in der frühchristlichen Sarkophagskulptur. Ikonographische Studien
zur Sepulkralkunst des späten vierten Jahrhunderts, Brill, Leiden 1998 [Supplements
to Vigiliae Christianae 37], 90-139). Metà del IV secolo. L’immagine è tratta da
Garr. 5, t. 315,5 (Garrucci reputa tardive – e dunque non riporta – le tre piccole
croci greche incise sulla destra dei volti di Pietro, Gesù e Paolo). Rebecchi, n.
5a.2g: «Sarcofago con scene del Nuovo Testamento», 333, offre una lettura narrati-
va del progetto iconografico di questo documento, ravvisandovi gli «episodi del-
la vita di Cristo, dalla nascita alla resurrezione». Tale lettura è a mio avviso diffi-
cilmente sostenibile, per due ragioni: innanzi tutto perché presupporrebbe un
incontro tra Gesù e Paolo, fatto difficilmente suffragabile a partire dalle fonti in
nostro possesso; secondariamente, perché il Cristo della scena centrale viene ca-
ratterizzato da una folta barba, mentre il risorto è presentato ancora con i carat-
teri del giovinetto imberbe. La scena centrale, dunque, deve essere valutata come
una manifestazione escatologica della regalità del Cristo, una figura più prossima
alle tematiche di Apocalisse che a quelle dei Sinottici (e difatti il Cristo che qui si
osserva è “più adulto” del Risorto, rinviando dunque a un tempo successivo). Se
si accetta l’autonomia di questa scena centrale, l’organizzazione complessiva del
fronte del sarcofago emerge assai facilmente: nelle due scene alla sinistra di questa
effigie centrale andrà riconosciuto un breve “ciclo della natività”; nelle altre due,
di destra, un altrettanto sintetico “ciclo della risurrezione”. Per prima cosa, va se-
gnalato il dato cronologico: assumendo la cronologia che qui è stata proposta,
questo sarcofago reca uno dei primi esempi della raffigurazione della natività a
noi noti. Solitamente la critica data alla metà del IV secolo l’avvio della produzio-
ne di questa scena, attribuita in genere a un’officina romana sulla via Appia, area
dalla quale sono stati recuperati diversi esemplari di questo soggetto. L’ipotesi di
un sostanziale parallelismo tra questa più antica produzione romana e l’esperi-
mento milanese permette di motivare la singolarità dello schema figurativo che

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448 I modelli compositivi

qui si osserva. Anche il “ciclo della risurrezione” denota un’analoga propensione


per lo sperimentalismo figurativo, sia per l’inedito accostamento delle due scene
che qui ritorna sia per la raffigurazione delle donne al sepolcro, qui introdotta per
la prima volta nell’immaginario cristiano. L’elemento che più vistosamente cat-
tura l’attenzione dell’osservatore è però quello della traiettoria del viaggio dei
Magi (per una valutazione dell’originalità di questa soluzione figurativa, cfr. F.P.
Massara, Ab Oriente Venerunt: Sull’ iconografia paleocristiana dei Magi evangeli-
ci, in S. Manfredi - A. Passaro [curr.], Abscondita in lucem. Scritti in onore di
mons. Benedetto Rocco, Salvatore Sciascia, Palermo 1998 [Ho theológos. Quader-
ni 16], 271-283, in part. 278): come si nota facilmente, infatti, i tre sapienti d’O-
riente seguono una stella che non li conduce verso la mangiatoia, bensì verso l’e-
pifania del Cristo apocalittico. Quale può essere la motivazione di questa scelta
incongruente con il testo matteano? Tanto l’ipotesi di un grossolano errore quan-
to quella di una ricerca estrema di variatio mi sembrano spiegazioni francamente
elusive della complessità del documento, soprattutto in ragione del fatto che, ri-
conoscendo al progetto iconografico di questo sarcofago un’impostazione tipo-
logica, si può pervenire a una soluzione critica più economica. La traiettoria ver-
so il Cristo escatologico in luogo della capanna della natività è infatti indirizzata
a sottolineare il significato autentico della pericope evangelica: «Come nel Van-
gelo di Matteo – che inserisce l’episodio dei tre sapienti per indicare, da un lato,
la regalità di Gesù sin dalla nascita; dall’altro, per legittimare l’ecclesia ex gentibus
cristiana – in questo monumento i Magi indirizzano il loro culto verso la basileia
apocalittica di Gesù, non verso le tenerezze della capanna di Betlemme» (Peliz-
zari, Vedere la Parola, 112). Il racconto dell’episodio dell’epifania ai Magi, infatti,
era finalizzato ad affermare la piena regalità del Cristo sin dal momento della sua
nascita (e così venne prioritariamente recepito dalla più antica esegesi cristiana:
cfr. Scorza Barcellona, L’ interpretazione cristologica dei tre doni; cfr. anche, pur se
da una prospettiva traslata, T. Hegedus, The Magi and the Star in the Gospel of
Matthew and Early Christian Tradition, in Laval théologique et philosophique 59
[2003] 81-95, in part. 87-95). La redazione di questo episodio mise in scena una
«finzione teologica», per ricuperare una felice definizione di Élian Cuvillier, La
visite des mages dans l’Évangile de Matthieu (Mt 2,1-12): approche narrative d’une
fiction théologique, in Foi et vie 98 (1999) 75-85, il cui scopo fu da subito proprio
quello di affermare, di fronte a tutti gli uomini, l’immediata piena regalità del
Cristo, l’“unto”, il “consacrato” in vista del Regno. Far emergere il significato au-
tentico dell’episodio dei Magi credo sia stata la ragione che portò a inserire nel
progetto iconografico del “sarcofago di San Celso” anche questa singolare nativi-
tà (si notino le colonnine della capanna). Per capire in che modo questo obiettivo
fu perseguito, credo convenga distinguere tra la descrizione iconografica di questa
scena e la sua funzione progettuale. Circa la prima: la nascita del Cristo è evento
sacro per eccellenza perché rappresenta il momento decisivo dell’incarnazione;
del resto questo snodo cruciale della storia della salvezza si stava “trasformando”

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L’ importanza del “progetto iconografico” 449

in una festa liturgica proprio negli anni in cui veniva realizzato questo sarcofago
(la festività del Natale inizia a essere celebrata attorno al 330-340, anche se si af-
ferma stabilmente solo con la fine del IV secolo: cfr. B. Botte, Les origines de la
Noël et de l’Épiphanie: étude historique, Abbaye du Mont César, Louvain 1932
[Textes et Études liturgiques]). Credo che il personaggio al di sopra della capanna,
con quell’enigmatico gesto della mano destra – che, nonostante le esitazioni del-
la critica, mi pare possa essere identificato con l’adlocutio e che dunque forse po-
trebbe rinviare all’angelo dell’epifania lucana ai pastori (Lc 2,8-20) –, voglia sot-
tolinare nel complesso proprio questo: la decisiva importanza del momento a cui
l’osservatore sta guardando, il momento dell’incarnazione del Logos. D’altra
parte, come anticipato, questa raffigurazione della natività assume un rilievo an-
cor più significativo allorchè viene calata nel progetto iconografico del sarcofago;
qui essa assolve a un compito diverso: sottolineare quanto più vistosamente pos-
sibile la stridente meta del cammino dei Magi. Senza sminuire l’importanza –
storico-salvifica e teologica – dell’incarnazione, dunque, il manifesto teologico di
questo sarcofago vuole enfatizzare un altro teologumeno, il momento al quale anche
il “farsi carne” del Logos (cfr. Gv 1,14a) era stato provvidenzialmente finalizzato:
il traguardo di tutta la storia della salvezza, il compimento dei tempi, l’avvento
del Regno, la manifestazione regale del Cristo. Il traguardo dell’intera storia del-
la salvezza, il Regno, viene qui non solo richiamato, ma anche efficacemente
correlato al resto dell’economia nuova. Il rigore teologico di questo progetto
iconografico si comprende considerando la gerarchia che articola qui i tre teo-
logumeni dell’incarnazione, della risurrezione e della glorificazione escatologi-
ca del Cristo. Non vi è dubbio che sia quest’ultimo tema a prevalere sugli altri
due (il viaggio dei Magi e la diversa resa del Cristo escatologico e del Risorto lo
dimostrano) e che in esso stia ciò che la committenza di questo sarcofago con-
siderava l’apice della propria professione di fede, l’argomento e la ragione pro-
fonda del suo sperare. Di grande interesse è anche il pannello di destra di questo
fronte, sul quale si osservano due paradigmi del racconto di risurrezione: la solle-
citudine delle donne che, pur spaventate, credettero all’inaudita notizia dell’an-
gelo (direi che la scena che qui si osserva armonizzi il resoconto di Mt 28,1-8
[dove l’angelo proviene dal cielo: cfr. v. 2] e quello di Lc 24,1-11 [dove lo spaven-
to porta «le donne» a «chinare il capo»: v. 5]) si contrappone qui all’esitazione dei
due discepoli che, pur avendo di fronte agli occhi il Risorto in persona, ancora
dubitano, sino a esigere la nota prova di Tommaso (si noti, però: in Gv 20,24-29
l’Apostolo si dimostra incredulo di fronte all’annuncio della risurrezione ma, ve-
dendo il Cristo, immediatamente lo confessa «mio Signore e mio Dio» [v. 28],
senza toccare, come avviene qui, le sue piaghe; tant’è che il risorto lo apostrofa
dicendo: «Poiché mi hai veduto…» [v. 29]; quella del sarcofago di San Celso po-
trebbe essere la più antica raffigurazione di questo episodio: cfr. P.R. Crowley,
Doubting Thomas and the Matter of Embodiment on Early Christian Sarcophagi,
in Art History, 41 [2018] 566-591 qui 567).

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450 I modelli compositivi

Figura 114: le donne al sepolcro ricevono la


visione dell’angelo; l’incredulità di Tommaso.
Particolare di fronte di sarcofago, Santa Maria
presso San Celso, Milano (Wp. 32, tt. 243,4-
6; Rep. 2, 250). Metà del IV secolo. Dettaglio
dalla tavola Wp. 32, t. 243,6. Sembra quasi
che questa antica descrizione visuale della ri-
surrezione voglia comparare la fede delle don-
ne e l’increduità degli uomini che, non a caso,
sono raffigurati “più in basso” rispetto alle due
donne al sepolcro. Se così fosse, si tratterebbe
di uno straordinario sviluppo ermeneutico
che, sia detto, può vantare ben pochi paralleli
nelle tradizioni letterarie paleocristiane.

Figura 115: L’emorroissa sfiora il lembo della veste di Gesù; Pietro fa scaturire
miracolosamente l’acqua dalla roccia per i carcerieri Processo e Martiniano.
Fianchi sinistro e destro del sarcofago ora in Santa Maria presso San Celso,
Milano (Wp. 32, tt. 243,4-6; Rep. 2, 250). Metà del IV secolo. Le figure dei
due pannelli sono tratte da Garr. 5, tt. 315,4 e 3. L’elemento forse latamente “di
genere” a cui si è fatto cenno per il “ciclo della risurrezione” potrebbe essere
echeggiato dai due pannelli laterali del sarcofago che, in ogni caso, sono chia-
ramente organizzati come minima rubrica di testimonia relativa alla remissione
dell’impurità (risanamento dell’emorroissa) e del peccato (Pietro che provvede
l’acqua battesimale; quest’ultima scena implica una traslazione tipologica tra
Pietro e Mosè, come già segnalato).
Il sarcofago di Santa Maria presso San Celso documenta efficacemente la pos-
sibile ampiezza dell’impiego della traslazione tipologica: anche nel caso appena
considerato, il «sistema» tipologico venne applicato dal Nuovo Testamento al-
la Chiesa e all’escatologia e, ancora una volta, la scena narrata nel testo biblico
(Mt 2,1-12) venne direttamente traslata nel suo significato ermeneutico. In tal

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L’ importanza del “progetto iconografico” 451

modo il cammino dei Magi, tipo dell’aggregarsi, nella Chiesa, di ogni Nazione
per professare Gesù, il Cristo, il “consacrato” per il Regno, poté essere riscritto
esplicitamente in un itinerario attentamente indirizzato (si osservi la postura
delle mani dei tre Magi) verso il Cristo escatologico.

3. L’ARGOMENTAZIONE TIPOLOGICA:
LA SALVEZZA COME STORIA

I temi che attivano il «sistema» tipologico (Scritture, cristologia ed


escatologia) si indirizzano naturalmente verso la narrazione di una storia:
quella provvidenziale della salvezza. Del resto, anche volendo ridurre
questo «sistema» complesso ai minimi termini del solo meccanismo ese-
getico basato sul nesso tra tipo e antitipo, emerge con evidenza il carat-
tere “storico” di questa ermeneutica. Il tipo, infatti, deve precedere l’an-
titipo – non può darsi il caso contrario –, poiché quest’ultimo si
manifesta per compiere il primo e, in tal modo, per dimostrare la natura
finale dei tempi vissuti dai credenti.
Se, dunque, la significazione procede in modo biunivoco (l’evento
nuovo è chiarito dalla sua profezia antica e il significato di quest’ultima
viene interamente rivelato tramite il suo compimento), non così si può
dire per la ricapitolazione che, essendo un effetto del compimento dei
tempi, vale solo in una direzione: il nuovo ricapitola l’antico.
La tipologia, dunque, è intrinsecamente narrazione di una storia o, se
si preferisce, è un’ermeneutica storica delle narrazioni bibliche.
Gli esempi analizzati di seguito dovrebbero mostrare sino a che pun-
to questo aspetto del «sistema» tipologico venne esaltato dalla Grundlogik
e dal Grundgesetz della primigenia tradizione visuale cristiana.

3.1. L’alzata del sarcofago Lateranense 176 (Wp. 32, t. 177,3; Rep. 1, 145)
Il documento da cui vorrei iniziare è un’alzata di sarcofago rinvenuta
a Roma, nei pressi della basilica di San Lorenzo fuori le mura. Si tratta di
un pezzo facilmente databile alla prima metà del IV secolo che sviluppa,
su due pannelli separati da una tabula inscriptionis non compilata, una
sintetica storia della salvezza, dalla creazione sino ai tempi della Chiesa.

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452 I modelli compositivi

Figura 116: la trasgressione dei progenitori; Mosè riceve la Legge; i Magi pre-
sentano le loro offerte a Maria; tabula inscriptionis tra personaggi alati (angeli?
eroti?); Noè riceve la colomba nell’arca; Giona rigettato dal mostro giunge sot-
to il pergolato; Pietro fa scaturire l’acqua dalla roccia. Alzata di sarcofago (La-
teranense 176), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t.
177,3; Rep. 1, 145). Prima metà del IV secolo. L’immagine è tratta da Garr. 5,
t. 384,6. Le scene che si susseguono lungo questa alzata ancora una volta pro-
vengono da una serie eterogenea di libri biblici (Genesi, Esodo, i Sinottici e le
tradizioni agiografiche petrine). La suddivisione della materia iconografica in
due pannelli, introdotta dalla tabula, organizza i testimonia visuali del progetto
iconografico in maniera chiara.

Figura 117: la trasgressione dei progenitori; Mosè riceve la Legge; i Magi pre-
sentano le loro offerte a Maria. Particolare di alzata di sarcofago (Lateranense
176), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano. L’immagine è ricavata
da Garr. 5, t. 384,6. Il pannello di sinistra ripercorre la prima parte della storia
della salvezza: quella che dall’allontanamento di Adamo ed Eva dal paradiso
terrestre giunse sino all’incarnazione. Si osserva qui l’economia antica, dram-
maticamente aperta ai piedi dell’albero genesiaco, trascorsa sotto la «maledizio-
ne della Legge» (Gal 3,6-14) e “sovvertita” dalla nuova Eva, Maria (per questa
fortunata ermeneutica mariana, cfr. Gila, Maria nelle origini cristiane, 46-48 e
passim). Sono qui radunati i passaggi salienti di questa storia, sufficienti a scan-
dirne non solo le stagioni, ma anche il significato: la separazione tra creature e
Creatore; l’elezione di un popolo tra le genti per mezzo del dono della Legge,
affinché «il timore ‹di YHWH› sia sempre presente ‹al suo popolo› e non pecchi»
(Es 20,20); l’avvento del Messia che «salverà il suo popolo da tutti i peccati»
(Mt 1,21). Il progetto di questo pannello rivela così il suo duplice significato:
storico-salvifico e relativo al teologumeno del peccato, di cui vengono rievoca-
ti l’origine, con l’avvio della storia umana, il rimedio e la remissione.

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L’ importanza del “progetto iconografico” 453

Figura 118: Noè riceve la colomba nell’arca; Giona rigettato dal mostro giunge
sotto il pergolato; Pietro fa scaturire l’acqua dalla roccia. Particolare di alzata di
sarcofago (Lateranense 176), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano.
L’immagine è ricavata da Garr. 5, t. 384,6. Il pannello di destra completa la storia
della salvezza che prima si è iniziato a percorrere. La parte più rilevante di questo
gruppo è ovviamente rappresentata dal breve ciclo di Giona che qui, per altro,
viene singolarmente caratterizzato da un’inedita configurazione del riposo del
profeta. Non ancora del tutto libero dalle fauci della pistrice, egli già si protende,
abbracciandolo, verso l’arbusto del suo pergolato in una struggente quanto effica-
ce formulazione che sembra dar corpo a quell’“urgenza di salvezza” così frequente
nella più antica produzione cristiana, visuale e non. Ai lati di questo breve ciclo,
si trovano l’episodio di Noè che riceve la colomba e il prodigio delle acque mira-
colose. Il racconto del diluvio universale (Gen 6 - 7) è un “luogo comune” della
più antica letteratura cristiana, che vi ritrova stabilmente una tipologia della Pasqua
di Gesù e della Chiesa da essa nata (cfr. Daniélou, Sacramentum futuri, 55-94;
Rahner, Simboli della Chiesa, 865-938; H.S. Benjamins, Noah, the Ark, and the
Flood in Early Christian Theology: The Ship of the Church in the Making, in F.
García Martínez - G.P. Luttikhuizen [eds.], Interpretations of the Flood, Brill, Lei-
den - Boston [MA] 1999 [Themes in biblical narrative: Jewish and Christian tra-
ditions 1], 134-149). Il nesso tra la scena genesiaca e il ciclo di Giona è, dunque,
interamente pasquale. Da ultima, la scena battesimale dell’acqua miracolosa, sce-
na oggi interamente ricomposta e dunque non più frammentaria, il cui significato
è già stato più volte indicato nel corso di queste pagine. Se, dunque, si accetta
l’antitipologia pasquale per le scene del diluvio e del ciclo di Giona, diventa del
tutto chiara la narrazione sviluppata da questo pannello: dalla Pasqua di Cristo al
tempo della Chiesa; l’economia nuova della Nuova Alleanza. Vi sono due elemen-
ti che mi pare aggreghino questi tre soggetti (Noè, Giona e le acque miracolose):
1. tutti e tre rinviano alla salvezza predisposta da Dio per i suoi figli;
2. l’acqua è un dato che ritorna in ognuno di essi. Se prima la riflessione sul
peccato si svolgeva tra le piante del giardino, sul monte della Legge e lungo
la strada percorsa dai Magi, l’annuncio della salvezza “fluttua” sull’acqua.
Acque nocive quelle del diluvio e della tempesta di Giona ma destinate a essere
riscattate dalla Pasqua di Cristo, capace di trasformarle nell’acqua vivificante del
battesimo.

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La valorizzazione dell’impianto tipologico con cui questi testimonia


visuali sono stati impiegati sull’alzata Lateranense 176 ha permesso di ri-
cavare, a partire dalla loro successione, un’autentica storia della salvezza
nella quale il tema soteriologico non riveste il ruolo dell’auspicio formu-
lato per una persona cara, ma definisce la cifra attraverso la quale viene
interpretato il lungo itinerario intrapreso dall’umanità.

3.2. Il sarcofago Lateranense 193 (Wp. 32, t. 186,2; Rep. 1, 25)


Se l’alzata Lateranense 176 aveva cercato di sviluppare una narrazione
di tutte le principali tappe della storia della salvezza, il documento che
vorrei esaminare ora procede in modo difforme, riflettendo, a me sembra,
sugli estremi di questa vicenda, ciò che in gergo tecnico si definisce “pro-
tologia” ed “escatologia”. Poiché quella della salvezza non è una storia di
volta in volta decisa dalle sue circostanze ma è una vicenda preordinata
al suo compimento sin dall’origine, essa può essere efficacemente presen-
tata anche limitandosi ai suoi estremi.
Il sarcofago Lateranense 193 proviene dal Cimitero di Lucina; ser-
vì, prima di essere traslato nei Musei Vaticani, come arca funebre per
Riccardo Caracciolo, il che forse concorse a preservarne il fregio che,
restaurato nelle sue parti mancanti, è oggi ammirabile in tutto il suo
splendore.

Figura 119: le offerte di Caino e Abele; la «consegna degli strumenti del la-
voro» (il braccio destro del Cristo reggeva una fascina di spighe che è stata
ripristinata nei moderni restauri ed è oggi visibile); la trasgressione dei proge-

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L’ importanza del “progetto iconografico” 455

nitori (è stato restaurato il serpente); ritratto della defunta; la guarigione del


paralitico (oggi si può vedere il braccio destro del Cristo che tocca con una
bacchetta il lettuccio); la guarigione del cieco nato; il miracolo delle nozze di
Cana (anche in questo caso è stata reintegrata la bacchetta con cui vengono
raggiunte le giare ai piedi di Gesù); la risurrezione di Lazzaro. Fronte di sar-
cofago (Lateranense 193), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano
(Wp. 32, t. 186,2; Rep. 1, 25). Secondo terzo del IV secolo. L’immagine è
tratta da Garr. 5, t. 372,3. Il ritratto della donna defunta che qui mostra un
codice aperto, rivolto all’osservatore (il dato merita di essere sottolineato sia
per questa forma di idealizzazione autobiografica di ordine culturale non co-
mune per una donna del mondo antico sia per il costo dei codici, che consen-
te di situare entro gli strati socialmente più alti della popolazione urbana di
Roma la committenza di questo documento), divide il fronte del sarcofago in
due metà. Tale ripartizione dello spazio è rispettata anche dai materiali figu-
rativi che qui sono stati dislocati, sviluppando in tal modo due gruppi tema-
tici assai compatti. Nella metà di sinistra, infatti, è possibile osservare un
ciclo narrativo genesiaco che, prendendo le mosse dal ritratto centrale, si svi-
luppa verso l’esterno del fronte. Caduta, cacciata e prima offerta dell’uomo a
un Dio ormai non più prossimo come era nel paradiso terrestre (Caino e Abe-
le) sono i tre momenti qui interpellati per narrare le origini della storia uma-
na, quel “mito protologico” che vuole dar conto della condizione esistenziale
di ciascuno. Non sarà sfuggita la ripetizione, anche su questo documento
visuale, della subrogazione di Cristo nella scena della cacciata (vedi supra, pp.
369-370): come si può osservare, è il Logos a consegnare le spighe ad Adamo
ed Eva, indicando loro l’avvio di quel lungo cammino che l’umanità sarà
chiamata a compiere dopo aver lasciato l’Eden. Circa l’offerta dei due fratel-
li a YHWH, vi è chi ha proposto di riconoscere, nei due volti alle spalle del
Padre, le altre due persone della Trinità: si tratta di un’ipotesi suggestiva, ma
fatalmente non verificabile. Alla destra del ritratto della defunta, si trova in-
vece un denso ciclo gesuano che, volendo mantenere l’episodio di Lazzaro
quale momento estremo della vita pubblica di Gesù – sulla scorta dell’orga-
nizzazione del “libro dei segni” giovanneo –, si snoda esso pure dal centro
verso l’esterno. Vi è qui una sintesi quanto mai efficace dei principali mira-
coli compiuti da Gesù e, per il loro tramite, un compendio dei principali as-
siomi cristologici:
1. il Cristo rimette i peccati (miracolo del paralitico);
2. il «Figlio dell’uomo» è giunto ed è «Signore» (Gv 9,35-39: miracolo del cie-
co nato);
3. il Cristo porta il “vino ultimo” al termine dello sposalizio (nozze di Cana);
4. il Cristo ha il potere di vincere la morte, sua e dei suoi fedeli (risurrezione
di Lazzaro).

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456 I modelli compositivi

Figura 120: schema riassuntivo del progetto iconografico del Lateranense 193
(Wp. 32, t. 186,2; Rep. 1, 25). Il progetto di questo fronte di sarcofago non si
limita, però, a giustapporre queste due riflessioni, sull’origine e sul compimento,
ma ne correla le diverse parti in un modo che a me pare del tutto straordinario.
Come mostra lo schema, infatti, è possibile abbinare specularmente i diversi mo-
menti che scandiscono la narrazione di entrambi i cicli figurativi:
1. alla raffigurazione della colpa originaria di Adamo ed Eva corrisponde il
miracolo che ha provato definitivamente la facoltà del Figlio di rimettere i
peccati;
2. alla scena intermedia che, mostrando la sanzione della colpa, indica anche
l’avvio del tempo della storia – il tempo della lontananza tra Creatore e cre-
ature – rispondono sul pannello destro i due segni della guarigione del cie-
co nato, che dichiara in potenza Gesù Figlio dell’uomo e che ne annuncia
la venuta «in questo mondo per giudicare» (Gv 9,39), e del miracolo di
Cana, quello del “vino ultimo”;
3. l’iniziale, scandaloso atto di morte che insanguinò la prima generazione
umana nata fuori dal giardino paradisiaco è sanato da quel prodigio di vita
che piegò la potenza del Logos divino al suo umano affetto per l’amico che
era morto.

La perfezione del dispositivo ermeneutico dispiegato da questo docu-


mento credo induca naturalmente a domandarsi cosa leggesse questa
anonima matrona cristiana sul codice che tiene aperto, rivolto agli spet-
tatori del suo sarcofago. Forse la domanda è oziosa, ma in questo dettaglio
vi è un elemento che a me pare grandemente significativo: come si è ormai
ripetuto più volte, la documentazione visuale cristiana delle origini non

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L’ importanza del “progetto iconografico” 457

è né alternativa né contrapposta né – amo aggiungere – subalterna alle


più antiche letterature cristiane. Al contrario, come avviene qui, la paro-
la e l’immagine rappresentarono le due possibilità espressive concesse a
quei discepoli di Gesù, il Cristo, che avevano ormai imparato a situare la
loro vicenda umana e a ricercare l’ideale stesso del cosmo tra le pagine
delle Scritture.

3.3. Il sarcofago Lateranense 135 (Wp. 32, tt. 206,5-7; Rep. 1, 23)
Quest’ultimo sarcofago proviene dal Cimitero di Callisto ed è comu-
nemente datato al secondo terzo del IV secolo. Si tratta, a mio avviso, di
uno dei più bei sarcofagi a fregio continuo delle origini cristiane.

Figura 121: la creazione del primo uomo; la trasgressione dei progenitori; il


miracolo delle nozze di Cana; la guarigione del cieco nato; il “miracolo” delle
ossa aride; l’annuncio della triplice negazione; la guarigione del paralitico; il
sacrificio di Isacco; l’arresto di Pietro; Pietro fa scaturire l’acqua dalla roccia per
i carcerieri Processo e Martiniano. Fronte di sarcofago (Lateranense 135), Mu-
sei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, tt. 206,5-7; Rep. 1, 23;
cfr. anche Pelizzari, Vedere la Parola, 151-154). Secondo terzo del IV secolo.
L’immagine è tratta da Garr. 5, t. 318,1. Il progetto iconografico di questo fron-
te, mediante la convinta adozione di tutto il potenziale offerto dal «sistema»
ermeneutico tipologico, compendia un efficace itinerario entro la storia della
salvezza, la cui lettura non pone rilevanti difficoltà, essendo il suo progetto ico-
nografico sviluppato narrativamente, accostando l’uno all’altro i momenti sa-
lienti di questo itinerario biblico e storico-salvifico. Il primo soggetto che si
incontra sul fronte di questo sarcofago mostra YHWH mentre poggia la mano
sulla spalla di Adamo; i due volti si rispecchiano, a dare un’acuta traduzione

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458 I modelli compositivi

figurativa di quell’«immagine e somiglianza» (Gen 1,27) che fonda l’antropo-


logia biblica, mentre l’azione creatrice è resa con il gesto al quale la cultura giu-
ridica romana affidava il compito di significare la liberazione di uno schiavo (la
manumissio per vindictam che si concludeva con il magistrato che riconosceva
la libertà dell’ex-schiavo appoggiando la propria mano sulla sua spalla; questa
prassi porterà in età postclassica alla nascita dell’istituto della manumissio in
Ecclesia quale prerogativa propria della Chiesa e quale “vendita fittizia” alla di-
vinità; cfr. F. Fabbrini, La manumissio in ecclesia, Giuffrè, Milano 1963 [Uni-
versità degli Studi di Roma. Pubblicazioni dell’Istituto di Diritto Romano e dei
Diritti dell’Oriente Mediterraneo]). Come forse si esprimerebbero i teologi del-
la contemporaneità, la creazione dell’uomo è qui rappresentata come una “chia-
mata alla libertà”. La scena successiva, quella della trasgressione di Adamo ed
Eva, si “fonde” con la trasmutazione dell’acqua in vino compiuta da Gesù alle
nozze di Cana. Come si è avuto modo di ripetere molte volte, tale segno non si
limitava a dare avvio al racconto giovanneo della “vita pubblica” di Gesù, ma
qualificava la missione stessa del Cristo attraverso l’immagine del vino buono
portato alla fine, quando il banchetto si sta ormai concludendo. Il tempo della
storia – che non inizia con una trasgressione, ma con un atto d’amore, la crea-
zione – è ormai giunto alla fine e, mentre volge al termine, si profila sull’oriz-
zonte la sagoma del Regno che giunge. Seguono quindi una serie di episodi
tratti dal magistero di Gesù, accuratamente selezionati per sottolineare la fina-
lizzazione escatologica della consacrazione regale del Messia (la guarigione del
cieco nato: il figlio dell’uomo venuto per giudicare; il “miracolo” delle ossa ari-
de come ricomposizione dell’Israele escatologico; la guarigione del paralitico
come manifestazione della capacità di rimettere i peccati). Con straordinaria
lucidità, al centro di questo sarcofago, l’annuncio della triplice negazione – che
nell’iconografia cristiana delle origini rappresenta una sorta di paradossale vo-
cazione di Pietro (vedi supra, pp. 388-389) – sta tra la scena della ricomposizio-
ne delle ossa aride e la guarigione del paralitico, a dare i due compiti principali
della Chiesa: costituire la cittadinanza escatologica (e fu questa una lettura ti-
picamente cristiana della visione profetica: cfr. J. Tromp, “Can These Bones Live?”
Ezekiel 37:1-14 and Eschatological Resurrection, in H.J. de Jonge - J. Tromp [eds.],
The Book of Ezekiel and Its Influence, Ashgate, Burlington [VT] 2007, 61-78) e
amministrare la misericordia di Dio. La vicenda storica del Cristo si conclude
con la grande tipologia della Pasqua, il sacrificio di Isacco, la cui raffigurazione
viene qui sapientemente orchestrata in modo tale che il volto del Cristo sia ac-
costato dal muso dell’ariete che YHWH provvide per il sacrificio, dopo aver ri-
sparmiato la vita dell’unicogenito di Abramo. A concludere questo fronte stan-
no le due scene dell’arresto di Pietro e dell’acqua miracolosa che egli avrebbe
procurato per i suoi carcerieri: sono i due caratteri costitutivi dell’ecclesiologia
più antica, quella che riconosceva nella Chiesa una nazione di testimoni e la
dispensatrice di quell’acqua battesimale che rappresentava la soglia del Regno.

