229S+01+ +L'iconografia+Cristiana+Delle+Origini+Light
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Gabriele Pelizzari • L’ICONOGRAFIA CRISTIANA DELLE ORIGINI COME STORIA DELL’ESEGESI • Un’ermeneutica codificata
Contenuto digitale diffuso in Open Access con il contributo dell’Università degli Studi di Milano (Finanziamento ricerca “Seed” 2019 [Progetto: «IF - Immaginare la Fine»] e Fondi PSR2019)
LETTURE CRISTIANE
DEL PRIMO MILLENNIO
SUPPLEMENTI
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Gabriele Pelizzari
L’ICONOGRAFIA
CRISTIANA DELLE ORIGINI
COME STORIA DELL’ESEGESI
Un’ermeneutica codificata
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Volume edito in Open Access con il contributo dell’Università degli Studi di Milano
(Finanziamento ricerca “Seed” 2019 [Progetto: «IF - Immaginare la Fine»]
e Fondi PSR2019 [Progetto: «Tra “memoria religiosa” ed “elaborazione teologica”: le traiettorie
dell’esegesi scritturistica nella genesi della più antica documentazione cristiana »]).
ISBN 978-88-315-5450-3
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Le verità si apprendono attraverso le immagini,
in altri termini:
tramite ciò che si può vedere
viene conosciuto quanto è invisibile.
Tertulliano
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Abbreviazione e sigle
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8 Abbreviazioni e sigle
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Abbreviazioni e sigle 9
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UNA PREMESSA
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12 Premessa
dello storico”, molto spesso trascurate. Mi limiterò a citarne una, che po-
tremmo definire come un “historiographical media gap”: è caratteristico
del nostro tempo “pensare per iscritto”, immaginare, cioè, che le idee
trovino la loro necessaria e migliore espressione attraverso le parole (scrit-
te); proiettare questa abitudine su un tempo – quello, per esempio, del
I-III secolo – nel quale l’alfabetizzazione riguardava solo poche unità
percentuali della popolazione non produrrà già di per sé una distorsione
della descrizione storiografica di quel passato?
Diverrà forse un esercizio salutare chiedersi con puntigliosa curiosità
se avessero più forza culturale – la capacità di orientare l’interpretazione
comune della vita e della storia – le storiografie immaginarie di Asinio
Pollione o di Livio oppure la corazza dell’Augusto di Prima Porta.
Nel caso del mondo antico e delle origini cristiane è davvero difficile
immaginare di poter prescindere dalla documentazione visuale: da tutti
quei documenti, cioè, che affidavano all’immagine, anziché alla parola,
il compito di elaborare e articolare pensiero, di costruire significato, di
trasmettere idee, di istruire – o condizionare – l’ideale dei propri fruito-
ri. Un bassorilievo, una pittura, un’immagine offrivano il loro messaggio
a tutti; i testi erano viceversa appannaggio di quei pochi che li potevano
decifrare, che avevano le competenze necessarie per trasformare quelle
successioni di grafemi in suoni e in significati, per ritrovare in essi il mes-
saggio che era stato affidato a quella serie di segni. La scrittura, infatti, è
una somma di figure che necessitano di essere decifrate; l’immagine ico-
nica è viceversa una figura già significante (o significativa).
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Premessa 13
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Non posso affidare queste pagine ai loro lettori senza aver prima
espresso la mia riconoscenza a sr. Mariangela Tassielli, responsabile di
Paoline Editoriale Libri, che ha accolto e accudito questo lavoro, e a sr.
Gianfranca Zancanaro, che mi ha pazientemente accompagnato, e non
solo nella confezione di questo libro; a mia mamma, perché ancora una
volta mi ha convinto a non risparmiare nulla di ciò che riuscivo; a Remo
Cacitti, per la fiducia che ha riposto nelle mie capacità e per avermi in-
segnato molto più di ciò che ho saputo apprendere; ad Alessandro Rossi,
per l’amicizia così schietta; a don Sandro Ramirez e don Antonio Scat-
tolini per aver colorato con la loro passione per l’arte la nostra amicizia;
a don Patricio de Navascués Benlloch, a don Andrés Sáez Gutiérrez, a
Emiliano Fiori e a Marco Zambon, per aver discusso pazientemente con
me dell’indice di queste pagine; a Irene Barbotti, per l’aiuto, perspicuo e
generoso, nella stesura di questo scritto.
Mi auguro di avere onorato, almeno in parte, così tanto bene ricevuto.
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LE MATRICI DI UNA CRITICA
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I.
1 M.J. Rigby, The “Heretical” Origin of Christian Art, M.A. Diss., Hamilton, a.a. 1980-
1981, 1.
2 Data l’inadeguatezza della categoria di “arte” per la più antica cultura visuale cristiana,
quando impiegato, il lessico artistico verrà nelle prossime pagine posto tra virgolette. L’inade-
guatezza di tale categoria per la prima cultura visuale cristiana è stata correttamente osservata da
R. Couzin, “Early” “Christian” “Art”, in R.M. Jensen - M.D. Ellison (eds.), The Routledge Hand-
book of Early Christian Art, Routledge, London - New York (NY) 2018, 380-392, in part. 380-
381. Il discorso sulla prima cultura figurativa cristiana intercetta un secondo lemma “delicato”,
quello di “immagine”, che storicamente giocò un ruolo decisivo nel passaggio dalla teoresi teo-
logica (cfr. M.J. Edwards, Image, Word, and God in the Early Christian Centuries, Ashgate, Farn-
ham - Burlington [VT] 2013 [Ashgate studies in philosophy & theology in late antiquity], in
part. 79-96) a quella dell’icona, enfatizzando l’indirizzo cristologico assunto da quest’ultimo.
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18 Le matrici di una critica
3 P.C. Finney, The Invisible God. The Earliest Christians on Art, Oxford University Press,
Oxford - New York (NY) 1994, 15. Tutte le traduzioni presenti nel testo sono a cura dell’autore.
4 D.M. Gwynn, From Iconoclasm to Arianism: The Construction of Christian Tradition in
the Iconoclast Controversy, in Greek, Roman, and Byzantine Studies 47 (2007) 225-251, qui 250.
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Alle origini di un equivoco 19
Il nesso tra primitivo iconoclasmo e l’accusa di aderire a tradizioni ariane era già stato sonda-
to da C. Murray, Le problème de l’ iconophobie et les premiers siècles chrétiens, in F. Boespflug
- N. Lossky (éds.), Nicée II, 787-1987. Douze siècles d’ images religieuses. Actes du Colloque in-
ternational Nicée II, tenu au Collège de France, Paris, les 2, 3, 4 octobre 1986, Cerf, Paris 1987
(Histoire), 39-50.
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20 Le matrici di una critica
5 Il Concilio fu così chiamato perché indetto per elaborare e definire in decreti le deci-
sioni dei Concili ecumenici quinto e sesto (rispettivamente il secondo concilio di Costan-
tinopoli del 553 e il terzo concilio di Costantinopoli del 680: cfr. C. Head, Justinian II of
Byzantium, The University of Wisconsin Press, Madison [WI] 1972, 65-71); la denomina-
zione latina ricalca quella greca di “Pentècto” (dal greco pente: “quinto”, ed ektos: “sesto”;
propriamente, perciò: “quinto-sesto”). È noto anche come Concilio “in Trullo” (dal greco
troullos: “cupola”, il nome del salone del “sacro palazzo” imperiale di Costantinopoli, sovra-
stato da una grande volta, dove si celebravano le più rilevanti riunioni della corte). Su que-
sta assise è fondamentale lo studio di E. Brunet, La ricezione del Concilio Quinisesto (691-
692) nelle fonti occidentali (VII-IX sec.). Diritto - Arte - Teologia, De Boccard, Paris 2011
(Autour de Byzance 2). Cfr. anche M.T.G. Humphreys, Law, Power, and Imperial Ideology
in the Iconoclast Era c. 680-850, Oxford University Press, Oxford 2015 (Oxford Studies in
Byzantium), 37-80.
6 Su questo imperatore – e sui suoi rapporti con Roma –, cfr. ancora F. Görres, Justi-
nian II und das römische Papsttum, in Byzantinische Zeitschrift 17 (1908) 432-454. Così at-
testa esplicitamente il Logos prophonetikos, una sorta di saluto collettivo dei padri concilia-
ri all’imperatore, nel quale esplicitamente si dichiara che la convocazione dell’assise
avvenne per iniziativa di quest’ultimo: cfr. H. Ohme, Sources of the Greek Canon Law to the
Quinisext Council (691/2): Councils and Church Fathers, in W. Hartmann - K. Pennington
(eds.), The History of Byzantine and Eastern Canon Law to 1500, Catholic University of Ame-
rica Press, Washington D.C. 2012 (History of Medieval Canon Law) 24-114, qui 78.
7 All’assise parteciparono duecentoventisei (duecentoventisette) vescovi (probabilmen-
te nessun latino): Basilio di Gortyna (Creta), la cui diocesi dipendeva da Roma, firmò i Ca-
noni conclusivi: ne nacque la pretesa, da parte della tradizione ortodossa (a partire dal ca-
nonista Teodoro Balsamone, † 1199), di una sottoscrizione in rappresentanza del vescovo
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Alle origini di un equivoco 21
di Roma, ma si tratta probabilmente di una forzatura. Basilio non aveva infatti ricevuto al-
cun mandato in tal senso (non era apocrisario) né il papa ratificò poi il Concilio che ormai
denunciava «lo sviluppo divergente delle due metropoli ‹Costantinopoli e Roma›» (G. Ostro-
gorsky, Storia dell’ impero bizantino, Einaudi, Torino 19932 [Biblioteca di cultura storica 97],
119). Proprio per richiamare il carattere costitutivamente “bizantino” del Concilio, Hum-
phreys, Law, Power and Imperial Ideology, 45, parla esplicitamente di un «ruolo del Conci-
lio come veicolo dell’ideologia imperiale e nell’articolazione dell’identità ‹bizantina›».
8 L. Brubaker, Inventing Byzantine Iconoclasm, Bristol Classic, London 2012 (Studies in
Iliberritan Canon Texts, in Zeitschrift für Antikes Christentum 18 (2014) 210-259; Id., Placuit
picturas in ecclesia esse non debere: la prohibición del c. 36 pseudoiliberritano, in Veleia 34 (2017)
147-162; Id., Colecciones falsamente atribuidas a un concilio, in Cristianesimo nella Storia 39 (2018)
137-175, dove efficacemente si ipotizza che la c.d. “trilogia martiriale” del sinodo di Elvira (Ca-
noni 34-36) debba essere considerata un’interpolazione di materiali più tardi, riconducibili a una
cronologia tra fine del IV secolo e inizi del V. Uno status quaestionis sul sinodo di Elvira era sta-
to tracciato di recente da M. Sotomayor - J. Fernández Ubiña (edd.), El concilio de Elvira y su
tiempo, Editorial Universidad de Granada, Granada 2005 (Biblioteca de Humanidades. Chro-
nica Nova de Estudios Históricos 89).
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1957, 77-84. Hanno ragione J.D. Breckenridge, The Numismatic Iconography of Justinian II
(685-695, 705-711 A.D.), The American Numismatic Society, New York (NY) 1959 (Numis-
matic Notes and Monographs), 69-77, e M. Humphreys, The ‘War of Images’ Revisited. Jus-
tinian II’s Coinage Reform and the Caliphate, in The Numismatic Chronicle 173 (2013) 229-244,
a invitare a non sopravvalutare l’importanza di questo casus belli che, però, permette di coglie-
re il rilievo che la definizione di una cultura visuale ebbe nella genesi delle identità nazionali
antiche. Per altro, non si deve neppure dimenticare che la prossimità geografica delle regioni
orientali dell’impero con il Califfato e con i principali insediamenti ebraici favorì in quei qua-
dranti una maggiore diffusione di idee iconoclaste anche presso i cristiani. Il dato è impor-
tante perché, come si vedrà, la storia dell’iconoclasmo bizantino è profondamente correlata
alla vicenda del confine arabo-bizantino. Sulla monetazione araba durante questa fase di scon-
tri con Bisanzio – e sulla sua struttura religiosa –, cfr. J.L. Bacharach, Signs of Sovereignty: The
Shahāda, Qur’anic Verses, and the Coinage of Abd al-Malik, in Muqarnas 27 (2010) 1-30.
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11 Cfr. Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6187 (369). Le menomazio-
ni di naso (rinokopia) e lingua (glossotomia) erano, infatti, disciplinate da legge: cfr. R.S. Lo-
pez, Byzantine Law in the Seventh Century and Its Reception by the Germans and the Arabs,
in Byzantion 16 (1942-1943) 445-461, in part. 454-456. Sull’episodio, cfr. anche Head, Jus-
tinian II, 95-98.
12 Cfr. R. Cacitti, «L’ immagine del Regno di Cristo». La forgiatura dei materiali escatolo-
gici nell’officina della teologia politica di Eusebio di Cesarea, in R. Macchioro (cur.), Costan-
tino a Milano. L’Editto e la sua storia (313-2013), Bulzoni, Milano 2017 (Biblioteca Ambro-
siana. Fonti e Studi 28), 165-203.
13 Cfr. Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6203 (381).
14 Cfr. J. Elsner, Iconoclasm as Discourse: From Antiquity to Byzantium, in The Art Bul-
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24 Le matrici di una critica
15 A tal punto era chiaro il valore potenzialmente deflagrante di questa decisione che Fi-
lippico sostituì la raffigurazione del Costantinopolitano III nel vestibolo del “sacro palaz-
zo” con i ritratti del patriarca Sergio I di Costantinopoli (patriarca dal 610 al 638) e di pa-
pa Onorio I (pontefice dal 625 al 638; il “papa eretico” che rappresenterà uno dei massimi
problemi in vista della definizione del dogma dell’infallibilità pontificia: cfr. G. Kreuzer,
Die Honoriusfrage im Mittelalter und in der Neuzeit, Ph.D. Diss., Tübingen - Stuttgart a.a.
1975-1976) che erano stati condannati dal sesto Concilio ecumenico per il loro appoggio
al monotelismo.
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Alle origini di un equivoco 25
bizantino, 2: L’ impero bizantino (641-1204), Einaudi, Torino 2008, 329-362, qui 350-351.