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L’ importanza del “progetto iconografico” 459

Figura 122: il ciclo genesiaco; l’avvento del tempo finale; la “vita pubblica di
Gesù”; la Pasqua; il tempo della Chiesa. Schema riassuntivo del progetto ico-
nografico del Lateranense 135 (Wp. 32, t. 206,5-7; Rep. 1, 23). L’immagine è
tratta da Pelizzari, Vedere la Parola, 151, figura 62. Lo schema riportato con-
clusivamente isola le diverse fasi in cui il progetto iconografico di questo fronte
suddivide la storia della salvezza: l’“antico” sembra scomparire, ormai soltanto
presupposto nello spazio qui solo evocato tra la creazione e l’avvio cristologico
dei tempi ultimi. Centrale è ora l’economia nuova, quella inaugurata da Cristo,
quella nella quale si sentiva immersa la committenza di questo documento: è
un tempo vigiliare, un tempo non ancora compiuto, un tempo della speranza
e dell’attesa.

Il progetto iconografico di questo sarcofago è sviluppato nel modo più


semplice, narrando diversi momenti di questa vicenda provvidenziale.
Compresa la natura tipologica dell’impiego dei testimonia visuali che qui
si alternano, credo che risulti del tutto intellegibile l’itinerario argomen-
tativo che qui si è cercato di ripercorrere.
Non è possibile definire questi monumenti come dei generici auguri
di salvezza; essi, che certo attestano la speranza in una risurrezione capa-
ce di soverchiare l’ineluttabilità della morte, rispondevano tuttavia a
un’altra priorità: dare voce un’ultima volta a quella professione di fede che
aveva definito la vita di questi antichi cristiani.

3.4. La coppa di Podgorica (Museo dell’Hermitage)


L’ultimo documento su cui vorrei richiamare l’attenzione è la coppa
di Podgorica 37. Si è già detto di questo vetro molato della metà del IV

37 Questo celebre documento, dopo essere stato rinvenuto fortunosamente nel 1870 (non

esiste giornale di scavo) presso l’antica Doclea, in prossimità di Podgorica, in Montenegro,


fu prima proprietà del console italiano Lorenzo Perrod e poi (entro il 1877) entrò nella col-

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460 I modelli compositivi

secolo che esso è abitualmente rievocato per suffragare l’ipotesi dei “pa-
radigmi di salvazione”, per via del fatto che su di esso si ritrovano una
serie di temi iconografici accompagnati da brevi testi epigrafici che pre-
sentano numerosi elementi di affinità con l’Ordo commendationis animae
a cui, dagli studi di Emile Le Blant in avanti, si guarda per trovare la
matrice di questa primigenia tradizione visuale 38.
L’elemento su cui ci si sofferma più spesso è l’iscrizione « DIUNAN DE
VENTRE QUETI LIBERATUS EST (Giona fu liberato dal ventre del kētos)»
che impiega la stessa costruzione “libera de” di cui si è vista la centralità
nell’Ordo, dove pure viene impiegata per strutturare la formula: «Libera,
Domine, … sicut liberasti … de …». Altre tre iscrizioni della coppa ven-
gono in genere richiamate per affermare la parentela tra l’Ordo e la coppa:
benché in esse manchi il predicato verbale, il costrutto con il “de” più
ablativo ha giustamente suggerito che la stessa costruzione possa essere
presupposta anche in quei casi 39. Reputo assolutamente corretto il paral-
lelo, ma non ne sovrastimerei la portata per due motivi:
1. Le difformità tra l’Ordo e la coppa. Non mi riferisco tanto alla
presenza qui di Giona – caso non contemplato nella lista del testo
eucologico –, poiché giustamente Pierre Prigent ha attirato l’atten-
zione sul Sacramentario di Rhinau, dove anche il caso del profeta
è contemplato 40; mi riferisco piuttosto al fatto che di otto imma-
gini riportate sulla coppa, per ben quattro non solo l’iscrizione –
ove presente (il sacrificio di Isacco ne è privo) – non correla al for-

lezione di Alexander Petrowich Basilewski. Presentata al pubblico durante l’esposizione uni-


versale di Parigi del 1878, nel 1884 fu acquistata del governo zarista, entrando così a far
parte della collezione dell’Hermitage dove ancora è conservata e visibile. Cfr. Nagel, Die
Schale von Podgorica, 162-169, che ricostruisce dettagliatamente la vicenda archeologica –
per quanto possibile –, la storia e la fortuna critica di questa coppa.
38 Per la discussione dell’efficacia di questa fonte eucologica, qui fortemente ridimen-

sionata, vedi supra, pp. 416-421.


39 In ordine di apparizione: l’iscrizione sovrapposta alla scena di Daniele tra i leoni (« DA-

NIEL DE LACO LEONIS »), quella relativa ai tre fanciulli ebrei (« TRIS PUERI DE ECNE CAMI »)
e quella di Susanna (« SUSANNA DE FALSO CRIMINE »). Cfr. ancora Nagel, Die Schale von Po-
dgorica, 184-188. Cfr. anche Prigent, L’arte dei primi cristiani, 224-225.
40 Cfr. Prigent, L’arte dei primi cristiani, 223.

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L’ importanza del “progetto iconografico” 461

mulario dell’Ordo, ma talora nemmeno il soggetto scelto sembra


prestarsi al ruolo di “paradigma di salvazione” (Adamo ed Eva o
la figura del “miracolo” della roccia).
2. La datazione della coppa che, ove pure si volessero tralasciare le
differenze che sussistono tra questo documento e quel rituale litur-
gico, in ogni caso non risolverebbe il problema principale dell’ipo-
tesi di Le Blant: il fatto che sia inadatta a motivare l’originale co-
stituzione del primigenio immaginario cristiano.

Figura 123: al centro: il sacrificio di Isacco; lungo il bordo: la trasgressione dei pro-
genitori; la risurrezione di Lazzaro; Pietro fa scaturire miracolosamente l’acqua; Da-
niele nella fossa dei leoni; i tre fanciulli ebrei nella fornace; Susanna accusata del fal-
so crimine; il ciclo di Giona. “Coppa di Podgorica”, Museo dell’Hermitage, san
Pietroburgo (cfr. Levi, The Podgoritza-Cup; Nagel, Die Schale von Podgorica). Metà
del IV secolo. L’immagine è tratta da Garr. 6, 463,3 (la freccia tratteggiata indica il
punto di avvio e il verso della lettura delle scene qui proposta). Se si esclude la dipen-
denza dall’Ordo commendationis animae, cosa rimane del progetto iconografico di
questa coppa di vetro molata? A mio avviso il caso rappresentato da questa patera e

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462 I modelli compositivi

dai casi analoghi (si veda almeno il vetro dorato del British Museum, il cui schema è
riportato di seguito, in figura 124) si prestano ad almeno una duplice lettura. Non è
possibile negare che operi qui l’intento di documentare, attraverso testimonia autore-
voli, la speranza cristiana nella salvezza ultima ma, come già osservato più sopra, il
riferimento esclusivo a questo argomento rischia di non rendere del tutto ragione
della complessità di questo documento visuale: «Mi sembra che il progetto di questa
coppa sia d’una chiarezza esemplare: disposto attorno all’emblema tipologico della
Pasqua (ex passione) di Cristo ‹il tema del sacrificio di Isacco›, sul margine di questo
manufatto si svolge una sintesi della storia della salvezza di fortissima incisività teo-
logica. La storia di questo eone, inaugurata dal peccato di Adamo ed Eva, dopo l’Al-
leanza conclusa nella Pasqua di Cristo ‹risurrezione di Lazzaro: cfr. Gv 11,45-54›,
tramite il battesimo della Chiesa ‹“miracolo” della roccia› sconvolta dalla tribolazione
del martirio ‹i tre testimonia di Daniele›, presto si ricapitolerà nella piena realizzazione
dei tempi escatologici ‹ciclo di Giona›; si osservi come qui la Pasqua torni in tre di-
verse accezioni: al centro, è il prezzo sacrificale che “genera” il popolo “più numeroso
delle stelle del cielo” ‹Gen 26,3-4›; tra la figura dei progenitori dell’umanità e quella
di Pietro, è l’evento storico richiamato indirettamente dal prodigio della risurrezione
di Lazzaro (che anche in Giovanni ha questa valenza: segno profetico e introduzione
narrativa al ciclo pasquale); dopo la lunga parentesi martiriale, è il paradigma e il rit-
mo dei tempi escatologici» (Pelizzari, Vedere la Parola, 172). La “coppa di Podgorica”
non articola, a mio avviso, un messaggio individuale – legato, cioè, alla possibilità
della salvezza di un singolo cristiano – ma sviluppa una straordinaria riflessione
sulla storia, sulla sua vicenda universale e sulla sua traiettoria finale, sul suo traguar-
do. Il progetto iconografico di questo manufatto, così poco elegantemente realiz-
zato, con iscrizioni così incerte e non prive di errori marchiani (si è già prestata at-
tenzione al caso di « Abramo ed ed Eva»: vedi supra, pp. 396-397, figura 91), è
tuttavia così equilibrato e teologicamente meditato da porre di per sé la domanda
su come sia possibile far coesistere in un solo documento caratteristiche così diver-
genti e, in apparenza, contraddittorie, come lo sono una cultura biblica solida e
un’alfabetizzazione poco più che funzionale. Torna ancora una volta utile riflettere
sulla specifica modalità cristiana di accesso e conoscenza delle Scritture: la liturgia.
Ciò che oggi, nel contemporaneo “spazio letterario” in cui viviamo, esito di un’epo-
ca culturale “ipertestuale”, è considerato l’unico accesso alla documentazione lette-
raria – la lettura –, in Antico era valutato come una tra le diverse possibilità date in
vista di questo scopo. Soprattutto in ambito cristiano sussistette, sin da subito (cfr.
Ap 1,3-5), la prassi della proclamazione comunitaria delle Scritture, prassi che, an-
che se motivata da ragioni cultuali e celebrative, ebbe di fatto l’esito di spostare
dalla lettura all’audizione il luogo tipico dell’accesso ai contenuti di quei libri bibli-
ci. Com’è ovvio, e per tutto ciò che sin qui è stato detto, la “mediazione liturgica”
non si configurò come un passaggio neutro; al contrario, essa comportò una cono-
scenza frammentaria dei libri scritturistici e un loro impiego stabilmente tipologico.
Dunque tanto la conoscenza del contenuto di (parte di) questi libri quanto l’eserci-

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L’ importanza del “progetto iconografico” 463

zio della prassi ermeneutica tipologica sono competenze che, per le origini cristiane,
possono tranquillamente coesistere con una parziale – o anche nulla – alfabetizza-
zione. Tornando ora alla “coppa di Podgorica”, credo si possa abbandonare il pre-
supposto dell’incompatibilità tra iscrizioni così fragili dai punti di vista formale,
linguistico e contenutistico e un progetto iconografico così complesso, teologica-
mente coerente ed ermeneuticamente avveduto poiché questa coesistenza è un ca-
rattere desumibile proprio dal Sitz im Leben in cui questo documento visuale vide
la luce.

Figura 124: al centro: forse, il Buon Pastore (restano le zampe di una pecora); lungo
il bordo: Giona gettato nel ventre del mostro (con una colomba?); il profeta rigetta-
to dal mostro marino; Daniele nella fossa dei leoni; i tre fanciulli ebrei nella fornace;
la guarigione del cieco nato (?); Perpetua nell’arena (?); il paralitico guarito; il “mira-
colo” delle ossa aride. Coppa dorata “di Colonia”, British Museum, Londra (Morey,
The Gold-Glass Collection, numero 347). IV secolo. L’immagine è tratta da Garr. 3,
169 (la freccia tratteggiata indica il punto di avvio e il verso della lettura delle scene
qui proposta). Il parallelo del vetro dorato di Colonia credo mostri come la “coppa
di Podgorica” non possa essere sbrigativamente ridotta alla “trascrizione figurativa”
di un rito di affidamento e invocazione per un infermo prossimo alla morte ma deb-
ba essere considerato quale espressione di una tradizione figurativa più ampia (una
sorta di “genere” visuale). Essa apparteneva a un tipo di prodotti figurativi che, al

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464 I modelli compositivi

pari delle mense scolpite o di questi vetri dorati, era funzionale innanzi tutto a un
impiego liturgico e cultuale per il quale è ben difficile immaginare l’esclusiva fun-
zione di replicare l’immaginario funerario di un singolo ordinamento eucologico o
la correlazione all’augurio di salvezza per un singolo defunto. D’altra parte, la pre-
valente matrice martirologica di questa successione di testimonia dischiude, a me
sembra, un orizzonte ecclesiale, più vasto, nel quale l’esperienza della Chiesa è insie-
me compimento delle Scritture e perpetuazione della Pasqua di Criso. Il parallelo
con l’Ordo, dunque, pur consentendo l’accesso a un immaginario religioso verosi-
milmente condiviso dai committenti di queste opere, di certo non può sostituirsi al
riconoscimento della loro prioritaria funzione eucaristica, ben espressa da questo più
ampio tentativo di annunciare la storia alla quale i cristiani rivendicavano di appar-
tenere e nella quale veniva celebrata la Pasqua di Cristo.

Figura 125: al centro: il monogramma di Cristo; lungo il bordo: la trasgressio-


ne dei progenitori (in tre nicchie); Daniele nella fossa dei leoni (in tre nicchie);
Susanna insidiata dai vecchioni (in tre nicchie); Daniele avvelena il drago (in
una nicchia). Coppa dorata “di Homblières”, British Museum, Londra (Morey,
The Gold-Glass Collection, numero 349). IV secolo. L’immagine è tratta da Garr.
3, 169 (la freccia tratteggiata indica il punto di avvio e il verso della lettura del-
le scene qui proposta). Mi sembra che il racconto storico salvifico di quest’ulti-

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L’ importanza del “progetto iconografico” 465

mo documento ben si presti a mostrare la vocazione “narrativa” di questo “ge-


nere” della prima produzione visuale cristiana. Si osserva qui un itinerario che,
dopo aver presentato il momento protologico (la trasgressione dei primi esseri
umani), si sofferma lungamente sul tema del martirio, qui largamente descritto
attraverso i modelli di Daniele e di Susanna. In ultimo, in una prospettiva che
a me pare coerentemente apocalittica, la sconfitta del serpente (il racconto di
Daniele e il drago, già osservato supra, pp. 354-360, e già ritrovato in questa
funzione “ricapitolativa” di genesi: pp. 343-349). A innescare la “svolta”, dal
tempo dell’allontanamento dal giardino di YHWH a quello del ritorno escato-
logico al suo Regno, sta, al centro di questa patera, l’imponente monogramma
cristologico che, come si vede, per via della disposizione delle scene, si contrap-
pone – idealmente e visivamente – proprio a quell’albero su cui sta il serpente
genesiaco. Si riattiva in tal modo la tradizione esegetica “patristica” che, sin da
Melitone di Sardi, riconosceva nella croce l’albero che portava i frutti della sal-
vezza escatologica (l’accesso al Regno), in ricapitolazione dell’albero genesiaco,
i cui frutti avevano determinato la perdita della primordiale dimora paradisia-
ca. Ancora una volta si osserva qui la narrazione di una storia, quella provvi-
denziale della salvezza, articolata per mezzo dell’uso di testimonia secondo un
Grundgesetz scopertamente tipologico.

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OSSERVAZIONI FINALI E PROSPETTIVE:
TRA IMMAGINE E PAROLA,
L’“ARTE” CRISTIANA DELLE ORIGINI
COME PATROLOGIA VISUALIS

L’itinerario compiuto in queste pagine si era prefisso, tra le altre cose,


di rispondere a una domanda: qual è la capacità documentaria della pri-
ma tradizione visuale cristiana?
Una domanda, questa, che ha richiesto di considerare due aspetti di
questa primigenia tradizione cristiana della figura: i suoi contenuti (se,
in altri termini, sia legittimo attendersi che questa produzione figurativa
avesse la finalità di significare qualcosa) e, in subordine, l’effettiva fruibi-
lità critica di tali contenuti.
Il problema ora evocato non è esclusivo della prima cultura visuale
cristiana, ma investe l’immagine in quanto tale, per ogni epoca e in ogni
contesto: non basta, infatti, attribuire al visuale un’intenzione espressiva
e una ricezione significata per poterne usufruire in sede critica; affinché
questa tipologa documentaria si provi scientificamente fruibile, è neces-
sario anche disporre di un parametro metodologico che consenta di de-
cifrare in modo coerente la figura. Diversamente, l’immagine resta “mo-
numento” del passato senza divenire sino in fondo “documento” della
storia.
L’itinerario compiuto in queste pagine, osservando alcuni documenti
della prima produzione “artistica” cristiana ha permesso di isolare alcuni
caratteri obiettivi di questa cultura visuale. Essi denotano nel complesso
una profonda sintonia con la coeva prassi ermeneutica dei discepoli di
Gesù, il Cristo: se, a partire da quanto osservato, il «sistema» tipologico
può essere riconosciuto come l’intersezione tra produzione visuale e pro-
duzione letteraria delle origini cristiane, ne deriva che da esso sia anche
possibile ricavare la strumentazione metodologica necessaria per decifra-

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468 Osservazioni finali e prospettive

re criticamente questo codice figurativo, ricuperando, di volta in volta, il


valore documentario di questi monumenti.
L’immagine cristiana delle origini, come si è visto, si costituì più si-
milmente a un codice che a un’“arte”, almeno secondo il significato che
la moderna sensibilità tende ad attribuire a questi termini. Fu codice per-
ché stabilì e ripeté un repertorio stabilito di segni grafici, pur se al netto
della “grafia” dei diversi artigiani; fu codice perché il patrimonio di segni
e temi iconografici che si costituì in questo primigenio lessico visuale fu
condiviso e non esclusivo di alcuni; fu codice perché questa cultura
dell’immagine perseguiva intrinsecamente gli obiettivi della massima
fruibilità e, insieme, della più efficace versatilità d’impiego.
Quello della prima tradizione visuale cristiana fu per altro un codice
coordinato a una sintassi – quella ermeneutica – ubiqua nella prassi del-
le prime comunità cristiane: ideare una cultura visuale che usasse le Scrit-
ture così come venivano impiegate nella liturgia significava predisporre
uno strumento di elaborazione del pensiero teologico immediatamente
comprensibile per qualsiasi appartenente a Chiese e gruppi cristiani.
D’altra parte, conseguenza obbligata di questa constatazione è quella
di riconoscere il carattere liturgico della prima produzione visuale cristia-
na. Fu propriamente nella prassi del culto, infatti, che si diede il contesto
storico nel quale le comunità ecclesiali presero corpo, si espressero, si or-
ganizzarono, interpretarono le Scritture, definirono e insegnarono la lo-
ro propria teologia, celebrarono nel mysterion l’attesa del Regno, dandogli
così concreta anticipazione storica: per queste ragioni è a questo contesto
– e non semplicemente a quello comunitario – che ho ritenuto di ricon-
durre la produzione “artistica” cristiana più antica.
Il primo immaginario cristiano predispose uno strumento, concreta-
mente impiegato da committenze individuali o familiari ma i cui pro-
dotti erano destinati alla fruizione di comunità, per affidare al tempo la
propria professione di fede, per elaborare, grazie a un codice riconoscibi-
le e a un’ermeneutica condivisa, il proprio manifesto di fede. Lo spazio
di libertà che questa primigenia produzione visuale attesta dà voce a qua-
dranti delle origini cristiane del tutto sottodimensionati nella coeva pro-

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L’“arte” delle origini come Patrologia visualis 469

duzione letteraria: si riconoscono, in questa documentazione, tracce di


Chiese nelle quali l’elemento clericale è assai meno rappresentato di quan-
to non accada nella contemporanea produzione c.d. “patristica”; si osser-
vano ideali cristiani che non si misurano in base all’ossequio della norma
morale, ma che si indirizzano con radicalità verso una straordinaria veglia
della speranza; si distinguono, in queste pitture e su queste sculture, i
volti di cristiane e cristiani che ebbero il coraggio di rivendicare il loro
posto nella storia della salvezza e, talora, ne pretesero uno, da pari, entro
i racconti delle Scritture; cristiane e cristiani che si sentirono parte di una
vicenda universale e che vollero affidare ai secoli l’affermazione delle ra-
gioni del loro sperare.
Ed è proprio la centralità della proiezione escatologica documentata
da questa fonte a offrire uno dei dati più singolari: a buon diritto si può
affermare che in questa primigenia cultura visuale il discorso sugli escha-
ta costituisca l’argomento teologico prioritario; diversamente da quello
che si potrebbe immaginare, la dialettica tipologica tra profezie scrittu-
ristiche e Pasqua, pur configurandosi come la principale occasione per
affermare la divinità di Gesù, ottiene in questa documentazione pieno
significato solo alla luce del suo corollario apocalittico. La Pasqua realiz-
za le profezie, perciò Gesù è il Cristo, ma ciò è rilevante innanzi tutto
perché significa che l’ora escatologica sta per scoccare.
È così assai distante, ancora, l’immagine contemplativa – così alta e,
al tempo stesso, così poco dinamica – dell’icona: anche per questo è an-
cora una volta necessario sottolineare l’inefficacia delle categorie ideali
dell’icona nella riflessione sulla prima immagine cristiana.
La vieta categoria dei “paradigmi di salvazione”, per altro, sembrereb-
be ormai da rimpiazzare con quella di “paradigmi escatologici”, se proprio
si volesse mantenere un carattere paradigmatico per questi testimonia vi-
suali. Troppo a lungo il tema della salvezza ha portato a fraintendere co-
me soteriologico ciò che invece su questi monumenti fu professato come
escatologico: quando, sui sarcofagi o nelle pitture, i cristiani si fecero ri-
trarre sopra il pergolato di Giona, al posto di Noè, fasciati dalle bende di
Lazzaro, auspicavano sì la propria salvezza, ma solo immaginandola e

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470 Osservazioni finali e prospettive

collocandola sul più vasto orizzonte dell’esito complessivo della storia


della salvezza. Come la comunità cristiana riunita nella liturgia, pur se
piccola e perseguitata, già sentiva di attuare, nella storia, un frammento
del regno di Dio, così la salvezza del singolo cristiano, pur interessando-
lo individualmente, non poteva assumere senso al di fuori dell’afferma-
zione – storica e teologica insieme – della signoria universale di Dio sul
cosmo e sul tempo.
La rilevanza quantitativa e l’autonomia contenutistica di questa fonte,
la possibilità di sottoporre questi documenti visuali a un vaglio critico
metodologicamente fondato – e dunque disponibile a un autentico im-
piego scientifico, tale perché parametrato da un criterio analitico (quello
della struttura ermeneutica dei diversi progetti iconografici) – e la possi-
bilità di comparazione del documento visuale al documento letterario,
che in questo specifico contesto si rende possibile, sono le ragioni che mi
spingono a considerare l’ipotesi di promuovere questa primigenia tradi-
zione cristiana dell’immagine a una posizione analoga a quella attribuita
alle coeve tradizioni cristiane della scrittura.
Si potrebbe forse affermare che, accanto alle diverse “Patrologie” che
sono state raccolte per studiare le origini cristiane, sarebbe ormai neces-
sario aggiungerne una ulteriore, quella visuale. A questa prima produzio-
ne figurativa cristiana non manca in effetti alcun requisito per essere fi-
nalmente inserita nel numero delle fonti primarie per lo studio delle
origini:
1. essa raccoglie materia autorevole per ricostruire quella che si ama
chiamare l’“autorappresentazione” di questi movimenti (venne re-
cepita e custodita nei primi – e per lungo tempo unici – spazi del-
le comunità);
2. non presenta caratteri di subalternità ad altre fonti – in primis a
quella letteraria (al contrario è parallela ad essa, quando non addi-
rittura prevalente su essa) – e dunque offre materia documentaria
autonoma e nuova, non ne replica di già nota;
3. insistendo su quadranti storiografici per poco o per nulla docu-
mentati dalla produzione letteraria attualmente in nostro possesso,

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L’“arte” delle origini come Patrologia visualis 471

integra sensibilmente il patrimonio documentario disponibile (si


pensi alla dimensione privata delle origini cristiane, all’“autorap-
presentazione” delle donne cristiane, anche solo alla Roma cristia-
na del III secolo, alla ricezione di intere sezioni di libri biblici ecc.).
Questa più antica cultura visuale, attraverso la sua Grundlogik e il suo
Grundgesetz tipologici, riapre peraltro il dibattito sulla storia della rice-
zione e dell’esegesi delle Scritture nelle origini cristiane: anche in questo
ambito il suo apporto è fondamentale, poiché grazie ad essa è possibile
determinare in modo assai più ricco l’ampiezza e la diffusione della cul-
tura biblica di questi primi secoli. Dal graffito più miserabile sino al più
sontuoso sarcofago, è possibile riconoscere le tracce di una conoscenza
diffusa sia dei “testi sacri” sia dei fondamentali strumenti esegetici da
applicare ad essi: ed è proprio grazie a questa diffusa competenza che il
potenziale espressivo di questa cultura dell’immagine si potè scatenare.
Il codice figurativo si fece strumento, la prassi ermeneutica del culto fu
norma, ma l’esito contenutistico, il manifesto elaborato, fu assolutamen-
te peculiare di volta in volta.
Tale è l’originalità di questa fonte; tale la forza della sua teologia: tale,
più di tutto, mi pare essere il suo potenziale documentario, il quale, io
spero, possa essere emerso in queste pagine in forma chiara.

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Appendice
IMMAGINARIO GENTILE
E IMMAGINARIO CRISTIANO

È un dato di fatto ampiamente vagliato dalla critica che una parte con-
sistente del primigenio lessico figurativo cristiano dichiari la propria paren-
tela formale con il coevo repertorio iconografico romano-imperiale (sia po-
litico sia religioso). Questo elemento, come già ricordato, è stato più volte
rilanciato in sede critica per affermare la matrice religiosamente incerta,
quando non apertamente para-idolatrica o ancora “pagana” della primigenia
tradizione visuale cristiana.
Per la verità, la ricerca che si è dedicata elettivamente all’estremo ideal-
mente più radicale di questa presunta incertezza religiosa dell’“arte paleo-
cristiana” – la “giustapposizione sincretistica” di soggetti cristiani e di mo-
tivi pagani – è pervenuta a risultati del tutto speculari:
Prendendo il dossier documentario nel suo insieme, sembra plausibile che solo
una minoranza di cristiani – forse, ma non necessariamente, una nutrita minoran-
za – fosse favorevolmente disposta «all’uso di immagini pagane, quasi esclusiva-
mente nell’ambito pubblico e domestico». D’altra parte, qualcosa sulla natura e
sull’origine di questa esitazione iconografica cristiana si può dedurre dalla rigida
separazione […] tra le due fonti dell’immaginario ‹iconografico›. Questa riluttanza
indica una competizione tra i discorsi visivi ‹cristiano e gentile› che, nel IV secolo
e all’inizio del V, era ancora irrisolta 1.

1 R. Couzin, Syncretism and Segregation in Early Christian Art, in Studies in Iconography

38 (2017) 18-54, qui 40. L’autore è per altro chiarissimo, sin dalle premesse metodologiche
della sua ricerca (ivi, 21-23), nella definizione concettuale del «sincretismo visuale», distin-
guendo tra il paradigma della neutralità (figure del mito come “simboli” valoriali e non co-
me illustrazioni di racconti religiosi), quello della «reinterpretatio christiana» (sui limiti del-
la categoria della «interpretatio christiana », da cui Couzin trae quella di «reinterpretatio»,
cfr. D. Kinney, Interpretatio Christiana, in P.B. Harvey jr. - C. Conybare [eds.], Maxima
Debetur Magistro Reverentia: Essays on Rome and the Roman Tradition in Honor of Russell
T. Scott, New Press, Como 2009 [Biblioteca di Athenaeum 54], 117-125) e quello dei siste-

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474 Appendice

Resta d’altra parte intatto il nucleo del problema posto, se non dall’ipo-
tesi di un sincretismo visuale tout court, almeno dalla constatazione delle
diverse prossimità iconografiche tra il lessico cristiano e quello, coevo, del
mito: per quali ragioni fu percorsa la strada – certo malagevole – di una
“contaminazione formale” con la tradizione visuale profana, caratteristica
così trionfalmente esibita da quel mondo romano-imperiale che con i miti
viveva, governava e si esprimeva? 2

1. APPROPRIAZIONE E RI-SEMANTIZZAZIONE
Volendo in questa sede considerare i casi di ricupero formale di modelli
iconografici gentili, impiegati in ambito cristiano per la definizione di sog-
getti proto- o neotestamentari, rispetto ai tre paradigmi proposti da Robert
Couzin, reputo utile soffermarsi solo sui primi due: l’impiego neutrale del
lessico iconico del mito e la «reinterpretatio christiana»3.

1.1. Perché mutuare dal lessico della gentilità?


Prima di soffermarsi sulle ragioni per cui i cristiani costituirono una par-
te consistente del loro lessico visuale appropriandosi di stilemi iconografici
propri dell’arte “profana”, conviene richiamare il dato “di per sé” e la do-

mi sincretistici veri e propri (intesi come «accumuli di credenze» eterogenee). A risultati del
tutto collimanti era pervenuta già J. Huskinson, Some Pagan Mythological Figures and Their
Significance in Early Christian Art, in Papers of the British School at Rome 42 (1974) 68-97,
qui 82-85, sottolineando per altro come anche la presenza di queste scene «deve avere rice-
vuto un’approvazione ufficiale […]: non poterono essere state semplicemente introdotte per
via dell’isolato capriccio di certi individui (siano pure stati pagani o cristiani) né attraverso
l’autonoma iniziativa o per via di fraintendimenti di alcuni artigiani né, per la stessa ragio-
ne, possono essere considerati come opere “di arte popolare”, come vorrebbe Klauser» (ivi,
85). A conclusioni diverse – che però presuppongono un’idea di “sincretismo” più neutra-
le, su basi culturali (come mescolanza di principi, ideali, prassi figurative ecc.) anziché re-
ligiose – sembra pervenire Y. Suzawa, The Genesis of Early Christian Art. Syncretic Juxtapo-
sition in the Roman World, BAR, Oxford 2008 (BAR International Series 1892), 150-151.
2 Rinvio qui, ovviamente, alle ricerche di Zanker - Ewald, Vivere con i miti; Zanker, Au-

gusto e il potere delle immagini; Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana.


3 L’analisi del catalogo redatto da Huskinson, Some Pagan Mythological Figures, ha di-

mostrato che, anche in relazione ai casi – non molti per la verità – di accostamento di im-
magini gentili e cristiane, la categoria di “sincretismo” non è adeguata per descrivere que-
sti monumenti.

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 475

manda che esso implicitamente concorre a porre: a quali condizioni è pos-


sibile parlare di un’“arte” propriamente cristiana se, sotto il profilo formale,
questi primi esperimenti visuali non si limitarono che ad ampliare un lessi-
co iconografico già esistente e a impiegare uno stile già costituito?
La domanda è importante perché, come visto, non di rado la questione
che essa solleva è stata sfruttata, in sede critica, per alimentare la convinzio-
ne che la prima produzione cristiana di immagini debba essere letta come
una sorta di “cedimento” da parte di quei maggiorenti cristiani (i più ab-
bienti) delle principali Chiese urbane – su tutte quella romana –, cultural-
mente e socialmente ancora “contaminati” con la loro originale matrice
“pagana”, incapaci di rinunciare del tutto ai costumi e alle abitudini della
loro precedente prassi “profana”.
Se questa sostanziale affinità tra il primo immaginario cristiano e quello
romano-imperiale si associa alla datazione tardiva che sovente la prima cul-
tura visuale cristiana riceve in ambito critico, quella al principio del III seco-
lo 4, diventa più semplice capire un dubbio non di rado rilanciato: se l’“arte”
di queste antiche Chiese emerse solo tardivamente e senza distinguersi dalla
coeva cultura visuale “profana”, è davvero lecito, sul piano obiettivo e anali-
tico, isolare tali esperimenti figurativi in una specifica tradizione cristiana?
Non sarebbe più corretto affermare che i cristiani veicolarono messaggi loro
propri attraverso l’adozione dell’arte romana imperiale e tardo-imperiale? 5
Io credo che valga la pena prendere le mosse dalla risposta che, già nel
1981, Mary Charles Murrey provò a fornire per definire il proprium di que-
sta antica “arte” cristiana:
Nell’affrontare il problema dell’identità dell’arte cristiana, sembra essenziale
cominciare con il separare due concetti che sono distinti e tuttavia sono stati spes-
so confusi nella discussione accademica. Questi sono i concetti di originalità […],
e di creatività […]. Fatta questa distinzione, si può affermare […] che ciò che costi-
tuisce l’identità specifica dell’arte cristiana – e la sua particolarità – rispetto a qual-

Per la diversa proposta qui avanzata (prima metà del II secolo), vedi supra, pp. 201-237.
4

Come afferma E. Russo, Dal punto di vista formale esiste un’arte cristiana?, in D. Gua-
5

stini (cur.), Genealogia dell’ immagine cristiana. Studi sul cristianesimo antico e le sue raffigu-
razioni, La casa di Usher, Firenze - Lucca 2014 (I libri di Omar 6), 99-107, qui 99, infatti:
«Dal punto di vista formale […] non esiste un’arte cristiana, esiste un’arte di contenuto cri-
stiano, nei primi secoli cristiani».

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476 Appendice

siasi altra arte religiosa del suo tempo o ambiente, deve essere riconosciuto nella sua
creatività. Perché è subito evidente che non c’è modo in cui l’arte cristiana possa
essere considerata originale 6.

D’altra parte, assumendo la proposta critica avanzata in queste pagine,


si potrà facilmente riconoscere nel carattere tipologico di questa primigenia
tradizione visuale cristiana il connotato7 più efficace per isolarla e “identi-
ficarla” rispetto alle altre “culture dell’immagine” del suo Sitz im Leben. La
Grundlogik e il Grundgesetz tipologici di questa più antica “arte” cristiana
ne illustrano infatti il proprium con forse ancor più chiarezza rispetto a quan-
to non riesca a fare quella sola idea di “creatività” fin troppe volte evocata
per affermare il connotato saliente di questa cultura visuale.

a. Le motivazioni contestuali: i modelli delle botteghe


Il primo ordine di motivi che viene giustamente sottolineato dagli archeo-
logi per motivare la sostanziale acquisizione del linguaggio artistico roma-
no-imperiale da parte dei cristiani attiene alla necessità molto concreta di
dover ricorrere ad artigiani tecnicamente in grado di realizzare i manufatti
che si desiderava avere. Come chiunque altro, anche i committenti cristiani
che avessero voluto far dipingere un cubicolo o far scolpire un sarcofago
avrebbero dovuto ricorrere ad artigiani esperti, in grado di dar concretezza
mteriale ai loro desiderata.
La pittura delle prime tombe cristiane […] a Roma appartiene […] incondizio-
natamente alla pittura più diffusa a Roma nel III secolo. Essa non è cristiana […],
bensì romana. Ciò che distingue la pittura dei sepolcri cristiani da quella delle tom-
be pagane e profane sono soltanto i temi figurativi certamente nuovi, l’iconografia,
che tuttavia sta accanto a motivi pagani ed è stata realizzata con i mezzi artistici
della pittura romana […]. Un’arte siffatta aveva evidentemente come presupposto
l’attività a Roma di alcuni ateliers di pittura sia per le case pagane sia per le tombe

6 Murrey, Rebirth and Afterlife, 5. La studiosa inglese recuperava qui la struttura fonda-

menteale del pensiero di Grabar, Christian Iconography, XLVIII: «È importante tenere pre-
sente che la creatività in questo settore consiste nell’appropriarsi di figurazioni esistenti, spo-
stando il significato di formule ripetute, riprendendo formule iconografiche note o
componendone altre simili, per analogia ».
7 Così già, nel confronto con la “visualità”, romana proponeva Jaś Elsner: vedi supra,

pp. 263-271.

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 477

cristiane, ebree o pagane. La pratica di questa arte rimase dunque indipendente


dalla religione del committente […].
Tutto ciò vale […] anche per i sarcofagi […]. Temi cristiani, profani ed ebraici
costituiscono […] i modelli per opere dei medesimi artisti; rilievi storici per monu-
menti imperiali e sarcofagi per privati di varie religioni sono stati eseguiti dai me-
desimi artisti, alla cui attività era indifferente l’appartenenza all’una o all’altra re-
ligione. Dunque nelle officine “pagane” dev’essere sorta anche un’iconografia
cristiana, in cui i committenti hanno svolto senza dubbio un ruolo decisivo indi-
cando il soggetto, ma anche spiegando agli artisti l’atteggiamento, il modo di ge-
stire e la disposizione delle figure nelle scene, il loro numero, l’azione dei singoli e
l’armonia complessiva che ne risulta, l’essenza e il significato degli oggetti e infine
l’unità contenutistica 8.

Vale la pena soffermarsi su due conseguenze significative che questa sem-


plice constatazione consente di determinare, l’una di portata più generale,
l’altra più specifica e, forse, meno scontata quando si parli di un’epoca della
storia dell’“arte” cristiana:
1. la possibilità di ricorrere a maestranze “pagane” era commisurata al-
la funzione puramente “esecutiva” che ad esse veniva attribuita rispet-
to al prodotto finale;
2. la necessità di tale ricorso limitava lo spazio della committenza al so-
lo contenuto del manufatto, essendone lo stile e le strutture formali
più vincolati alla concreta azione dei loro artefici.
Per prima cosa è necessario ricordare che chi realizzava queste opere non
occupava la posizione sociale e culturale che oggi è dell’artista ma, come si
è visto, una simile a quella nella quale sono solitamente riconosciuti gli at-
tuali artigiani9. La differenza tra questi e quello coincide con l’“autocoscien-
za” che anima i diversi ruoli: se agli artigiani viene sostanzialmente richiesto

8 F.W. Deichmann, Archeologia cristiana, «L’Erma » di Bretschneider, Roma 1993 (Stu-

dia Archaeologica 63), 110; 112.


9 «Se ci rivolgiamo all’antica concezione dell’“artista”, scopriamo che era molto più vi-

cina alla nostra idea di artigiano che ai moderni ideali di indipendenza e originalità […].
L’artigiano/artista greco e romano doveva combinare una padronanza intellettuale dei prin-
cipi con cognizioni pratiche di abilità e di grazia […]. Ciò che è sorprendentemente assen-
te nella visione greca dell’artigiano/artista è la nostra moderna enfasi sull’immaginazione,
l’originalità e l’autonomia »: L.E. Shiner, The Invention of Art: A Cultural History, Universi-
ty of Chicago Press, Chicago (IL) 2001, 22-23.

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478 Appendice

di esercitare una tecnica, l’artista riceve anche il compito di (ri)elaborare


intellettualmente e originalmente ciò a cui si dedica.
È ben ovvio che tale distinzione possa poi, alla prova dei fatti, rivelarsi la-
bile – soprattutto dal punto di vista dell’esecutore (un artigiano può ovvia-
mente ben essere anche un interprete del proprio lavoro, non solo un mero
attuatore di desiderata) –; d’altra parte essa sussiste e mantiene rilievo dal
punto di vista della collocazione dell’artefice rispetto alla committenza: l’ar-
tigiano è meno libero dell’artista; anzi, se all’artista si chiede di arricchire la
commissione della caratterizzante interpretazione che solo lui può apportare,
all’artigiano viene solitamente imposto di eseguire fedelmente il progetto che
gli viene affidato. Si può addirittura affermare che se la qualità dell’artista è
situata nel suo genio interpretativo, l’eccellenza dell’artigiano viene ricono-
sciuta nella capacità di un’attuazione esatta della commessa. Così avveniva
anche nel contesto che studiamo: «Nel milieu romano fu il committente a
esercitare l’impatto più significativo sulla configurazione di un’opera d’arte»10.
Questa semplice osservazione permette di situare i più antichi documen-
ti visuali cristiani idealmente “più a ridosso” dei committenti rispetto a
quanto non sia avvenuto successivamente, in epoche della storia dell’“arte
cristiana” durante le quali il ruolo dell’artista fu certamente assai più incisi-
vo sul risultato finale dell’opera.
Questa “neutralità” di chi realizzava l’opera rispetto all’opera stessa emer-
ge anche dal monito di Tradizione apostolica 16,3, dove, nell’elenco delle
professioni in tutto o in parte incompatibili con l’ingresso nella comunità
ecclesiale, si ritrovano anche le menzioni dello scultore e del pittore:
Se ci fosse scultore o pittore, si insegni a costoro [sic] a non produrre idoli: ces-
sino o siano respinti (Si quis est sculptor vel pictor [zōgraphos], doceantur ne faciant
idola: vel cessent vel reiciantur)11.

Come è stato fatto notare, quelle di artisti e di pittori rientrano nella mi-
nima parte di professioni che la Tradizione apostolica non esclude immedia-

D.E.E. Kleiner, Roman Sculpture, Yale University Press, New Haven (CT) 1992, 4.
10

Cito il testo da W. Geerlings (hrsg.), Traditio Apostolica. Apostolische Überlieferung, in


11

G. Schöllgen - W. Geerlings (hrsg.), Didache. Zwölf-apostel-lehre – Traditio Apostolica. Aposto-


lische Überlieferung, Herder, Freiburg et alibi 2000 (Fontes Christiani 1), 141-313, qui 246.

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 479

tamente: «‹Questi› tre […] casi differiscono dagli altri in quanto il conver-
tito non deve rinunciare (istantaneamente) alla sua occupazione, ma è
semplicemente sottoposto a condizioni speciali»12. Le spiegazioni di questa
eccezione possono essere due, non necessariamente alternative, entrambe
utili per la nostra analisi:
1. diversamente da altre professioni (quelle in qualsiasi modo com-
promesse con gli spettacoli, gladiatorii o teatrali; quelle che favori-
vano o praticavano la prostituzione; gli alti gradi militari, le magi-
strature e, in genere, le cariche togate di porpora), quella artigianale
non era percepita come un’attività di per sé compromettente: era una
semplice «technē », un mestiere, come il testo stesso induttivamente
permette di affermare (si consideri che ai maestri [«coloro che inse-
gnano ai fanciulli»] viene concesso di proseguire nel loro impegno «se
non dispongono di un’arte [si non habet artem {technē}»);
2. al principio del III secolo – epoca alla quale può essere assegnato il
catalogo di professioni del capitolo 16 della Tradizione apostolica 13 –,
i cristiani stanno accogliendo nella Chiesa (di Roma?) artigiani pe-
riti – scultori e pittori –, certamente per aggregare quanti profes-
sano “Gesù Cristo Signore”, ma forse anche senza disdegnare di
dotarsi di “mano d’opera artistica” loro propria.
Resta in ogni caso documentata la prossimità tra comunità cristiane e
questa specifica categoria professionale, vicinanza che può ben essere moti-
vata con una fruizione di queste botteghe da parte di committenti cristiani.

12 Lampe, From Paul to Valentinus, 133-134. I tre casi sono quelli del soldato subordi-

nato (cfr. ivi, 134-135), del pedagogo (o il grammatikos? entrambi?: cfr. ivi, 135-136) e del-
lo scultore / pittore (cfr. ivi, 136-137). Quest’ultima categoria è forse la più difficile da si-
tuare sociologicamente (cfr. Galeno, Protrettico 14,38-39 [volendo adottare questa
intitolazione per l’opera galenica: cfr. A. Barigazzi, Sul titolo del Protrettico di Galeno, in Ri-
vista di Storia dell’Educazione 2 {1979} 157-163]; cfr. Plinio, Storia naturale 35,77, di con-
tro a Giovenale, Satire 9,146; cfr. anche Petronio, Satiricon 2,9; 88,10,1). Sul (gran) nume-
ro di artigiani cristiani, cfr. Tertulliano, L’ idolatria 3 - 7, che si scaglia contro l’ammissione
nella Chiesa di quanti fabbricano idoli – attività, come visto, bandita anche da Tradizione
apostolica 16 – e che addirittura lamenta che «gli artefici di idoli (artifices idolorum) ven-
g‹a›no eletti alla gerarchia ecclesiastica (in ordinem ecclesiasticum)»: ivi, 7,3.
13 Così, persuasivamente, propongono P.F. Bradshow - M.E. Johnson - L.E. Phillips

(eds.), The Apostolic Tradition, Fortress Press, Minneapolis (MN) 2002 (Hermeneia), 93.

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480 Appendice

La seconda considerazione che le circostanze descritte sopra lasciano trar-


re è che, in questa fase primigenia (II-III secolo), la committenza cristiana
potè intervenire unicamente su elementi di contenuto iconografico, non su
marcatori di stile (si pensi ad altre “fasi” della storia dell’“arte” cristiana,
dove lo stile era parte integrante della connotazione religiosa: l’essenzialità
dell’arte cistercense, la vivacità del didascalismo dell’arte francescana, la ma-
niera dell’arte controriformata ecc.) né su specializzazioni strutturali (si pensi
alle successive “invenzioni” di luoghi e soluzioni tipiche dell’“arte” cristiana:
il battistero, la basilica transettata – struttura poi ulteriormente specializza-
tasi in immissa e commissa –, il campanile, l’eremo monastico ecc.).
Ribaltando il pregiudizio critico solitamente sfavorevole a questa primi-
genia cultura visuale cristiana, si deve riconoscere che questa prima stagione
dell’“arte cristiana” fu, tra le diverse che si susseguiranno nella sua storia,
quella più vincolata all’elaborazione di contenuti ideali, essendole per il mo-
mento ancora preclusi un pieno impiego del potenziale stilistico e dello spe-
rimentalismo strutturale.

---

Si può dunque affermare che se, per un verso, appare ragionevole mo-
tivare prioritariamente la prossimità formale tra il primo immaginario cri-
stiano e quello coevo della koinè imperiale con la necessità di ricorrere ad
artigiani concretamente in grado di realizzare le commesse cristiane, d’altra
parte questo dato di fatto, che presuppone un ruolo puramente esecutivo
– non ideativo – per gli artefici di questa prima produzione visuale, impli-
ca che il contenuto ideale di questi monumenti debba essere ricondotto
principalmente, se non esclusivamente, alle istruzioni della committenza
cristiana.

b. Le motivazioni funzionali: l’adozione di un codice pervasivo


Accanto a questa prima ragione di ordine “pratico”, vanno però segnala-
ti due ulteriori motivi che possono contribuire a rivalutare il carattere inten-
zionale di questa soluzione operativa – l’adozione di alcuni temi iconografici
già bene attestati nel lessico figurativo della tradizione ellenistico-imperiale:

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 481

1. la mutuazione era un tratto caratteristico già proprio dell’arte im-


periale di Roma;
2. nella cultura artistica del mondo romano il valore primario dell’im-
magine non si costituiva sul parametro della genialità estetica –
l’oggetto visuale in quanto “opera d’arte” –, ma su quello della sua
efficacia mediatica – l’oggetto visuale in quanto “vettore di conte-
nuti”.
Per quanto attiene al primo di questi motivi, come ha giustamente sot-
tolineato Tonio Hölscher, la prassi di costituirsi un’“arte” per mutuazione
non può essere considerata tipicamente cristiana, ma era un carattere iden-
tificativo già della cultura artistica romano-imperiale:
Un’indagine più attenta rivela immediatamente un quadro di una varietà scon-
certante: in ogni fase della storia romana si è fatto ricorso alle epoche stilistiche più
diverse, dal tardo arcaismo fino al tardo ellenistico […]. [Vennero selezionati] Tipi
codificati di scene e di figure, ossia di schemi di base per la composizione delle sce-
ne e la costruzione delle figure, provenienti da periodi diversi dell’arte greca e im-
piegati contemporaneamente nei vari periodi dell’arte romana 14.

Si tratta della stessa prassi che sovrintese alla nascita del primo lessico
visuale cristiano. Giova ribadire che le osservazioni proposte da Tonio Höls-
cher per l’arte romana impongono di ri-valutare criticamente il significato
di questa “genesi per mutuazione” del primo lessico visuale cristiano: è an-
cora legittimo guardare a questa prima stagione dell’immagine cristiana,
interpretandone l’adozione in termini di assimilazione di prassi ed elementi
religiosamente e culturalmente eterogenei o non si dovrà piuttosto ricono-
scervi semplicemente l’impiego del medium visuale caratteristico dei tempi,
senza alcuna implicazione di per se stessa religiosa?

14 Cfr. Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, 14. Su questa linea di revisione critica

credo debba essere situata anche la chiave di lettura proposta da A. Marcone, Alla ricerca di
un’ identità. Tradizioni classiche nella prima iconografia cristiana, in S. Birk - T.M. Kristen-
sen - B. Poulsen (eds.), Using Images in Late Antiquity, Oxbow Books, Oxford - Philadel-
phia (PA) 2014, 253-267, qui 265, che, nel tentativo di motivare la persistenza di temi pro-
venienti dalla gentilità nel lessico figurativo cristiano, ha scritto: «In questo io vedo la
persistenza di quello che più che “paganesimo” chiamerei tradizionalismo culturale e la for-
za del suo tessuto connettivo anche in ambiente cristiano. Si deve accettare l’idea che ad al-
cuni aristocratici premeva che il cristianesimo apparisse il più “classico” possibile».

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482 Appendice

Il secondo motivo su cui si è richiamata l’attenzione è strettamente col-


legato a questo primo e, ancora una volta, sottolinea l’organicità del feno-
meno visuale paleocristiano alla cultura “artistica” romano-imperiale:
Senza dubbio nella realtà storica (ossia al momento della commissione allo scul-
tore o al pittore), era di solito il contenuto dell’immagine a essere decisivo, mentre
la forma aveva un ruolo subordinato […]. Si può dire che l’arte romana non ha re-
golato la scelta dei suoi modelli in base allo stile o al gusto, bensì primariamente in
base ai contenuti e ai temi. Essa ha di volta in volta ripreso prototipi diversi da pe-
riodi diversi dell’arte greca in funzione di ambiti tematici differenti. Questi proto-
tipi, orientati secondo il contenuto, furono mantenuti, in linea di massima, duran-
te tutto il corso della storia dell’arte romana indipendentemente dallo stile del
prototipo di ciascun singolo periodo15.

Questo punto a me sembra rilevante perché indirizza l’attenzione sul te-


ma del contenuto e della funzione dell’immagine nella società romano-im-
periale, uno spazio culturale peculiarmente caratterizzato da una sorta di
“frenesia di comunicazione pubblica”, soddisfatta prioritariamente attraver-
so l’immagine.
A partire dalla tarda repubblica, Roma e le città romane si distinguono per una
straordinaria profusione di immagini. Ciò è vero per lo spazio pubblico come per
le case e le tombe private […]. Non ogni società necessita di immagini tanto nume-
rose per soddisfare le proprie esigenze di comunicazione: occorre pertanto chieder-
si perché, dalla tarda repubblica in poi, i Romani ebbero bisogno di una quantità
così grande di immagini, o meglio, come mai la loro società sviluppò esigenze co-
municative di tale portata 16.

Non è importante in questa sede risolvere il quesito che, rispetto alla


società romana dell’impero, Paul Zanker ha posto: è viceversa fondamen-
tale partire dal dato di fatto che lo studioso descrive, osservando che esso,
pur definendo l’appartenenza culturale, sociale e politica di ogni suddito
di Roma, non investe la dimensione religiosa della vita nell’Impero di
Roma.

15 Cfr. Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, 18. Lo studioso sviluppa questa osserva-

zione in merito alla scelta dello stile, ma reputo che la sua constatazione debba ritenersi va-
lida anche per la condivisione dei modelli figurativi e iconografici.
16 P. Zanker, Il mondo delle immagini e la comunicazione, in Id., Un’arte per l’ impero,

9-37, qui 10.

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 483

L’imperatore offriva, nella sua propria iconografia, il suo manifesto po-


litico; gli oligarchi del potere romano affermavano, nella loro casa, nel cultus
e nel decus che la loro propria potenza economica gli concedeva, le coordi-
nate del posto che avevano conquistato nella storia; la tomba custodiva la
memoria di sé e raccoglieva quel difficile patrimonio di speranza che, sim-
bolicamente, veniva opposto alla paura e alla concretezza della morte.
Non era per l’idolatria che l’immagine romana si moltiplicava e prospe-
rava: essa viveva per dialogare con la storia, per plasmarne la percezione e
per condizionarne la coscienza.

---

Riassumendo: i due punti qui osservati (la mutuazione come carattere


tipico del linguaggio figurativo della koinè imperiale e l’immagine come
strumento primario nella costruzione e nella comunicazione dell’identità e
dell’idealità dell’Impero di Roma) permettono di rivalutare il Sitz im Leben
culturale nel quale deve essere collocata l’acquisizione dell’immagine cristia-
na. Non si trattò di un cedimento religioso ma, al contrario, di un tentativo
di affermazione apologetica, del tutto affine – benché condotto su altro
fronte – a quelli che, già richiamati, in ogni distretto del mondo romano,
letterariamente i cristiani stavano sperimentando: la scuola dei tre Ateniesi
(Quadrato, Aristide e Atenagora), Teofilo di Antiochia, l’A Diogneto o, pri-
ma ancora e nella stessa Roma imperiale, Giustino e Taziano ne sono una
consistente riprova documentaria.
Il cristianesimo voleva interloquire con il saeculum, per contestarne le
pretese ed esporgli le proprie ragioni: nell’adozione della cultura visuale del-
la società romana imperiale mi pare si debba riconoscere un parallelo alla
rivendicazione di tutto il sapere filosofico che la tradizione apologetica ave-
va affermato17; in entrambi si agitavano la medesima competizione ideale e

17 «Tutto ciò che è stato espresso correttamente da ognuno di essi [il riferimento è ai filo-

sofi], appartiene a noi cristiani»: così afferma Giustino nella sua Appendice all’Apologia indi-
rizzata al Senato (o II Apologia; § 13,4). Su questo processo di acquisizione, già richiamato su-
pra, pp. 238-244, con particolare riferimento agli apologisti, cfr. J. Daniélou, Le message
chrétien et la pensée grecque au IIe siècle, Institut Catholique de Paris, Paris s.d.; Id., Messaggio

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484 Appendice

l’identico rifiuto della chiusura che aveva segnato la vicenda di gran parte
delle comunità della Diaspora.
L’adozione del linguaggio figurativo romano-imperiale da parte delle
prime comunità cristiane deve dunque essere situato al di fuori del conte-
sto religioso: se l’immagine era una lingua del tempo in cui queste Chiese
vissero, anzi se all’immagine veniva affidato il compito di comunicare e
plasmare l’ideale del vivere individuale e della storia collettiva, allora pre-
disporre un lessico figurativo proprio, ma comprensibile anche ai fruitori
dell’arte romana, attraverso il quale “pubblicare” il proprio ideale della vi-
ta e della storia, non può essere descritto come un cedimento, ma semmai
come la riconferma dell’identità nella quale si riconoscevano quei gruppi
cristiani.
In questo “spazio visuale”, già attorno alla metà del II secolo, i cristiani
iniziarono a far propri alcuni simboli e temi dell’iconografia romano-im-
periale, stabilirono poi soggetti ex novo – ora assumendo schemi che si era-
no già consolidati nella tradizione “profana”, ora ideandone di nuovi e ca-
ratteristici –, codificarono tramite questo patrimonio iconografico un
proprio lessico figurativo e con esso sperimentarono soluzioni visibilmente
originali, potenziando le possibilità espressive di ciascun tema figurativo e
iniziando a organizzare progetti iconografici sempre più articolati, inno-
vando pur senza violare quel principio di prossimità alle tradizioni visuali
loro coeve.
Questa prospettiva sulla nascita della prima “arte cristiana” impone di
riconsiderare questo fenomeno, sottolineandone finalmente la strutturale
sinergia all’agenda di quella stagione della storia delle origini cristiane e di
ravvisare in questa primigenia cultura visuale non la prova dell’immaturità
religiosa di ampie porzioni delle comunità cristiane delle origini, ma l’esito
di un meditato intento strategico, un segno di maturazione di quei movi-

evangelico, 13-23; A.J. Malherbe, Apologetic and Philosophy in the Second Century, in Id., Light
from the Gentiles: Hellenistic Philosophy and Early Christianity. Collected Essays, 1959-2012 by
Abraham J. Malherbe, 1, Brill, Leiden - Boston (MA) 2014 (Supplements to Novum Testa-
mentum 150), 781-796 (ed. or. Restoration Quarterly 7 [1963]). Più di recente, su Giustino, cfr.
A.J. Droge, Justin Martyr and the Restoration of Philosophy, in Church History 56 (1987) 303-
319; R.M. Thorsteinsson, By Philosophy Alone: Reassessing Justin’s Christianity and His Turn
from Platonism, in Early Christianity 3 (2012) 492-517.

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 485

menti: «L’introduzione della materia artistica […] fu il segno che il cristia-


nesimo stava diventando adulto»18.

1.2. Un lessico formalmente condiviso, semanticamente caratteristico


«I cristiani non intendevano affatto tagliare i ponti con l’iconografia tra-
dizionale, se è vero che potevano riferire a se stessi anche i simboli non mito-
logici di felicità. Si nota anzi il tentativo di adattare i contenuti della storia
sacra agli schemi iconografici consueti»19. Il processo di appropriazione del
linguaggio iconografico romano-imperiale avvenne nell’ambito di una pro-
gressiva maturazione delle antiche Chiese che, come dimostra la coeva stagio-
ne apologetica, avevano ormai spinto il loro impegno missionario sul “palco-
scenico” del dibattito culturale antico. Gli apologeti avevano simbolicamente
sciolto le vele di questa dialettica tra Chiesa e mondo: mentre ad Alessandria
si stabilivano scuole cristiane, mentre i futuri protagonisti del dibattito teolo-
gico percorrevano le strade del Mediterraneo antico nella ricerca di maestri
capaci (si pensi alla vicenda formativa di Clemente o a quella di Origene, al-
lievo di Ammonio Sacca con Plotino), mentre nell’Africa cristiana la retorica
entrava prepotentemente nel patrimonio speculativo cristiano (si pensi al Pro-
logo giuridico dell’Apologetico di Tertulliano), a Roma – ma probabilmente non
solo lì –, i cristiani inziavano a declinare le proprie idee anche attraverso il
ricorso all’immagine: sono questi, a mio avviso, ragione e contesto che sup-
portarono la scelta cristiana di non elaborare immediatamente un proprio
lessico figurativo. Un’immagine, quella cristiana, nata per “dare visibilità” al
kerygma professato dai singoli fedeli e dalle diverse Chiese, un’immagine che,
perciò, anelava a sfruttare, forse cinicamente, tutto il pontenziale del medium
visuale: quanto più riconoscibile fosse risultata una figura tanto più efficace
poteva risultarne l’adozione. Si badi: non si tratta di una sorta di indifferenza
alla matrice religiosa dell’immagine, ma dell’esatto contrario: si trattava in-
fatti di rendere l’argomento cristiano di questa documentazione visuale quan-
to più comprensibile possibile; per questo venne privilegiato il ricorso a sim-
bologie di ampia circolazione e di immediata interpretazione.

18 Finney, The Invisible God, 110.


19
Zanker - Ewald, Vivere con i miti, 263.

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486 Appendice

Figura 126: alcuni casi di mutuazione di iconografica dal lessico figurativo del
mondo antico. La tripartizione impiegata (simboli; temi e scene; strutture ico-
nografiche) è presa Dresken-Weiland, Immagine e parola. Ognuno dei debiti
contratti dal primo immaginario cristiano con quello coevo del mito è stato
accompagnato, com’è ovvio, da una profonda risemantizzazione del soggetto
acquisito. Talora la riconfigurazione semantica è stata accompagnata dall’in-
clusione di marcatori figurativi (per esempio la colomba nella scena di Noè, il
pergolato di zucche per Giona ecc.).

Si assistette così alla sistematica incursione cristiana nel repertorio figu-


rativo del mondo romano-imperiale, sia per selezionare i più generici simbo-
li sia per alcuni temi e/o composizioni sceniche sia per ciò che riguarda la
struttura iconografica di alcune raffigurazioni bibliche.
Per capire appieno la profondità di questo rapporto di interazione vorrei
richiamare un esempio inverso, nel quale fu un tema di chiara matrice cri-
stiana a influenzare l’iconografia di un soggetto profano. Si tratta del celebre
amuleto dell’Orfeo crocifisso.