Sul rapporto tra reliquie e immagine nella tradizione bizantina, cfr. anche L. James, Dry
Bones and Painted Pictures: Relics and Icons in Byzantium, in A. Lidov (ed.), Eastern Chris-
tian Relics, Progress-Tradicija, Moscow 2003, 45-55.
17 Le Lettere (PG 98, 155-194) sono considerate per lo meno tra «i più importanti docu-
menti della controversia iconoclasta »: così L. Brubaker - J. Haldon, Byzantium in the Icono-
clast Era (ca 680-850): The Sources. An Annotated Survey, Ashgate, Aldershot et alibi (Bir-
mingham Byzantine and Ottoman monographs 7), 246-247; cfr. anche Iid., Byzantium in
the Iconoclast Era C. 680-850: A History, Cambridge University Press, Cambridge 2011, 94-
105. Su queste fondamentali Lettere cfr. anche V. Fazzo, Agli inizi dell’ iconoclasmo. Argomen-
tazione scritturistica e difesa delle icone presso il patriarca Germano di Costantinopoli, in C.
Marcheselli Casale (cur.), Parola e spirito. Studi in onore di Settimio Cipriani, Paideia, Bre-
scia 1982, 1, 809-832. Sulla figura di Germano, cfr. D. Stein, Germanos I. (11. August 715 -
17. Januar 730), in R.-J. Lilie (hrsg.), Die Patriarchen der ikonoklastischen Zeit: Germanos I.
- Methodios I. (715-847), Peter Lang, New York (NY) 1999 (Berliner Byzantinistische Stu-
dien 5), 5-21.
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L. Brubaker, Icons and Iconomachy, in L. James (ed.), A Companion to Byzantium,
Blackwell, Malden (MA) 2010 (Blackwell Companions to the Ancient World) 323-337, qui 324.
19 Si tratta di un provvedimento che verrà goffamente irriso dal presbitero Giovanni, du-
rante il secondo concilio di Nicea, e richiamato anche dal vescovo di Messana durante lo
stesso Concilio: tutte le fonti che attestano questo editto sono raccolte da A.A. Vasiliev, The
Iconoclastic Edict of the Caliph Yazid II, A.D. 721, in Dumbarton Oaks Papers 9/10 (1956) 23-
47. Cfr. anche L.W. Barnard, The Sources of the Byzantine Iconoclastic Controversy. Leo III and
Yazid II, a Reconsideration, in F. Paschke (hrsg.), Überlieferungsgeschichtliche Untersuchungen,
Akademie, Berlin 1981 (Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Lite-
ratur 125), 29-37.
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Alle origini di un equivoco 27
20 Cfr. D.J. Sahas, Icons and Logos. Sources in Eighth-Century Iconoclasm, University of
Toronto Press, Toronto - Buffalo (TX) - London 1986 (Toronto Medieval Texts and Trans-
lations 4), 5-16; A. Besançon, L’ image interdite. Une histoire intellectuelle de l’ iconoclasme,
Fayard, Paris 1994 (L’esprit de la cité), 170-173.
21 Cfr. PG 96, 1347-1362. Su questa datazione converge anche la tardiva orazione (del
IX secolo) Contro il Caballino, scritta contro l’imperatore Costantino V, detto appunto an-
che “Caballino” (PG 95, 309-344; cfr. anche M.-F. Auzépy, L’Hagiographie et l’ iconoclasme
byzantin: le cas de la Vie d’Étienne le Jeune, Routledge, Oxford - New York [NY] 2016 [Bir-
mingham Byzantine and Ottoman Monographs 5], 121-130).
22 Si tratta di un episodio tanto menzionato quanto discusso, probabilmente addirittu-
ra solo leggendario; un bilancio critico delle fonti disponibili è stato efficacemente condot-
to da M.-F. Auzépy, La destruction de l’ icône du Christ de la Chalcé par Léon III: propagande
ou réalité?, in Ead., L’ histoire des iconoclastes, ACHCByz, Paris 2007 [Bilans de recherche 2],
145-178. Sulla base di questo lavoro, la studiosa afferma la non storicità dell’episodio: «Non
ha mai avuto luogo» (ivi, 177). Resta in ogni caso fondamentale menzionare questa “leggen-
da” perché ad essa venne dato il compito di “raffigurare” l’atto primigenio di questa intera
vicenda: l’estirpazione del signum Christi dal luogo in cui risiedeva la maiestas imperii.
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28 Le matrici di una critica
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Alle origini di un equivoco 29
Figura 2: La porta Chalke e l’immagine del Cristo. Particolare del c.d. “avo-
rio dell’Adventus”. Trierer Domschatzkammer, Treviri. VIII secolo (?). Il det-
taglio a china è preso dall’immagine apparsa sul Magasin Pittoresque 48 (1880)
312; il dettaglio della foto è preso da A. Di Muro, Uso politico delle reliquie e
modelli di regalità longobarda da Liutprando a Sicone di Benevento, in Mélanges
de l’École française de Rome - Moyen Âge, 132 (2020), figura 1: URL: http://
journals.openedition.org/mefrm/8193 (consultato l’11 gennaio 2022), figura
1. In altri termini, se si accetta una datazione tardiva di questo avorio (la
Chalke fu ultimata sotto Anastasio I [491-518] e restaurata sotto Giustiniano
I [527-565], ma il busto del Cristo potrebbe essere stato collocato nella lunet-
ta solo da Giustiniano II [685-695 e 705-711], secondo P. Speck, Ikonoklasmus
und die Anfänge der makedonischen Renaissance, in Id., Varia, 1, Rudolf Habelt
GMBH, Bonn 1984, 175-210, in part. 179) e la conseguente interferenza tra
la commemorazione di un evento del V secolo – la traslazione delle reliquie
di Stefano – e l’assetto monumentale del “sacro palazzo” dell’VIII secolo,
quando fu scolpito l’avorio – con una riproduzione dell’allestimento della
Chalke dopo Giustiniano II (cfr. comunque L. Brubaker, The Chalke Gate,
the Construction of the Past, and the Trier Ivory, in Byzantine and Modern Greek
Studies 23 [1999] 258-285, in part. 270-277) –, esso potrebbe costituire una
sorta di documentazione in “presa diretta” dell’immagine da cui prese avvio
l’intera vicenda iconoclasta.
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30 Le matrici di una critica
23 Per una rassegna, cfr. J. Atkinson, Leo III and Iconoclasm, in Theoria 41 (1973) 51-
62. Sulla documentazione circa la disputa iconoclasta nella prima età isaurica, cfr. l’intro-
duzione di S. Gero, Byzantine Iconoclasm during the Reign of Leo III. With Particular Atten-
tion to the Oriental Sources, Secrétariat du Corpus SCO, Louvain 1973 (Corpus Scriptorum
Christianorum Orientalium 346 - Subsidia 41).
24 S. Gero, Notes on Byzantine Iconoclasm in the Eighth Century, in Byzantion 44 (1974)
23-42, qui 32-42, passa in rassegna – e contesta – tutte le ipotesi di eventuali «spinte ester-
ne» (ricavabili dalle fonti) alla scelta iconoclasta di Leone III: 1. l’origine siriaca di Leone
III (e dunque la possibilità di un più o meno latente indirizzo monofisita del primo Isauri-
co); 2. la presenza di armeni nel suo seguito con il rischio di influenze pauliciane (i pauli-
ciani si distinsero per un iconoclasmo di marca docetica: l’incarnazione fu solo apparente,
dunque il ritratto di un’apparenza non può che condurre all’idolatria); 3. l’influsso del ri-
gorismo islamico (Leone visse infatti alcuni anni a Mar‘aš quand’era retta da mussulmani);
4. La possibile influenza ebraica sul’imperatore; 5. la volontà di disinnescare quel partico-
larismo politico che anche le icone, per via della loro associazione a singoli santuari e a sin-
gole città, concorrevano ad alimentare (così P. Brown, A Dark-Age Crisis: Aspects of the Ico-
noclastic Controversy, in The English Historical Review 346 [1973] 1-34). Rispetto a
quest’ultima ipotesi, in specie per la natura monastica di queste tendenze centrifughe che
le icone avrebbero favorito, sono molto interessanti le osservazioni sviluppate da G.L. Hux-
ley, Hagiography and the First Byzantine Iconoclasm, in Proceedings of the Royal Irish Academy
80C (1980) 187-196, a proposito dell’uso dell’agiografia nella prima polemica tra iconocla-
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Alle origini di un equivoco 31
sti e iconoduli. Questi ultimi, per lo più monaci, colsero l’opportunità di difendere e dif-
fondere le proprie convinzioni – soprattutto nelle aree rurali – attraverso un sapiente uso
delle vite dei santi, in una sorta di “staffetta ideale” tra l’icona e la biografia del santo (una
rassegna in A.-M. Talbot, Byzantine Defenders of Images, Dumbarton Oaks, Washington,
D.C. 1998 [Byzantine saints’ lives in translation 2]).
25 Brubaker - Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era: A History, 119. Cfr. anche M.V.
Anastos, Leo III’s Edict against the Images in the Year 726-727 and Italo-Byzantine Relations
between 726 and 730, in Byzantinische Forschungen 3 (1968) 5-41; Gero, Notes on Byzantine
Iconoclasm, 26-27. Globalmente si può pensare a un’iniziativa imperiale rivolta solo al Papa se
si tiene conto dei contrasti che sussistevano tra la “sede petrina” e il “sacro palazzo”: cfr. F. Ma-
razzi, Il conflitto fra Leone III Isaurico e il papato fra il 725 e il 733, e il “ definitivo” inizio del
medioevo a Roma: un’ipotesi in discussione, in Papers of the British School at Rome 59 (1991) 231-
257. Fu in ogni caso in risposta alla politica di Leone III che Giovanni Damasceno compose
i tre celebri Discorsi apologetici (Orazioni sulle immagini) in difesa delle immagini cristiane (di
recente, però, J.M. Pinazo Pinazo, Las Orationes pro sacris imaginibus de Juan Damasceno:
un nuevo enfoque cronológico desde la perspectiva teológica, in Estudios Bizantinos 4 [2016] 67-
93, ha proposto di datare le tre orazioni al regno di Costantino V).
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32 Le matrici di una critica
Rimaniamo […] senza una chiara percezione delle convinzioni di Leone III,
salvo osservare che, intorno al 730, Germano lo considerava “amico delle im-
magini” e che, all’inizio del IX secolo, era divenuto il cattivo di una leggenda
sull’inizio della lotta per l’immagine. Su questa base, ben difficilmente possia-
mo ricostruire i primi anni dell’iconomachia come movimento imperiale 26.
26 Brubaker, Inventing, 29. Si tenga anche presente che l’atteggiamento di Leone III fu, di
fatto, del tutto perimetrato alle sole immagini venerate; lo prova il fatto che egli non sia mai inter-
venuto sui reliquiari – pure intensamente iconizzati – (cfr. J. Wortley, Iconoclasm and Leipsan-
oclasm; Leo III, Constantine V and the Relics, in Byzantinische Forschungen 8 [1982] 253-279); il punto
era la repressione del culto delle immagini, non delle immagini di per sé. Un tentativo di definizio-
ne delle “ragioni ideali” di Leone III è provato da Gero, Notes on Byzantine Iconoclasm, 27-32.
27 Tale necessità si motivava infatti sul piano ideale: non era l’urgenza di un motivo cir-
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Alle origini di un equivoco 33
Figura 3: grafico della durata dei principati bizantini tra il 610 e il 775. L’im-
magine è tratta da J. Herrin, The Context of Iconoclast Reform, in A. Bryer -
J. Herrin (eds.), Iconoclasm. Papers Given at the Ninth Spring Symposium of By-
zantine Studies. University of Byrmingham, March 1975, CBS, Birmingham
1977, 1-6; 15-20, qui 15. Lo schema presenta eloquentemente il contesto stori-
co e politico nel quale si deve ambientare la prima deflagrazione della disputa
iconoclasta: la scelta di isolarne in sede storiografica il profilo teoretico – la sua
maggiore o minore risolutezza, la sua forza più o meno esclusiva, la sua mag-
giore o minore “capienza ideale” ecc. – dal suo Sitz im Leben storico espone, a
mio avviso, al rischio di un parziale fraintendimento.
Per capire cosa animò l’iniziativa degli Isaurici rispetto alla disciplina
delle icone è dunque necessario rivolgere l’attenzione ai presupposti idea-
li con cui fu redatto il documento più importante del principato di Leo-
ne III: l’Ecloga 29. Negli ultimi mesi di vita dell’imperatore venne infatti
promulgato uno strumento giuridicamente rivoluzionario, perfezionato
tra il 726 e il 74130, giustamente assunto dalla storiografia quale manife-
sto programmatico di quella dinastia isaurica che Leone III aveva inau-
Law, Power, and Imperial Ideology, 81-232 (per la definizione, ivi, 128).
30 Seguo, per la datazione della promulgazione dell’Ecloga al 741, V. Grumel, La date de
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34 Le matrici di una critica
gurato nel 717 e che si protrarrà sino alla deposizione di Irene, nell’802.
L’Ecloga è un testo di natura giuridica, una sorta di “manuale operativo”
per giudici (simile alle attuali “procedure”, civile e penale) che, consape-
vole del parametro ormai stabilito dall’opera di Giustiniano I, il grande
sistematore del pensiero giuridico della romanità, fu organizzato assu-
mendo strutturalmente un modello legislativo alternativo: quello del Pri-
mo Testamento.
Eredi di Giustiniano – ma anche di Salomone –, interpreti fedeli dello
ius di Roma – ma anche esegeti ortodossi della Legge mosaica –, difensori
del mos maiorum – ma anche giudici della pietas del popolo di Dio –, i prin-
cipi isaurici potevano rivendicare per il proprio regno una funzione piena-
mente provvidenziale, come gli antichi principi di Roma – ma anche come
i re, Davide in testa a tutti, che YHWH aveva mandato al suo popolo31.
È dentro questo “progetto ideale di potere” che va collocato il dibat-
tito sulle immagini sacre e sulla prassi relativa al loro culto32.
31 Come afferma Humphreys, Law, Power, and Imperial Ideology, 105: «Il Proemio ‹all’E-
cloga› descrive un mondo in cui gli imperatori sono Mosè e Salomone redivivi, impegnati a
riformare moralmente le loro genti attraverso una giustizia riformata e la sua equa amministra-
zione». L’associazione panegirica tra Leone III e Mosè venne percorsa anche, pur se proiet-
tata sul campo di battaglia, nel resoconto del ruolo svolto dall’imperatore durante il dramma-
tico assedio arabo di Costantinopoli del 717: cfr. Gero, Notes on Byzantine Iconoclasm, 25.