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 487

Figura 127: Orfeo crocifisso sotto sette stelle. “Amuleto dell’Orfeo crocifis-
so” (già nella collezione dei Musei di Berlino, proveniente dalla collezione di
E. Gerhard, andato perduto dopo la II guerra mondiale) Testimonium 150
degli Orphicorum fragmenta di O. Kern (Berlino 1922). Viene generalmente
datato entro la fine del III secolo. L’iscrizione recita: «Orfeo bacchico». L’im-
magine è tratta da A. Mastrocinque, Orpheos Bakchikos, in Zeitschrift für
Papyrologie und Epigraphik 97 (1993) 16-24, qui 16. Non è ovviamente que-
sta la sede per affrontare nel dettaglio la questione della matrice e del valore
– religioso o magico – di questo minuto oggetto graffito, vale però la pena
di sottolinearne la datazione assai precoce e, soprattutto, il meccanismo, pu-
ramente simbolico, che ha guidato la mutuazione: «Una delle molte caratte-
ristiche interessanti di questo amuleto è il fatto che contiene una delle prime
rappresentazioni della crocifissione, se non la prima, su una pietra preziosa.
R. Zahn sostiene che, secondo lo stile dell’iscrizione, questa gemma non può
essere datata oltre il III secolo e.v.». E ancora: «La gemma di Orfeo non vuo-
le essere una crocifissione storica o realistica, né di Cristo né di “Orfeo-Bac-
co”; la sua importanza risiede piuttosto nel regno della magia sincretistica »
(J.B. Friedman, The Figure of Orpheus in Antiquity and in the Middle Ages,
Ph.D. Diss., East Lansing [MI] a.a. 1965-1966, 146; 159). Ciò posto, va co-
munque sottolineato che questa figura anticipa di circa due secoli la cassetta
eburnea del British Museum e il portale ligneo di Santa Sabina a Roma, ge-
neralmente considerate le prime rappresentazioni cristiane della crocifissione,
mentre potrebbe essere contemporaneo al celebre graffito di Alessameno.

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488 Appendice

Figura 128: Alessameno di fronte a una


figura di crocifisso con la testa d’asino.
Graffito dalla Domus Gelotiana (sala 7),
Palatino, Roma. Ora presso l’Antiquarium
del Palatino, Roma (cfr. O.L. Yabrough,
The Shadow of an Ass. On Reading the
Alexamenos Graffito, in A.C. Niang - C.
Osiek [eds.], Text, Image, and Christians in
the Graeco-Roman World: A Festschrift in
Honor of David Lee Balch, Wipf and Stock,
Eugene [OR] 2011 [Princeton Theological
Monograph Series 176], 239-254). L’iscri-
zione recita: « Alessameno venera Dio». III
secolo (secondo alcuni critici potrebbe esse-
re addirittura di età severiana, dunque al
più tardi del 235). L’immagine è tratta da
Garr. 6, t. 483. L’edificio da cui proveniva
questo graffito era probabilmente il paeda-
gogium palatino, una sorta di scuola o dormitorio per il personale del palazzo (cfr.
H. Solin - M. Itkonen-Kaila, Graffiti del Palatino, 1: Paedagogium, Tilgmann, Hel-
sinki [Acta Instituti Romani Finlandiae 3], 72-78); Alessameno perciò doveva esse-
re un (giovane) schiavo o liberto del Palazzo imperiale. Come segnala P. Keenan,
Graffiti in Antiquity, Routledge, Abingdon - New York (NY) 2014, 108: «Poiché
Tertulliano e Minucio Felice ‹cfr. Tertulliano, Apologetico 16, Id., Alle nazioni 1,4;
Minucio Felice, Ottavio 9,3; 28,7› registrano l’asserzione secondo cui i cristiani ado-
ravano un Dio con la testa d’asino, il graffito può essere interpretato come un’e-
spressione di questo punto di vista […]. Che si tratti di una caricatura è dimostrato
dall’aspetto rozzo del disegno e dalla sua squallida esecuzione. L’atteggiamento
delle mani del giovane orante conferma questa interpretazione: cristiani, e anche
non cristiani, adoravano con le braccia tese e alzate, mentre qui vediamo il braccio
destro abbassato e il sinistro teso verso la figura sulla croce con le dita aperte e se-
parate alla romana (iactare basia)». Il graffito deve essere messo in relazione a un
altro, pure rinvenuto in quest’area degli edifici del palazzo imperiale, che recita sol-
tanto: « Alessameno fedele» – probabilmente una sorta di denuncia anonima, an-
cora una volta indirizzata contro il cristiano Alessameno. Questi due pezzi, la gem-
ma dell’Orfeo crocifisso (probabilmente di indirizzo sincretistico) e il graffito di
Alessameno (di intento polemico e denigratorio), introducono nella “storia dell’arte”
l’iconografia della crocifissione: oltre al dato più vistoso – l’iconografia più fortu-
nata della storia dell’“arte cristiana” si deve ad autori “pagani” –, si noti come il
processo di figurazione nel mondo greco romano fosse in larga misura spontaneo
(per certo chi realizzò questo graffito non consultò nessun cartone né ne stabilì uno;
il che vale sicuramente anche per l’intagliatore della gemma di Orfeo).

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 489

2. LE MATRICI GENTILI DEL LESSICO ICONOGRAFICO PALEOCRISTIANO


(L’APPORTO DELL’“IMMAGINARIO GENTILE”)
Il debito contratto dalla più antica iconografia cristiana con quella coeva
romano-imperiale fu assai ampio: esso coinvolgeva tutta la gamma del “po-
tenziale simbolico dell’immagine”: dai temi di più generico spettro seman-
tico, a quelli graficamente – e semanticamente – più connotati, sino a sog-
getti del mito, raffigurati talora in quanto tali (si pensi a Orfeo o alla scena
di Ulisse e le sirene).
Il processo di risemantizzazione di questi temi costituisce ovviamente un
momento caratteristico nella definizione di quel primo medium visuale cri-
stiano: si prenda il caso della colomba, uno dei simboli più semplici – e più
diffusi – di tutta la tradizione visuale cristiana antica. Si tratta di una figu-
ra largamente impiegata già dall’iconografia “profana”, che assunse questo
soggetto quale arcaico topos, artistico e letterario, per indicare l’indifesa
consistenza dell’anima. Già alla fine del III secolo a.e.v., nella redazione
dell’Asinaria, Plauto adottò il tema della colomba per confezionare la sarca-
stica irrisione dei due giovani amanti pronunciata dal servo Libanio, duran-
te l’Atto III:
Orsù, chiamami anatroccolo, colombucciola (columbulam), cucciolo,
rondine, gazza, passerottino piccino (passerculum putillum)20.

Sebbene il primato di aver formalmente segnato l’“atto di nascita” di


questo lemma nel lessico latino spetti a questo salace passo di Plauto, l’im-
piego già pienamente retorico del tema della colomba che qui si osserva do-
cumenta che il potenziale allusivo – o, se si preferisce, simbolico – di questo
soggetto era già stato riconosciuto dalla cultura letteraria della Roma arcai-
ca: esattamente come, pur senza alcun intento d’irrisione, documentano
alcuni passi del Cantico (Ct 2,14; 5,2; 6,9), riconducibile al IV secolo a.e.v.
La metafora e l’immagine della colomba riscossero consistente e perdu-
rante successo nella letteratura e nell’arte degli affetti, e tuttavia fortuna

20 Plauto, Asinaria 3,3,693 (G. Goetzet - F. Schoell [hrsg.], Asinaria, in G. Goetzet - F.

Schoell [hrsg.], T. Macci Plauti Comoediae, 1: Amphitruonem, Asinariam, Aululariam, Teub-


ner, Lipsiae 19222 [Bibliotheca Teubneriana 32], 62-112, qui 99.

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490 Appendice

ancor maggiore arrise ad esse quali simboli dell’anima umana, soprattutto


in contesto funerario. Chiamata a rappresentare l’innocenza e la purezza
della dimensione “spirituale” dell’esistenza umana – forse con un’implicita
allusione al dualismo antropologico di remota origine platonica che contrap-
poneva corpo e “dimensione spirituale” –, la colomba iniziò ben presto a
essere impiegata per raffigurare il ritorno dell’anima, libera della sua “pri-
gione” corporea, alla sua dimensione puramente spirituale. Peraltro, in que-
sto percorso di perfezionamento semantico, la figura della colomba seppe
aggregare a questo piano di significato quello, ancora più generico e tuttavia
coordinato, del locus amoenus paradisiaco.

Figura 129: una coppia di coniugi accanto a un bambino che indossa la bulla; due
colombe. Rilievo funerario. Musei Vaticani, Museo Chiaramonti, Città del Vati-
cano (cfr. P. Zanker, Il mondo delle immagini e la comunicazione, in Id., Un’arte per
l’impero, 9-37, qui 27). Inizi II secolo. Foto dell’autore. Il bassorilievo raffigura un
gruppo familiare disposto attorno al ritratto del giovane figlio, defunto ancora
fanciullo – come dichiarano le fattezze di questo ritratto e il fatto che ancora in-
dossi la bulla (una specie di collana d’oro che i figli del patriziato indossavano sino
al compimento del quattordicesimo anno d’età) –: le colombe che si vedono so-
spese sullo sfondo dei tre ritratti adempiono qui alla duplice funzione descritta nel
testo: illustrare la nuova condizione dell’esistere del ragazzo e preconizzarne una
dimensione gioiosa. L’interazione – e l’iterazione – tra queste due cifre simboliche
della colomba – insieme ai gesti che i genitori compiono – permettono di precisa-
re il significato complessivo della scena. Il padre tiene, infatti, la mano sulla spal-
la del fanciullo (il termine latino manus indicava giuridicamente il potere del capo
famiglia «su sua moglie e sulla sua prole»: cfr. A. Berger, s.v. «Manus », in Id.,
Encyclopedic Dictionary of Roman Law, American Philosophical Society, Philadel-
phia [PA] 1953 [Transactions of the American Philosophical Society 43,2], 577),

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 491

replicando il gesto, giuridicamente vincolante, della manus iniectio, che poneva


(inicio, letteralmente: “Immettere, introdurre, collocare dentro”), generalmente il
debitore, sotto il potere (manus) del suo nuovo dominus, generalmente il creditore.
Nella commovente resa di questo rilievo, il padre del defunto sembra rivendicare
la sua patria potestas sul figlio anche di fronte alla morte che glielo aveva sottratto.
Dal canto suo, la madre – qui ritratta sciolta dall’obbligo del capo velato, quasi
fosse stata sottratta alla subalternità che esso significa – offre al figlio dei frutti
freschi: azione correlata alla funzione del nutrire, antropologicamente associata al
ruolo materno, ma anche allusione all’iconografia del banchetto ultramondano,
fatto di piatti succulenti e di frutti prelibati e abbondanti, iconograficamente spes-
so evocato proprio da piccole colombe che beccano rametti carichi di frutti.

In ambito cristiano la densità di questo simbolo è stata sciolta in molte-


plici varianti che, pur attingendo sostanzialmente all’orizzonte semantico
entro cui questo simbolo si affermò – la raffigurazione della sostanza auten-
tica dell’individuo, dal punto di vista esistenziale e affettivo, nell’intimità
degli amori e dei sentimenti o nel confronto con la morte –, lo hanno decli-
nato in forme caratteristiche. Tra queste spicca la correlazione con la profes-
sione di fede: «Infatti resta integra solo quella fede che è sollevata in alto
come una colomba, lambendo le realtà superiori e volando libera nel cielo
grazie al remeggio spirituale delle ali»21.
Colpisce l’affinità fra l’impiego ambrosiano di questa immagine 22 e la
modesta lastra graffita rinvenuta nelle catacombe di Callisto, già analizzata
in precedenza 23. Stupisce osservare come, in quel caso, la connessione tra il
tema dell’anima – mediato dal simbolo della colomba – e quello della pro-
fessione di fede – del riconoscimento, cioè, in Gesù, del Cristo annunciato
dalle Scritture, da cui il monogramma che lì la colomba sta vergando – sia
dinamicamente reso dall’azione su cui si struttura quel graffito: l’anima del
defunto che professa la propria fede è resa attraverso l’immagine di una co-
lomba che scrive il monogramma.

Ambrogio, Circa Abramo 2,8,56.


21

Il vescovo milanese rinnova qui il debito con la figura poetica del «remigium alarum»
22

di Virgilio, Eneide 1,33; 6,18, al quale non di rado attiinse nella sua opera: cfr. Esamerone
1,7,25; 5,14,45; 5,16,55; 5,23,79; Esposizione del Salmo 118 14,38; La verginità 17,107;
18,116; In morte del fratello Saturo 2,128 (qui esplicitamente viene menzionato il parallelo
poetico tra anima e il volo degli uccelli); Lettere 4,11,17.
23 Vedi supra, pp. 216-217.

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492 Appendice

L’associazione tra questi due temi – colomba e monogramma, anima e pro-


fessione di fede – è frequente nel repertorio artistico paleocristiano e indica, a
mio giudizio, un tratto caratteristico del recupero cristiano di questa immagine.

Figura 130: una colomba su un ramo rigo-


glioso; il monogramma. Graffito funerario
(ICUR 4, 12231b) dal Cimitero anonimo
sulla via Appia. IV secolo. L’immagine è
tratta da ICUR 4, 12231b. Si osserva qui il
tentativo di raffigurare il monogramma al
di sopra del disegno di una colomba: essen-
do ben difficile abbracciare l’ipotesi, pure
avanzata da alcuni critici, di riconoscere nel
grafema inciso sopra l’uccellino il nome di
un defunto, è necessario riconoscervi un
maldestro tentativo di incidere il monogramma cristologico. Gli errori nell’incisione
dimostrano la prevalenza del suo valore simbolico su quello alfabetico. Il chrismon
indica la professione di fede, non più la somma di autentiche lettere.

Il processo di acquisizione e risemantizzazione cristiana della figura del-


la colomba segue, com’è ovvio, una traiettoria complessa, che dovette certo
tener conto anche del fondamentale apporto conferito a questo animale dal
vettore biblico. La colomba, che connotava l’immaginario letterario e arti-
stico della koinè romano-imperiale, attivò per certo nella coscienza cristiana
anche il ricco repertorio di significati tratti dalle tradizioni proto- e neote-
stamentarie: qui la connessione tra la dimensione antropologica 24 e metasto-
rica si rafforzò anche attraverso quella traiettoria “discendente”, lungo la
quale il volo della colomba rappresenta il provvidenziale compiersi della
volontà di YHWH: così è certamente in Gen 8,8-12, dove la libertà della co-
lomba noachica annuncia la fine del diluvio, è così nella tradizione evan-
gelica, dove la forma della colomba libera in cielo “dà corpo” allo Spirito
(Mc 1,1; Mt 3,16; Lc 3,22; Gv 1,32).

24 Anche nelle Scritture la colomba è spesso chiamata a raffigurare l’anima (cfr., per

esempio, Sal 68[67],14; Is 38,14; Ger 48,28; Os 7,11; cfr. anche Tertulliano, Il battesimo 8),
la persona (cfr. Mt 10,16) e, come già ricordato, l’amato.

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 493

2.1. Il caso del Buon Pastore


Uno degli esempi più utili per cogliere le caratteristiche del processo di
cristianizzazione del repertorio iconografico gentile è quello fornito dal tema
del Buon Pastore: tema di larga diffusione, modellato sullo schema del pa-
store crioforo, già ampiamente attestato nell’iconografia classica. Si tratta di
un’immagine che viene precocemente assunta in ambito cristiano: certamen-
te durante il II secolo, come documenta il passo del trattatello La pudicizia
di Tertulliano, su cui si è già riflettuto25.
Da subito, la raffigurazione del Buon Pastore cristiano viene correlata
all’interpretazione della celebre parabola neotestamentaria (Mt 18,12-14; Lc
15,3-7; Vangelo di Tommaso 107). È ancora lo stesso Tertulliano – impegna-
to ne La pudicizia in una disputa ermeneutica con i suoi avversari (che af-
fermano: «La pecora indica propriamente il cristiano, il gregge del Signore
il popolo della Chiesa e il Buon Pastore Cristo; e perciò nella pecora si deve
riconoscere il cristiano che si è allontanato dal gregge della Chiesa»)26 – a
chiamare in causa le raffigurazioni («picturae ») del Buon Pastore per chiari-
re l’esegesi («interpretatio») del testo biblico. In questo modo, però, egli im-
plicitamente sottrae questa scenetta dal ruolo subalterno di semplice illu-
strazione del testo, riconoscendovi piuttosto un suo esito interpretativo.

a. Elementi di continuità
Nella cultura artistica del mondo antico la figura del pastore crioforo è
senza dubbio tra le più precoci e tra le più longeve: il caso della piccola sta-
tuetta bronzea nuragica, conservata presso l’Ashmolean Museum di Oxford,
datata all’VIII secolo a.e.v., o quello del bronzo cretese del VII secolo a.e.v.,
conservato presso l’Antikenmuseum di Berlino, illustrano efficacemente la
fissità dello schema compositivo di questo soggetto.
È opinione ragionevole che la genesi di questa figura possa però essere
rintracciata in opere anche molto più antiche, risalenti sino al X secolo a.e.v. 27.

25 Vedi supra, pp. 222-224.


26
Tertulliano, La pudicizia 7,4; vedi supra, pp. 222-224.
27 Cfr. T. Klauser, Studien zur Entstehunsgeschichte I.

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494 Appendice

È invece un dato di fatto che il modello a cui attingeranno i primi cristiani


pervenga loro in uno schema formale ormai del tutto cristallizzato, che essi
acquisiranno senza difficoltà.

Figura 131: il pastore crioforo. Statuetta bronzea proveniente da Creta, ora pres-
so l’Altes Museum di Berlino. VII secolo a.e.v. La china è tratta da S. Reinach,
Répertoire de la statuaire grecque et romaine, 2,2, Leroux, Paris 1909, 551,4. Pasto-
re crioforo (Aristea?), particolare da sarcofago strigilato con “buon pastore” e te-
ste di leone di provenienza ignota, già presso la collezione Borghese, ora presso il
Musée du Louvre. III secolo. La china è tratta da M. Clarac, Musée de sculpture
antique et moderne. Planches, Imprimerie Royale, Paris 1828-1830, 551,4. Buon
Pastore proveniente dal monastero di Stoudios, ora presso l’Arkeoloji Müzeleri di
Istanbul. V secolo. La china è tratta da J. Laurent, Statuette du Bon Pasteur au
musée de Tchinily-kiosk, in Bulletin de correspondance hellénique 23 (1899) 583-587,
qui 584, fig. 1.

In ambito cristiano, «il tipo più comune è quello classico del pastore
crioforo, ora giovane imberbe, ora barbato, vestito dell’esigua tunica da la-
voro a cui spesso si aggiungono l’alicula e le fasciae crurales ai piedi, con
l’ovino sulle spalle»28: si tratta, in altri termini, di un’acquisizione del mo-
dello classico, del tutto priva di qualsivoglia connotazione formalmente ca-
ratteristica.
Sono almeno tre le ragioni che definiscono la peculiarità dell’acquisizio-
ne di questo tema in ambito cristiano:

28 F. Bisconti, s.v. «Buon Pastore », in Id. [cur.], Temi, 138-139, qui 138.

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 495

1. La già citata stabilità di questo tema iconografico si accompagna a


una caratteristica capacità di adattamento; ancora, con la sua ado-
zione cristiana, «questo tipo […] sembra, invece di perdersi, passa-
re da una civiltà all’altra e ritrovarsi all’origine di una nuova arte»29.
2. Come aveva già osservato René Grousset 30, l’acquisizione di questo
soggetto entro la più antica documentazione visuale cristiana coinci-
se con una sua rivalutazione, anche solo dal punto di vista puramen-
te progettuale. Come ha potuto segnalare Aurélien Caillaud, dopo
un’accurata analisi di tutte le occorrenze di questo soggetto nella tra-
dizione iconografica paleocristiana: per le pitture, «nella maggior
parte dei casi il “Buon Pastore” occupa un posto centrale nel program-
ma iconografico dei monumenti funerari (volta e intradosso dell’ar-
cosolio, lunetta). È sul soffitto – del cubicolo e dell’arcosolio – che
assume questa posizione centrale nel 62% dei casi»31; per le sculture,
«il “Buon Pastore” è scolpito al centro del sarcofago ventidue volte
[…]. Gli altri tipi di pastori sono rappresentati dieci volte al centro
[…]. Il tipo del “Buon Pastore”, o Pastore crioforo, costituisce quindi
una figura privilegiata nella plastica funeraria»32.
3. Lo sviluppo della parabola d’uso di questo tema è del tutto peculiare:
sopravvissuto alla transizione dal contesto culturale della gentilità a
quello delle più antiche Chiese, questo soggetto non sopravvivrà alla
stagione costantiniana, sparendo pressoché totalmente dalla docu-
mentazione visuale cristiana, a partire dalla prima metà del V secolo.
Sono incline a motivare questa peculiare “estinzione” – solo transito-
ria, per la verità, dal momento che questo soggetto tornerà ad affac-
ciarsi nei repertori artistici medioevali, anche se ormai privato della
centralità che aveva avuto nelle origini cristiane – come fatto da Bo-
niface Ramsey: «Sebbene il Buon Pastore rappresentasse una guida

29 M.A. Veyries, Les figures criophores dans l’art grec, l’art gréco-romain et l’art chrétien,

Thorin, Paris 1884 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome 39), 1.
30 Cfr. R. Grousset, Le Bon Pasteur et les scènes pastorales dans la sculpture funéraire des

chrétiens, in Mélanges de l’École Française de Rome 5 (1885) 161-180, qui 163.


31 A. Caillaud, La figure du “Bon Pasteur” dans l’art funéraire de Rome et la pensée

chrétienne des IIIe-IVe siècles, Ph.D. Diss., Nantes a.a. 2007-2008, 71.
32 Caillaud, La figure du “Bon Pasteur”, 97.

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496 Appendice

gentile, la Chiesa dell’era postcostantiniana prendeva sempre più


coscienza della propria autorità e potenza, e le immagini di Cristo
maestro e re testimoniano questa circostanza»33.
Un elemento unificante di questi diversi aspetti mi pare possa essere
situato nell’organicità della produzione visuale paleocristiana alla vita del-
le Chiese antiche. Questa prospettiva critica facilita la comprensione del
ricupero di questa simbologia, favorito senz’altro dalla sua grande diffu-
sione – e quindi anche dalla sua immediata “leggibilità” –, ma motivato
dalla decisiva importanza del tema biblico del pastore buono nella primi-
tiva cristologia cristiana. Inoltre, postulando la sinergia tra la produzione
visuale e lo sviluppo della speculazione teologica antica, si può motivare
facilmente anche la centralità iconografica goduta da questo tema per lun-
go periodo. Ne è riprova il fatto che, con il tramontare della più antica
cristologia e il sopraggiungere di quella nuova teologia che realizzava par-
te della sua “escatologia” nella sala del trono della corte imperiale, il Buon
Pastore d’un tratto divenne insufficiente per raffigurare il Logos dei cri-
stiani, venendo così ben presto rimpiazzato da figure trionfali e monarchi-
che del Cristo.

b. Caratterizzazioni cristiane
L’interpretazione cristologica del soggetto iconografico del Buon Pastore,
ormai generalmente accolta tra gli studiosi, trova importante conferma in
alcuni caratteri tipici del suo impiego in ambito cristiano.
Si pensi, in primo luogo, alla frequente sovrapposizione con il tema del
riposo di Giona. Come visto, la vicenda del profeta inviato a Ninive fornì la
“materia visuale” e tipologica per le più antiche raffigurazioni del ciclo pa-
squale, nucleo sostanziale del kerygma cristiano: Gesù di Nazareth può es-
sere infatti proclamato Cristo – questo è il più antico kerygma cristiano:
«Chi è il bugiardo se non chi nega che Gesù è il Cristo?» (1Gv 2,22) – poi-
ché offrì la propria vita elevando un sacrificio perfetto la cui efficacia è sta-

33 B. Ramsey, A Note on the Disappearance of the Good Shepherd from Early Christian

Art, in Harvard Theological Review 76 (1983) 375-378, qui 377.

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 497

ta resa manifesta dalla sua risurrezione. Il ciclo di Giona, poiché è tipologia


di quel sacrificio, si impose come “iconografia kerygmatica” per eccellenza.
Ora, nella più antica iconografia cristiana, la scena che più spesso viene ri-
prodotta del ciclo di Giona è quella del riposo sotto il pergolato di zucche,
tipologia esplicita più che della risurrezione, dell’anapausis regale del Cristo;
tipologia, dunque, della sua maestà escatologica.
Appare significativo osservare la biunivoca interazione tra questo tema
iconografico e la tematica bucolico-pastorale.

Figura 132: personificazione del mare (qui non visibile); l’imbarcazione di-
retta a Tarsis; il riposo di Giona sotto il pergolato; ritratto della defunta (in-
compiuto) di fronte al maestro (incompiuto); il Buon Pastore; il battesimo di
Gesù; due pescatori riparano le reti. Sarcofago a vasca con fregio continuo “di
Santa Maria Antiqua”, Santa Maria Antiqua al Foro Romano, Roma (Wp. 29,
tt. 1,2; 3,1; Rep. 1, 747). Secondo terzo del III secolo. L’immagine è tratta da
Wp. 29, t. 1,2. Il progetto di questo sarcofago, scoperto solo nel 1901, ospita
una singolare raffigurazione della scena del “riposo di Giona”: è dibattuto se
l’imbarcazione che vi si trova accanto debba essere considerata parte del ciclo
iconografico dedicato alla storia del profeta recalcitrante o meno – non è chia-
ro, cioè, se essa debba essere intesa come la nave da cui Giona è stato gettato
in mare o più genericamente come un simbolo della Chiesa. Di fatto, la vi-
cenda di Giona è sinteticamente richiamata dalla scena di riposo che si sta
esaminando, nella quale trova posto anche la figura della pistrice che lambi-
sce le gambe del profeta. Perdute, ma ancora riconoscibili per via dei bloc-
chetti di raccordo al fondo, le sei (otto?) zucche che dovevano pendere dal
pergolato. L’elemento che qui pare di maggior valore, però, è la singolare rie-
laborazione di questo pergolato che, nella parte superiore, si trasforma, ospi-
tando un autentico paradiso dove tre pecore pascolano o quietamente ripo-
sano.

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498 Appendice

Figura 133: il paradiso sul pergolato di Gio-


na. Particolare dal sarcofago “di Santa Ma-
ria Antiqua”, Santa Maria Antiqua al Foro
Romano, Roma (Wp. 29, t. 1,2; 3,1; Rep. 1,
747). Secondo terzo del III secolo. L’imma-
gine è tratta da Pelizzari, Vedere la Parola,
67, figura 16. Come mostra il dettaglio, l’e-
laborazione di questo “pannello scultoreo” è
improntata alla massima sintesi: sia i richia-
mi al ciclo di Giona sia la raffigurazione di
questo paradiso sono sinteticamente trasferiti in questa “crasi iconografica” attraver-
so pochi elementi essenziali. Pare dunque lecito escludere l’ipotesi di un divertissement
artistico sperimentato dallo scultore per provare il suo virtuosismo tecnico. Ciò im-
pone il tentativo critico di motivare la scelta compiuta da chi ha commissionato l’o-
pera: tale percorso porta necessariamente a considerare il significato dei temi icono-
grafici – scena bucolica e riposo di Giona – che qui si intersecano. Se, come
anticipato, il profeta coricato sotto la cucurbita iconizza la tipologia della regalità
escatologica di Cristo e se le scene bucoliche hanno nel giardino escatologico il pro-
prio immediato referente semantico, allora qui si dovrà osservare una interessante
affermazione teologica: la salvezza dei credenti è fondata sulla regalità di Cristo.

Figura 134: la defunta in posa di orante; un pastore mentre vigila; il riposo di Gio-
na; un pastore nutre il suo cane; il Buon Pastore. Fronte di sarcofago, Bode-Mu-
seum, Berlino (Wp. 29, t. 54,3; Rep. 2, 241), ultimo terzo del III secolo. L’imma-
gine è tratta da Wp. 29, t. 54,3. Identica associazione ermeneutica si trova
raffigurata sul fronte di sacrofago del Bode-Museum. Si tratta di un esemplare
forse di minor pregio stilistico, ma di non minore raffinatezza ermeneutica. Entro
una più vasta raffigurazione bucolica (dove si contano tre pastori – uno stante, ap-
poggiato al suo pastorale, uno più anziano, seduto, che accarezza e forse nutre il suo
cane e un crioforo –, variamente disposti in uno spazio idilliaco, reso tramite una
vegetazione rigogliosa e varia, raffigurata con arbusti di foggia difforme, nella qua-
le pascola una numerosa mandria di armenti [si presti attenzione al fatto che non si
osserva qui un gregge “puro”, composto di sole pecore, ma un’autentica mandria
composita, nella quale sta anche un toro, esattamente come dichiara l’epigrafe di

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 499

Teodoro nel ciclo di Giona aquileiese: cfr. Pelizzari, Il Pastore ad Aquileia, 118-120]),
si vede la figura di Giona mentre riposa sotto un pergolato di zucche. Come si può
osservare, l’espediente già notato nel fregio del sarcofago di Santa Maria Antiqua è
qui richiamato dalla pecora che sta saltando al di sopra del pergolato e dalla sagoma,
purtroppo gravemente compromessa, delle altre tre pecore che riposano, accovac-
ciate, sopra la cucurbita di Giona, trascrizione iconografica della “corona” escatolo-
gica del Cristo.

Figura 135: una pecora salta sul pergolato di Giona e tre pecore accovacciate
vi riposano. Dettaglio dal sarcofago del Bode-Museum, Berlino (Wp. 29, t.
54,3; Rep. 2, 241), ultimo terzo del III secolo. L’immagine è tratta da una foto
dell’autore. Come si può osservare i “tre oggetti” raffigurati al di sopra del per-
golato di Giona sono compatibili con il corpo di altrettante pecore: della terza
in particolare (quella accovacciata in corrispondenza della testa del profeta) si
può riconoscere il profilo della zampa anteriore sinistra e probabilmente anche
delle due anteriori, una, la destra ripiegata, l’altra, la sinistra, distesa. Anche in
questo caso, dunque, il pergolato del riposo del profeta, tipologia della glorifi-
cazione regale del Cristo, diventa il “fondamento” della speranza di salvezza del
suo gregge, il paradiso di delizie in cui esso intende dimorare.

Figura 136: l’imbarcazione diretta a Tarsis (fianco sinistro); Giona - Buon Pa-
store riposa sotto il pergolato di Giona in un paradiso in cui pascola il gregge
(fianco destro). Fianchi di un sarcofago proveniente da Roma, ora presso il
Museo Nazionale di San Matteo di Pisa (Wp. 29, tt. 88,1,3.6-7; Rep. 2, 90).
Metà del III secolo. L’immagine è tratta da Wp. 29, tt. 88,6-7. Il sarcofago stri-

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500 Appendice

gilato conservato al Museo Nazionale e Civico di San Matteo presenta sul fron-
te tre raffigurazioni bucoliche: due pastori appoggiati al propro vincastro sui
lati – uno attempato e uno giovane – e, al centro, una sontuosa rappresentazio-
ne del pastore crioforo. Ciò che qui appare rilevante è però l’impianto icono-
grafico dei due fianchi: su uno, quello destro, si vede la raffigurazione di un’im-
barcazione sulla quale un marinaio, vestito in abiti pastorali, sta in posa orante;
sull’altro fianco, lo stesso personaggio ritorna, questa volta nella celebre postu-
ra del riposo, sotto il pergolato di zucche, al centro di un autentico paradiso.

Figura 137: il pergolato di zucche sopra il Buon


Pastore che giace in posa di Giona. Particolare dal
fianco destro del sarcofago presso il Museo Nazio-
nale di San Matteo di Pisa (Wp. 29, tt. 88,1,3.6-7;
Rep. 2, 90). Metà del III secolo. L’immagine è
tratta da Wp. 29, t. 88,7. La freccia indica la pre-
senza del pergolato di Giona sopra il pastore che
riposa. Anche in questo caso è evidente la sovrap-
posizione cristologica tra le tipologie di Giona e del
Buon Pastore: qui il profeta, ritratto come pastore,
giunge in un Eden dove un gregge – il suo: egli stringe il vincastro – pascola se-
renamente. Come spiegare l’interazione di questi due soggetti se non come un
chiaro intervento ermeneutico volto a sottolineare il comune significato cristolo-
gico che, solo, permette di fondere i due temi biblici?

Figura 138: il Buon Pastore custodisce le pecore in un ovile (di foggia templare? ba-
silicale?); il Buon Pastore. Dettagli dal c.d. “sarcofago di Giona” ([Lateranense 119],
Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano [Wp. 29, t. 9,3; Rep. 1, 35], fine III
secolo) e del sarcofago d’infante ora presso la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen
([Wp. 29, t. 59,3; Rep. 2, 7], fine del III secolo). Le immagini sono tratte rispettiva-
mente da Pelizzari, Dal battesimo al regno, 64, figura 16; 46, figura 10. Come visto
supra, pp. 424-428, questi due sarcofagi si correlano reciprocamente in una sorta di
“tradizione iconografica” dando vita a un rapporto di interdipendenza molto forte.

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 501

Qui basti osservare come entrambi correlino l’immagine del riposo di Giona alla fi-
gura del pastore (buono: a guardia dell’ovile, nel caso del sarcofago romano; crioforo
– con anche la figura dell’ovile –, nel caso del sarcofago danese). Giova conclusiva-
mente osservare come, pur trattandosi qui di due sarcofagi che presentano progetti
iconografici sovrapponibili, le soluzioni figurative adottate dai due monumenti siano
difformi. L’osservazione pare rilevante perché impedisce di ricondurre la comune
presenza dell’abbinamento Giona-Buon Pastore alla dipendenza dallo stesso modello
artistico (l’equivalente di ciò che in pittura viene definito “cartone”): quella che si
osserva qui non è la replica di un modello grafico ma l’adesione alla stessa ermeneu-
tica, la comune professione dello stesso assioma teologico.

I casi osservati sin qui permettono di ribadire, anche sul piano della ge-
stione formale di queste figure, che l’adozione cristiana di simboli già affer-
mati nella cultura artistica e letteraria di età imperiale è avvenuta in moda-
lità del tutto peculiari, non tanto per via di una differenziazione formale (è
impossibile distinguere un Buon Pastore cristiano da un “pastore crioforo”
pagano) ma attraverso un uso caratteristico della materia visuale: un uso che
rispondeva ai costumi e alle esigenze proprie dell’ermeneutica biblica.
Un ultimo aspetto che, attraverso l’osservazione del caso del Buon Pastore,
è possibile documentare riguarda la versatilità con cui alcuni temi vennero ec-
cezionalmente rielaborati. In alcuni casi, infatti, soggetti già stabilmente codi-
ficati nel lessico visuale cristiano vennero parzialmente rettificati per puntua-
lizzare il significato con cui il tema iconografico veniva recepito nello specifico
documento visuale.

Figura 139: il pannello del Buon Pastore.


Mosaici dell’Aula Teodoriana, Aquileia. Da-
tazione tra il 315-319. L’immagine è tratta da
Pelizzari, Il Pastore ad Aquileia, 305, figura
134. Non potendo presentare per intero l’ar-
ticolato progetto iconografico dei mosaici di
Aquileia, vorrei attirare l’attenzione sul solo
pannello centrale del sesto comparto, quello
che ospita l’immagine del Buon Pastore. Qui
la modifica dello schema iconografico tradi-
zionale è evidente e risiede nel particolare
della «pecorella che intreccia irrazionalmen-
te le sue zampe alle gambe del Pastore» (L.
Bertacchi, Architettura e Mosaico, in Da

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502 Appendice

Aquileia a Venezia, una mediazione tra l’Europa e l’Oriente dal secolo II a.C. al VI
d.C., Credito Italiano, Milano 1980 [Antica Madre 3], 99-338, qui 204). Come
mostra la patente di “irrazionalità” attribuita da Luisa Bertacchi, si tratta di un det-
taglio abitualmente ricondotto a un un marcato errore prospettico, sintomo dell’i-
nadeguatezza dell’artista musivaro che fu chiamato a realizzare questo mosaico (così,
per esempio, già G. Brusin - P.L. Zovatto, Monumenti Paleocristiani di Aquileia e
Grado, Deputazione di storia patria per il Friuli, Udine 1957, 90). Abbandonando
questa soluzione a mio avviso elusiva, è possibile trasferire su un piano di significa-
to questo dettaglio formale, ricavandone in tal modo un’ipotesi ermeneutica più
uniforme dell’intero manto musivo. Se, infatti, come proposto da R. Iacumin, Le
porte della salvezza. Gnosticismo alessandrino e Grande Chiesa nei mosaici delle prime
comunità cristiane. Guida ai mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari, Udine 2000,
153, si assume come chiave ermeneutica la parabola della pecora smarrita (Mt 18,12-
14 || Lc 15,3-7; Vangelo di Tommaso 107), è possibile concludere che «il mosaico
fissi e trascriva due punti di questo racconto: ovviamente il primo è quello del Buon
Pastore che, trovata la centesima pecorella, “se la mette sulle spalle contento” (Lc
15,5); mentre il secondo – più pregnante – è il ritorno a casa. Cristo, recuperata
l’ultima pecora del suo gregge, sta, infatti, facendo ritorno a casa» (Pelizzari, Il Pa-
store ad Aquileia, 309; cfr. Lc 15,7 [Mt 18,14]).

Figura 140: il Buon Pastore nel paradiso. Dettaglio del mosaico del c.d. “Mausoleo
di Galla Placidia”, Ravenna. Secondo quarto del V secolo. L’immagine è tratta da
Wp. 16,3, t. 48. Un secondo esempio che può facilmente illustrare la caratteristica
capacità di adattamento che connotò la più antica arte cristiana si ritrova nel celebre
mosaico del Buon Pastore di Ravenna: qui, come si vede, il lessico bucolico in cui
è immersa la raffigurazione – chiaramente ispirato a un’idealizzata visione paradi-
siaca e non a un realistico quadro agreste – diviene la quinta scenica di un’epifania
regale del Cristo, nella quale abiti d’oro clavati e ammantati di porpora hanno so-
stituito la modesta paenula del pastore e dove la sontuosa croce astile, pure d’oro,
ha preso il posto del povero vincastro di legno. La sostituzione iconografica si può

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Immaginario gentile e immaginario cristiano 503

capire solo ricordando che questo mosaico viene steso quando ormai si è conclama-
ta la crisi dell’iconografia tradizionale del Buon Pastore: travolto dalla magniloquen-
za dell’“impero cristiano”, questo antico tema iconografico viene abbandonato per
far posto al Cristo-imperatore, mimesis ideologicamente rivendicata dagli impera-
tori – di Roma e di Bisanzio – quale pietra angolare di un nuovo potere, teorizzato
sapientemente da Eusebio di Cesarea: «Il Regno di Cristo, in virtù della potenza
dell’eikōn cristologica che plasma l’impero cristiano, è disceso nella Reggia di Co-
stantino» (R. Cacitti, “L’immagine del Regno di Cristo” , 194).

Il breve itinerario compiuto nell’impiego cristiano della figura del “pa-


store crioforo”, qui impiegato per raffigurare il Buon Pastore cristologico, ha
mostrato come sia nell’adozione del tema figurativo “profano” sia nel suo
impiego entro i progetti iconografici cristiani l’approccio sia rimasto sostan-
zialmente fedele alla Grundlogik tipologica già ampiamente documentata
per la primigenia cultura visuale cristiana.
Questa prima iconografia, dunque, ormai posta a una distanza consisten-
te dal sospetto di un cedimento di fronte alle lusinghe della cultura pagana,
ha provato di essere una risorsa argomentativa per queste antiche Chiese e,
per lo storico di quei secoli, una fonte documentaria del tutto chiara.

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* Questa Bibliografia non recepisce ogni titolo citato nel corso del volume né pretende
di essere esaustiva. Essa elenca piuttosto quei titoli, più o meno recenti, più o meno ampi,
sui quali si è fondato – o attraverso i quali si può più facilmente comprendere – l’«approc-
cio ermeneutico» che in questa ricerca si è descritto.

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INDICI

I rinvii si intendono alle pagine del volume. Eventuali numeri o segni dopo
la virgola si riferiscono alle note.

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INDICE SCRITTURISTICO

PRIMO TESTAMENTO

Genesi 22,9: 47,69.


1 - 3: 383,53; 384,54-55; 394. 22,16-18: 359.
1,26-27: 393. 26,3-4: 462.
1,26a: 47,69. 28,10-22: 47,69.
1,27: 385; 457. 31,13: 47,69.
2,7: 393. 47,31b: 47,69.
2,7a: 47,69. 48,15: 247.
2,18: 383,53. 49,24: 247.
2,21-22: 385.
3: 389; 392; 394. Esodo
3LXX: 347. 3: 431.
3,1-7: 379; 398. 3,1-22 + 4,1-17: 434.
3,3: 349. 3,10: 436.
3,6-7: 384; 385,58. 12: 423.
3,7: 387. 12,21-27: 352.
3,16-24: 441. 13,2: 344.
3,17-19: 344. 13,7 - 14,29: 433; 435.
4,3-4: 344. 14,22: 439.
4,4: 47,69. 15: 433; 435.
6 - 8: 131. 15,1-18: 433.
6 - 7: 453. 15,20-21: 433; 435.
8,8-12: 492. 15,22-25: 131.
8,20: 47,69. 15,27: 131.
12,7b: 47,69. 16: 430; 433; 435.
22: 335; 377-378. 16,14-18: 430.
22,1-18: 434. 17,1-7: 377.

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520 Indici

17,5-6: 131. Giudici


20: 433; 435. 5: 433.
20,4-5: 111.
20,4: 112,41. 2 Samuele
20,20: 452. 6,14-23: 307.
20,23: 111.
25,17-22: 47,69; 48,72; 111. 1 Re
26,31: 111. 6,14-15: 47,69.
31,3: 111. 6,18: 47,69.
31,6: 111. 6,20-30: 47,69.
31,11: 111.
Tobia
Levitico 6: 221.
15,19-30: 379.
19,4: 111. Giuditta
26,1: 111. 16: 433.
27,30: 344.
Giobbe
Numeri 10,10: 248.
7,88b-89: 48,72. 37,22: 124.
11: 430.
20,2-11: 131. Salmi
21,8-9: 47,69. 4,7b: 47,69.
21,16-18: 121. 23(22),1: 247.
24,7: 129. 26(25),8: 47,69.
24,15-19: 127. 27(26),8: 47,69.
24,17: 127; 129. 42-43(41-42),2: 337.
45(44),13b: 47,69.
Deuteronomio 68(67),14: 492,24.
4,15-19: 111. 90(89),4: 332.
4,23: 111. 96(95),6a: 47,69.
5,7: 112,41. 119(118),176: 248.
5,8: 111.
21,23: 351. Cantico dei Cantici
27,15: 111. 2,14: 489.

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Indice scritturistico 521

5,2: 489. 37,12-14: 365.


6,9: 489. 38,9: 367,43.
40,5: 306,50.
Siracide 41,1: 48,72.
18,13: 248. 41,16b-20: 48,72.
25,33: 383.
Daniele
Isaia 1 - 6: 314.
10,22: 124. 1,1 - 2,4a: 314,5.
11,1: 129. 2,4b - 3,23: 314,5.
19,19-20: 47,69. 3: 315; 319; 323-324; 325,12; 328.
38,14: 492,24. 3,1-23: 317.
45,23: 368,45. 3,1: 317.
51,5: 129. 3,12: 317.
53: 352. 3,14: 317.
53,7: 352; 423. 3,18: 317.
55,10-11: 174. 3,24-90: 314,5.
60,16: 248. 3,24-45: 314,5.
62,1: 129. 3,46-50: 314,5.
63,11: 248. 3,51-90: 314,5.
4 - 7,28: 314,5.
Geremia 6: 329,14; 330.
11,19: 423. 6,17-24: 206; 315; 330; 339; 391;
16,16: 221. 434.
31,10: 248. 7 - 12: 314.
48,28: 492,24. 8 - 12: 314,5.
13Vulgata (= SusannaLXX) - 14Vulgata (= Bel
Ezechiele e il DragoLXX): 314.
34,11-12: 248. 13 Vulgata (= Susanna LXX ): 314,5; 339.

34,31: 248. 13Vulgata (= SusannaLXX),7-14: 340.


37,1-14: 363; 365-366; 366,43; 368; 13,15Teodozione: 346.
370; 373-374; 375,52; 379-380; 13Vulgata (= SusannaLXX),15-26: 340.
382; 441. 13Vulgata (= SusannaLXX),28-44: 250.
37,9-10: 365. 13Vulgata (= SusannaLXX),28-41: 340.
37,10: 367,43; 373; 381. 13Vulgata (= SusannaLXX),45-46: 340.

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522 Indici

13Vulgata (= SusannaLXX),50-64: 345. 14Vulgata (= Bel e il DragoLXX),31-42:


13Vulgata (= SusannaLXX),50-63: 250. 315; 330; 339; 391; 434.
13Vulgata (= SusannaLXX),55: 345.
13Vulgata (= SusannaLXX),59: 345. Osea
13Vulgata (= SusannaLXX),61-62: 340. 7,11: 492,24.
14Vulgata (= Bel e il DragoLXX): 314,5;
330. Giona
14Vulgata (= Bel e il DragoLXX),22-27: 2,1: 333.
348. 4,6: 333.
14Vulgata (= Bel e il DragoLXX),23-42: 4,6LXX: 206.
315; 354; 355,34; 356.
14Vulgata
(= Bel e il DragoLXX),23-30: Zaccaria
248,25; 343. 13,8-9: 357.
14Vulgata (= Bel e il DragoLXX),23: 347. 14: 366,43.

NUOVO TESTAMENTO

Matteo 9,20-22: 378.


1,21: 452. 10,16: 351; 492,24.
2: 328. 10,19-20: 307.
2,1-12: 127; 136; 365; 450. 11,13: 160.
2,1: 324,12. 12,38-41: 207; 333.
2,7-9: 324,12. 12,40: 335.
2,11: 365. 13,47-50: 221.
3,13-17: 228. 14,13-21: 131; 218; 232; 359; 379; 434.
3,16: 216; 228; 492. 15,32-39: 131; 218; 232; 359; 379; 434.
4,12-20: 427. 16,4: 333.
4,19: 221. 17,24-27: 221-222.
6,33: 349. 18,12-14: 224; 248; 493; 502.
7,24-27: 427. 18,14: 502.
9,1-8: 371; 378; 398. 20,29-34: 372.
9,2: 371. 21,1-5: 371.
9,5-6: 371. 21,6-9: 371.
9,18-26: 434. 21,8: 371.

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Indice scritturistico 523

26,27-28: 379. 13,11: 307.


26,29: 407. 14,24: 348.
26,34-35: 434. 14,25: 232; 407.
27,11: 127. 14,30-31: 434.
27,29: 127. 15,2: 127.
27,37: 127. 15,9: 127.
27,51-53: 366. 15,12: 127.
27,52-53: 366; 368. 15,18: 127.
28,1-8: 449. 15,26: 127.
28,2: 449.
28,19: 398. Luca
2,8-20: 137; 449.
Marco 3,21-22: 228.
1,1: 492. 3,22: 216; 492.
1,9-11: 228. 5,4-11: 427.
1,10: 216; 228. 5,10: 221.
1,14-18: 427. 5,17-26: 371; 378; 398.
1,17: 221. 5,20-21: 371.
2,1-12: 371; 378; 398. 5,23-24: 371.
2,5: 371. 6,47-49: 427.
2,9-10: 371. 8,40-56: 434.
5,25-34: 378; 434. 8,43-48: 378.
6,30-44: 131; 218; 232; 359; 379; 9,10-17: 218; 232.
434. 9,12-17: 131; 359; 379; 434.
8,1-9: 131; 218; 232; 359; 379; 434. 10,3: 351.
8,11-12: 333. 11,29-32: 207; 333.
8,22-26: 372; 373; 377-378; 381. 15,3-7: 224; 248; 493; 502.
8,23: 372. 15,5: 502.
8,27-29: 373. 15,7: 502.
8,31: 373; 378. 18,31: 160.
10,46-51: 372. 18,35-43: 372.
10,52: 372. 19,32-38: 371.
11,4-11: 371. 21,13-15: 307.
11,8: 371. 22,17: 423.
11,17: 402,76. 22,18: 407.

Gabriele Pelizzari • L’ICONOGRAFIA CRISTIANA DELLE ORIGINI COME STORIA DELL’ESEGESI • Un’ermeneutica codificata
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524 Indici

22,33-34: 434. 11,1-44: 400.


23,3: 127. 11,3: 373.
23,37-38: 127. 11,38-39: 402.
24,1-11: 449. 11,38: 402.
24,27: 153,21; 154; 160. 11,41-44: 402.
11,45-54: 462.
Giovanni 11,47-53: 250.
1,1-18: 441,29. 12: 131.
1,1-3: 441,29. 12,14-16: 371.
1,3: 441,29. 12,20-36: 206.
1,10b: 441,29. 13,37-38: 434.
1,14a: 449. 18,33: 127.
1,29-34: 228. 18,39: 127.
1,29: 352; 423. 19,3: 127.
1,32: 216; 492. 19,19: 127.
1,36: 423. 19,21: 127.
2,1-11: 372. 19,34: 352.
4,23-24: 36,40; 327; 355. 19,36: 423.
6: 381. 20,22-23: 379.
6,1-13: 131; 218; 232; 359; 379; 434. 20,24-29: 449.
6,22-59: 232. 21,15-17: 437.
6,30-58: 381.
6,35: 232. Atti
6,48-51: 438. 1,16: 160.
6,53: 232. 2,1-13: 239,3.
6,51-58: 131. 2,6b-11: 239,3.
6,58: 349. 2,13: 240,3.
9,1-41: 372-373; 377-378; 381. 2,15: 240,3.
9,6: 372. 10,9-28: 121,22.
9,35: 373. 17,16-33: 104,23.
9,35-38: 381. 17,16-34: 240,5.
9,35-39: 455.
9,39: 456. Romani
10,11: 373; 378. 5,14: 152.
11: 250; 373; 434. 11,13: 240.

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Indice scritturistico 525

1 Corinzi Ebrei
1,12: 240. 6,13-18: 220.
2,2: 378. 6,19-20: 220.
5,6: 321; 423; 437. 6,19: 221.
5,7: 352. 9,1-5a: 48,72.
10,6: 151. 11: 234,78.
10,11: 150; 151,12. 11,21: 47,69.
11,23-26: 232. 11,38: 402,76.
11,26-29: 360.
11,26: 348; 423. 1 Pietro
13,12: 327. 1,19: 352; 423.
14,27: 240,3. 2,20-21: 131.
3,15: 398.
Galati 3,18-21: 407.
2,8: 240. 3,20: 153,19.
3,6-14: 452. 3,21: 152.
3,13: 351.
3,28: 294; 297; 393. 2 Pietro
3,8: 332.
Efesini
6,5: 104,23. 1 Giovanni
6,10-17: 171,37. 2,22: 496.

Filippesi Apocalisse
2,6-11: 206. 6,9-10: 261.
2,10-11: 368,45. 7,14: 321.
9,10: 423.
1 Tessalonicesi 12 - 13: 248,25.
4,13-18: 243,13. 12: 348.
12,9: 347-348.
Tito 20,4-6: 338.
2,9: 104,23. 21,1: 406.

Filemone
10-19: 104,23.

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INDICE DELLE FONTI ANTICHE*

A Diogneto: 483. Sulla Genesi, contro i manichei


5: 437,24. 2,22,34: 392.
5,5: 437,24.
5,9: 245,16. Ambrogio
Circa Abramo
Adriano I 1,5,38: 191,8.
Synodica all’ imperatore Costanti- 2,8,56: 491,21.
no VI e all’ imperatrice Irene: Esamerone
46-48; 46,67. 1,7,25: 491,22.
Responsum (o Hadrianum): 78; 4,8,32: 191,8.
79,19. Esposizione del Salmo 118
14,38: 491,22.
Agnello Esposizione del Vangelo di Luca
Liber pontificalis ravennate 2,1245: 191,8.
23; 36; 67: 134. 3,376: 191,8.
88: 135. 4,72: 222.
4,608.823: 191,8.
Agostino Il mistero dell’incarnazione divina
Enarrazioni sui Salmi 7: 47,69.
66,4,30: 47,69. Il paradiso
50,22: 192,10. 10,48: 385,57.
103,4,11-13: 348. 13,64: 389.
La fede In morte del fratello Saturo
40,49: 348. 2,128: 491,22.

* La documentazione visuale è segnalata, nel titolo delle rubriche, con **.

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Indice delle fonti antiche 527

La verginità Atti dei martiri di Scilli


17,107: 491,22. 12: 196,23.
Lettere
4,11,7: 491,22. Atti di Anania e Pietro
68,5: 191,8. 13: 417,6.
74,24: 191,8.
Lettera “extra seriem” 1a Atti di Giovanni
24: 191,8. 26-29: 212,34.
Lo Spirito Santo
1,16,166: 191,8. Atti di Pietro e Simone
2, Prologo 14: 191,8. 9-12: 357.

Anastasio il Sinaita Atti di Silvestro: 47,69


Commento all’Esamerone
10: 383,53. Avori**
Copertina (di evangelario?), Bri-
Andrea Gilo di Fabriano tish Museum: 139-140.
Due dialoghi: 94. Placca “dell’Adventus”: 28-29.

Annali di York: 74,5. Basilica di Aquileia**: 121,22.

Arnobio il Giovane Basilio di Cesarea


Commento ai Salmi Discorso sui quaranta martiri:
24,21: 348. 47,69.

Asterio Sofista Bassorilievi**


Omelia 13 sul Salmo 7 “Copto della Madonna di Efeso”:
29,4: 352. 140-141.
“Dell’apostolo Paolo che condu-
Atanasio di Alessandria ce la nave Tecla”: 218-219.
Sull’ incarnazione del Verbo “Del pescatore e il pastore”: 426.
1,1: 47,69.
Canoni di Ippolito
Atti dei martiri di Lione 11: 298.
1,10: 246,20.

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528 Indici

Carlo Magno Cirillo di Alessandria


Capitulare contra synodum: 76. Commento a Matteo: 47,69.
Capitulare de imaginibus: 74,6.
Libri Carolini (Opus Caroli regi): Cirillo di Gerusalemme
70; 74-87; 76,10; 78,16.18; Catechesi
79,19.21; 86-87; 94,26. 16,31: 341,24.
2,30: 78,16; 81,27. 18,1: 368,46.
4,21: 80,25.
Claudio Eliano
Cassiodoro
Varie La natura degli animali
3,19: 289,10. 11,16: 355,34.

Celso Clemente Alessandrino


Discorso veritiero: 202-203; 205; Pedagogo: 233,77.
258. 3,53,1-83,4: 213,39.
6,10c: 206,19. 3,57,1: 213,41; 214,42.
6,25: 208,24. 3,59,1-60,1: 210; 213.
7,53: 205,17. 3,59,1: 218.
8,73- 75: 203,11. Protrettico ai greci
8,76: 204,13. 1,6: 220,56.
4,46,63: 210,29.
Cicerone Quale ricco si salva: 104,23.
Il bene sommo e il male sommo
Stromati
2,21,68: 267,20.
1,1,18: 242,9.
Cipriano 1,16,80: 242,9.
Lettere 3,5-9: 211,31.
43,4,3: 342,25. 4,19,119: 341,24.
57,8: 329,15. 6,10,80: 242,9.
80,1-2: 104,24.
A Fortunato: 194. Codice Teodosiano
1: 175,44. 15,1: 83,29.
11: 249.
A Quirino: 194. Concilio del Laterano (769): 56.
Prologo: 175,44; 193,15. Atti: 47,69.

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Indice delle fonti antiche 529

Concilio di Elvira (306) (Sinodo di) Concilio Quin(i)sesto (692): 20-21;


Canoni 20,5; 21,9.
34-36: 21; 21,9. Canoni
73: 21.
Concilio di Efeso (431): 137; 141,33. 82: 21; 246,20.
100: 21.
Concilio di Hieria (754): 58.
Atti: 56. Contro il Caballino: 27,20; 28,27.
Anatematismi
1-7: 38,47. Costantino V
8-14: 36. Questioni: 37,43; 38,47.
14: 38,47.
15: 36,39. Costituzioni apostoliche: 420,12.
16: 36. 5,7,2: 417,6.
Enunciato finale: 48-49. 7,335-35; 420,12.
7,37: 208,22; 420; 420,15.
Concilio II di Nicea (787): 56; 58; 11,24-25: 208,22.
58,99; 69; 74-75; 76,9; 77; 80;
94,26; 118. Cronaca dell’anno 811: 53,87.
Atti: 36,38; 74.
Atti settima sessione: 50,82.
Cronografo romano del 354: 306.
Anatema IV: 118.
Enunciato finale: 46,67; 47; 50;
51,85; 58,100; 67; 74-75; Corpus Iuris Civilis
74,5; 77. Digesto
11,7,2: 304,42.
Concilio di Roma (731)
Atti: 47,69. Damaso
Carmi: 306.
Concilio di S. Sofia (815): 58. Epitaffio per sé: 401,75.
Enunciato finale: 58.
Frammento 14: 58,101. Didimo di Alessandria
Su Zaccaria
Constitutum Constantini: 41,56. 5,5: 357.

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530 Indici

Efrem 6,17252: 294,24.


Sul Datessaron 7,246: 294,25.
20,23-24: 392. 7,19158: 287,4.
7,20,669: 287,4.
Epifanio di Salamina 8,22407 (= 1,1587): 403.
Panarion 8,23279: 128.
48,4,1: 219,55. 9,24521: 396; 399,67.
65: 47,69. ILS
244: 280,51.
Epigrafi** 8341: 260.
AE NCE
2013,130: 260. 123: 260.
CIL 2553: 280,51.
12,1319: 260.
3,8742: 288,6. Esichio di Gerusalemme
6,930: 280,51. Omelia pasquale
6,2120: 291,15. 1,3: 392-393.
6,9538: 260.
6,29975: 288,5. Esodo Rabbah
6,37231: 296. 35,5: 365.
13,5708: 290,13.
CLE Eusebio di Cesarea
247: 260. Storia Ecclesiastica
ICUR 4,26,12-14: 175,44.
1,1282: 287,4. 7,11,10: 105,25.
1,1587 (= 8,22407): 403. 8,17: 117,9.
1,1658: 405. Vita di Costantino
2,6077: 287,4. 3,49: 339,20.
3,9181: 290,13.
3,9781: 290,12. Felice di Urgel
4,4a2: 216. Confessio fidei: 76,12.
4,12231b: 492.
4,12418: 401,75. Galeno
6,15780: 254,23. I propri libri
6,17225: 297. 17: 203-203,6.

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Indice delle fonti antiche 531

Protrettico Apologia II
14,38-39: 479,12. 13,4: 484,17.

Germano di Costantinopoli Dialogo con Trifone


Lettere: 25-26; 25,17; 48,72. 80: 368,45.
100,5-6: 130; 384,56.
Giovanni Crisostomo 138,1-2: 131.
Sulla parabola del seme: 47,69.
Per la quinta domenica di Pasqua: Gregorio di Nazianzo
47,69. Orazioni
Encomio di Melezio: 48,72. 24: 417,6.

Gregorio di Nissa
Giovanni Damasceno
La divinità del Figlio e dello Spi-
Discorsi apologetici (Orazioni sul-
rito: 47,69.
le immagini): 31,25.
Commento al Cantico: 47,69.
Discorso apologetico I (Orazione I
sulle immagini): 36,41. Gregorio Magno
Dialoghi
Giovenale 4,55: 135.
Satire Lettere
9,146: 479,12. 9,209,12: 183,5.
11,10,22.44: 183,5.
Girolamo di Gerusalemme Lettera a Sereno di Marsiglia:
Frammento: 47,69. 47,69.

Girolamo di Stridone Hadrianum o Responsum: 74,6.


Commento a Ezechiele: 380.
11,37,1-14: 375,50. Ilario di Poitiers
12,40: 306,50. Trattato sui misteri: 192,9.

Giustino Intagli**
Apologia I “Amuleto dell’Orfeo crocifisso”:
32,12: 129. 487.
52,3-6: 368,45. Dalla collezione Vallarsi: 222.
67,3-4: 156,27. Del British Museum: 221.

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532 Indici

Ippolito (di Roma) ICUR 4,12231b: 492.


Elenchos ICUR 6,17225 (“Di Eutropos”):
7,32: 211,32.36. 298-299.
9,12,14: 301,33. ICUR 8,23279 (“Di Severa”):
9,12,14-16: 302,38. 128-129.
ICUR 9,24521 (“Di Vittorina”):
Ippolito (d’Asia) 396-397; 399,67.
Commento a Daniele: 314,5. Lastra di Calevio: 196,22.
1,12-33: 349. Lastra di Dato e Bonosa: 403.
1,14: 342,25; 348. Lastra di Siracusa: 196,22.