32 Ed è in ragione di questa vocazione già pienamente politica che il dibattito sulle im-
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Alle origini di un equivoco 35
33 Questi, dopo aver fatto circolare la notizia della morte dell’imperatore durante una
campagna militare contro gli Arabi, fecero acclamare Artavasde, cognato di Costantino V,
apertamente sostenuto dallo stesso patriarca Anastasio, benché quest’ultimo fosse favorevo-
le a un moderato iconoclasmo. Su Atanasio cfr. I. Rochow, Anastasios (22. Januar 730 - Ja-
nuar 754), in Lilie (hrsg.), Die Patriarchen, 22-29.
34 In realtà le angherie dell’imperatore si indirizzeranno anche verso il successore di Ana-
stasio, il patriarca Costantino II e porteranno sino alla sua esecuzione; una dettagliata disa-
mina di questa ingloriosa fine, corredata dell’apparato documentario che la attesta, si trova in
I. Rochow, Kostantinos II. (8. August 754 - 30. August 766), in Lilie (hrsg.), Die Patriarchen,
30-44, in part. 40-43, che giustamente sottolinea come la gravità delle pene inflitte fosse con-
seguenza dell’accusa di tradimento, non di dissenso religioso (ivi, 43). Al suo posto, l’impera-
tore nominerà Niceta: cfr. Ead., Niketas I. (16. Novembar 766 - 6. Februar 780), in Lilie (hrsg.),
Die Patriarchen, 45-49.
35 Hieria era un palazzo imperiale a Costantinopoli, nella periferia asiatica della capitale.
36 Per la tortuosa vicenda della documentazione di questo concilio, cfr. Brubaker - Haldon,
Byzantium in the Iconoclast Era (ca. 680-850): The Sources, 237-238. L’Enunciato finale (Oros),
per come riferito da Tarasio nella sua refutazione, è edito da T. Krannich - C. Schubert - C. Sode
(hrsg.), Die ikonoklastische Synode von Hiereia 754, Mohr, Tübingen 2002 (Studien und Texte
zu Antike und Christentum 15). La principale documentazione relativa al dibattito iconoclasta
durante il regno di Costantino V è stata presentata da S. Gero, Byzantine Iconoclasm during the
Reign of Constantine V. With Particular Attention to the Oriental Sources, Secrétariat du Corpus
SCO, Louvain 1977 (Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium 384 - Subsidia 52).
37 Come si vedrà infra, p. 49, questo elemento formale giocherà un ruolo rilevante nel-
la contestazione del concilio di Hieria. Anche il nuovo patriarca, Costantino II, non verrà
nominato che in conclusione dei lavori (durante l’ultima sessione conciliare) e dunque, pur
avendo partecipato al concilio di Hieria, non lo fece in veste patriarcale: cfr. Rochow, Kost-
antinos II, 33.
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36 Le matrici di una critica
Dei venti che vennero promulgati, sono gli Anatematismi 8-14 e 1638 a
riguardare direttamente le immagini. Essi stabiliscono diversi punti fermi:
1. l’unità tematica dell’immagine è già stata articolata in categorie:
l’immagine di Cristo (8-14); le immagini della Vergine (15)39; le
immagini dei santi (16). La prima contraddice il nucleo della pro-
fessione di fede cristologica (dunque ha una portata eretica), le al-
tre inquinano il culto della Chiesa;
2. la raffigurazione di Cristo è ipso facto una negazione cristologica:
perché presume di circoscrivere l’incircoscrivibile (9); perché con-
fonde le nature del Logos (10); perché separa l’ipostasi del Logos
dalla carne (11 e 13); perché scinde l’unico Cristo in due ipostasi
(11); perché considera Cristo un semplice uomo (14). Com’è ovvio,
per i padri conciliari non importava stabilire quale tra questi fosse
il presupposto teologico dell’icona, poiché tutti erano eretici;
3. l’immagine è contraria alla preghiera, che è autentica solo se è «con
tutto il cuore e con gli occhi della mente (ommasi noerois)» (8);
perciò cade la pretesa dell’utilità dell’immagine, che anzi è «opera
demoniaca» (16) 40;
4. i testi e la Scrittura mantengono vivi i loro contenuti, mentre le
immagini non sono che idoli muti (16) 41.
V, 88-92. I Canoni iconoclasti sono riportati, con la relativa contestazione, anche negli At-
ti della sesta sessione del secondo concilio di Nicea del 787 (cfr. D.J. Sahas, Icon and Logos:
Sources in Eighth-Century Iconoclasm: An Annotated Translation of the Sixth Session of the Sev-
enth Ecumenical Council (Nicea, 787), University of Toronto Press, Toronto - Buffalo [NY]
- London 1986 [Toronto Medieval Texts and Translations 4], 154-163).
39 Il numero 15, per la verità, non menziona le icone ma si limita a discutere delle moda-
lità dell’intercessione mariana. È chiaro però che il riferimento alla superiorità della Theotokos
a ogni realtà, «visibile e invisibile», voglia evocare il tema dell’inefficacia delle immagini ma-
riane, alle quali ci si rivolgeva appunto per implorare il soccorso della «Madre di Dio».
40 Krannich - Schubert - Sode (hrsg.), Die ikonoklastische Synode von Hiereia, 9, collo-
cano non a caso in Gv 4,23-24 l’autentico fuoco prospettico dell’intero dibattito teologico
di Hieria.
41 Si intravede qui, in filigrana, emergere l’argomento della subalternità dell’immagine
alla parola scritta, contro il quale si espresse Giovanni Damasceno, Discorso apologetico I
(Orazione I sulle immagini) 8; 17; 41-42; 45; 47.
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Alle origini di un equivoco 37
siale dell’ iconoclasmo, G d’I - Jaca Book, Vicenza - Milano 2013 (Di fronte e attraverso 1098
- Storia dell’arte 58 - Guardando a Oriente), 20, a giudizio della quale lo scostamento – in-
vero non sempre così sensibile – tra le Questioni (Peuseis) di Costantino V e l’Enunciato fi-
nale di Hieria «rovescia la semplicistica prospettiva di sottomissione del clero a Costantino
V: non solo, infatti, il concilio […] non si limitò a una mera applicazione delle direttive im-
periali, ma l’assise si distinse per la sua speculazione sul tema in questione e l’abilità nell’e-
laborare teologicamente la dottrina iconoclasta». Una discussione dettagliata dell’«ecceden-
za del concilio di Hieria rispetto all’iconoclasmo imperiale» è sviluppata da Fogliadini,
L’ immagine negata, 145-158.
43 Le Questioni di Costantino V ci giungono solo, frammentarie, nella triplice Confu-
non l’umanità del Logos incarnato, ne tradisce la divinità, fallendo proprio nel riconosci-
mento della sostanza divina (contesta, insomma, l’omousia nicena). Dunque l’icona di Cri-
sto diventa una negazione implicita dell’ipostatizzazione del Logos. Si dovrà attendere la si-
stemazione teologica di Teodoro lo Studita, con il concetto di “ipostasi composta” (vedi
infra, p. 59, nota 105) per sanare questa obiezione.
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38 Le matrici di una critica
45 Sulla dimensione politica della questione iconoclasta cfr. anche S. Manganaro, Con-
troversia teologica e controversie politiche con il βασιλεύς durante la crisi iconoclastica (726-
843), in G. Larini (cur.), Controversie. Dispute letterarie, storiche e religiose dall’Antichità al
Rinascimento, Libreriauniversitaria, Padova 2013 (Storie e Linguaggi 4), 225-264.
46 Cfr. C. Barber, Figure and Likeness: On the Limits of Representation in Byzantine Icon-
oclasm, Princeton University Press, Princeton (NJ) - Oxford 2002, 11: «La disputa icono-
clasta riguardava la definizione dell’icona stessa come mezzo appropriato per la teologia.
Per svolgere tale funzione, l’icona, prima di diventare strumento teologico e spirituale, de-
ve innanzitutto difendersi, risolvendo il suo statuto di opera d’arte, di manufatto».
47 I primi sette Canoni sono, non a caso, tutti cristologici – essendo i primi due addirit-
tura la citazione dei corrispondenti del quinto Concilio ecumenico. Questa struttura di-
scende da due motivazioni, una di natura politica e una di utilità. Dal punto di vista poli-
tico, va notato che questo era lo schema già impiegato dalle Questioni di Costantino V
(professione di fede cristologica e poi condanna delle icone, come diretta conseguenza del-
la prima: cfr. Gero, Byzantine Iconoclasm during the Reign of Constantine V, 37-52). Dal pun-
to di vista dell’utilità, questa definizione previa è necessaria, dal momento che gli Anatema-
tismi iconoclasti sono comprensibili – per lessico e per contenuto – solo alla luce di una
puntuale contestualizzazione teologica.
48 Come recita il Canone 14: «Se qualcuno tenta, per mezzo di colori materiali, di raf-
figurare Dio, la Parola – che è nella forma di Dio, che assunse la forma di servo nella sua
propria ipostasi e divenne simile a noi in tutto, eccetto che nel peccato –, come se fosse un
semplice uomo, e lo separa dall’inseparata e immutata divinità, e in tal modo, per così di-
re, introduce una quaternità nella santa e vivificante Trinità, sia anatema ».
49 Cfr. Lingua, L’ icona, l’ idolo e la guerra delle immagini, 84-87.
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Alle origini di un equivoco 39
50 Teologicamente, sin dalle origini cristiane, uno dei “criteri” per marchiare un’idea
con lo stigma di eresia era quello di provarne la “novità”, dimostrando che l’affermazione o
la prassi che essa introduceva erano estranei alla traditio, letteralmente: “Ciò che è stato tra-
mandato”. Ovviamente questa esigenza si rendeva di volta in volta più scottante a seconda
della “forza divisiva” che ciascun dibattito dimostrava: come si è visto, il caso della teolo-
gia iconoclasta animava, nel mondo cristiano antico, violente tensioni centrifughe – inten-
sificate anche dall’uso politico che la corte imperiale stava facendo di questo principio di
politica religiosa: molti degli accusati di iconodulia erano semplicemente nemici o avversa-
ri dell’imperatore regnante, accusati pretestuosamente.
51 Cfr. P.J. Alexander, Church Councils and Patristic Authority. The Iconoclastic Councils of
Hiereia (754) and St. Sophia (815), in Harvard Studies in Classical Philology 63 (1958) 493-505.
La centralità di questo tema è stata correttamente sottolineata da M.-F. Auzépy, La tradition
comme arme du pouvoir: l’exemple de la querelle iconoclaste, in Ead., L’ histoire des iconoclastes, 105-
115. Cfr. anche C. Bordino, I Padri della Chiesa e le immagini, Ph.D. Diss., Viterbo a.a. 2009-
2010, 175-176. Una monumentale storia dei florilegi patristici – da Calcedonia, quando venne-
ro introdotti, sino alla controversia sulle immagini – resta quella tracciata da A. Grillmeier, Gesù
il Cristo nella fede della chiesa, 2,1: La ricezione del concilio di Calcedonia (415-518), Paideia, Bre-
scia 1996 (Biblioteca teologica 24), 91-128. Fu proprio nel contesto di questa disputa e, ancor
più precisamente, nell’ambito della compilazione di questi florilegi che giunse a termine il pro-
cesso di consolidamento dell’idea e dell’ideale di una “tradizione patristica”: Cfr. J.A. McGuckin,
The Formation of the Patristic Tradition, in A. Kaldellis - N. Siniossoglou (eds.), The Cambridge
Intellectual History of Byzantium, Cambridge University Press, Cambridge 2017, 296-312.
52 A giudizio di M.G. Mara, Implicanze biblico-esegetiche della polemica sul culto delle
immagini, in S. Leanza (cur.), Il Concilio Niceno II (787) e il culto delle immagini. Conve-
gno di Studi per il XII Centenario del Concilio Niceno II, Messina, settembre 1987, Sicania,
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Messina 1994, 5-27, qui 17, è anche possibile osservare uno stile “tipico” del concilio di
Hieria nell’impiego dei testi biblici e patristici di cui si serve, dal quale si discosterà il se-
condo concilio di Nicea del 787: «Sembra […] che, mentre il concilio di Ieria tende ad at-
tualizzare i testi scritturistici grazie a una interpretazione cumulativa di essi, il Niceno II
preferisce collocare i medesimi testi nel contesto della storia di Israele, grazie a una inter-
pretazione attenta alla dimensione cronologica a cui ciascuno può essere ricondotto». Cfr.
anche M. Re, Il secondo Concilio di Nicea e la controversia iconoclasta, in L. Russo (cur.),
Vedere l’ invisibile. Nicea e lo statuto dell’ immagine, Aesthetica, Palermo 20173 (Aestheti-
ca 47), 171-183, qui 180.
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«Casi noti di persecuzione risalgono tutti al 760. Il famoso anacoreta santo Stefano
53
il Giovane fu messo a morte nel 765. Nel 766 i monaci furono fatti sfilare nell’ippodromo
di Costantinopoli, ognuno con una donna per mano. Nel 768 alcuni importanti monaste-
ri della capitale vennero secolarizzati o distrutti»: C. Mango, Historical Introduction, in
Bryer - Herrin (eds.), Iconoclasm, 1-6, qui 4.
54 Cfr. R. Cormack, The Arts during the Age of Iconoclasm, in Bryer - Herrin (eds.), Icon-
oclasm, 35-44, in part., su Agia Eirēnē, 35; sul celebre mosaico absidale di questa chiesa, cfr.
anche Brubaker - Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era (ca 680-850): The Sources, 19-21.
In generale, sulle arti durante l’iconoclasmo, cfr. ancora Grabar, L’ iconoclasme byzantin
(314-316 per Agia Eirēnē).
55 Cfr. M.-F. Auzépy, Constantin V, l’empereur isaurien, et les carolingiens, in Ead., L’ hi-
rettamente il controllo del ducato romano (cfr. G.S. Marcou, Zaccaria. Un pontefice di origi-
ne greca, in Il Veltro 27 [1983] 145-152), territorio che poi Stefano II (752-757) formalmente
reclamò alla cattedra di Pietro. Fu in questo contesto storico che vide la luce il celebre falso
del Constitutum Constantini, o “Donazione di Costantino” (per un possibile rapporto tra la
Donazione e Stefano II, cfr. J. Fried, Donation of Constantine and Constitutum Constantini,
De Gruyter, Berlin - New York [NY] 2007 [Millennium-Studien zu Kultur und Geschichte
des Ersten Jahrtausends n. Chr. 3], 3-4), per la quale la Città di Roma sarebbe stata donata
da Costantino I al vescovo dell’Urbe, il papa (i privilegi connessi a questo “apocrifo” furono
citati per la prima volta da Stefano II nel 754, l’anno successivo al sinodo di Hieria).