Irene e Costantino V Lattanzio


Lettera: 46,67. Divine istituzioni
4,28,2: 280,51.
Ireneo di Lione La morte dei persecutori
Contro le eresie: 210-213. 34,5: 117,9.
1,22,1; 210,29. 48,2: 117,9; 120,18.
1,25,6: 210. 48,7: 120,19.
3,24,1: 223,60. 48,8; 120,20.
4,5,4: 335. 48,9: 120,21.
5,12,6: 398.
48,10: 120,19.
5,21,1: 348.
5,29,2: 322.
Leone III Isaurico
5,35,2: 257,35.
Ecloga: 33-34.
Frammento 14 (Pseudo-Ireneo?):
383,53.
Leone Magno
Istituti generali del capitolo cistercen- Sermoni
se: 86,1. 36: 135.

Lastre** Lettera dello Pseudo-Clemente: 234,78;


Graffito di Alessameno: 488. 437,24.
ICUR 1,1587 (= 8,22407): 403.
ICUR 1,1658: 405. Lex de imperio Vespasiani
ICUR 4,4a2: 216-217. 6: 24,17; 280,51.

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Indice delle fonti antiche 533

Liber pontificalis Metodio di Olimpo


Eutichiano, 2: 391. La risurrezione
1,56,3: 322.
Luciano di Samosata
Alessandro Minucio Felice
21: 202,6. Ottavio
9,3: 488.
Martirio di Eusebio: 417,6. 28,7: 488.

Martirio di Pionio Mosaici**


23,5: 321. Della basilica di Cresconio: 337-
338.
Martirio di Policarpo Della basilica teodoriana di
13,2: 216,48. Aquileia: 501-502.
14: 247,24. Del “Mausoleo di Galla Placi-
14,1-3: 321. dia”: 502-503.
14,1-2: 246,20. Di Santa Maria Maggiore: 138-
16,1: 246,20. 139.
Di Sant’Apollinare Nuovo: 134-
Martirologio cartaginese: 306. 136.
Massimo di Tiro
Niceforo
Discorsi
Storia breve: 30.
2,2: 274,35.

Melitone di Sardi Niceforo Callisto


Chiave delle Scritture: 175,45. Storia ecclesiastica
Proemio: 175,44. 563,1: 133.
Frammenti
9-12: 335. Niceforo di Costantinopoli
Omelia sulla Pasqua: 175,45. Confutazione
1,19,9: 37,43.
Metodio (patriarca di Costantino- 1,22,14: 37,43.
poli) 1,24,17: 37,43.
Inno: 68. Orazione contro gli iconoclasti: 27.

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534 Indici

Novaziano Omelie su Genesi


Il bene della pudicizia 8: 335.
8.9: 341,24. 14,3: 324,12.

Odi di Salomone Paolino di Nola


19,6,11: 384,56. Libri in lode di san Felice (“Nata-
licia”)
Omelie pseudoclementine
Natalicium 9, 514-515: 183,5.
12,12: 106,30.
Carmi
Oracoli sibillini 27,514-515: 268,22.
2,238-251: 207,22.
8,217-250: 217,50. Passione di Filippo
12: 417,6.
Orazio
Amori Passione di Perpetua e Felicita: 250-
2,6,5: 260,5. 253.
Prologo: 312,2.
Ordo commendationis animae: 416- 1,3: 408,80.
421; 416,4; 460-461; 464. 4,3-4: 247,22.
4,8-9: 231.
Origene
4,9-10: 247,23.
Ai martiri
7-8: 251.
33: 316,10.
20,5: 251.
Commento al Vangelo di Giovanni
10,233: 368,46.
Contro Celso: 202. Pausania
1,8: 202-203,6. Periegesi della Grecia
7,57: 357. 6,20,2-6: 355,34.
8,17: 106,30. 9,39,1: 355,34.
I principi
1,6,1: 445. Petronio Arbitro
La preghiera Satyricon
27,10: 349. 2,9: 479,12.
Omelie sul Cantico 71: 279,50; 290,13.
2,12: 216,48. 88,10,1: 479,12.

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Indice delle fonti antiche 535

Pietro Cantore Plauto


Parola Abbreviata Asinaria
86: 90,14. Atto 3,3,693: 489; 489,20.

Pitture** Plinio
Di Wadi Sarga: 322-323. Storia Naturale
Icona della porta Chalke: 27-29; 35,77: 479,12.
27,22; 57.
Nestori, Com5 (“Cubicolo di Leo- Prudenzio
ne”): 422. Contro Simmaco
Nestori, Din3: 359. 1: 83,29.
Nestori, Dom77: 390,65.
Nestori, Mar5: 318. Pseudo-Agostino
Nestori, Pri10 (“Nicchione della Libro sulle divine Scritture: 76,11.
Virgo lactans”): 127; 129.
Wp. 03, tt. 14,1-2; Nestori, Pri39 Pseudo-Barnaba
(“Cappella greca”): 126-128; Lettera: 174,43.
341. 15,8: 117,9.
Wp. 03, tt. 24,1-2; 25; 26,1; 27,1;
28,1-2; 29,1; Nestori, Cal1-2 Pseudo-Basilio di Cesarea
(“Cubicolo doppio X-Y”): Lettera a Giuliano l’Apostata: 47,69.
227-232; 227,66; 228,69;
229,71; 248-249. Pseudo-Cipriano
Nestori,Cal3-4; 14; 21-23: 230,73; Orazioni: 417,6.
249.
Wp. 03, tt. 45,1; 59,2; 60; 61; Ne- Pseudo-Dionigi l’Areopagita
stori, Lau69: 130-131. La gerarchia ecclesiastica
Wp. 03, t. 66,2; Nestori, Cal4: 249. 3,7: 115,6.
Wp. 03, t. 116,1; Nestori, Dom61: 4.1: 115,2.
132-133. Circa i nomi divini
Wp. 03, t. 251; Nestori, Pre5 4,7: 115,6.
(“Arcosolio di Celerina”):
351-353. Pseudo-Ippolito
Sulla Pasqua
Placca di Pheradi Maius**: 133-134. 50: 392.

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536 Indici

Pseudo-Lino Rep. 3, 9: 324.


Atti (di Pietro): 434. Rep. 3, 142: 430,22.
Rep. 3, 203: 430,22.
Pseudo-Tertulliano Rep. 3, 425: 431,23.
Carme contro Marcione Rep. 4, 48: 336-337.
3,201: 358. Rep. 4, 55: 363,37.
Rep. 4, 64: 424-425.
Quintiliano Rep. 4, 149: 344; 394,66.
Istituzione oratoria Rilievo funerario: 490-491.
11,3,89: 132. Strigilato con “buon pastore” e
teste di leone: 494.
Ricognizioni Wp. 29, tt. 1,2; 3,1; Rep. 1, 747
7,12: 106,30. (Sarcofago “di Santa Maria
Antiqua”): 497-498.
Rufino di Aquileia Wp. 29, t. 3,4; Rep. 1, 811: 249-
Spiegazione del Credo 253.
16,3: 175,44. Wp. 29, t. 9,2; Rep. 2, 11: 363,37.
18,1: 175,44. Wp. 29, t. 9,3; Rep. 1, 35 (“Sarco-
20,4: 175,44. fago di Giona”; Lateranense
27,4: 175,44. 119): 334; 424-428; 500-501.
28,3: 175,44. Wp. 29, t. 13; Rep. 1, 680 (“Sar-
32,1: 175,44. cofago di Giunio Basso”):
423-424.
Sarcofagi** Wp. 29, t. 14,4; Rep. 2, 149
Rep. 1, 34: 253,26. (“Sarcofago di Ancona”): 319.
Rep. 1, 85 (Lateranense 108): Wp. 29, t. 38,1; Rep. 3, 61: 358-
252-253. 360.
Rep. 1, 176: 363,37. Wp. 29, t. 53,3; Rep. 1, 778
Rep. 1, 807: 363,37. (“Sarcofago di Baebia Herto-
Rep. 2, 243 (“Sarcofago di Gio- file”): 296-297.
na”; British Museum): 443- Wp. 29, t. 54,3; Rep. 2, 241:
446; 443,34. 498-499.
Rep. 2, 249: 430,22. Wp. 29, t. 57,5; Rep. 1, 46 (Late-
Rep. 2, 378 (“Sarcofago dell’esar- ranense 236): 405-406.
ca Isacio”): 135. Wp. 29, t. 59,3; Rep. 2, 7 (“Sar-

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Indice delle fonti antiche 537

cofago di Giona”; Ny Carl- Wp. 29, tt. 139,1-4; Rep. 1, 39 (La-


sberg Glyptotek): 424-425; teranense 184): 403; 404,78.
427-428; 500-501. Wp. 29, t. 150,2; 32, t. 190,7;
Wp. 29, t. 65,5; 32, tt. 175,3-4; Rep. 2, 152 (“Sarcofago dei
Rep. 3, 18: 390-392; 399,67. santi Simone e Giuda Tad-
Wp. 29, t. 73,1; Rep. 2, 148 (“Sar- deo”): 357-358; 390,65.
cofago di Catervio”): 318; Wp. 29, t. 152,5; Rep. 3, 34: 403.
325,12. Wp. 29, t. 157,2; Rep. 2, 12
Wp. 29, t. 86,3; Rep. 1, 44 (Late- (“Sarcofago dell’Esodo”):
ranense 178): 403. 431-439; 431,23.
Wp. 29, tt. 88,1,3.6-7; Rep. 2, Wp. 32, t. 157,1; Rep. 1, 40 (La-
90: 499-500. teranense 189): 344-345.
Wp. 29, tt. 91; 93,2; 153,1; Rep. Wp. 32, t. 171,6; Rep. 1, 590: 444.
1, 45: 446. Wp. 32, t. 174,10; Rep. 1, 143
Wp. 29, t. 92,2; Rep. 2, 20 (“Sar- (Lateranense 182): 322.
cofago di Adelfia”): 317-318. Wp. 32, t. 175,6; Rep. 1, 121 (La-
Wp. 29, t. 97,2; Rep. 3, 21: 430,22. teranense 134): 320-322; 336.
Wp. 29, t. 99,1; Rep. 3, 218: 351. Wp. 32, t. 176,2; Rep. 1, 894: 321.
Wp. 29, t. 103,4; 32, tt. 184,1; Wp. 32, t. 177,3; Rep. 1, 145 (La-
190,9-10; Rep. 1, 12 (Latera- teranense 176): 451-454.
nense 191): 363,37; 376-381. Wp. 32, t. 181,3; Rep. 1, 834: 322.
Wp. 29, t. 111,1; Rep. 4, 81: 395- Wp. 32, t. 181,4; Rep. 1, 637: 322.
398; 399,67. Wp. 32, t. 181,5; Rep. 1, 959: 322.
Wp. 29, t. 120,2; Rep. 1, 77 (Late- Wp. 32, t. 182,1; Rep. 3, 514: 387.
ranense 154): 388-389; 399,67. Wp. 32, t. 185,9; Rep. 2, 180:
Wp. 29, t. 122,3; Rep. 3,40: 392-394; 399,67.
394,66. Wp. 32, t. 186,2; Rep. 1, 25 (La-
Wp. 29, t. 123,3; Rep. 1, 7 (La- teranense 193): 454-457.
teranense 116): 363,37. Wp. 32, tt. 188,1-189,2; Rep. 2,
Wp. 29, t. 134,1; Rep. 1, 1003: 150 (“Sarcofago di Stilicone”):
253,26. 324,12; 327-328; 363,38.
Wp. 29, t. 134,3; Rep. 1, 239: Wp. 32, t. 191,1; Rep. 1, 923:
253,26. 394,66.
Wp. 29, t. 136,4; Rep. 1, 144 (La- Wp. 32, t. 192,3; Rep. 3, 282:
teranense 147): 332-336. 390,65.

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538 Indici

Wp. 32, tt. 194,4.7; Rep. 1, 693: Wp. 32, tt. 243,4-6; Rep. 2, 250
363,37. (“Sarcofago di San Celso”):
Wp. 32, t. 195,4; Rep. 3, 41 446-451; 446,35.
(“Sarcofago della casta Su- Wp. 32, t. 255,7; Rep. 1, 893:
sanna”): 318; 346. 407-408.
Wp. 32, t. 196,1; Rep. 4, 56
(“Sarcofago di Susanna”): Sculture al tutto tondo**
340-341; 346. Ambone della “basilica della roton-
Wp. 32, t. 197,1; Rep. 3, 251: da” di Tessalonica: 136-138.
356-357. Statua del “buon pastore”: 494.
Wp. 32, t. 197,4; Rep. 1, 146 (La- Statua del pastore crioforo: 494.
teranense 136): 343-349; 356. Statua di figura femminile assisa:
Wp. 32, t. 202,3; Rep. 3, 492: 267-268; 267,21.
325-326; 325,12. Statua “di sant’Ippolito”: 264-
Wp. 32, t. 205,4; Rep. 2, 71: 266; 264,16; 266,19.
431,23.
Wp. 32, tt. 206,5-7; Rep. 1, 23 Severiano di Gabala
Discorso sul sigillo: 47,69.
(Lateranense 135): 363,37;
Omelia per la lavanda dei piedi:
457-459.
47,69.
Wp. 32, t. 208,10; Rep. 2, 248:
331-332.
Stefano di Bosra
Wp. 32, t. 209,2; Rep. 3, 162:
Frammento: 47,69.
430,22.
Wp. 32, t. 215,7; Rep. 1, 14 (La- Sulpicio Severo
teranense 180): 363,37; 380- Vita di Martino
382. 22,5: 444.
Wp. 32, t. 219,1; Rep. 1, 5 (Latera-
nense 121,1): 363,37; 364-365. Tarasio
Wp. 32, t. 222,7; Rep. 1, 735: Synodica: 48.
129-130.
Wp. 32, t. 228,7; Rep. 1, 60 (La- Teodoro il Lettore
teranense 179): 356. Storia ecclesiastica: 133.
Wp. 32, t. 235,7; Rep. 1, 21 (La-
teranense 186): 363,37; 370- Teodosio di Gerusalemme
374; 377; 381. Synodica: 48,71.

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Indice delle fonti antiche 539

Teofane il Confessore Il battesimo


Cronografia 1,3: 217,50.
Anno del mondo 6187 (369): 8: 492,24.
23,11.13. 8,4-5: 131.
Anno del mondo 6261 (444): La corona
44,62. 4,3: 341,24.
Anno del mondo 6276 (457- 9: 192,11.
458): 44,63. L’anima
Anno del mondo 6272 (453): 43,10: 192,9.
43,60. La prescrizione contro gli eretici
Anno del mondo 6277 (460): 7,9-11: 242,8.
45,65. La pudicizia: 493.
Anno del mondo 6302 (486- 7,1: 210; 223: 61.
487): 52,86. 7,4: 493,26.
Anno del mondo 6305 (502): 21,6: 223,60.
55,92-93. L’eleganza delle donne
1,1: 385,59.
Prosecuzione di Teofane L’ idolatria
4,8: 68,121.
1,1: 210,29.
3-7: 479,12.
Tertulliano
15,8-9: 316,10.
Alle nazioni
La risurrezione
1,4: 488.
29-30: 368,45.
Apologetico: 243,12.
53,3: 401,73.
Prologo: 485.
Scorpiace
10: 318.
8: 316,10.
16: 488.
37: 203,11. 8,7: 316,10.
46: 242,8.
A Scapula Tradizione apostolica: 304.
3,1: 302,37. 16: 298; 479; 479,12.
4,7: 294,26. 16,3: 478; 478,11.
Contro i giudei: 194. 16,7,3: 479,12.
1,1-2: 181,2. 40: 304,43.
10,6: 335.

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540 Indici

Ugo di Folloy “Coppa di Homblières”: 348;


Il chiostro dell’anima 418,8; 464-465.
1: 90,14. “Coppa di Podgorica”: 396-397;
418; 459-465; 460,37.
Vangelo di Nicodemo Frammento del Museo Sacro
6,2 (recensione greca A): 372. della Biblioteca Apostolica
Vaticana: 388.
Vangelo di Tommaso
107: 493; 502. Virgilio
Eneide
Vetri** 1,33: 491,22.
“Coppa di Colonia”: 418,8; 463-
464. Vita di Teodora: 67.

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INDICE ONOMASTICO

NOMI ANTICHI*

Abacuc: 311,1; 329,15; 330,17; 331- Alessandro, vescovo di Tipasa: 337.


332; 335. al-Ma’mūn: 63.
Abdénego: 317. al-Mu‘tasim: 64; 66,116.
Abele: 149,6; 345; 454-456. Ambrogio di Milano: 82.
Abraham Strothos: 140. Ambrogio di Alessandria: 104,23.
Abramo: 207,22; 336; 358-359; 378; Ammonio Sacca: 485.
396; 416; 420; 458. Anassarco: 205.
Abu Sa’id: 66,116. Anastasio (patriarca di Costantino-
Adamo: 136; 163; 191; 219,53; 344; poli): 35; 35,33.
368-369; 369,47; 374; 376; Anastasio I: 29.
383,53; 384-387; 386,60-62; Angilberto: 76.
389; 393-395; 394,66; 397; 455- Angilramo di Metz: 76.
458; 461-462; 486. Antimo: 322.
Adelfia: 317-318. Antonio di Syllaion (poi patriarca di
Adriano (imperatore): 268. Costantinopoli): 56; 61,108; 62;
Adriano I (papa): 43; 46-47; 47,68- 62,110; 65; 67.
69; 67,70; 79,19. Archelao: 260,5.
Agobardo di Lione: 76,12. Arianna: 486.
Agostino: 82. Aristea: 494.
Alassameno: 487-488. Aristide: 483.
Alcuino di York: 76; 76,11-12. Aristotele: 211.

* Il presente Indice integra quello delle opere antiche; i riferimenti elencati di seguito non
enumerano, pertanto, le citazioni delle opere di questi personaggi.

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542 Indici

Arrius Alphius: 290-291-15. Caracciolo, R.: 454.


Arsabero: 65,114. Carlo Magno: 42; 46; 52-53; 74; 74-
Artavasde: 35,33. 83; 76,12; 84,21.
Asclepio: 205. Carpocrate (“gnostico”): 210-211.
Atena: 267; 386,60. Carpoforo: 303.
Atenagora: 483. Catervio: 318.
Attico (patriarca di Costantinopoli): Celso: 202-209; 202,6; 207,21;
28. 208,24; 234; 244,15.
Azaria: 314,5; 322. Celso (epicureo): 202; 202,6; 233.
Ciacconio Alfonso: 93.
Bacco: 487. Cibele: 267.
Baebia Hertofile: 296-297. Cieco nato: 370; 372-373; 376; 378;
Bardes: 66. 380-381; 395; 398; 454-458; 463.
Barnaba: 153. Cipriano: 104,23; 194; 342.
Baronio Cesare: 93; 93,22-23. Clemente Alessandrino: 104,23;
Bartimeo: 372. 210-222; 233; 242; 485.
Basilio di Cesarea: 26. Clemente (personaggio pseudocle-
Bel (e il drago): 313-315; 330; 339; mentino): 106.
343; 347; 354; 356-357; 391; Clio: 267.
434. Commodo: 274-275; 294.
Bodenstein von Karlstadt: 89-90; Corinna: 260,5.
91,17. Cosma: 322.
Bonaiuta Gamelli: 431. Costantino (papa): 23.
Bonosa: 403. Costantino I: 32; 41,56; 60; 116;
Bosio Antonio: 93. 117,9; 123; 243,13; 120; 302,37;
Burnet Gilbert: 93. 323; 339,20.
Costantino IV: 24; 46; 50.
Caino: 345; 454-456. Costantino V: 27, 21; 31,25; 34;
Caio Ostio Panfilo: 260,6. 35,33.36; 37; 37,42-43; 38,47;
Calevius: 254,27. 40-42; 45,66; 54-55; 58-59;
Calliope: 267. 59,119; 68,119; 147.
Callisto (papa): 299; 302-303; Costantino VI: 43; 52; 62; 75,8; 76.
302,35.38. Costantino di Nicoleia: 25.
Cananea: 311,1. Costanzo II: 446.
Caracalla: 294. Cresconio: 337.

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Indice onomastico 543

Damaso (papa): 306. Epifane: 211.


Damiano: 322. Epitteto: 205.
Danae: 486. Eracle: 205.
Daniele: 149; 150,9; 167,27; 186,13; Eracleone: 256,33.
205-209; 207,21.24; 228-230; Erode: 126; 324-325-12; 442.
228,69; 248; 250; 312-315; Eudocia: 133.
313,4; 314,5-6; 315,8; 329-340; Eufemia: 136.
329,15; 333; 335-336; 339,20; Eufrosine: 62; 66; 66,116.
340,23; 343; 345; 348-350; 354- Eugenio II (papa): 62,111.
359; 361-362; 365; 370; 376- Euprepio: 322.
378; 386-387; 390-391; 417; 431; Eusebio di Cesarea: 264-265; 411,81;
434; 436-437; 460,39; 461-464. 503.
Daniele (scultore): 289,10. Eutropos: 298.
Dato: 403. Eva: 129-130; 136; 344; 356; 371;
Davide: 34; 81; 220; 307; 417; 420. 374; 376; 383-390; 385,58;
Decio: 104; 104,24; 319; 346. 386,60; 390,65; 393-397; 394,66;
Demiurgo: 385,58. 452; 455-458; 461-462; 486.
Deucalione: 486. Ezechiele: 364; 367-369; 375.
De Winge, Philip: 93.
Dinocrate: 251-252.
Faltonia: 304,41.
Diocleziano: 288,6; 319.
Fanciulli ebrei (tre): 166; 167,27;
Dionigi di Alessandria: 104,24.
207,22; 214; 214,43; 311,1;
Dioniso: 261,10; 486.
Doimo: 288. 313,4; 314,5; 315-328; 333; 376-
377; 399; 400,70; 417; 441-442;
Eleazaro: 207,22. 460-461; 463.
Elena: 323. Felice di Urgel: 76,12.
Elia: 207,22; 373; 416. Felicissimo: 342.
Elipando di Toledo: 76,12. Filippico Bardesane: 23.
Emorroissa: 311,1; 376-378; 434; Filippo (apostolo): 355,34.
436; 446,35; 450. Filippo Neri: 92.
Endimione: 486. Flavius Magnanus: 288,6.
Enoc: 416. Fozio: 65,114.
Enomao: 317. Fortuna: 267.
Epicuro: 267. Francesco I: 80.

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544 Indici

Galerio (imperatore): 117,9. Gregorio I (papa): 91; 96,4.


Galla Placidia: 406; 502. Gregorio II (papa): 31; 48,72.
Gallieno (imperatore): 304,41. Gregorio III (papa): 31.
Germano di Costantinopoli: 25-26.
Giacobbe: 128; 207,22; 420. Hätzer, L.: 89.
Giobbe: 311,1; 416. Hermes: 263.
Giona: 122; 130; 149; 163; 165-166; Hourkene: 322.
167,27; 186,13; 205-209; 207-
208,22.24; 209,26; 222; 229; Ilario: 82.
229,71; 231; 234,78; 296; 311,1; Innocenzo III (papa): 87.
317; 321; 332-334; 388; 390; Ippolito: 153; 264-265; 301-302-
405-407; 419; 420,13; 425-428; 303; 302,35.
429,18; 442,32; 443-446; 452- Irene (Basileus): 43-46; 50; 52; 57;
453; 460-463; 469; 486; 496- 62; 67,119; 71; 76.
501. Ireneo di Lione: 130; 210-211;
Giorgio (santo): 355,34. 212,34; 215,46; 244,15; 257;
Giovanni (apostolo): 212,34. 342.
Giovanni (Battista): 227-228. Isacco: 148,5; 149; 166; 166,24;
Giovanni (presbitero): 26,19. 207,22; 311,1; 332; 335-337; 359;
Giovanni Damasceno: 69. 376-378; 390; 395; 398; 416; 431;
Giovanni il Grammatico (patriarca 434; 436; 457-458; 460-462.
di Costantinopoli): 56; 58,99; Isacio: 135.
62; 65; 66; 68.
Isidoro: 82.
Girolamo: 261,8; 264; 306-307;
306,50; 375.
Jean l’Hereux: 93.
Giuda (Iscariota): 311,1; 363.
Joakim: 348.
Giuda Taddeo: 357; 390.
Giuliana: 405-406; 442,32.
Giunio Basso: 422-423. Kalomaria: 65,114.
Giuseppe: 326. Kleomenes: 263.
Giustiniano I: 29; 34. Krum: 56.
Giustiniano II: 20; 22-23; 29.
Giustino: 153; 174,43; 243,12; Landolfo II da Carcano: 446.
437,24; 483. Lazzaro: 131; 249-250; 252; 254,27;
Golia: 417. 370; 373-374; 390-391; 395; 398-

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Indice onomastico 545

405; 401,72; 402,77; 404,78; 424- Martiniano: 131; 250; 252-253; 377;
426; 431; 434; 436; 438; 442; 431; 434; 450; 457.
442,32; 455-456; 461-462; 469; Martino di Tours: 134.
486. Melchisedek: 148,5.
Leone: 422. Melitone di Sardi: 153; 174; 465.
Leone (fanciullo): 294. Mena: 322.
Leone III “Isaurico”: 27; 30; 30,24; Mesàch: 317.
31-34; 31,25; 32,26-27; 34,31; Metodio (monaco, poi patriarca di
49,77; 52; 57. Costantinopoli): 61,108; 67.
Leone IV: 42-44. Michele I Rangabe: 53-54.
Leone V: 54-58; 54; 90-91; 60-62; Michele II: 60-62; 62,110-111; 65-
64. 67.
Leone il Filosofo: 65,114. Michele III: 66.
Leonzio: 322. Mnemosyne: 267.
Libanio (personaggio plautino): 489. Montano: 219.
Licinio: 117,9. Mosè: 34,31; 81; 108,33; 154; 163;
Licomede: 212,34. 165; 207,22; 357-359; 409; 417;
Lonck Johannes: 92. 430-436; 438; 450; 452.
Lot: 416. Myriam: 431-433; 435; 438; 450;
Luca (evangelista, autore di icone): 452.
119,17.
Luciano di Samosata: 202. Nabucodonosor: 315; 316,9; 319;
Lucio Mussio Emiliano: 105,25. 329; 357; 441-442.
Ludovico il Pio: 62,111. Nelpia Hymnina: 260,6.
Niceforo (patriarca di Costantinopo-
Magi: 126-128; 130-132; 134-140; li): 53; 53,88; 56; 58-59; 61,108;
166; 324-328; 324,12; 325,12- 62; 67,119; 69.
13; 364-365; 392; 441-442; 447- Niceforo I Logoteta: 52-53; 61,108;
449; 451-453. 66.
Marcione: 195; 195,20; 255-256; Niceta (patriarca di Costantinopoli):
256,31. 35,34.
Marco Aurelio Prosene: 294. Nilo di Ancira: 49,75.
Maria: 126; 128-130; 132-141; 323- Noè: 131; 167,27; 320-321; 406-
324; 326; 364; 384; 394; 452. 408; 416; 425; 442; 442,32; 452-
Martin Lutero: 89-90. 453; 469; 486.

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546 Indici

Olimpiodoro: 49,75. 363,38; 376-377; 380; 388-389;


Onesimo: 174. 395; 409; 417; 424-425; 431;
Onorio I (papa): 24,15. 434; 436; 439; 442,32; 446-447;
Orfeo: 205; 219; 486-489. 446,35; 450; 452-453; 457-458;
Origene: 104,23-24; 202; 202, 6; 461.
368; 411,81; 485. Pietro (arciprete di s. Pietro): 46,67;
Ossa aride: 362-371; 375-377; 379- 50.
382; 409; 441; 457-458; 463; Pietro (abate di San Saba): 46,67;
521. 67,70.
Ossesso: 311,1. Pietro (personaggio pseudoclemen-
tino): 106.
Paolino di Aquileia: 76,12. Pilato: 211-212.
Paolino di Nola: 268. Pipino il Breve: 42.
Paolo (apostolo): 218; 240; 240,5; Pirra: 486.
327; 350-351; 350,29; 363,38; Pirro Ligorio: 92; 264; 264,15; 266;
378; 388; 394; 446,35; 447. 266,18.
Paolo I (papa): 41. Pitagora: 211; 213,37.
Paolo IV (patriarca di Costantino- Platone: 211.
poli): 43,60; 44-45. Plotino: 485.
paralitico: 370; 374; 376; 390; 395; Policarpo: 246; 246,21.
398; 454-458; 463. Policrate: 214.
Pasquale I (papa): 61,108. Pomponio Leto: 92.
Passarione (vescovo): 28. Processo: 131; 250; 252-253; 377;
Pastore (Buon): 130; 186,13; 223- 431; 434; 450; 457.
224; 228; 230; 248-249; 336; Prometeo: 386,60; 486.
390-392; 399,67; 405-406; 425; Pulcheria (augusta): 28; 133.
428; 463; 493-503.
Patrizio (santo): 355,34.
Pelope: 317. Quadrato di Atene: 483.
Perpetua: 134; 247-249; 253; 463.
Perrod, L.: 459,37. Rotrude: 46; 75,8.
Perseo: 288; 486. Rufino: 261,8.
Petrowich Basilewski, A.: 460,37.
Pietro (apostolo): 240; 240,3; 250; Sadràch: 317.
252-253; 350-351; 350,29; 358; Salomone: 34; 34,31.

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Indice onomastico 547

Sansone: 311,1. Temista di Lampsaco: 267.


Saturnino (proconsole): 196. Teodora (imperatrice): 58,100; 65,114;
Saul: 417. 66-67; 71; 135.
Seleuco: 214. Teodorico: 134; 289,10.
Sergio I (patriarca di Costantinopo- Teodoro (santo): 355,34.
li): 24,15. Teodoro lo Studita: 37,44; 59-61;
Settimio Severo: 280-281. 65,114; 67,119.
Severa: 288,6. Teodoro (vescovo di Aquileia):
Sperato: 196. 121,22; 499.
Sibilla: 205. Teodosio II: 28.
Silvestro (papa): 47,68. Teodosio di Efeso: 49,77.
Simbatio: 55. Teodoto Melisseno (patriarca di Co-
Simon Mago: 357. stantinopoli): 58; 60; 62.
Simone (santo): 390. Teodozione: 339; 355,34.
Simone Bar-Kochba: 127. Teodulfo di Orléans: 76; 76,11; 78.
Sirene: 489. Teofane il Confessore: 44; 52.
Sisto V (papa): 93. Teofilo di Antiochia: 483.
Smetius, M.: 264,16. Teofilo (imperatore bizantino): 62-
Stefano II (papa): 41,56. 66; 66,117; 68.
Tertulliano: 96,4; 104,23; 194;
Stefano III (papa): 41-42.
195,20; 197; 210; 215,46; 222-
Stefano il Giovane: 41,53.
224; 233; 243,12; 493.
Stilicone: 254,27; 363,38.
Tigrane III: 260,5.
Sturacio: 52-53.
Tito Livio: 204,12.
Successa: 288.
Tobia: 311,1; 390.
Susanna: 250; 313,4; 315; 318; 339-
Tobiolo: 311,1.
354; 357; 417; 460-461; 464.
Tommaso (apostolo): 311,1; 447;
449-450.
Tabitha: 311,1. Tommaso di Claudiopoli: 25-26.
Tarasio (patriarca di Costantinopo- Tommaso lo Slavo: 61-63.
li): 35,36; 45; 45,64; 46,67; 47-
48; 48,72. Ugonio Pompeo: 93.
Taziano: 483. Ulisse: 489.
Tecla (martire): 62; 219; 417; 417,5.
Tecla (mgolie di Michele II): 62. Yazīd II: 26; 26,19.