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42 Le matrici di una critica
iconica a Bisanzio). Da questo momento in poi, papa Stefano III intensificò i le-
gami papali con i Franchi e allentò quelli con l’impero57.
Cfr. P. Speck, “Ich bin’s nicht, Kaiser Konstantin ist es gewesen”: die Legenden vom Ein-
58
fluss des Teufels, des Juden und des Moslem auf den Ikonoklasmus, R. Habelt, Bonn 1990
(Poikila byzantina 10).
59 Un bilancio si può trovare in Bergamo, Costantino V, 121-123.
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Alle origini di un equivoco 43
60 E tuttavia le fonti narrano che, essendo ormai prossimo a morire, forse in seguito
a un avvelenamento (cfr. Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6272 [453],
che suggerisce sia rimasto avvelenato per aver indossato la corona di Santa Sofia, che egli
aveva preso per sé), Leone IV abbia fatto giurare al patriarca Paolo IV di mantenere l’i-
conoclasmo (forse per i sospetti di iconodulia che circondavano la figura di Paolo: cfr.
R.-J. Lilie, Paulos IV. (20. Februar 780 - 31. August 784), in Id. [hrsg.], Die Patriarchen,
50-56, in part. 53): al di là della fondatezza della notizia, pare significativo osservare co-
me ormai il tema dell’iconoclasmo fosse raffigurato dalle fonti quale vertice delle preoc-
cupazioni imperiali.
61 La vicenda della prima imperatrice è ovviamente – e giustamente – stata fatta og-
getto di grandissima attenzione (si pensi allo straordinario e severissimo ritratto che ne
stilò – ormai un classico della storiografia – C. Diehl, Figure bizantine, Einaudi, Torino
2007 [Piccola Biblioteca Einaudi 777], 64-89), anche nella prospettiva della c.d. “storia
di genere”; cfr. R. Hiestand, Eirene Basileus. Die Frau als Herrscherin im Mittelalter, in
H. Hecker (hrsg.), Der Herrscher: Leitbild und Abbild in Mittelalter und Renaissance, Dros-
te, Düsseldorf 1989 (Studia humaniora 13), 252-283; R.-J. Lilie, Byzanz unter Eirene und
Konstantin VI (780-802), Lang, Frankfurt am Main - New York (NY) 1996; L. Garland,
Byzantine Empresses: Women and Power in Byzantium, AD 527-1204, Routledge, London
- New York (NY) 1999, 73-94; J. Herrin, Women in Purple. Rulers of Medieval Byzantium,
Princeton University Press, Princeton (NJ) - Oxford 2001, 51-129; D. Barbe, Irène de By-
zance: la femme empereur, 752-803, Perrin, Paris 2006; J. Herrin, Unrivalled Influence:
Women and Empire in Byzantium, Princeton University Press, Princeton (NJ) - Oxford
2013, 194-207.
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44 Le matrici di una critica
Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6276 (457-458), riferisce di col-
63
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Alle origini di un equivoco 45
Sulla controversa scelta di Tarasio cfr. P. Speck, Kaiser Konstantin VI. Die Legitima-
64
tion einer fremden und der Versuch einer eigenen Herrschaft. Quellenkritische Darstellung von
25 Jahren byzantinischer Geschichte nach dem ersten Ikonoklasmus, Wilhelm Fink, Munich
1978, 67; cfr. anche C. Ludwig - T. Pratsch, Tarasios (25. Dezember 784 - 25. Februar 806),
in Lilie (hrsg.), Die Patriarchen, 57-108, in part. 58-62.
65 Cfr. Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6277 (460).
66 La complessità di questo passaggio può ben essere testimoniata da un episodio che
coinvolse proprio l’avvio dei lavori del Concilio. L’assise si riunì, in prima convocazione,
presso la chiesa degli Apostoli a Costantinopoli, il 17 agosto 786, ma alcune guardie arma-
te, ancora fedeli alla memoria di Costantino V, riuscirono, irrompendo nella chiesa, a im-
pedire lo svolgimento dei lavori. Alcuni vescovi fecero per andarsene – tra questi la delega-
zione romana che fu però intercettata in Sicilia e richiamata in Oriente –, eppure
l’imperatrice non demorse; tuttavia, per garantire il corretto svolgimento dei lavori, il Con-
cilio venne a Nicea dove il 24 settembre del 786 presero effettivamente avvio i lavori.
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46 Le matrici di una critica
mismata per annum; i conflitti con gli slavi si erano spinti sino alla Gre-
cia centrale; Cipro era costantemente saccheggiata da pirati arabi (che nel
783 rapirono il governatore bizantino). In questo contesto, Irene proget-
tava una più forte alleanza con l’Occidente, sia dal punto di vista dina-
stico – con il progettato matrimonio tra una figlia di Carlo, Rotrude, e
l’unicogenito dell’imperatirce, Costantino VI – sia dal punto di vista
religioso, con il superamento dell’iconoclasmo. Proprio su quest’ultimo
fronte, la debolezza ecclesiale del patriarca può essere interpretata come
uno strumento della strategia di Irene, la quale aveva deciso di lasciare
ad Adriano I – e quindi a Roma – la guida teologica di un concilio che
si preannunciava dirompente 67.
Il 24 settembre del 787 il Concilio prese dunque avvio a Nicea, e fu
immediatamente chiaro a tutti quale ne fosse l’esito predeterminato. Do-
po aver deciso, nella prima sessione del 24 settembre 787, che solo i vesco-
vi iconomachici che avessero pubblicamente rinnegato la loro prassi ico-
noclasta avrebbero avuto la possibilità di mantenere la propria carica, il
dibattito teologico vero e proprio entrò nel vivo con la seconda sessione, del
26 settembre, durante la quale venne data lettura della Synodica che Adria-
no I aveva indirizzato a Costantino VI e a Irene, «nuovo Costantino e
67 Adriano I ebbe un ruolo decisivo nella preparazione del secondo concilio di Nicea.
Per coglierlo è necessario richiamare la Lettera (Divalis sacra: “imperiale e sacra”) che, il 29
agosto del 785 (dunque solo pochi mesi dopo la consacrazione di Tarasio al patriarcato di
Costantinopoli [25 dicembre 784]), Irene e Costantino VI indirizzarono al Papa per invitar-
lo al Concilio, di persona o tramite delegati (cfr. Mansi 12, 984-986; F.J. Dölger, Regesten
der Kaiserkunden des oströmischen Reiches, 1: Regesten von 565-1025, C.H. Beck, München
20062, numero 341). Sarà in risposta a questa esplicita richiesta che Adriano I comporrà
una lettera Synodica all’ imperatore Costantino VI e all’ imperatrice Irene. Questo documen-
to verrà letto – seppure omettendo le sue richieste diplomatiche e giurisdizionali e le obie-
zioni circa le modalità di elezione di Tarasio – e approvato, costituendo in tal modo il nu-
cleo dell’Enunciato finale conclusivo del Concilio; cfr. B. Neil, The Western Reaction to the
Council of Nicaea II, in Journal of Theological Studies 51 (2000) 533-552, qui 537-540. An-
che l’ordine di convocazione, riportato dagli Atti, è buon testimone della volontà di ricuci-
re con la Chiesa di Roma: ai primi posti si trovano, infatti, i delegati del vescovo dell’Urbe
(Pietro, arciprete della basilica di San Pietro e l’abate del monastero di San Saba a Roma,
anch’egli di nome Pietro); solo dopo è menzionato il patriarca di Costantinopoli, quindi i
rappresentanti dei patriarcati di Antiochia, Alessandria e Gerusalemme – ma non il patriar-
ca di Aquileia, esponente ecclesiastico riconosciuto con questo titolo sia da Bisanzio sia da
Roma dal 568 – e circa duecentocinquanta altri vescovi.
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Alle origini di un equivoco 47
nuova Elena» 68. La massima parte dello scritto articolava una vivace dife-
sa delle icone, elaborata, ancora una volta, a partire da un florilegio di
scritti, biblici e patristici 69, che aveva la stessa funzione – ma il segno op-
posto – di quelli presentati dagli iconoclasti al Concilio del 754. Interro-
gati Tarasio e i padri conciliari rispetto alla Lettera di Adriano I, l’assem-
blea espresse il proprio pieno assenso, predeterminando in questo modo
l’esito del Concilio, il cui Enunciato finale venne redatto sulla falsariga di
ciò che i delegati pontifici avevano ratificato essere la traduzione conforme
alla Synodica di Adriano I 70. La priorità concessa alla Chiesa di Roma in
68 Mansi, 12, 1058A; si noti: Adriano I adottava la stessa “strategia simbolica” del con-
cilio di Hieria. Su questo scritto, cfr. E. Lamberz, Studien zur Überlieferung der Akten des
VII. Ökumenischen Konzils: der Brief Hadrians I. an Konstantin VI. und Irene (JE 2448), in
Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters 53 (1997) 1-43.
69 Adriano I citò per primi gli Atti di Silvestro – non a caso, direi, il suo florilegio patri-
stico si apriva con la menzione dell’episodio in cui Costantino richiedeva a Silvestro le im-
magini di Pietro e Paolo –; seguivano poi: Gregorio Magno, Lettera a Sereno di Marsiglia;
Gen 1,26a; 2,7a; 4,4; 8,20; 12,7b; 22,9; 28,10-22; 31,13; 47,31b; Eb 11,21; Es 25,17-22 (i
testimonia biblici vengno qui interrotti dalla citazione degli Atti del concilio del Laterano
[769], che richiamavano a loro volta gli Atti del concilio di Roma [731] e Nm 21,8-9); 1Re
6,14-15.18.20-30; Is 19,19-20; Sal 96(95),6a; 26(25),8; 27(26),8; 45(44),13b; 4,7b; segue
poi l’attribuzione ad « Ammonizioni» di Agostino di una breve citazione che ricupera Sal
4,7b («Cos’è l’immagine [eikōn] di Dio se non il volto [prosōpon] di Dio in cui il suo popo-
lo fu segnato [esēmeiōthē]?» [Mansi, 12, 1066A-B]; è probabilmente un’allusione mnemo-
nica ad Agostino, Enarrazioni sui Salmi 66,4,30). Agostino apre una serie di brani da ope-
re patristiche: Gregorio di Nissa, La divinità del Figlio e dello Spirito (PG 46, 572C); Id.,
Commento al Cantico (PG 44, 776A); Pseudo-Basilio di Cesarea, Lettera a Giuliano l’Apo-
stata (PG 32, 1100; Adriano I considerava ovviamente autentico lo scritto); Basilio di Ce-
sarea, Discorso sui quaranta martiri (PG 31, 508D-509A); Severiano di Gabala, Discorso sul
sigillo (che, però, Adriano I cita come Giovanni Crisostomo, Sulla parabola del seme); Id.,
Omelia per la lavanda dei piedi (ancora citato come Giovanni Crisostomo, Per la quinta do-
menica di Pasqua: le due citazioni pseudo-crisostomee erano ancora tratte da una rubrica
degli Atti del concilio del Laterano [769] che citavano a loro volta gli Atti del concilio di Ro-
ma [731]); Cirillo di Alessandria, Commento a Matteo (perduto); Atanasio di Alessandria,
Sull’Incarnazione del Verbo 1,1; 14,1; Ambrogio, Il mistero dell’Incarnazione divina 7; Epi-
fanio di Salamina, Panarion 65,8,10; un Frammento di Stefano di Bostra e uno di Girola-
mo di Gerusalemme.
70 Giustamente Neil, The Western Reaction, 544-545, attira l’attenzione sulla ratifica,
da parte dei delegati pontifici, del testo della Synodica letto di fronte all’Assemblea. La de-
legazione pontificia, del tutto in grado di comprendere la traduzione greca del testo invia-
to da Adriano I (Pietro di San Saba conosceva il greco), confermò infatti che quanto era sta-
to declamato di fronte al Concilio era conforme alla posizione originale del pontefice. Il
dato è rilevante perché, come già sottolineato, ciò che venne letto ai padri conciliari non
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48 Le matrici di una critica
coincideva con la Lettera del papa, ma solo con alcune sue sezioni – quelle teologiche. Il che
permette di cogliere più facilmente la struttura della strategia del vescovo di Roma: l’essen-
ziale era di indirizzare il Concilio verso una ben precisa definizione teologica, come avven-
ne, mentre le altre rivendicazioni, più difficilmente recepibili per la corte bizantina, pote-
vano anche essere lasciate cadere, come pure in effetti accadde.
71 Ne verrà letta anche una terza, quella di Teodosio di Gerusalemme: «Così, alla fine
della terza sessione […], era stato raggiunto l’obiettivo di riunificare l’intera Chiesa »: Re, Il
secondo Concilio di Nicea, 179.
72 Sulle modalità di argomentazione del secondo niceno, cfr. P. O’Connell, The Eccle-
13, 196D-E).
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Alle origini di un equivoco 49
74 Gli Atti di questa sessione sono stati utilmente studiati e tradotti da Sahas, Icons and
Logos, 47-185.
75 La refutazione avvenne tramite l’argomentazione teologica ma anche sviluppando os-
servazioni di natura formale critica: «Tra i tanti brani letti ‹durante la quarta sessione› (più
di quaranta), va segnalato il caso di una lettera indirizzata da Nilo d’Ancira […] a Olimpio-
doro, poiché di questo testo al concilio di Hieria […] erano stati proposti degli estratti in-
completi; è questa la prova, secondo i padri conciliari, che gli iconoclasti avevano volonta-
riamente falsificato varie opere»: Re, Il secondo Concilio di Nicea, 179.
76 È l’intestazione formale dell’Enunciato finale del concilio di Hieria che verrà letto
all’inizio della sesta sessione del secondo concilio di Nicea (cfr. Mansi, 13, 208C-210C).
77 Così veniva definito il concilio di Hieria dai vescovi iconoduli, per via del fatto che
nessun patriarca era presente a quell’assise, presieduta perciò da Teodosio di Efeso, figlio
dell’imperatore Leone III.