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548 Indici

Valeriano (imperatore): 104-105; Zaccaria (martire): 246,20.


105,24-25; 304,41. Zaccaria (papa): 41,56.
Valerio Valentiniano: 296. Zefirino (papa): 300-303; 302,38.
Venanzio: 288. Zwingli, H.: 90.
Vittore (papa): 299.

NOMI MODERNI

Achtemeier, P.J.: 153,19. Armellini, M.: 294; 294,26.


Adontz, N.: 54,90. Arnold, J.: 202,5.
Afinogenov, D.E.: 61,107. Atkinson, J.: 30,23.
Agosti, G.: 273,33. Attridge, H.W.: 256,33.
Aguirre Monasterio, R.: 366,42. Auffret, P.: 232.
Albl, M.C.: 175,47. Aurenhammer, H.: 176,48.
Alchermes, J.D.: 83,29; 389,64. Aus, R.D.: 232.
Aldrete, G.S.: 132. Auzépy, M.-F.: 27,21-22; 37,43; 39,51;
Aletti, J.-N.: 150,7. 41,55; 70,122.
Alexander, L.: 204,14; 205; 206,18. Ayres, L.: 257,34.
Alexander, P.J.: 39,51; 53,88; 59;
59,102. Bacharach, J.L.: 22,10.
Ali, M.: 83,29. Backer, D.: 235,80.
Allen, B.: 264,16-17; 266. Bagatti, B.: 195-196,22; 254,27.
Allison, D.C.: 436. Bakus, I.: 82,28.
Almonte, M.: 238,1. Bang, M.: 287; 287,3.
Altendorf, H.D.: 215,43. Barasch, M.: 106,28.
Amphoux, C.-B.: 235,82. Baratta, G.: 298-299.
Anastos, M.V.: 31,25. Baratte, F.: 415,1.
Anderson, G.A.: 335. Barattolo, A.: 238,1.
Anderson, P.N.: 382. Barbe, D.: 43,61.
Ando, C.: 277,44; 318. Barber, C.: 38,46.
Annunziata, D.: 105,27. Barbini, P.M.: 225,62.
Aragione, G.: 190,5; 301,32.34. Barbotti, I.: 13; 117,10.
Arias, P.E.: 430,19. Barigazzi, A.: 479,12.
Arletti, I.: 238,1. Barnard, L.W.: 26,19; 99,12.

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Indice onomastico 549

Barth, C: 255,30. 273,33; 274,35-36; 275,38;


Barth, G.: 227,67; 228; 392. 276,40; 279,50.
Bartolomei, M.C.: 242,8. Biasotti, G.: 138.
Barton, J.: 219,54. Bickel, S.: 111,37.
Barzanò, A.: 105,24. Biezais, H.: 108,33.
Basser, H.W.: 365. Bingham, D.J.: 257,34.
Bastit, A.: 256,33; 257,34. Birk, S.: 481,14.
Baudry,G.-H.: 186,12. Bisconti, F.: 122,24; 126-128; 126,31;
Baynes, N.H.: 97,7; 99,9. 141; 176,48; 184,10; 215,47;
Beale, G.K.: 440,26. 217,50; 219,53; 220,58; 225;
Becker, E.-M.: 152,17. 225,62.64; 233,77; 245,17; 254,27;
Becker, E.: 318. 261,7; 298; 298,29; 313,4; 324,12;
Becker, H.: 311,1. 329,15; 338,19; 344; 350,29; 351;
Bekker, I: 68,121. 363,37; 402,77; 494,28.
Belting, H.: 101,15. Blair, H.A.: 175,45.
Benckhuysen, A.J.: 383,53. Blanchot, M.: 262,12.
Benedict, P.: 91,16. Blickle, B.: 87,7.
Benjamin, W.: 72-73; 72,2. Bloch, P.: 160; 162,9; 167-168;
Beretta, C.: 251. 167,26-27; 168,28.
Bergamo, N.: 37,43; 42,59. Blowers, P.M.: 172,38; 255,30.
Berger, A.: 490. Blumell, L.H.: 204,14.
Berger, K.: 174,3. Bockmuehl, M.: 204,14.
Bernardi, P.: 103; 103,21; 201,3; 202; Boda, M.J.: 313,3.
202,4; 363,38. Bodemann, R.: 313,3.
Bernhardt, K.-H.: 108,33. Bodenstein von Karlstadt, A.R.: 89.
Bertacchi, L.: 501-502. Bœspflug, F.: 19,4; 37,43; 59,105;
Bertolino, A.: 287,2; 294,26; 303,41. 80,24; 90,13; 94,26; 107,31; 114,1;
Berton, C.: 232. 363,38.
Besançon, A.: 27,20; 90,12; 201,1. Boehden, C.: 341; 346.
Bettetini, M.: 97,6; 112,41. Bohm-Duchen, M.: 112,42.
Bettini, S.: 140. Bompaire, J.: 235,80.
Bevan, E.: 97,7. Bonadonna Russo, M.T.: 92,20.
Beyschlag, K.: 301,34. Bonamente, G.: 186,13.
Bianchi Bandinelli, R.: 238,1; 261,10; Bonansea, N.: 209,26; 333-334.
263,14; 271; 272-276; 272,29-30; Bordino, C.: 39,51.

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550 Indici

Borg, B.E.: 260,4. Bryer, A.: 33; 41,53-54.


Bosio, A.: 253; 425. Bulić, F: 288,6.
Bossu, N.: 366,41; 368,46. Bultmann, R.: 164; 164,16.
Botte, B.: 299, 449. Buongiorno, P.: 394; 399.
Böttrisch, C.: 384,55. Burckhardt, T.: 284,60.
Bovini, G.: 302,37. Burke, G.T.: 207,21-22; 208; 208,24.
Bovon, F.: 154,23. Burkett, D.R.: 382.
Bowersock, G.W: 239,2. Bussières, M.-P.: 256,33.
Box, G.H.: 162; 162,7.
Boyd, S.A.: 139. Cacitti, R.: 23,12; 117,10; 204,12;
Braconi, M.: 329,15. 215,45; 216,48; 241; 241,6; 245,17;
Bradshaw, P.F.: 299; 479,13. 307,51; 316; 316,9; 321; 324,12;
Braidotti, C.: 302,37. 503.
Brakke, D.: 255,30. Cahill, P.: 151,11; 152,16; 182,3-4;
Brakmann, H.: 316,9. 191,7; 192,12.
Braunfels, W.: 176,48. Caillaud, A.: 295,27; 495; 495,31-32.
Breckenridge, J.D.: 22,10; 99,12. Calcagnini, D.: 128; 344; 386,61-
Bremmer, J.N.: 219; 357. 62; 390,65; 394,66; 396; 403.
Brenk, B.: 169,32; 84,31. Calvino, G.: 80,24; 91,16.
Brent, A.: 301,34. Cantalamessa, R.: 206,19; 240,4;
Breymann, A.: 386,60. 335; 367,44.
Brilliant, R.: 273; 273,31. Carfora, A.: 230,69; 330,18.
Brodbeck, S.: 295,27. Carletti, C.: 148; 148,4; 215,45;
Brogiolo, G.P.: 83,29. 293,23; 295,24-25; 305; 305,45;
Brown, P.: 30,24. 316; 316,9; 318-319; 325.
Brown, R.E: 127; 324,12. Carmignac, J.: 155; 155,26.
Brox, N.: 153,19. Carroll, M.: 304,41.
Brubaker, L.: 21,8; 25,17; 26,18; 29; Caseau, B.: 25,16.
31; 31,25; 32,26; 35,36; 41,54; Caspi, M.: 384,55.
42,57; 52,86; 56,95-96; 57; 57,97; Cassidy, B.: 176,50.
59,103-104; 60,106; 61,107; Castelli, E.: 266,19; 267; 267,21.
78,18. Castelnuovo, E.: 75,9.
Brunet, E.: 20,5; 102,17; 119,17. Catalli, F.: 118,13.
Brusin, G.: 502. Cavallo, G.: 235,80.
Bruun, P.: 217. Caygill, H.: 73,3.

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Indice onomastico 551

Cecalupo, C: 93,24. Cristiani, E.: 430,19.


Cecchelli-Trinci, M.: 348. Crowley, P.R.: 449.
Cecchelli, C.: 92,20. Cumont, F.: 126,31.
Chastel, A.: 94,26. Curcio, M.: 263,14.
Cheynet, J.-C.: 25,16. Cubiller, É.: 448.
Chiarenza, M.: 348.
Chojnacki, S.: 316,11. Dinkler, E.: 443.
Ciccarese, M.P.: 354,32. D’Ippolito, F.: 280,51.
Cignelli, L.: 384,56. Dafni, E.G.: 325,13.
Cirelli, E.: 289,9. Dagron, G.: 116,7; 114,1.
Clarac, M.: 494. Dales, D.: 76,11.
Clarisse, W.: 235,80. Dalton, O.M.: 139.
Clements, R.A.: 335. Daly, J.R.: 348.
Daniélou, J.: 153,22; 174,42; 175,
Clerc, C.: 96,4.
45-47; 189; 189,1-2; 190,3-4.6;
Coche de la Ferté, E.: 348.
192,10; 194; 194,17-18; 218,52;
Coden, F.: 140.
241,7; 242,8; 312,2; 323; 342,27;
Cohen, M.B.: 365.
366; 366,40; 377-378; 384,55;
Collingwood Bruce, J.: 268.
405; 453; 483,17.
Congourdeau, M.-H.: 25,16.
Darmstäder, R.: 401,72.
Conybeare, C.: 269,22; 473,1. Dassmann, E.: 148; 148,3; 316; 316,9;
Cook, S.A.: 273,32. 329; 329,14; 401,74.
Corbier, M.: 291,18. Davidsen, O.: 152,17.
Cordovana, O.D.: 118,13. Davidson, R.M.: 150,7; 152,18.
Cormack, R.: 41,54. Davies, J.: 260,5.
Corneli, C.: 295; 295,27. Davis, S.J.: 417,5.
Cornell, T.: 289,11. de Bruyne, L.: 76,11; 95; 95,2; 148;
Corsi, D.: 341,24. 177; 177,51; 185,11; 369; 369,48;
Corsini, E.: 440,26. 428; 428,17.
Cosentino, A: 301,32. De Cesaris, G.: 213,37.
Cottin, J.: 88,6. De Giorgi, M.: 137.
Coulston, J.C.: 268. Deichmann, F.W.: 477,8.
Couzin, R.: 17,2; 331; 473,1; 474. de Jonge, H.J.: 458.
Cox Miller, P.: 248,25. De Kleijn, G.: 280,51.
Credner, K.A.: 161,5. de Lachenal, L.: 83,29.
Creso Mas, T.: 339,20. De Margerie, B.: 191,8.

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552 Indici

De Martino, E.: 292,21. Droge, A.J.: 484,17.


de Navascués, P.: 13; 257,34. Dryness, W.A.: 90,12.
De Rossi, G.B.: 225,63. du Tillet, J.: 80.
De Rossi, M.S.: 225,63. Duggan, L.G.: 183,5.
De Visscher, F.: 304,42. Dujcev, I.: 53,87.
Deakle, D.W.: 195,20. Dulaey, M.: 184,9; 185,11; 213,38;
Dekkers, J.G.: 130; 186,13; 422. 316,9-10; 331,18; 348; 364,39;
Del Re, N.: 92,20. 371; 377-378; 381; 385,60; 392.
Dell’Acqua, F.: 115,6. Dupeux, C.: 89,7.
Dell’Isola, M.: 219,55. Duplex, A.: 132.
Delporte, L.: 162, 162,7. Duval, Y.-M.: 208,24; 334.
Dennis, N.S.: 338.
Desjardens, M.: 236,84. Eastmon, A.: 139.
Dettori, E.: 302,37. Eaton, J.H.: 219,54.
Di Domenico, P.G.: 175,45. Edwards, D.R.: 203,10.
Di Muro, A.: 29. Ego, B.: 384,55.
Di Stefano Manzella, I.: 128. Eire, C.M.N.: 91,15.
Di Tommasi, A.: 329,15; 336; 338,19. Eißler, F.: 384,55.
Diehl, C.: 43,61; 67,118. Eizenhöfer, L.: 214,43-44.
Dijkstra, R.: 253. Elliger, W.: 97-101; 97,7; 107,31.
Dinkler, E.: 370; 381. Ellison, M.D.: 17,2.
DiTommaso, L.: 187,17; 348. Elsner, J.: 23,14; 83,29; 124; 124,29;
Divjak, J.: 306,46. 125,30; 170; 170,33.35-36; 171;
Dodd, C.H.: 173,39; 250. 171,27-28; 172,38; 261,6; 263;
Doig, A.G.: 84,31. 269,22; 270-271; 271,27-28;
Dölger, F.J.: 46,67; 98; 217,50; 251; 289,10; 292,21; 476,7.
318. Engberg-Pedersen, T.: 152,17.
Donati, A.: 128; 250; 254,27. Engel, E.: 339,22.
Dresken-Weiland, J.: 126; 126,32; Engemann, J.: 177,51; 187,16; 250;
128; 176,48; 186,13; 209,26; 287,2.
225,62; 253; 287,2; 288,5; 291,19; Eshel, H.: 127.
295,28; 303,40; 313,4; 316,10; Essen, G.: 239,2.
321; 331; 331,18; 337; 349; 385,60; Estivill, D.E.: 320; 345.
386,61; 389; 394,66; 401,72.74; Eusterschulte, A.: 155,26.
415,1; 486. Evans, C.A.: 255,30; 433.

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Indice onomastico 553

Evans, H.C.: 389,64. Fisch, Y.: 150,8.


Evdokímov, P.: 115; 115,4. Flemming, J.: 386,60.
Ewald, P.: 259; 259,3; 290,14; 300,31; Flescher, P.V.M.: 112,40.
386,60; 474,2; 485,18. Florenskij, P.: 115,2; 119,15.
Florovsky, G.: 99; 99,9.
Fabbrini, F.: 457. Fluck, C.: 322.
Fabiny, T.: 168,28; 183,5. Fogliadini, E.: 37,42; 50,81; 53,88;
Fabricius Hansen, M.: 84,24. 80,24; 90,12-14; 100,14; 101,16.
Fabris, R.: 243,13. Foletti, I.: 295,27.
Fahey, M.A.: 191,8. Fontaine, J.: 187,15.
Falcetta, A.: 161,6. Fowler, W.G.: 382.
Fascher, E.: 166,24; 311,1; 378. France, R.T.: 173,40.
Fasola, U.: 105,26; 132. Franchi de’ Cavalieri, P.: 442,31.
Fazzo, V.: 25,17; 274,35. Francis, J.A.: 211,33; 214,43-44.
Feder, Y.: 112,42. Freedberg, D.: 118,13.
Fekkes, J.: 440,25. Freeman, A.: 72,1; 76,11; 78,16;
Feld, H.: 86,1. 80,23.25; 81,27.
Felici, S.: 293,23. Frend, W.H.C.: 92,21; 93,25.
Ferguson, J.: 260,5. Ferguson, F.: 439.
Fernández Ubiña, J.: 21,9. Frey, A.: 206,20.
Ferrario, F.: 90,12-13; 209,26; Frey, J.: 373.
234,78; 334. Fried, J.: 41,56; 79,19; 84,31.
Ferrua, A.: 216; 306,48; 334; 359; Friedlander, L.: 287,3.
401,75. Friedman, J.B.: 487.
Février, P.-A.: 307,51; 359. Frye, N.: 182,3.
Ficker, J.: 378. Füglister, N.: 378; 389.
Filoramo, G.: 255,30. Fusco, F.: 186,13.
Fine, S.: 113,43 214,43.
Fink, J.: 148; 407. Gabba, E.: 430,19.
Finney, P.C.: 18,3; 71,123; 87,2; Gadamer, H.-G.: 150,9.
89,9; 91,16; 96; 96,3-5; 101,16; Galinier, M.: 415,1.
104,23; 176,48; 201,2; 211,33; Galli, S.: 203,7.11.
214,44; 219,53; 418,9; 485,18. Gambassi, L.: 217,50; 220,58.
Fiocchi Nicolai, V.: 92,20; 225, 62- García Martinez, F.: 453.
63; 292,20. Gardthausen, V.E.: 217.

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554 Indici

Gargano, G.I.: 174,43. Granfield, P.: 195,19.


Garland, L.: 43,61; 44,63; 135. Grappe, C.: 154,23.
Garrucci, R.: 376; 432; 447. Grassi, J.: 366,40.42.
Garside, G.: 89,10. Green, R.B.: 329,15.
Geerlings, W.: 478,11. Grelot, P.: 173,39-40.
Geischer, H.-J.: 163-166; 163,24; Gressmann, H.: 108,33.
165,20-22; 166,24; 170; 378. Grierson, P.: 139.
Genre, E.: 102,17. Grigg, R.: 99,11.
George, A.: 173,39. Grillmeier, A.: 39,51.
Georges, T.: 242,8. Grodzinski, V.: 112,42.
Gerhardsson, B.: 109,34. Grousset, R.: 495; 495,30.
Gerke, F.: 129; 325,12. Grumel, V.: 33,30 .
Gero, S.: 30,23-24; 31,25; 32,26; Grzesiak, L.: 83,29.
34,31; 35,36; 36,38; 38,47. Guarducci, M.: 264,16; 265-266.
Ghilardi, M.: 92,19; 93,25.
Guastini, D.: 475,5.
Giannarelli, E.: 341,24.
Guazzelli, G.A.: 93,22.
Gianotto, C.: 107,31; 189,1; 255,30.
Guglielmetti, R.: 334.
Giardina, A.: 305,44.
Guillou, A.: 140.
Gila, A.: 141,33; 452.
Guj, M.: 141; 402,77.
Giorgi, E.: 289,9.
Giudice, A.: 334. Gusdorf, G.: 154,24.
Giuliani, R.: 126; 281,53. Gutmann, J.: 110; 110,36; 111,39.
Glénisson, J.: 235,80. Guyon, J.: 130; 225, 62-63; 287,4;
Goetzet, G.: 489,20. 292,20; 302,37.
González, E.: 308,51. Gwynn, D.M.: 18,4.
Goodenough, E.R.: 113; 113,43.
Goranson, S.: 203,10. Haas, C.J.: 105,24.
Gordon, R.P.: 111,37. Hachlili, R.: 112,40.
Gori, G.: 254,27. Haendler, G.: 75,9.
Gottlieb, I.B.: 152,16. Hageman, M.: 183,5.
Gougaud, L.: 416,4. Hagner, D.A.: 204,14.
Gouillard, J.: 48,72. Haldon, J.: 25,1731,25; 35,36; 41,54;
Gounelle, R.: 206,20. 56,95-96; 57; 57,97; 59,103-104;
Grabar, A.: 22,10; 41,54; 123,25; 60,106; 61,107.
138; 162-163; 162,8-10; 163,12; Halkin, F.: 67,120.
171; 186,13; 212,34; 476,6. Hall, J.: 132.

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Indice onomastico 555

Halton, T.: 220,56. Huskinson, J.: 261,6; 289,10; 292,21;


Hannestad, N.: 280; 280,52. 297; 303,40; 474,1.3.
Hardy, D.W.: 91,16. Huxley, G.L.: 30,24.
Harris, J.R.: 161; 161,6. Hyldhal, N.: 242,7.
Hartmann, W.: 20,6.
Harvey, P.B. jr: 473,1. Iacumin, R.: 121,22; 502.
Hatch, E.: 162,6. Ianiro, D.: 72,1; 75,9; 77,14;
Hätzer, L.: 89,10. 79,19.22.
Head, C.: 20,5; 23,11. Immerzel, M.: 390.
Hegedus, T.: 448. Instinsky, H.U.: 294,25.
Hekster, O.: 280,51. Irigoin, J.: 235,80.
Helffenstein, I.: 155,26. Itkonen-Kaila, M.: 488.
Helmer, C.: 256,33. Ito, H.: 382.
Helms, D.: 339,21.
Henry, A.: 183,5. Jacques, F.: 301,34.
Herrin, J.: 32; 33; 41,53-54; 43,61; Jahn, O.: 298.
44,63; 67,118-120; 135. James, L.: 25,16; 26,18.
Herrmann, J.J.: 206,20; 207- Janssens, J.: 293,23.
208,22; 417,5. Janzen, J.G.: 433.
Hertling, L.: 245,18. Jeal, R.R.: 171,37.
Hiestand, R.: 43,61. Jefferson, L.M.: 186,13.
Higgins, J.M.: 383,53. Jefford, C.N.: 420,12.
Hoffmann, A.: 137. Jenkins, R.J.H.: 32,28.
Hoffmann, P.: 378. Jensen, R.M.: 17,2; 104,23; 123,25;
Hoffmann, M.R.: 423. 172,38; 183,7; 186,13; 188,18;
Hölscher, T.G.: 103,19; 269; 269,23- 201,1; 227; 229,69.
24; 271; 275,37; 277,43; 278; Jerumanis, P.-M.: 241,5.
278,46-47; 281-282; 281,53-54; Jezler, J.: 89,7.
282,55-56; 283,57-58; 481; Joblin, A: 88,4.6.
481,14; 482,15. Johnson, M.E.: 299; 479,13.
Holum, K.G.: 28. Johnson, S.R.: 418,12.
Hope, V.M.: 260,4. Jucci, E.: 150,8.
Humphreys, M.T.G.: 20,5; 21,7; Jungman, C.S.: 170,34.
22,10; 33,29; 34,31. Jungmann, J.A.: 195,19.
Hurtado, L.W.: 236,84. Jurasz, I.: 211,30.

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556 Indici

Just, A.A.: 154,23. Koder, J.: 34,32.


Just, F.: 382. Kondakov, N.P.: 133; 138.
Konikoff, C.: 110,36.
Kaiser-Minn, H.: 344; 386,60. Korshin, P.: 181; 181,1; 440,25.
Kaldellis, A.: 39,51. Kötting, B.: 99,11.
Kaler, M.: 256,33. Kowalski, B.: 440,26.
Kalinowski, A.: 230,69; 331,18. Krannich, T.: 35,36; 36,40.
Kamesar, A.: 194,19. Kremer, J.: 250.
Kannengiesser, C.: 187,17. Kretschmar, G.: 228.
Kaplan, M.: 57,97. Kreuzer, G.: 24,15.
Karivieri, A.: 274,35. Kristensen, T.M.: 481,14.
Kaszinski, R.: 311,1. Krumeich, C.: 291,18.
Katz, S.T.: 127. Kuhoff, W.: 291,18.
Keegan, P.: 260,6. Kulcak-Rudiger, F.M.: 316,9.
Keel, O.: 108,33. Kundert, L.: 377-378.
Keenan, P.: 488. Künstle, K.: 148,6; 160-162; 160,2;
Keener, C.S.: 241,5. 161,3-4; 162,7; 178; 178,54.
Kemp, W.: 176,50. Kvam, K.E.: 384,55.
Keresztes, P.: 105,24; 243,12.
Kern, O.: 487. Lamberigts, M.: 245,18.
Kessler, H.L.: 81,26. Lamberz, E.: 47,68.
Kiefer, K.: 248. Lampe, P.: 292,20; 479,12.
Kinney, D.: 473,1; 474,1. Lanata, G.: 203,8-9; 205,16; 207,21.
Kirgin, M.: 331. Lanzillotta, E.: 302,37.
Kirsch, J.-P.: 220,57; 221. Larini, G.: 38,45.
Kirschbaum, E.: 176,48; 245,18. Lassus, J.: 329,15.
Kitzinger, E.: 98; 99,9-10; 101. Laurence, R.: 260,6.
Klauser, T.: 95,2; 98; 98,8; 101; 148; Laurent, J.: 494.
215,45; 474-475,1; 493,27. Lawrence, M.: 444.
Kleiner, E.E.E.: 478,10. Leanza, S.: 39,52.
Knipp, D.: 447. Le Blant, E.: 358; 416-417; 416,3;
Knut, H.: 111,37. 417,6; 418,9; 460-461.
Koch, G.: 290,12; 291,17; 298; 386,60. Leclerq, H.: 28; 129; 133; 137; 139;
Koch, H.: 96-101; 96,4-5; 97,7; 107,31; 196,22; 218; 222; 266; 317; 320;
384,56. 324-325; 325,12; 327; 331; 336;

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Indice onomastico 557

341; 351; 388; 391; 393; 403; Maier, J.: 314,6.


417; 418,7.9; 423; 426. Mainoldi, E.S.: 115,6.
Lega, C.: 128. Malbon, E.S.: 170,34.
Le Goff, J.: 179,55. Malherbe, A.J.: 243,13; 484,17.
Lehmberg, S.E.: 91,15. Mancini, I.: 195,22.
Lemerle, P.: 65,114. Manconi, D.: 118,13.
Lepore, G.: 289,9. Manfredi, S.: 448.
Levi, P.: 396. Manganaro, S.: 38,45.
Liboron, H.: 211,30. Mango, C.: 41,53.
Lietzmann, H.: 98. Mangrum, B.D.: 88,5.
Lieu, J.M.: 195,20; 255; 256,31. Manns, F.: 437,24.
Lilie, R.-J.: 25,17; 35,33-34; 43,60- Mansi, G.D.: 46,67; 47,68-69; 48,72-
61; 45,64; 53,88; 58,99; 62,110; 73; 49,76; 50,82; 118,14; 119,15.
65,114. Mara, M.G.: 39,52; 48,72.
Lingua, G.: 37,43; 38,49; 75,9. Marano, Y.A.: 289,9-10.
Livingstone, E.A.: 175,45. Marazzi, F.: 31,25.
Lods, M.: 204; 204,14. Marcheselli-Casale, C.: 25,17;
Lona, H.E: 242,8. 122,24.
Lopez, R.S.: 23,11. Marconcini, B.: 314,6.
Lossky, N.: 19,4; 37,43; 59,105; Marcone, A.: 481,14.
94,26; 107,31; 114,1. Marcou, G.S.: 41,56.
Lucrezi, F.: 280,51. Marenbon, J.: 77,14.
Ludwig, C.: 45,64. Markschies, C.: 239,2; 240,4; 242,10.
Luni, M.: 254,27. Marlé, R.: 153,21.
Lyonnet, S.: 240,4. Marsili, S.: 418,10.
López Montero, R.: 243,12. Martens, P.W.: 172,38; 255,30.
López-Tello Garcìa, E.: 90,12-13. Martimort, A.-G.: 154,24; 185,11.
Luttikhuizen, G.: 357; 453. Marucchi, O.: 249-251; 288,7.
Masculus, P.R.: 88,4.
Macchioro, R.: 23,12; 117,10; 503. Massara, F.P.: 126,31; 324,12; 448.
MacDonald, N.: 111,37. Mastrocinque, A.: 487.
MacDonald, W.L.: 238,1. Mathews, F.T.: 122,23; 318; 325,13.
Maffei, S.: 357. Mauskopf Deliyannis, D.: 134-135.
Magdi, S.: 83,29. Mayeur, J.-M.: 106,30; 255,29.
Maier-Eichorn, U.: 132. Mazza, M.: 292,20; 303,39.

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558 Indici

Mazzarino, S.: 241,6; 288,8; 303,39. Mitalaité, K.: 77,14; 82,28.


Mazzei, B.: 126. Monaci Castagno, A.: 119,17; 445.
Mazzoleni, D.: 245,17; 293,23; Monat, P.: 194,14.
294,26. Monceaux, P.: 196.
McCollugh, C.T.: 203,10. Monfrin, F.: 187,15.
McConville, J.G.: 313,3. Monti, L.: 441,26.
McCormick, M.: 75,7. Moore, M.E.: 76,12; 77,13.
McGowan, A.B.: 156,27; 184,8; Morey, C.R.: 388; 418,8; 463-464.
418,10. Morris, L.: 402,76.
McGuckin, J.A.: 39,51. Moss, C.: 248.
Meadowcroft, T.J.: 314,5. Mostert, M.: 183,5.
Meconi, D.V.: 420,12. Moyse, S.: 440,26.
Méhat, A.: 445. Mueller, M.: 152,17; 381.
Meeks, W.A.: 436. Murray, M.C: 19,4; 95; 96; 96,3-4;
Meiss, M.: 444. 100,13; 101,16; 103; 103,20; 110;
Melion, W.S.: 171,37. 259,2; 475; 476,6.
Mendel, G.: 137. Murray, R.: 384,56.
Menozzi, D.: 97,7; 106; 106,29. Mussinelli, S.: 336.
Merlo, G.G.: 204,12.
Merrils, A.: 133. Nagel, S.: 396-397; 460,37.
Mettinger, T.D.N.: 108,33; 109; Neil, B.: 46,67; 47,70; 74,6.
109,34; 110,35; 111,37. Nestori, A.: 126-127; 129-130; 132;
Metzger, M.: 154,25; 156,27; 418,9. 226-227; 227,66; 228,68;
Meyer, B.: 112,41. 229,71; 230; 231; 248-249; 318;
Meyers, C.: 384,54. 341; 351-352; 359; 390,65; 422.
Meyers, E.M.: 402,76. Neusner, J.: 113,43.
Michalski, S.: 88,4; 89,7. Neuss, W.: 363,38; 366,41; 370;
Michelini, G.: 379. 375,51; 376.
Michetti, R.: 93,22. Newby, Z.: 292,21.
Mietke, G.: 130; 422. Niang, A.C.: 205,16; 488.
Miles, R.: 133. Nicoletti, A.: 140.
Miller, P.C.: 255,30. Nobile, M.: 366,43.
Minasi, M.: 313,4; 338,19; 350,30. Noble, T.F.X.: 74,5-6; 78,17.
Minazzoli, A: 114,1. Nocent, A.: 418,10.
Mirizzi, D.: 154,24. Noga-Banai, G.: 330,16.

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Indice onomastico 559

Nongbri, B.: 235,79.81. Passaro, A.: 448.


Norelli, E.: 153,22; 174,43; 207,21; Payto, J.R.: 80,24.
301,32.34; 437,24. Peachin, M.: 280,51.
Ntedika, J.: 417,6. Peake, A.S.: 162,7.
Pearce, S.: 111,38.
O’Connell, E.R.: 322. Pedone, S.: 331.
O’Connell, P.: 48,72; 53,88. Pedroli, L.: 372.
O’Malley, T.P.: 191,8. Pelizzari, G.: 95,1; 111,37; 121,22;
Occhipinti, C.: 92,18. 147; 155,26; 179,55-56; 208,23;
Ogden, D.: 355,34. 209,27; 217; 219; 222; 225,65;
Ohly, E.F.: 164,19. 227; 228-229,69; 231; 234,78;
Ohm, J.: 329,15; 358. 254,27; 296; 307,51; 331,18; 334;
Ohme, H.: 20,6. 337; 346; 350-353; 359; 364-365;
Orbe, A.: 257,34. 375; 375,52; 403; 405; 411,82;
Orlett, R.: 154,23. 416; 417,5; 422; 426-427; 430,21;
Orsini, P.: 235,80-81; 236,83. 432; 434; 439; 442,31; 444; 448;
Osiek, C.: 488. 459; 462; 498-502.
Ostmeyer, K.-H.: 150,9. Pelland, G.: 192,9.
Ostrogorsky, G.: 21,7. Pennington, K.: 20,6.
Otranto, G.: 160,2; 179; 179,57; Pentchev, B.V.: 116,8.
184,10; 234,78; 258,36; 366,41; Pergola, P.: 225,62; 233,76; 246,19;
368,45. 302,36; 305,45.
Otten, W.: 82,28. Perkams, M.: 316,9.
Perler, O.: 194,19.
Pagels, E.: 255,30. Perraymond, M.: 311,1; 329,15; 332;
Palazzo, E.: 154,25. 363,37.
Pani Ermini, L.: 293,23; 387,62. Perrin, M.-Y.: 255,29.
Papadopoulos, J.K.: 207,22. Perrone, L.: 207,21.
Papini, R.: 430,19. Pervo, L.I.: 241,5.
Pariben, R.: 297. Pessina, A.: 366,42.
Parry, K.: 115,5. Pesthy, M.: 219.
Partyka, J.S.: 401,72.74; 402,77; Peterson, E.: 218,52; 437,24.
403; 404,78. Petrey, T.G.: 256,33.
Paske, F.: 26,19. Phillips, E.J.: 268.
Pasnau, R.: 77,14. Phillips, J.: 91,15.

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560 Indici

Phillips, L.E.: 299; 479,13. Ramsey, B.: 495; 496,33.


Piccolo Paci, S.: 391. Raphael, M.: 112,42.
Pichler, K.: 203,8. Rassart-Debergh, M.: 316,9.11.
Pietri, C.: 127,31; 187,15. Re, M.: 40,52; 48,71; 49,75; 50,81;
Pietri, L.: 106,30; 255,29. 76,9.
Pighi, G.B.: 390. Rebecchi, F.: 324,12; 446,35-36;
Pinazo Pinazo, J.M.: 31,25. 447.
Pinto, L.A.: 238,1. Redalié, Y.: 102,17.
Piscitelli, T.: 269,22. Reekmans, L.: 226; 230.
Piso, I.: 298. Reinach, S.: 268; 494.
Plazaola, J.: 90,14. Renan, E.: 96; 96,3-4.
Poeschke, J.: 83,29. Renfrew, C.: 110,35.
Poilpré, A.-O.: 295,27. Ressa, P.: 203,6.8; 204,15; 207,21.
Polara, G.: 79,20. Restle, M: 217.
Porter, J.I.: 282,56. Reufer, C.: 155,26.
Posseau, A.: 211,32. Reymond, B.: 88,6.
Pouderon, B.: 106-107; 106,30. Reynolds, B.E.: 382.
Poulsen, B.: 481,14. Ribbens, B.J.: 440,25.
Pratsch, T.: 45,64; 53,88; 58,99; Riesenfeld, H.: 366,40.42.
61,107; 62,110. Rigby, M.J.: 17; 17,1.
Preus, J.S.: 89,8. Righetti, M.: 418,10.
Prickett, S.: 193,14. Rinaldi, G.: 203,9; 207,21; 208,24;
Prigent, P.: 102,17; 108,32; 113; 334.
113,43-44; 174,43; 178; 178,52; Ritschl, A.: 96,5.
333-334; 417,6; 418; 418,9; 460; Rizzi, M.: 241,6.
460,39-40. Rizzo, S.: 203,8; 207,21; 209,25.
Prinzivalli, E.: 90,12-13; 301,32.34; Robbins, V.K.: 171,37.
304; 304,43; 445. Rochow, I.: 35,33-34.37.
Prostmeier, F.R.: 242,8. Rodenwalt, G.: 273; 273,32.
Rodgers, P.: 235,82.
Quacquarelli, A.: 132; 184; 184,9-10. Ronning, J.L.: 441,29.
Quinn,W.J.: 189,1. Rosenau, H.: 443,34; 444.
Rossi, A.: 196,23.
Rahner, H.: 192,10; 218,52; 312,2; Rota, G.: 211,32.
426; 453. Ruffatto, K.J.: 436.

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Indice onomastico 561

Ruscillo, R.: 207,22. Seeliger, H.R.: 130; 311,1; 316,9.


Russel, D.S.: 154,23. Segal, M.: 340,22.
Russell, B.: 289; 289,9-10. Selwyn, E.C.: 161,5.
Russo, A.: 238,1. Senior, D.: 366,44.
Russo, E.: 475,5. Sergi, G.: 75,9.
Russo, L.: 40,52. Sessa, K.: 293,22.
Settembrini, M.: 330,17.
Sáez Gutiérrez, A.: 257,34. Settipani, C.: 65,114.
Sahas, D.J.: 27,20; 36,38; 49,74; 50,82. Sgarlata, M.: 329,15.
Salomonson, J.W.: 150,9; 228,69; Sharp, D.B.: 235,81.
229,70; 244,17; 335; 337-338. Sichtermann, H.: 290,12; 298; 386,60.
Salvadori, S.M.: 296-297; 389,64. Signes Codoñer, J.: 54,90; 55,93-94;
Salway, B.: 288,8. 58,99; 62,110; 65,114.
Sanmorì, C.: 334. Simonelli, C.: 384,55.
Saradi, H.: 83,29. Simonetti, M.: 153,20.22; 192,13;
Satran, D.: 335. 255,30; 256,32; 301,32; 445.
Scavizzi, G.: 88,5. Siniossoglou, N.: 39,51.
Shearing, L.S.: 384,55. Siniscalco, P.: 219,54; 293,23.
Scheitzer, A.: 96,5. Siquans, A.: 433.
Schellenberg, R.S.: 152,17. Slootjes, D.: 280,51.
Schenker, A.: 111,37. Smith, K.A.: 340,23.
Schiner, L.E.: 477,9. Smith, P.: 73,3.
Schlosser, H.: 313,4; 340,23; 341. Smith, R.R.R.: 277,41.43.
Schneider, G.: 239,3. Snyder, G.F.: 93,25; 233,75; 443.
Schnitzler, N.: 89,7-8. Soaje de Elías, R.: 214,40.
Schoell, F.: 489,20. Sodem, C.: 35,36; 36,40.
Schoeps, H.J.: 173,40. Solin, H.: 488.
Schönborn, C.: 37,43; 59,105. Soper, A.: 430,19.
Schrenk, S.: 168-170; 169,31-32. Sophoulis, P.: 53,87; 54,89; 55,93;
Schubert, C.: 35,36; 36,40. 60,106.
Schüffler, J.: 166,24. Sörries, R.: 313,4; 329,15; 330,16;
Schumacher, W.N.: 340,23. 354,32.
Scorza Barcellona, F.: 93,22; 131; 448. Sotomayor, M.: 21,9; 253; 340,23;
Sears, G.: 260,6. 341; 344; 359; 363,37; 369;
Sed-Rajna, G.: 107,31. 369,48; 370; 371; 388; 394,66;

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562 Indici

395-396; 404,78; 424-425; 436; Tatcher, T.: 382.


441,27. Tavolaro, A.: 115,6.
Speck, P.: 29; 42,58; 45,64. Taylor, C.C.: 127.
Spera, L.: 93,22-23; 225,62; 302,37. Taylor, J.E.: 196,22.
Speyart Van Woerden, I.: 336; 378. Terbuyken, T.: 316,9.
Spier, J.: 172,38; 221. Tessore, D.: 214,43.
Spinola, G.: 128. Testa, E.: 195,22.
Springer, A.: 160; 161,3. Testini, P.: 123; 123,26-28; 275,39;
Steen, O.: 363,38. 306,49; 317 .
Steenberg, M.C.: 130. Thomas, E.: 260,6.
Stein, D.: 25,17. Thomas, T.K.: 389,64.
Stern, D.: 152,16. Thorsteinsson, R.M.: 484,17.
Stewart, P.: 287,3; 289,11; 290,12. Thümmel, H.G.: 50,81; 75,8; 97,7;
Steyn, G.J.: 325,13. 168,28; 212,34; 215,44; 223,61.
Stirm, M.: 91,15. Tichý, R.: 154,25.
Stommel, E.: 148; 164,15. Tilliette, J.-Y.: 84,31.
Stordalen, T.: 112,41. Tipton, M.A: 84,31.
Story, J.: 84,31. Tkacz, C.B.: 340,23.
Stouraitis, I.: 34,32. Todt, K.P.: 67,118.
Straange, J.F.: 402,76. Tollefsen, T.T.: 60,105.
Strickland, M.: 382. Tommasi, R.: 348.
Stuart Jones, H: 250. Toynbee, A.: 194,18; 304,42.
Stuhlfaut, G.: 389. Toynbee, J.M.C.: 304,42.
Stuiber, A.: 148; 307,51; 404,78. Tragan, P.-R.: 228.
Styger, P.: 148; 180; 180,58; 231,74; Treadgold, W.: 34,32; 55,93; 60,106;
313,4; 340,23; 354,32; 385,60; 62,109; 64,112-113; 66,115.117.
401,72. Troiani, L.: 206,20.
Suntrup, R.: 148,5; 378. Tromp, G.: 458.
Suthor, N.: 137. Trotter, J.R.: 355,34.
Suzawa, J.: 474,1. Tucker, W.D.: 313,3.
Swift, L.J.: 243,12. Turcan, R.: 304,42.
Syniek, E.M.: 420,12. Turcescu, L.: 187,17.
Sys, J.: 88,4.6. Turner, D.: 55,92.
Turner, E.I.B.: 109,34.
Talbot, A.-M.: 31,24. Turner, V.: 109,34.

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Indice onomastico 563

Uehlinger, C.: 112,41. von Campenhausen, H.F.: 97,7.


Urman, D.: 112,40. von Dobschutz, E.: 96; 96,3-4; 97,6.
Uspenskij, L.: 115,2. von Franz, M.-L.: 248,25.
von Gemünden, P.: 283,57.
Valenti, C.: 150,9; 228,69; 245,17; von Harnack, A.: 96,5; 97; 107,31;
313,4; 314; 314,6-7; 315,8; 241,7; 292,20; 383,53.
316,10; 321-322; 326; 329,15; von Rad, G.: 151,13.
335; 348-349; 349,28; 361,36. Von Simson, O.G.: 135.
van Asselt, W.: 87,3; 88,4. von Sybel, L.: 426.
van Cangh, J.-M.: 381. von Ungern-Sternberg, A.F.: 161,5.
Van den Hoek, A.: 206,20; 207-
208,22; 417,5. Wacker, G.: 228,69; 329,15.
Van der Meer, F.: 390. Wallach, L.: 79,21.
van der Ven, P.: 48,72. Walker, S.: 443,33-34.
van Deun, P.: 245,18. Wandel, L.P.: 90,11.
van Unnink, W.C.: 250. Ward-Perkins, B.: 83,29.
VanCangh, J.-M.: 232. Warland, R.: 137.
Vanni, U.: 127. Webb, R.L.: 255,30.
Vasiliev, A.A.: 26,19. Weiland, A.: 420.
Vasiliu, A.: 77,14; 82,28. Weissenrieder, A.: 283,57.
Vassilaki, M.: 139. Weitzmann-Fiedler, J.: 248.
Venturi, A.: 269,22. Weitzmann, K.: 139; 168,29-30; 443.
Verheyden, J.: 257,34. Wendt, F.: 283,57.
Veronese, M.: 330,18. Wessel, K.: 217.
Veyres, M.A.: 495,29. Wibo, J.: 232.
Vian, G.M.: 301,33. Wiebe, R.A.: 255,30.
Vidal Álvarez, S.: 336. Wilde, C.: 73,3.
Vikan, G.: 28. Wilpert, J.: 148-149; 168,26; 179;
Vilella Masana, J.: 21,9. 297; 326; 332; 356; 377; 407;
Villeneuve, A.: 372. 425-426; 431-432; 442,32.
Vinson, M.: 66,117. Wilson, S.G.: 236,84.
Vinzent, M.: 127. Wirth, J.: 73,4; 75,9; 89,7.
Vismara Chiappa, P.: 204,12. Wischmeyer, W.: 306,46.
Visonà, G.: 375,52. Wiseman, T.P.: 277,43.
von Bendemann, R.: 373; 378. Wortley, J.: 32,26.

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564 Indici

Yarbrough, O.L.: 205,16; 488. 386,60; 474,2; 482; 482,16;


Young, F.M.: 181-182; 182,3-4. 485,19; 490.
Zchomelidse, N.: 137.
Zahn, R.: 487. Ziegler, V.H.: 384,55.
Zambon, M.: 102,18. Zimmermann, R.: 150,9; 373;
Zanker, P.: 118,13; 259; 259,3; 402,76.
270,26; 276-282; 277,41-42; Zovatto, P.L.: 502.
278,45.47; 279,48-50; 282; 286; Zwingli, H.: 90,11.
286,1; 290,14; 291,16; 300,31;

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INDICE GENERALE

Abbreviazioni e sigle pag. 7

Una premessa » 11

LE MATRICI DI UNA CRITICA

I. ALLE ORIGINI DI UN EQUIVOCO.


LA MISURA TEOLOGICA DELL’IMMAGINE » 17
1. L’ iconoclasmo come necessaria premessa critica » 18
2. Il periodo della preparazione (691-726): il rifiuto
di un valore simbolico, il costo e il potere dell’ immagine » 20
3. Il “primo iconoclasmo” (726-787): immagine sacra,
potere imperiale, «sostanza e ipostasi» del Logos » 24
3.1. Leone III (717-741): la misura programmatica
di un iconoclasmo politico » 27
3.2. Costantino V (741-775) e il concilio di Hieria:
l’impossibilità di un’immagine «consustanziale»
al Logos » 34
3.3. Leone IV (775-780): la difficile ricerca di un equilibrio » 42
4. La “prima restaurazione” (787-813):
il secondo concilio di Nicea
e la ricerca di una tradizione “ecumenica” » 44
4.1. Irene (780-802), Costantino VI (780-797)
e il secondo concilio di Nicea: Parola e immagine » 44
4.2. Niceforo I (802-811), Sturacio (811)
e Michele I (811-813): un impero nel caos » 52
5. Il “secondo iconoclasmo” (813-843): La condanna parziale
dell’ immagine come restaurazione dell’ impero » 54
5.1. Leone V (813-820) e il concilio di Santa Sofia:
«L’immagine dal nome falso» » 54
5.2. Michele II (820-829):
“Costantinopoli val bene un’icona” » 60
5.3. Teofilo (829-842) ): l’iconoclasmo
come raison d’État dell’impero » 63

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6. La “seconda restaurazione”
e la “vittoria dell’ortodossia” (843): Teodora pag. 66
7. L’eredità dell’ iconoclasmo » 68

II. IL MEDIOEVO: IL “VALORE IDEALE” DELL’ARTE DI ROMA » 72


1. I Libri carolini » 74
2. Il valore ideale delle vestigia » 83

III. L’ETÀ MODERNA: IL “VALORE POLEMICO”


DI UN’ARCHEOLOGIA » 86
1. La Riforma e il tema dell’arte dei primi cristiani:
il rilancio dei florilegi iconoclasti » 87
2. La risposta cattolica: la scoperta delle catacombe » 91

IV. LA CONTEMPORANEITÀ: IL DIFFICILE BILANCIO


DI UNA STORIA INSIGNE » 95
1. Il mito storiografico dell’aniconismo paleocristiano » 95
2. Il caso dell’ iconografia della Sinagoga » 107

V. PER UN APPROCCIO CRITICO ALLA CULTURA


VISUALE CRISTIANA DELLE ORIGINI (I-IV SECOLO) » 114
1. Il necessario ritorno alle origini: prima dell’ icona » 115
1.1. Il nodo storiografico. L’icona come crisi:
il rischio di una storia a ritroso » 115
1.2. Tornare a prima di Costantino » 116
a. Costantino e la clericalizzazione dell’immagine » 120
b. Un’iconografia cristiano-imperiale » 121
1.3. Alle origini: dalla visione al vedere » 124

L’APPROCCIO ERMENEUTICO.
L’“ARTE PALEOCRISTIANA” COME SVILUPPO STORICO
DELL’ESEGESI CRISTIANA ANTICA

I. UNA DIVERSA PROSPETTIVA CRITICA


SUL DOCUMENTO VISUALE PALEOCRISTIANO » 145
1. La tipologia » 150

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II. UN MODELLO METODOLOGICO:
LA PRIMA CULTURA VISUALE CRISTIANA
COME SINTASSI ERMENEUTICA pag. 159
1. «Arte tipologica» (P. Bloch) » 160
1.1. Le origini di una definizione » 160
1.2. Verso il progetto iconografico » 168
2. Il parallelo con le raccolte di testimonia » 173
3. “Paradigmi di salvazione” o “manifesti tipologici”? » 178

III. I DOCUMENTI VISUALI PALEOCRISTIANI


COME ERMENEUTICHE CODIFICATE » 181
1. Da “ illustrazioni” delle Scritture (Bibliae pauperum)
a “ermeneutiche” delle Scritture:
l’autonomia della prima iconografia cristiana » 182
2. Da “temi iconografici” a “codici visuali”:
la stabilità del lessico iconografico paleocristiano » 185

IV. LA CULTURA VISUALE DELLE ORIGINI CRISTIANE


COME “DOCUMENTO” NELLA STORIA
DEL « CRISTIANESIMO LATINO » (J. DANIÉLOU) » 189
1. Lo sviluppo storico dell’esegesi come officina
del più antico pensiero cristiano:
il ruolo dell’«ermeneutica codificata» » 191
2. L’esegesi tipologica tra «giudeo-cristianesimo»
e «cristianesimo latino» » 193

IL SITZ IM LEBEN
LE ORIGINI DELLA CULTURA VISUALE CRISTIANA

I. IL QUADRO CRONOLOGICO. QUANDO SI DEVE DATARE


LA PRIMA ICONOGRAFIA CRISTIANA? » 201
1. La documentazione letteraria » 202
1.1. Il “negativo documentario”:
il Discorso veritiero di Celso » 202
1.2. Il “positivo documentario”:
Ireneo, Clemente di Alessandria e Tertulliano » 210
a. Ireneo di Lione, Contro le eresie 1,25,6 » 210

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b. Clemente di Alessandria, Pedagogo 3,59,1 - 60,1 pag. 213
c. Tertulliano, La pudicizia 7,1 » 222
2. La documentazione archeologica. La Regione di Lucina
della Catacomba di Callisto: il cubicolo X-Y » 224
3. Un parallelo contestuale.
La più antica documentazione della storia cristiana » 234

II. IL CONTESTO STORICO-ECCLESIALE ED ECCLESIOLOGICO » 238


1. La stagione dell’apologetica cristiana:
un’epoca di ellenizzazione? » 238
2. L’“arte” della “persecuzione” » 244
3. Secundum Scripturas: un’ iconografia anti-gnostica » 254

III. IL CONTESTO STORICO-ARTISTICO » 259


1. Lo «spettatore romano» (J. Elsner):
l’ immagine come “causa efficiente” » 263
2. Tra «dolore di vivere» e «volontà di potenza»
(R. Bianchi Bandinelli): l’«arte plebea» come “specchio” » 271
3. «Il potere delle immagini» (P. Zanker):
la figura come “manifesto programmatico”
e come “ luogo espressivo” » 276
4. «Il linguaggio dell’arte» (T.G. Hölscher):
la forma come «sistema semantico» » 281

IV. IL CONTESTO GENETICO » 286


1. La committenza » 287
1.1. Il contesto romano imperiale » 287
1.2. Il Sitz im Leben storico-sociale » 291
1.3. Le opere superstiti » 293
a. I dati epigrafici » 293
b. La ritrattistica » 295
c. L’iconografia del reale » 297
2. La fruizione » 299
2.1. Il contesto funerario » 300
2.2. L’utenza » 305

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IL LESSICO TIPOLOGICO
DELL’ICONOGRAFIA PALEOCRISTIANA

I. LA NASCITA DI UN LESSICO ICONOGRAFICO CRISTIANO:


LE CARATTERISTICHE DELLA “TIPOLOGIA VISUALE” pag. 311
1. L’ importanza del valore tipologico
nella genesi dei temi iconografici paleocristiani » 311
2. Il caso dei racconti di Daniele: la rilevanza quantitativa » 312
2.1. Tra matrice biblica e definizione ermeneutica » 315
a. I tre fanciulli ebrei » 315
b. Daniele nella fossa dei leoni » 329
c. Susanna » 339
d. Daniele e il drago » 354
2.2. Ripensare la storia dell’esegesi cristiana antica » 361
3. Il caso del “miracolo” delle ossa aride: la rilevanza qualitativa » 362
3.1. Un “miracolo iconografico”? » 366
3.2. La matrice ermeneutica e liturgica » 374
4. Il caso della caduta dei progenitori: l’ampiezza tematica » 383
4.1. Tra matrice biblica e caratterizzazione esegetica » 385
4.2. La centralità del tema di genere » 389
a. «Il giusto sceglie il frutto, il peccatore le foglie»
(Ambrogio, Il paradiso 13,64):
la trasgressione dei progenitori » 389
b. «Adamo, per aver steso la mano,
ha attirato su di noi la morte»
(Esichio di Gerusalemme, Omelia pasquale 1,3):
Adamo, il trasgressore » 394
5. Il caso della risurrezione di Lazzaro: l’ intervento dell’attualità » 399
5.1. La risurrezione come emancipazione
dal culto degli idoli » 400
5.2. L’irruzione dell’attualità » 405

I MODELLI COMPOSITIVI
DELLA PIÙ ANTICA DOCUMENTAZIONE VISUALE CRISTIANA

I. L’IMPORTANZA DEL “PROGETTO ICONOGRAFICO”.


SCRITTURE, IMMAGINE ED ERMENEUTICA » 415

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Excursus: l’Ordo commendationis animae pag. 416
1. La correlazione tipologica » 428
1.1. Il “sarcofago dell’Esodo” (Wp. 29, t. 157,2; Rep. 2, 12):
un manuale di esegesi tipologica » 430
2. La traslazione tipologica » 440
2.1. Il sarcofago del British Museum (Rep. 2, 243) » 443
2.2. Il sarcofago di San Celso
(Wp. 32, tt. 243,4-6; Rep. 2, 250) » 446
3. L’argomentazione tipologica: la salvezza come storia » 451
3.1. L’alzata del sarcofago Lateranense 176
(Wp. 32, t. 177,3; Rep. 1, 145) » 451
3.2. Il sarcofago Lateranense 193
(Wp. 32, t. 186,2; Rep. 1, 25) » 454
3.3. Il sarcofago Lateranense 135
(Wp. 32, tt. 206,5-7; Rep. 1, 23) » 457
3.4. La coppa di Podgorica (Museo dell’Hermitage) » 459
Osservazioni finali e prospettive: tra immagine e parola,
l’“arte” cristiana delle origini come Patrologia visualis » 467
Appendice: Immaginario gentile e immaginario cristiano » 473
1. Appropriazione e ri-semantizzazione » 474
1.1. Perché mutuare dal lessico della gentilità? » 474
a. Le motivazioni contestuali:
i modelli delle botteghe » 476
b. Le motivazioni funzionali:
l’adozione di un codice pervasivo » 480
1.2. Un lessico formalmente condiviso,
semanticamente caratteristico » 485
2. Le matrici gentili del lessico iconografico paleocristiano
(l’apporto dell’“ immaginario gentile”) » 489
2.1. Il caso del Buon Pastore » 493
a. Elementi di continuità » 493
b. Caratterizzazioni cristiane » 496
Bibliografia » 505
Indici » 517
1. Indice scritturistico » 519
2. Indice delle fonti antiche » 526
3. Indice onomastico: nomi antichi / nomi moderni » 541

Gabriele Pelizzari • L’ICONOGRAFIA CRISTIANA DELLE ORIGINI COME STORIA DELL’ESEGESI • Un’ermeneutica codificata
Contenuto digitale diffuso in Open Access con il contributo dell’Università degli Studi di Milano (Finanziamento ricerca “Seed” 2019 [Progetto: «IF - Immaginare la Fine»] e Fondi PSR2019)
Gabriele Pelizzari • L’ICONOGRAFIA CRISTIANA DELLE ORIGINI COME STORIA DELL’ESEGESI • Un’ermeneutica codificata
Contenuto digitale diffuso in Open Access con il contributo dell’Università degli Studi di Milano (Finanziamento ricerca “Seed” 2019 [Progetto: «IF - Immaginare la Fine»] e Fondi PSR2019)
Si trova in questo volume, a cura di Enrico Norelli, la più ricca e
documentata edizione esistente dei Frammenti superstiti dell’opera di
Papia, vescovo di Hierapolis in Frigia (Asia Minore). Benché pervenu-
taci solo in pochi lacerti, l’Esposizione degli oracoli del Signore è un do-
cumento di grande interesse, ancora capace di offrire al lettore la possi-
bilità di ispezionare una stagione precocissima della storia cristiana
(l’opera fu composta attorno al 115), documentandone la vicenda, le
pratiche e il patrimonio di idee e di credenze.

Gabriele Pelizzari • L’ICONOGRAFIA CRISTIANA DELLE ORIGINI COME STORIA DELL’ESEGESI • Un’ermeneutica codificata
Contenuto digitale diffuso in Open Access con il contributo dell’Università degli Studi di Milano (Finanziamento ricerca “Seed” 2019 [Progetto: «IF - Immaginare la Fine»] e Fondi PSR2019)
I tredici Frammenti raccolti in questo volume, in una nuova edizio-
ne critica profondamente ripensata, offrono una testimonianza di straor-
dinaria importanza per la conoscenza della Gnosi antica e del pensiero
del suo più influente maestro: Valentino di Roma.
Gli Estratti da Teodoto che, insieme alla “Grande Notizia” di Ireneo,
sono le prime attestazioni della disputa che la “grande Chiesa” ingaggiò
con il pensiero di Valentino, conservano però anche una traccia indele-
bile della maestria, della finezza e della determinazione con cui Clemen-
te seppe reagire e controbattere a questo nuovo ideale di cristianesimo.

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Letture cristiane del primo millennio - Supplementi
Collana diretta da Gabriele Pelizzari
Comitato di redazione: Alberto Camplani, Emiliano Fiori,
Roberta Franchi, Elena Giannarelli, Claudio Gianotto,
Giuseppe Laiti, Enrico Norelli, Cristina Simonelli, Chiara
Somenzi, Giuseppe Visonà, Marco Zambon, Gianfranca
Zancanaro, Antonio Zani.

Gli antichi cristiani, per comunicare, approfondire


e difendere la propria fede, hanno prodotto e messo
in circolazione, in ambienti e lingue diversi, un pa-
trimonio considerevole di documenti che costituisce
un momento significativo delle culture nelle quali il
cristianesimo si è diffuso.
I Supplementi alle Letture cristiane del primo mil-
lennio, grazie alla competenza di specialisti, presentano
monograficamente personaggi, eventi, temi e strumenti
fondamentali per approfondire criticamente la cono-
scenza di quei documenti, delle idee e delle pratiche dei
credenti in Cristo nei primi mille anni della loro storia.
Confrontandosi con i più recenti indirizzi della
ricerca, i Supplementi alle Letture cristiane del primo
millennio vogliono guidare il lettore alla (ri)scoperta
di secoli decisivi per la storia del cristianesimo e delle
culture fino alla nostra epoca, secoli dei quali molto è
noto ma il più resta ancora da scoprire e da conoscere.
In un tempo che vorrebbe far dire alle origini cri-
stiane tutto ciò che esso vuole ascoltare, l’intento di
questa collana è di far risuonare le voci autentiche di
quei primi secoli: rifiutando ogni appropriazione stru-
mentale del cristianesimo e combinando il rigore della
disamina scientifica con la chiarezza dell’esposizione, i
Supplementi alle Letture cristiane del primo millennio
vogliono offrire spazio all’appassionata ricerca di un
passato vitale per il nostro presente.

Comitato dei revisori: Juan José Ayán Calvo, Marco Bais,


Edoardo Bona, Luciano Bossina, Antonio Cacciari, Remo
Cacitti, Valentina Calzolari, Benedetto Clausi, Ignazio De
Francesco, Gregor Emmenegger, Matteo Grosso, Augusto
Guida, Eric Junod, Jean-Daniel Kaestli, Alain Le Boulluec,
Giovanni Lenzi, Clementina Mazzucco, Tobias Nicklas,
Bernard Outtier, Michel-Yves Perrin, Pierluigi Piovanelli,
Paul-Hubert Poirier, Emanuela Prinzivalli, André-Louis
Rey, Marco Rizzi, Alessandro Rossi, Teresa Sardella, André
Schneider, Maria Veronese.
Tutte le pubblicazioni di questa collana sono sottoposte
a double-blind peer review.

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229S 1
SU PPLE MEN T I

Cosa spinse i primi cristiani a sperimentare l’uso di


un linguaggio figurativo? A quando è possibile datare la
nascita del più antico “immaginario cristiano”? Come va
“letta” la più arcaica documentazione visuale cristiana?
Sussiste un rapporto tra queste figure e le scritture bibli-
che, tra queste immagini e le prime tradizioni esegetiche
c.d. “patristiche”?
Questo libro tenta di dare una risposta a tali domande,
avanzando, in forma sistematica, la proposta di una nuova
metodologia critica per la comprensione e lo studio della
primigenia cultura visuale cristiana. Attraverso l’analisi
di un ricco repertorio di documenti – letterari e figurati-
vi –, queste pagine dischiudono una nuova prospettiva
sulla prima “arte cristiana”, descrivendone la natura e le
finalità, provandone l’originalità e la specificità religiosa
e illustrandone lo straordinario potenziale documentario
per la ricostruzione delle origini cristiane.

ISBN 978-88-315-5450-3

Gabriele Pelizzari • L’ICONOGRAFIA CRISTIANA DELLE ORIGINI COME STORIA DELL’ESEGESI • Un’ermeneutica codificata
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