78 Mansi, 13, 208E.
79 Cfr. Mansi, 13, 210A-C.
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50 Le matrici di una critica
80 Più di qualsiasi altro risultato argomentativo, con questa scelta dei padri conciliari
del secondo niceno si affermerà un principio decisivo per la riflessione sull’immagine cri-
stiana: il dibattito dell’VIII secolo sull’icona travalica i confini del proprio Sitz im Leben e
riguarda ogni cristianesimo, ogni fase della sua storia e ogni immagine cristiana. È ovvio
che si tratti di una pretesa pregiudiziale ma, di fatto, questo principio è rimasto vivo sino a
coinvolgere ancora non pochi quadranti del dibattito critico attuale.
81 Re, Il secondo Concilio di Nicea, 180. Sull’«assimilazione del carattere rivelativo dell’im-
magine a quello della parola », cfr. E. Fogliadini, L’ invenzione dell’ immagine sacra. La legit-
timazione ecclesiale dell’ icona al secondo concilio di Nicea, Jaca Book, Milano 2015 (Arte), 151-
170. Un bilancio sulla longevità teologica di questo Concilio si trova in H.G. Thümmel, Die
Konzilien zur Bilderfrage im 8. und 9. Jahrhundert. Das 7. Ökumenische Konzil in Nikaia 787,
F. Schöningh, Paderborn 2005 (Konziliengeschichte. Reihe A: Darstellungen 20).
82 Gli Atti di questa sessione seguono questa scansione: dopo un’Introduzione (Mansi, 13,
204A-204E), viene discusso il legame tra Chiesa e dogma (205A-221A [Libro I]) e tra eresia e
icone (221B-245C [Libro II]). Viene poi dibattuta la teologia dell’icona (245D-268A [Libro III])
e la compatibilità tra icona, Scritture e culto della Chiesa (268B-292B [Libro IV]). Infine viene
presentato un florilegio patristico sul tema (292C-328A [Libro V]: l’elenco degli autori e delle
opere citati è stato stilato da Sahas, Icons and Logos, 189-191) e i decreti sulle icone (Mansi, 13,
328B-364E [Libro VI]). Conclude il volume la pubblicazione della risoluzione finale (373D-380E).
83 Per il testo cfr. anche Conciliorum Oecumenorum Decreta, Istituto per le Scienze Re-
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Alle origini di un equivoco 51
nikēs anatypōseōs), tanto più quelli che contemplano sono portati al ricordo e al desiderio di
ciò che ‹le icone› raffigurano […]. Non si tratta, certo, di vera adorazione (alēthinēs latre-
ian) […], ma ‹avviene› come per l’immagine della preziosa e vivificante croce, per i santi
evangeli e per gli altri oggetti sacri, onorati (timēn poieisthai) con l’offerta di incenso e di
lumi secondo l’uso devoto degli antichi. L’onore (timē) reso all’immagine, infatti, transita
a ciò che vi è rappresentato e chi omaggia (o proskynōn) l’immagine, omaggia (proskynei) l’i-
postasi di chi vi è raffigurato (ton eggraphomenou tēn ypostasin)»: II Concilio di Nicea, Enun-
ciato finale (Conciliorum Oecumenorum Decreta, 136).
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52 Le matrici di una critica
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Alle origini di un equivoco 53
Sturacio, che indossò la corona imperiale solo per pochi mesi, al termine
dei quali, nell’81187, gli successe Michele I Rangabe, elevato alla porpora
imperiale dopo una serie di intrecci politici stretti sollecitamente sotto la
regia del patriarca Niceforo: «L’uomo che ha dedicato tutta la sua vita
adulta e i suoi scritti a una confutazione militante dell’iconoclasmo» 88.
La tendenza di Niceforo I a governare con fermezza le diverse fazioni
che si agitavano al cuore dell’impero, se costituì le basi per una sorta di
“restaurazione bizantina”, gli valse d’altra parte le ire di molti e, di fatto,
alimentò il divampare del malcontento. In ambito ecclesiastico, l’aperta
ostilità che si accese tra il “sacro palazzo” e molti tra vescovi e monaci si
tradusse in un progressivo isolamento della corrente iconofila – per lo più
di estrazione monastica – e nella tacita protezione garantita ad alcuni
esponenti della linea iconoclasta.
Consapevole della fazione a cui doveva il trono, Michele I – l’impe-
ratore che riconoscerà a Carlo Magno la legittimità dell’impiego del tito-
lo imperiale – attuò una costante politica di sostegno del partito icono-
filo, lo stesso che, entrato in contrasto con Niceforo I per via della
repressiva politica fiscale di quest’ultimo, aveva subito una progressiva
marginalizzazione dalla vita di corte.
Quando però, nell’813, dopo la disastrosa sconfitta di Versinikia con-
tro i Bulgari, Michele I capì di essere in una posizione troppo debole per
in Dumbarton Oaks Papers 7 (1953) 35-66, qui 38. Cfr. anche T. Pratsch, Nikephoros I. (12.
April 806 - 13. oder 20. Marz 815), in Lilie (hrsg.), Die Patriarchen, 109-148. Nell’operato
di Niceforo di Costantinopoli, Fogliadini, L’ invenzione dell’ immagine sacra, 227-233, rico-
nosce «la difesa ecclesiastica del secondo concilio di Nicea ». Si trattò di uno dei patriarca-
ti più importanti nella storia di Bisanzio: cfr. i profili – rispettivamente ecclesiologico e teo-
logico – che di esso sono stati tracciati da O’Connell, The Ecclesiology of St. Nicephorus I
(758-828), e da P.J. Alexander, The Patriarch Nicephorus of Constantinople: Ecclesiastical Pol-
icy and Image Worship in the Byzantine Empire, Clarendon, Oxford 1958.
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54 Le matrici di una critica
mantenere il regno saldamente nelle sue mani, decise di abdicare 89, es-
sendo terrorizzato dall’arrivo a Costantinopoli del generale Leone – già
acclamato imperatore dalle truppe –, alla guida di quanto rimaneva
dell’esercito imperiale sconfitto.
Michele I ricevette la tonsura e, con i suoi figli, concluse la sua vita in
monastero, sull’isola di Kinaliada.
Sulle origini di Leone V, cfr. ancora N. Adontz, Sur l’origine de Léon V, empereur
90
li e quando, dopo essere arrivato con il suo esercito alle porte della capitale, il khan Krum
offrì all’imperatore un colloquio di pace, Leone V accettò, tramando di uccidere in quell’oc-
casione il suo nemico, ma fallì. La furia con cui i Bulgari depredarono, deportarono, di-
strussero e devastarono tutto ciò che incontrarono dalle mura della capitale sino alla loro
patria – dove immediatamente iniziarono i preparativi per tornare all’assedio di Costanti-
nopoli – produsse un trauma indelebile nell’immaginario popolare.
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Alle origini di un equivoco 55
92 Così afferma Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6305 (502). Cfr.
D. Turner, The Origins and Accession of Leo V (813-820), in Jahrbuch der Österreichischen
Byzantinistik 40 (1990) 171-204.
93 W. Treadgold, The Byzantine Revival. 780-842, Stanford University Press, Stanford
(CA) 1988, 204. Per il regno di Leone V, cfr. Sophoulis, Byzantium and Bulgaria, 245-249.
Fino a tutto l’813, Teofane il Confessore, Cronografia, Anno del mondo 6305 (497-503), pre-
senta Leone V come un imperatore devotamente iconofilo. Purtroppo la Cronografia di Teo-
fane si interrompe proprio con quest’anno. Un’analisi delle motivazioni che spinsero l’im-
peratore al ritorno all’iconoclasmo è svolta da J. Signes Codoñer, The Emperor Theophilos
and the East, 829-842: Court and Frontier in Byzantium during the Last Phase of Iconoclasm,
Routledge, London - New York (NY) 2014 (Birmingham Byzantine and Ottoman Studies
13), 13-31.
94 Il fattore identitario fu di particolare importanza per un impero che aveva più confi-
ni che terre: si decideva con esso della capacità di resistere alle pressioni – militari ma, so-
prattutto, culturali – che costantemente venivano esercitate sui territori bizantini; cfr. J. Si-
gnes Codoñer, Helenos y Romanos: la identidad bizantina y el Islam en el siglo IX, in Byzantion
72 (2002) 404-448.
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56 Le matrici di una critica
Leone V era del tutto consapevole che l’unica possibilità che realisti-
camente gli si prospettava era quella di un iconoclasmo moderato, quasi
solamente “di principio”, per evitare che una politica più intransigente si
risolvesse nell’ennesima ferita al corpo già indebolito dell’impero.
Quando ancora questa decisione era in gestazione, in fase di sostan-
ziale sperimentazione, avvenne il miracolo: il 14 aprile 814, mentre era in
marcia verso Costantinopoli alla testa di un esercito potentemente arma-
to e dotato di macchine d’assedio imponenti, il khan Krum morì improv-
visamente. Questo evento fu letto da molti come una sorta di “benedi-
zione” divina, concessa a suggello della scelta di abbracciare nuovamente
l’iconoclasmo: «Leone deve aver considerato, comprensibilmente, che i
sovrani iconofili erano stati tutti deposti o morti in battaglia, al contrario
dei successi dei loro predecessori […] iconoclasti»95.
L’imperatore compose dunque una prima commissione teologica, sot-
to la guida del giovane monaco Giovanni, il “Grammatico”, per riesami-
nare la questione e, ottenutone il consueto dossier documentario (biblico
e patristico), lo presentò al patriarca Niceforo, il quale semplicemente
rispose osservando che i passi sottoposti alla sua attenzione condannava-
no l’idolatria, non le immagini sacre.
L’imperatore allora formò una seconda commissione, guidata questa
volta dal vescovo Antonio di Syllaion, che produsse un secondo documen-
to, basato sugli Atti del concilio di Hieria del 754 – assise già condannata
dal Sinodo Lateranense del 769 e dal secondo concilio di Nicea del 787 –,
che fu nuovamente sottoposto al patriarca Niceforo. Con un’importante
postilla: «Questa volta al patriarca fu detto che, dal momento che i solda-
ti incolpavano le immagini per le loro sconfitte per mano dei Bulgari, il
patriarca e l’imperatore avrebbero dovuto scendere a compromessi; Leone
propose ‹quindi› di rimuovere quelle icone appese in basso (τὰ χαμηλά)»96.
Niceforo rifiutò nuovamente di sottoscrivere il documento inviatogli,
non accettò la proposta di compromesso e si rifiutò anche di intrapren-
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Alle origini di un equivoco 57
97 Cfr. Brubaker - Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era: A History, 369-370. Sulla
corrispondenza tra “sacro palazzo”, patriarcato, episcopati e monasteri in questa fase del se-
condo iconoclasmo, circa la funzione ecclesiale dell’imperatore, cfr. il prospetto tracciato
da M. Kaplan, Le saint, l’ évêque et l’Empereur: l’ image et le pouvoir à l’ époque du second ico-
noclasme d’après les sources hagiographiques, in Bulletin de l’Institut Belge de Rome 69 (1999)
185-201.
98 Vedi supra, pp. 27-29.
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58 Le matrici di una critica
99 Cfr. T. Pratsch, Theodotos I. (Melissenos “Kassiteras”) (1. April 815 - Januar 821), in Li-
lie (hrsg.), Die Patriarchen, 148-155. Fu uno dei più vivaci sostenitori del ritorno all’iconocla-
smo, come pure sottolinea Signes Codoñer, The Emperor Theophilos, 78. La scelta era da prin-
cipio caduta su Giovanni il Grammatico, ma il senato si oppose, impedendone la nomina.
100 Colpisce osservare come la fase conclusiva della disputa iconoclasta (il “secondo ico-
noclasmo”) si sia di fatto costituita come una competizione tra eredità – quella iconoclasta
e quella iconodula –, più che come una prosecuzione della discussione vera e propria: il con-
cilio di Santa Sofia, infatti, sostanzialmente si limitò a rilanciare Hieria, così come la “gran-
de restaurazione” di Teodora coincise con una nuova sottoscrizione dell’Enunciato finale del
secondo niceno.
101 Concilio di Santa Sofia, Frammento 14. È interessante la scelta lessicale (pseud-ōnymos)
compiuta dal Concilio per definire l’icona: non mi sembra avventato pensare a una dipenden-
za dalla tradizione eresiologica che “nel nome di Cristo” situava solo quanti rientravano nell’or-
todossia. Gli “eretici”, al contrario, stavano “nel nome” dei fondatori dei loro movimento, da
cui, in contrapposizione a “cristiani”, stavano tutte le altre classificazioni – ancora troppo
spesso impiegate in storiografia (“valentiniani”, “marcioniti”, “montanisti”, “ariani”, “dona-
tisti” ecc.). Definire l’immagine degli iconoduli come «immagine dal nome falso» può signi-
ficare, dunque, affermare che l’immagine di Cristo, della Vergine e dei santi è eretica.
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Alle origini di un equivoco 59
Cfr. Brubaker - Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era: A History, 380: «Sebbene
103
la venerazione delle immagini sacre non fosse tollerata nei luoghi pubblici di rilievo, le per-
sone potevano effettivamente fare ciò che desideravano in privato, purché riconoscessero la
legittimità del patriarcato iconoclasta ».
104 Cfr. Brubaker - Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era: A History, 374.
105 La teologia sull’icona di Teodoro è straripante, sia per l’argomentazione che la sup-
porta sia per la produzione che essa determinò. Cfr. C. Scouteris, La personne du Verbe In-
carné et l’ icône. L’argumentation iconoclaste et la réponse de saint Théodore Studite, in Boe-
spflug - Lossky (éds.), Nicée II, 787-1987, 121-134; C. Schönborn, La lettre 38 de saint
Basile et le problème christologique de l’ iconoclasme, in Revue des Sciences Philosophiques et
Théologiques 60 (1976) 446-450 (particolarmente importante per la genesi della teologia
dell’“ipostasi composta”: cfr. anche G. Gambino, L’ icona di Cristo come ipostasi composta ne-
gli Antirretici di Teodoro Studita, in A. Musco [cur.], Contrarietas. Saggi sui saperi medie-
vali, Officina di Studi Medievali, Palermo 2002 [Machina philosophorum 5], 31-56, in
part. 33-36, a cui rinvio anche per la bibliografia sul tema: «L’unità divinoumana di Cristo
[…] Teodoro definisce ipostasi composta […]. L’ipostasi non designa il concreto rispetto
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60 Le matrici di una critica
all’astratto dell’ousia (Basilio), ma ciò in cui l’ousia esiste, principio stesso della sua esisten-
za » [ivi, 35]); T.T. Tollefsen, St Theodore the Studite’s Defence of the Icons. Theology and Phi-
losophy in Ninth-Century Byzantium, Oxford University Press, Oxford 2018 (The Oxford
Early Christian Studies), in part. 67-97.
106 Brubaker - Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era: A History, 384. Si trattò per la
verità di un evento bellico di modeste proporzioni (per il suo svolgimento e per la pace tren-
tennale che in seguito ad esso fu siglata, cfr. Sophoulis, Byzantium and Bulgaria, 275-286),
sul quale, tuttavia, l’imperatore aveva ampiamente investito dal punto di vista “program-
matico”. Cfr. anche Treadgold, The Byzantine Revival, 215, circa la “spettacolarizzazione”
di questa campagna, per la quale evidentemente l’imperatore si era molto impegnato già du-
rante la sua preparazione: «Durante i primi due mesi dell’816 […] Leone […] chiamò a Co-
stantinopoli alcuni iconofili […]. Dovevano essere tenuti in custodia nella capitale duran-
te la spedizione, apparentemente nella speranza che il suo successo li convincesse
dell’errore delle loro opinioni».
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Alle origini di un equivoco 61
107 Cfr. D.E. Afinogenov, The Conspiracy of Michael Traulos and the Assassination of Leo V:
History and Fiction, in Dumbarton Oaks Papers 55 (2001) 329-338. Cfr. anche Brubaker - Hal-
don, Byzantium in the Iconoclast Era: A History, 385; Pratsch, Theodotos I. (815-821), 154.
108 Dall’altra parte, il fronte iconofilo non solo mantenne la propria posizione, ma rea-
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62 Le matrici di una critica
Cfr. T. Pratsch, Antonios I. (“Kassymatas”) (24. März 821 - Januar 837, vor 21. Januar
110
837), in Lilie (hrsg.), Die Patriarchen, 156-168. Sarà uno dei più fedeli collaboratori di Mi-
chele II, avallandone ogni decisione, inclusa quella di sposare una monaca, che proprio il
patriarca scioglierà dai suoi voti. Sull’inattesa scelta di Antonio cfr. Signes Codoñer, The
Emperor Theophilos, 78.
111 Durante il regno di Michele II si svolse, nell’825, il sinodo franco di Parigi. L’impera-
tore di Costantinopoli aveva richiesto a Ludovico il Pio di spingere papa Eugenio II, appena
eletto con il determinante appoggio dell’imperatore franco, verso idee iconoclaste. Ludovico,
però, non intese decidere in materia ecclesiastica e anzi chiese al papa di poter sollecitare un
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Alle origini di un equivoco 63
sinodo di vescovi franchi sulla questione. Il sinodo, riunitosi dunque a Parigi nell’825, tentò
di maturare una posizione interlocutoria, condannando gli eccessi iconoduli ma anche, sulla
scorta delle Lettere di Gregorio Magno – già decisive per la definizione della posizione di Car-
lo Magno nel suo Capitulare contra Synodum del 792 –, rifiutando l’iconoclasmo e ratifican-
do quella sorta di “via media carolingia”, che tollerava le illustrazioni nelle parti più alte delle
chiese – dove, cioè, non potevano essere raggiunte dai fedeli, e quindi dove non potevano es-
sere venerate – come strumento pedagogico.
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64 Le matrici di una critica
difficoltà del califfato, Teofilo assunse l’iniziativa strategica, lanciandosi in una breve e for-
tunata campagna antiaraba nell’837: colti di sorpresa i suoi avversari, egli invase l’area
dell’alto Eufrate, saccheggiò Sozopetra e Samosata, devastò le terre armene mussulmane e
rese i principi armeni Ashot e il signore di Syspiritis vassalli bizantini. Tornò quindi in pa-
tria quale imperatore trionfante.
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Alle origini di un equivoco 65
114 Cfr. R.-J. Lilie, Ioannes VII. Grammatikos (21. Januar 837 - 4. März 843), in Id.
(hrsg.), Die Patriarchen, 169-182. Si trattava di una figura di primo piano non solo nella vi-
cenda del “secondo iconoclasmo”, ma anche nel panorama culturale della Bisanzio del pri-
mo IX secolo, appartenente alla nobile famiglia dei Morocharzamioi (cfr. P. Lemerle,
Byzantine Humanism: The First Phase. Notes and Remarks on Education and Culture in By-
zantium from its Origins to the 10th Century, Brill, Leiden - Boston [MA] 1986 [Byzantina
Australiensia 3], 156, nota 112; sulla rete di parentele del Grammatico: cfr. Signes Codoñer,
The Emperor Theophilos, 78-81) – suo fratello Arsabero sposò Kalomaria, sorella dell’impe-
ratrice Teodora –, fu parente di Leone il Filosofo o, secondo alcuni, addirittua di Fozio (cfr.
comunque C. Settipani, Continuité des élites à Byzance durant les siècles obscurs. Les princes
caucasiens et l’empire du VIe au IXe siècle, De Boccard, Paris 2006 [De l’archéologie a l’hi-
stoire], 169-172; 340-342), prima di aderire alla causa iconoclasta fu corrispondente già di
Teodoro lo Studita. La sua formidabile cultura, che gli valse sin dalla giovinezza l’appella-
tivo di Grammatico, concorse in modo decisivo a forgiare quella specifica accusa di strego-
neria attorno alla quale verrà articolata la sua damnatio. Una dettagliata biografia di Gio-
vanni è stata tratteggiata da Lemerle, Byzantine Humanism, 153-168.
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66 Le matrici di una critica
clasta aveva subito una sconfitta senza precedenti nella sua umiliazione sin dai
tempi della morte di Niceforo I combattendo i Bulgari. Il risultato […] privò
per sempre gli iconoclasti della loro argomentazione più convincente per gli
indecisi, che l’iconoclasmo avesse vinto le battaglie115.
6. LA “SECONDA RESTAURAZIONE”
E LA “VITTORIA DELL’ORTODOSSIA” (843): TEODORA
Nemmeno la vittoria contro Abu Sa’id nell’841 – il cui consueto raid fu interrotto e
116
respinto e gli invasori privati delle ricchezze già saccheggiate – né la tregua che, in seguito
a questa vittoria, Teofilo riuscì a sottoscrivere con il califfo al-Mu‘tasim bastarono all’im-
peratore per rilanciare la sua politica religiosa: egli rimase personalmente fedele al suo con-
vinto iconoclasmo ma non ne fece più il fondamento ideale del suo principato – si pensi al-
la moderata reazione contro Eufrosine, sua matrigna, che fu scoperta mentre segretamente
introduceva le figlie dell’imperatore alla prassi iconodula.
117 Sul matrimonio di Teofilo cfr. W. Treadgold, The Problem of the Marriage of the Em-
peror Theophilus, in Greek, Roman and Byzantine Studies 16 (1975) 321-345; M. Vinson,
The Life of Theodora and the Rhetoric of the Byzantine Bride Show, in Jahrbuch der Österreichi-
schen Byzantinistik 49 (1999) 31-60; W. Treadgold, The Historicity of Imperial Bride-Shows,
in Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik 54 (2004) 39-52.
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Alle origini di un equivoco 67
118 Teodora fu senz’altro una figura carismatica (cfr. Diehl, Figure bizantine, 107-124: «“La
prima virtù – scrisse un cronista dell’epoca – è di avere un’anima ortodossa”. Teodora questa
virtù la possedeva ampiamente. Ma di qualità ne aveva anche altre. Gli storici bizantini ne
vantano l’intelligenza politica, l’energia, il coraggio; le attribuiscono parole eroiche, come quel-
le con cui, dicono, ella arrestò un’invasione del re dei Bulgari: “Se trionferai su una donna, la
tua gloria sarà nulla; ma se ti farai battere da una donna, sarai l’oggetto di scherno del mon-
do intero”» [ivi, 116-117]; più recentemente, K.P. Todt, Die Frau als Selbstherrscher: Kaiserin
Theodora, die letzte Angehörige der Makedonischen Dynastie, in Jahrbuch der Österreichischen
Byzantinistik 50 [2000] 139-171, la definisce un’«autocrate»), la cui reggenza provò senza dif-
ficoltà la sua determinazione; cfr. Herrin, Women in Purple, 185-239, in part. 201-218.
119
Tale era la percezione di questa stanchezza, che si volle fare in modo che la fine dell’ico-
noclasmo fosse questa volta definitiva. Una serie di iniziative di forte impatto simbolico ven-
nero intraprese per “sigillare” questa fine irrevocabile: le spoglie di Costantino V vennero ri-
esumate, date alle fiamme e le ceneri gettate in mare; la sua tomba fu distrutta; Irene fu ca-
nonizzata e i suoi resti restituiti al mausoleo imperiale presso la chiesa dei Santi Apostoli; le
spoglie del patriarca Niceforo, quelle del monaco Teodoro lo Studita e degli altri esuli venne-
ro trattate con onore, come reliquie di martiri e di confessori della fede.
120 Cfr. F. Halkin (éd.), Euphémie de Chalcédoine: Légendes byzantines, Société des Bol-
landistes, Brussels 1965 (Subsidia hagiographica 41), 33-34. Cfr. anche cfr. Herrin, Women
in Purple, 205.
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68 Le matrici di una critica
7. L’EREDITÀ DELL’ICONOCLASMO
La vicenda iconoclasta, che aveva preso avvio sperando di fare della
riforma della prassi iconodula il cardine di una più ampia strategia di ri-
lancio della politica religiosa del “sacro palazzo” e di costituzione di un’i-
dentità “bizantina”, si tradusse ben presto in un serrato dibattito – più
che sull’immagine in quanto tale, sul suo eventuale culto e sulle moda-
lità di quest’ultimo – sulla possibilità di raffigurare la deità e, per questo,
sulla natura stessa del divino. Se, infatti, per un verso, la vicenda dell’i-
conoclasmo può – e deve – essere letta come uno strumento dell’“offici-
na ideale” del potere imperiale bizantino, d’altra parte essa si inserisce nel
solco aperto dal primo concilio di Nicea e dalla necessità di rivestire di
una struttura sistematica il pensiero cristiano relativo alla definizione di
Dio e al rapporto che con lui può intrattenere l’essere umano.
Ciò posto, è necessario osservare anche che, per quanto concerne elet-
tivamente l’immagine, benché l’esito della controversia sia sostanzialmen-
121 Prosecuzione di Teofane 4,8 (I. Bekker [hrsg.], Theophanes Continuatus, in Id. [hrsg.],
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70 Le matrici di una critica
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Alle origini di un equivoco 71
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II.
IL MEDIOEVO:
IL “VALORE IDEALE” DELL’ARTE DI ROMA
1 Come annota D. Ianiro, Dialettica e ontologia nella dottrina carolingia delle immagini:
i Libri Carolini e le loro fonti, Ph.D. Diss., Salerno, a.a. 2010-2011, 139, per i Libri carolini
«il valore delle immagini dipende esclusivamente dalla qualità del lavoro dell’artista che le
ha create» (cfr. Libri carolini 3,16: A. Freeman [hrsg.], Opus Caroli Regis Contra Synodum
(Libri Carolini), Hahnsche Buchhandlung, Hannover 1998 [Monumenta Germaniae Hi-
storica, Concilia, 2, Supplementum 1], 410).
2 «L’hic et nunc dell’originale rappresenta l’idea della sua autenticità, e sulla base di que-
sta, a sua volta, poggia l’idea di una tradizione che ha trasmesso questo oggetto come og-
getto uguale e identico fino a oggi. L’ intero ambito dell’autenticità si sottrae alla riproduci-
bilità tecnica, e naturalmente non soltanto a quella tecnica […]. Questi tratti distintivi
possono essere riassunti nella nozione di aura; e si può dire: ciò che viene meno nell’epoca
della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte è la sua aura. Il processo è sintomatico; il suo
significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione, cosi si potreb-
be formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riprodu-
zione, al posto del suo esserci unico essa pone il suo esserci in massa. E permettendo alla riprodu-
zione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il
riprodotto»: W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [prima ste-
sura], in E. Ganni (cur.), W. Benjamin, Opere complete, 6: 1934-1937, Einaudi, Torino 2004,
271-303, qui 273-274.
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Il “valore ideale” dell’arte di Roma 73
Ecco: in questo specifico senso, il Medievo latino, colto nella sua inte-
rezza di epoca complessa, rappresentò la stagione in cui si iniziò a guarda-
re al dipinto, alla statua ecc. come a “opere d’arte”, e al pittore, allo scul-
tore ecc. come a degli “artisti”4.
Mentre è forse sufficiente confinare a questo semplice accenno l’evo-
cazione di tale qualificante difformità con il Sitz im Leben delle origini
cristiane, mi pare utile provare ad affrontare più dettagliatamente il que-
sito circa il destino toccato alla più antica documentazione visuale cri-
stiana, dal punto di vista materiale e dal punto di vista ideale. Il doppio
registro di questa domanda dipende da altrettante circostanze.
Per un verso, infatti, esso tiene conto del fatto che nel “Medioevo lati-
no” gli episodi di distruzione e rimozione del patrimonio iconico cristiano
delle origini furono assai più limitati, per numero e per intensità, rispetto
a quelli che, talora sistematicamente, accompagnarono l’edificazione di
una cultura islamica, l’iconoclasmo bizantino e la finale dissoluzione di
questa stessa tradizione: diventa perciò interessante capire non solamente
come il Medioevo latino abbia descritto teoreticamente quella più antica
produzione visuale cristiana, ma anche quale destino sia “concretamente”
toccato a quegli oggetti, a quelle pitture, a quelle sculture.
3 H. Caygill, Walter Benjamin and Art Theory, in P. Smith - C. Wylde (eds.), A Compan-
ion to Art Theory, Blackwell, Oxford - Malden (MA) 2002 (Blackwell Companions in Cul-
tural Studies), 286-291, qui 289.
4 Cfr. J. Wirth, L’ image à l’ époque romane, Cerf, Paris 1999, 61-72.
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74 Le matrici di una critica
1. I LIBRI CAROLINI
Come noto, i Libri carolini videro la luce in un contesto particolare:
all’indomani del secondo niceno (787), Carlo – escluso dalla preparazio-
ne del Concilio che egli, in quanto «patricius Romanorum» (dal 774),
riteneva di dover concorrere a organizzare, e neppure invitato a parteci-
pare ai lavori – si rifiutò di recepire l’Enunciato finale e i ventidue Cano-
ni elaborati dai padri conciliari. Ne nacque una breve, intricata vicenda
che occupò poco più di un lustro, tra il 7885 e il 793/794 6, e che, anche
tramite il Sinodo di Francoforte del 794, concorse in modo decisivo a
formare un ideale “occidentale” dell’immagine.
La critica ha giustamente riconosciuto nella reazione carolingia al se-
condo niceno un tentativo di perseguire le ambizioni della corte franca
sullo scacchiere internazionale, favorito dall’occasione di rendere una di-
5 Quando la corte di Carlo ricevette la prima traduzione dell’Enunciato finale del II ni-
ceno. La data è solo plausibile. Certamente il terminus ante quem è il 792, quando gli An-
nali di York annotano l’invio da parte di Carlo, in Britannia, di una copia della traduzione
latina dell’Enunciato finale. Ha ragione T.F.X. Noble, Images, Iconoclasm, and the Carolin-
gians, University of Pennsylvania Press, Philadelhia (PA) 2009 (The Middle Ages), 161, a
chiedersi da dove provenisse questa povera traduzione che raggiunse la corte di Carlo. Plau-
sibilmente non dalla sede pontificia, dal momento che non rimane traccia, neppure indi-
retta, di questo eventuale invio nel Codex Carolinus, il volume di cancelleria papale dedica-
to ai rapporti con i Franchi. Probabilmente a Roma non era avvertita la necessità di inviare
ai Franchi la traduzione degli Atti di un concilio saldamente governato dal vescovo di Ro-
ma, dal momento che nel 767 e nel 769, la delegazione episcopale franca aveva sottoscritto
i sinodi di Gentilly e del Laterano, dei quali a Roma Nicea II era considerata un’ulteriore
affermazione.
6 Quando l’Hadrianum o Responsum, la risposta pontificia ai dubbi che Carlo aveva
espresso nel suo Capitulare de imaginibus, portò all’abbandono della redazione dei Libri ca-
rolini. Il Responsum adrianeo è uno dei più estesi documenti pontifici di tutto il Medioevo:
il che può servire a raffigurare la misura della radicalità della risposta romana. Una storia
di questa vicenda è tratteggiata dettagliatamente nel capitolo: «I Franchi e Nicea » da No-
ble, Images, Iconoclasm, and the Carolingians, 158-206. Utile è anche la sintesi di Neil, The
Western Reaction, in particolare 548-552.
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Il “valore ideale” dell’arte di Roma 75
Questo argomento è ormai stato largamente accreditato dalla critica: non è dunque il
7
caso di richiamare l’amplissima bibliografia che ne fa menzione. Mi pare rilevante qui ri-
cordare la centralità del tema dell’immagine non solo nella definizione dei rapporti politi-
ci in Bisanzio (e nell’Occidente latino) ma anche nella diplomazia tra i diversi regni: cfr. a
questo proposito M. McCormick, Textes, images et iconoclasme dans le cadre des relations en-
tre Byzance et l’Occident carolingien, in Testo e immagine nell’alto medioevo. 15-21 aprile 1993,
CISAM, Spoleto 1994 (Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioe-
vo 41), 1, 95-158.
8 Sulla funzione anche diplomatica e politica della presa di posizione franca nella dispu-
ta delle immagini, cfr. H.G. Thümmel, Karl der Große, Byzanz und Rom: Eine Positionsbe-
stimmung am Beispiel des Bilderstreits, in Zeitschrift für Kirchengeschichte 120 (2009) 58-70.
È comunque utile ricordare che l’anno in cui si celebrò il secondo concilio di Nicea (787)
fu lo stesso in cui il fidanzamento tra Costantino VI e Rotrude, figlia di Carlo, venne rot-
to, a significare l’inasprimento dei rapporti tra Aquisgrana e Bisanzio.
9 Sia Lingua, L’ icona, l’ idolo e la guerra delle immagini, 221, nota 12 (che si basa su G.
Haendler, Epochen karolingischer Theologie: eine Untersuchung über die karolingischen Gu-
tachten zum byzantinischen Bilderstreit, Evangelische Verlagsanstalt, Berlin 1958 [Theologi-
sche Arbeiten 10], 68-106; J. Wirth, Il culto delle immagini, in E. Castelnuovo - G. Sergi
[curr.], Arti e storia nel medioevo, 3: Del vedere: pubblici, forme e funzioni culturali, Einaudi,
Torino 2004, 3-47, qui 10), sia Ianiro, Dialettica e ontologia, 76, reputano che questo ele-
mento sia sovrastimato dalla critica, sottolineando come il latino “adoratio” costituisca una
traduzione adeguata per restituire appieno il concetto della proskynēsis. Il punto, a me sem-
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76 Le matrici di una critica
Carlo inviò quindi a Roma, nel 792, il suo legato Angilberto con al-
cuni capitula (contenuti nel Capitulare contra Synodum) che raccoglieva-
no i rilievi del re alle conclusioni del concilio di Nicea del 787: il Capitu-
lare era un’anticipazione del contenuto dei Libri carolini, – noti anche
come Opus Caroli regi –, ambiziosa opera in quattro libri che in quegli
anni (790-793)10 Teodulfo di Orléans (o Alcuino di York o Angilramo
di Metz)11 stava redigendo, per essere pubblicata sotto la firma di Carlo.
Il Re convocò infine un sinodo a Francoforte nel 794, formalmente
per contrastare l’adozionismo che si stava propagando in alcune Chiese
della Spagna abbasside12, nei fatti per ratificare il contenuto dei Libri ca-
rolini con cui la corte franca immaginava di stabilire la propria “via terza”
nel contrasto all’idolatria, condannando Costantino VI e la madre Irene.
bra, non è però soltanto quello di valutare l’efficacia della scelta lessicale – a mio avviso nien-
te affatto felice o, per lo meno, per nulla fedele all’intenzione della risoluzione conciliare che
esplicitamente differenziava tra «una prosternazione d’onore (thymetiké proskynesis) ‹e› la ve-
ra adorazione (alethiné latréia) che spetta alla sola natura divina » (Re, Il secondo Concilio di
Nicea, 179) – quanto la confusione che la mancata differenziazione dei due termini introdu-
ceva nel dettato testuale. È dunque difficilmente impugnabile l’incomprensione del Niceno
II che si rileva circa il punto contestato dai critici: là dove i Bizantini volevano sottolineare
una differenza tra i due atteggiamenti, i carolingi presupposero l’identità (se piena o solo so-
stanziale a me pare non muti i termini della questione) tra adorazione e venerazione.
10 Si presume che la stesura dei Libri carolini sia iniziata nel 790 perché nella Prefazio-
[792], dopo un confronto svoltosi, nel 798, con Paolino di Aquileia, Agobardo di Lione e
Alcuino al cospetto di Carlo, sconfitto, compose nell’800 una Confessio fidei in cui ritrat-
tava il suo pensiero cristologico) e di Elipando di Toledo (la cui teologia verrà attivamente
condannata da diverse assise religiose: Ratisbona [792]; Francoforte [794]; Roma [798];
Aquisgrana [800]). Cfr. M.E. Moore, A Sacred Kingdom: Bishops and the Rise of Frankish
Kingship, 300-850, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 2011 (Stu-
dies in Medieval and Early Modern Canon Law 8), 265-268.
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Il “valore ideale” dell’arte di Roma 77
13 Si può scorgere qui il sintomo dell’adesione radicale di Carlo a due modelli politici:
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78 Le matrici di una critica
16 Libri carolini 2,30 (il testo è tratto da A. Freeman [hrsg.], Opus Caroli Regis Contra
207-242.
18 Che il tema dell’immagine potesse prestarsi a uno scopo così più vasto del suo argo-
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Il “valore ideale” dell’arte di Roma 79
19 J. Fried, Charlemagne, Harvard University Press, Cambridge [MA] 2016, 320. Iani-
ro, Dialettica e ontologia, 44-69, propone acutamente una ricostruzione difforme, postulan-
do che non sia esistito un Capitulare contra Synodum, ma che a Roma siano stati immedia-
tamente inviati i Libri carolini, i quali sarebbero appunto l’oggetto della risposta di Adriano
I (il Responsum o Hadrianum). L’esito complessivo della vicenda, però, non muta: «Non sap-
piamo con precisione quando e in che modo Carlo abbia ricevuto il Responsum, ma la sua
efficacia è resa evidente dagli effetti sortiti, dei quali proprio il silenzio delle fonti coeve sui
Libri carolini è il più eloquente» (ivi, 69).
20 Ma non ebbe scarsa eco il dibattito che si animò durante la loro redazione: cfr. l’in-
teressante caso della poetica carolingia, nella quale ebbe una grande fortuna la tradizione
dei “carmi figurati”: cfr. G. Polara, Parole ed immagine nei carmi figurati di età carolina, in
Testo e immagine nell’alto medioevo, 245-274.
21 I Libri carolini, com’era costume, definirono il proprio contenuto concatenando nu-
merose allusioni e citazioni bibliche e “patristiche”: cfr. L. Wallach, The Libri Carolini and
Patristics, Latin and Greek. Prolegomena to a Critical Edition, in L. Wallach (ed.), The Clas-
sical Tradition: Literary and Historical Studies in Honor of H. Caplan, Cornell University
Press, Ithaca (NY) 1966, 451-498. Per una discussione delle Bibliae pauperum come cate-
goria critica, vedi infra, pp. 182-185.
22 Cfr. Ianiro, Dialettica e ontologia, 139-155, a cui rinvio anche per la ricca bibliogra-
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80 Le matrici di una critica
23 Si tratta del ms. vat. lat. 7207, della Biblioteca Apostolica Vaticana, che riporta il te-
sto sotto il titolo di Opus Caroli regis contra synodum. Tale manoscritto fu probabilmente il
brogliaccio di lavoro che Carlo Magno impiegava per seguire la composizione del trattato,
come dimostrerebbero le note marginali al testo (più di tremilaquattrocento interventi!), al-
cune delle quali potrebbero addirittura riportare la trascrizione tachigrafica dei commenti
avanzati dallo stesso imperatore: cfr. A. Freeman, Further Studies in the Libri Carolini III.
The Marginal Notes in Vaticanus Latinus 7207, in Speculum 46 (1971) 597-612.
24 Giovanni Calvino, Institution de la religion chrétienne 1,11,13; cfr. comunque J.R.
Payton, Calvin and the Libri Carolini, in The Sixteenth Century Journal 28 (1997) 467-480.
Su questo passaggio, cfr. E. Fogliadini, Calvino e i Libri Carolini: un tradimento di Lutero?,
in F. Bœspflug - E. Fogliadini, Lutero, la Riforma e le arti. L’articolato rapporto con la pittu-
ra, l’architettura e la musica, Glossa, Milano 2017, 79-97.
25 «Gli arcani misteri non sono nelle immagini ma nelle Sacre Scritture»: Libri carolini
4,21. Il testo è tratto da A. Freeman (hrsg.), Opus Caroli Regis Contra Synodum (Libri Ca-
rolini), Hahnsche Buchhandlung, Hannover 1998 (Monumenta Germaniae Historica, Con-
cilia, 2, Supplementum 1), 539.
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Il “valore ideale” dell’arte di Roma 81
Ugualmente, «anche i singoli profeti, che hanno scritto libri, non di-
sposero le loro profezie in immagini, ma in scritture»; del resto, «così si
legge che anche il santissimo Davide abbia detto, in luogo di Cristo:
“All’inizio del libro, di me è scritto…”. Dunque non dice: “È dipinto”,
ma: “È scritto”; né dice: “In cima alle pareti”, o: “[In cima alle] Tavole”,
ma: “All’inizio del libro”»27.
«Optime», annotava Carlo Magno di suo pugno a margine di quest’ul-
tima affermazione, in una sorta di regale, mistico dialogo con il prototi-
po della regalità cristiana: Davide.
La minorità dell’immagine rispetto alla scrittura veniva dunque trat-
teggiata come una costante di tutta la storia della salvezza e quasi elevata
al rango di teologumeno dogmatico. In più, l’affermazione di tale dispa-
rità veniva giocata da Carlo come occasione per esprimere l’emancipazio-
ne dell’Occidente dalla subalternità a Bisanzio, alla sua pretesa di essere
l’autentica garante e interprete della tradizione, alla sua capacità di auto-
determinarsi sul piano teologico e identitario. Ed è proprio sul piano
delle ragioni teologiche che va rintracciata, come già si anticipava, la prin-
cipale “novità” della posizione carolingia rispetto alle immagini:
26 Cfr. H.L. Kessler, Schriftlichkeit und Bildlichkeit in der Hofschule Karls D. Gr., in Te-
fol. 102v); ivi (A fol. 101v) (Freeman [hrsg.], Opus Caroli Regis, 304-305; 306; 307). Il ruo-
lo “ideale” delle Scritture nella definizione dell’immagine all’interno dei Libri carolini è de-
scritto da A. Freeman, Scriptures and Images in the Libri Carolini, in Testo e immagine nell’al-
to Medioevo, 163-188.
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82 Le matrici di una critica
Se, come visto, i Libri carolini recupereranno la gran parte dei presup-
posti e degli argomenti con cui il dibattito bizantino aveva cercato di
definire l’ideale dell’immagine cristiana, d’altra parte la scelta di fonda-
re la propria riflessione sul piano trinitario e scritturistico si rivelò deter-
minante per stabilire la subalternità dell’immagine rispetto al testo (bi-
blico). Il Padre aveva infatti parlato a Israele, aveva scritto le dieci parole
e aveva governato quella storia la cui scrittura produsse il Primo Testa-
mento; la Parola incarnata in Gesù, il Cristo, aveva insegnato e si era ac-
creditata secundum Scripturas pressocché in ogni pagina del Nuovo Te-
stamento; lo Spirito Santo aveva ispirato, sin dall’origine, intere
generazioni di profeti e di scrittori che avevano affidato ciò che era stato
insegnato loro ai libri: lo scrivere, il testo e la lettura potevano in tal mo-
do assumere il profilo dei luoghi specifici della religiosità cristiana.
L’ansia di Carlo di provare la legittimità del suo ruolo sullo scacchiere
politico del nascente Medioevo gettava in tal modo le basi, forse senza
dans la pensée et dans l’art. Constitutions, contestations, réinventions de la notion d’ image di-
vine en contexte chrétien, Brepols, Turnhout 2017 (Byzantioς 10), 22-32, qui 23-24; cfr. però
anche K. Mitalaitė, Philosophie et théologie de l’image dans les Libri Carolini, Institut d’Études
Augustiniennes, Paris 2007 (Études Augustiniennes, Moyen Âge et temps modernes 43).
Sul ruolo della teologia patristica nella speculazione carolingia, cfr. anche W. Otten, The
Texture of Tradition: The Role of the Church Fathers in Carolingian Tradition, in I. Bakus
(éd.), The Reception of the Church Fathers in the West: From the Carolingians to the Maurists,
Brill, Leiden - New York (NY) - Cologne 1996, 1, 3-50, in part. 44-50.
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Il “valore ideale” dell’arte di Roma 83
29 Disciplinato già da Codice teodosiano 15,1 (cfr. J.D. Alchermes, Spolia in Roman Cities
of the Late Empire: Legislative Rationales and Architectural Reuse, in Dumbarton Oaks Papers
48 [1994] 167-178), il reimpiego di materiali preesistenti connotò già la più antica architettu-
ra cristiana, sin dall’età costantiniana (cfr. B. Ward-Perkins, Re-using the Architectural Legacy
of the Past, entre idéologie et pragmatisme, in G.P. Brogiolo - B. Ward-Perkins [eds.], The Idea
and Ideal of the Town between Late Antiquity and the Early Middle Ages, Brill, Leiden - Boston
[MA] - Köln 1999 [The Transformation of the Roman World], 225-244; L. Grzesiak, Beyond
Reuse: Spolia’s Implications in the Early Christian Church, MA Diss., Vancouver a.a. 2011-2012,
35-54; ma si tratta di un indirizzo perseguito ovviamente anche in età bizantina: cfr. H. Sa-
radi, The Use of Ancient Spolia in Byzantine Monuments: The Archaeological and Literary Evi-
dence, in International Journal of the Classical Tradition 3 [1997] 395-423). Fu una connota-
zione efficace non solo per via operativa, ma anche dal punto di vista ideale (cfr., per esempio,
Prudenzio, Contro Simmaco 1, 499-505); per il passaggio o, meglio ancora, per le sinergie tra
il processo, ideale e materiale, di ricupero delle spolia e quello della venerazione delle reli-
quie, cfr. J. Elsner, From the Culture of Spolia to the Cult of Relics: The Arch of Constantine and
the Genesis of Late Antique Forms, in Papers of the British School at Rome 68 (2000) 149-184.
L’appropriazione del passato non fu dinamica intrinseca solo al cristianesimo costantinia-
no, ma rimarrà, anche in altri ambiti religiosi, la cifra nobilitante per eccellenza; cfr. M. Ali -
S. Magdi, The Influence of Spolia on Islamic Architecture, in International Journal of Heritage
Architecture 1 (2017) 334-343, in part. 335-341. Più in generale, per l’età medievale, cfr.
L. de Lachenal, Spolia, uso e reimpiego dell’antico dal III al XIV secolo, Longanesi, Milano 1995;
J. Poeschke (hrsg.), Antike Spolien in der Architektur des Mittelalters und der Renaissance,
Hirmer, Munich 1996.
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84 Le matrici di una critica
sia nell’impostazione ideale della sua “ fabrica imperii” (valse anche per la propaganda impe-
riale; cfr. J. Fried, Imperium Romanum: das römische Reich und der mittelalterliche Reichsge-
danke, in Millennium 3 [2006] 1-42; J.-Y. Tilliette, Pensers nouveaux et vers antiques: l’ image
du souverain dans l’ épopée carolingienne, in Bulletin de l’Association Guillaume Budé 1 [2016]
92-111) sia nella concretissima apertura dei suoi cantieri come giustamente ricordano B. Brenk,
Spolia from Constantine to Charlemagne: Aesthetics versus Ideology, in Dumbarton Oaks Papers
41 (1987) 103-109, in part. 108-109; J. Story, Charlemagne: Empire and Society, Manchester
University Press, Manchester - New York (NY) 2005, 249; M.A. Tipton, Statements in Stone:
The Politics of Architecture in Charlemagne’s Aachen, MA Diss, Fayetteville (AR) a.a. 2017-2018,
in part. 72-73. Un’interessante ricerca – anche in ragione dell’alto valore simbolico dell’ogget-
to a cui si dedica – è quella condotta da A.G. Doig, Building, Enacting and Embodying Roma-
nitas: The Throne of Charlemagne, in The Actual Problems of History and Theory of Art 5 (2015)
376-382.
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Il “valore ideale” dell’arte di Roma 85
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III.
L’ETÀ MODERNA
IL “VALORE POLEMICO” DI UN’ARCHEOLOGIA
1 Cfr. gli Istituti generali del capitolo cistercense, del 1130 circa, che apertamente norma-
no l’apparato iconico del culto e dei luoghi della vita cenobitica (§§ 10; 20). Cfr. anche H.
Feld, Der Ikonoklasmus des Westens, Brill, Leiden et alibi 1990 (Studies in the History of
Christian Traditions 41), 69-84.
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Il “valore polemico” di un’archeologia 87
Cfr. W. van Asselt, The Prohibition of Images and Protestant Identity, in Id. et alii (eds.),
3
Iconoclasm and Iconoclash: Struggle for Religious Identity, Brill, Leiden - Boston (MA) 2007,
229-312.
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88 Le matrici di una critica
vantacinque tesi del 1517 o 1521. In questa sede si rifletterà solo sul primo
di questi argomenti 4.
È preliminarmente necessario fugare l’equivoco, in cui non di rado
cade anche la critica più avveduta, dell’antitesi tra un Cattolicesimo me-
cenate delle arti e una Riforma sostanzialmente iconoclasta5. Lo smenti-
scono, nella sostanza e nella prassi, sia il severo controllo che, da parte
romana, si pretenderà di esercitare sull’immagine – sintomo comunque
di una disciplina delle arti – sia l’imponente tradizione monumentale che
in ogni caso continuerà a essere promossa nelle tradizioni riformate, ca-
pace essa pure di dar vita a una nuova estetica 6. Benché generalizzazione
opposta a generalizzazione, trovo più efficace considerare questo ulterio-
re fronte della dialettica religiosa nella quale nacque l’età moderna come
un corollario della discussione sulla disciplina ecclesiale anziché come un
esito teoretico rivolto al valore intrinseco dell’immagine.
Volendo dare un’origine alla vicenda dell’immagine nella storia della
Riforma, essa andrà simbolicamente riconosciuta nel primo Bildersturm
(letteralmente: la “tempesta [sturm] delle immagini [bilder]”; è questo il
nome con cui si indicano i violenti moti popolari iconoclasti del XVI
4 Su questo tema, cfr. P.R. Masculus, La prière des mains: l’Église reformée et l’art, Je sers -
Labor, Paris - Genève 1938; S. Michalski, The Reformation and the Visual Arts. The Protestant
Image Question in Western and Eastern Europe, Routledge, London - New York (NY) 1993
(Christianity and society in the modern world); A. Joblin - J. Sys (eds.), Les Protestants et la
création artistique et littéraire (des Réformateurs aux Romantiques), Artois Presses Université,
Arras 2008. Cfr. anche il già citato van Asselt, The Prohibition of Images.
5 Una raccolta documentaria relativa al dibattito tra le due parti è stata approntata da
G. Scavizzi, Arte e architettura sacra: cronache e documenti sulla controversia tra riformati e
cattolici: 1500-1550, Casa del Libro, Reggio Calabria - Roma 1981 (Interpretazioni e docu-
menti 2); B.D. Mangrum - G. Scavizzi, A Reformation Debate: Karlstadt, Emser and Eck on
Sacred Images: Three Treatises in Translation, Centre for Reformation and Renaissance Stu-
dies, Toronto 1998 (Renaissance and Reformation Texts in Translation 5).
6 Sul fronte cattolico, oltre al Decreto sull’ invocazione, la venerazione e le reliquie dei san-
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Il “valore polemico” di un’archeologia 89
tisches Handeln während des 15. und 16. Jahrhunderts, Fink, München 1996, in part. 77-80;
S. Michalski, L’expansion initiale de l’ iconoclasme protestant 1521-1537, in C. Dupeux -
J. Jezler - J. Wirth (éds.), Iconoclasme, vie et mort de l’ image médiévale. Catalogue de l’expo-
sition Musée d’Histoire de Berne, Musée de l’Œuvre Notre-Dame, Musée de Strasbourg, Somo-
logy, Paris 2001, 46-51. Cfr. anche la sezione: « Arte, Riforma e iconoclasmo» della miscel-
lanea P. Blickle et alii (hrsg.), Macht und Ohmacht der Bilder: reformatorischer Bildersturm
im Kontext der europäischen Geschichte, Oldenbourg, München 2002 (Historische Zeitschrift:
Beihefte 33), 99-304, che descrive la diffusione del fenomeno iconoclasta nei diversi distret-
ti della Riforma.
8 J.S. Preus, Carlstadt’s ‘Ordinaciones’ and Luther’s ‘Liberty’: A Study of the Wittemberg
Movement 1521-1522, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1974, 35-37. Cfr. anche
N. Schnitzler, Ikonoklasmus - Bildersturm. Theologischer Bilderstreit und ikonoklastisches Han-
deln während des 15. und 16. Jahrhunderts, Fink, München 1996.
9 Cfr. Finney, The Invisible God, 6.
10 «Ein Urteil gottes unsers eegemahels / wie man sich mit allen götzen und Bildnussen halte
soll / uss der heiligen geschrifft gezogë (Un verdetto di Dio sulla nostra unione / Come lo stare con
tutti gli idoli e le immagini dovrebbe / essere tratto dalle Sacre Scritture)», edito a Zurigo
il 23 settembre 1523; cfr. C. Garside, Ludwig Hätzers Pamphlet against Images. A critical
Study, in Mennonite Quarterly 34 (1960) 20-36.
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90 Le matrici di una critica
11 «Ein Antwort, Valentino Compar gegeben (Una risposta a Valentino Compar)», edito
a Zurigo nel 1525; cfr. L.P. Wandel, Voracious Idols and Violent Hands: Iconoclasm in Refor-
mation Zurich, Strasbourg and Basel, Cambridge University Press, Cambrige 1999, 120-159.
12 Oltre a quanto già segnalato supra, p. 80, nota 24, cfr. Besançon, L’ image interdite, 253-
259; W.A. Dryness, Reformed Theology and Visual Culture: The Protestant Imagination from
Calvin to Edwards, Cambridge University Press, Cambridge 2004, 50; E. Fogliadini, La ri-
flessione sulle immagini religiose di Lutero e Calvino. Continuità e discontinuità di una pratica
spirituale, in F. Ferrario - E. López-Tello García - E. Prinzivalli (curr.), Riforma/riforme: con-
tinuità o discontinuità? Sacramenti, pratiche spirituali e liturgia fra il 1450 e il 1600, Morcel-
liana, Brescia 2019 (Quaderni di Studi e Materiali di Storia delle Religioni 22), 221-241, in
part. 234-241.
13 Sulla “teologia dell’immagine” di Lutero, oltre al recente Bœspflug - Fogliadini, Lu-
tero, la Riforma e le arti, cfr. anche F. Bœspflug, La double intercession en procès. De quelques
effets iconographiques de la théologie de Luther, in F. Muller (ed.), Art, religion and société dans
l’espace germanique au XVIe siècle. Colloque de Strasbourg, 21-22 mai 1993, Presses univer-
sitaires de Strasbourg, Strasbourg 1997, 31-61; Id., Luther et l’ iconographie religieuse. L’art
à l’ épreuve de la théologie, in Ferrario - López-Tello García - Prinzivalli (curr.), Riforma/ri-
forme, 203-220; Fogliadini, La riflessione, 221-233.
14 Così già Ugo di Fouilloy († 1172), Il chiostro dell’anima 1; cfr. anche Pietro Cantore
(† 1197), Parola abbreviata 86. Per le affinità con l’opera di Lutero, cfr. J. Plazaola, Arte cri-
stiana nel tempo. Storia e significato, 2: Dal rinascimento all’età contemporanea, San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI) 2002 (Storia della Chiesa, Nuova Serie), 183-184. Un’antologia in-
troduttiva si può leggere ivi, 207-212. Cfr. Fogliadini, La riflessione, 223-224.
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Il “valore polemico” di un’archeologia 91
versity of California Press, Berkeley (CA) 1973; S.E. Lehmberg, The Reformation of Cathe-
drals: Cathedrals in English Society, 1485-1603, Princeton Legacy Library, Princeton (NY)
2014, 3-122; M. Stirm, Die Bilderfrage in der Reformation, Gütersloher Verlaghaus Mohn,
Gütersloh 1977; C.M.N. Eire, War against Idols. The Reformation of Worship from Erasmus
to Calvin, Cambridge University Press, Cambridge 1986.
16 Il principio fu esplicitamente rivendicato da Calvino, Institution de la religion chrétienne 1,11,12;
sul radicalismo della teologia calvinista dell’immagine, cfr. P. Benedict, Calvinism as a Culture?
Preliminar Remarks on Calvinism and The Visual Arts, in P.C. Finney (ed.), Seeing beyond the World.
Visual Arts and the Calvinist Tradition, Eerdmans, Cambridge 1999, 19-45; D.W. Hardy, Calvin-
ism and the Visual Arts: A Theological Introduction, in Finney (ed.), Seeing beyond the World, 1-16.
17 Sin dal pamphlet di Andreas Rudolff Bodenstein von Karlstadt i teologi della Riforma
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92 Le matrici di una critica
immediata – delle scoperte archeologiche romane, cfr. C. Cecchelli, Il Cenacolo Filippino e l’ar-
cheologia cristiana, Istituto di studi romani, Roma 1938 (Quaderni di studi romani 3); V. Fioc-
chi Nicolai, San Filippo Neri, le catacombe di S. Sebastiano e le origini dell’archeologia cristiana,
in M.T. Bonadonna Russo - N. Del Re (curr.), San Filippo Neri nella realtà romana del XVI se-
colo, Atti del Convegno di studio in occasione del IV centenario della morte di S. Filippo Neri (1595-
1995). Roma – 11-13 maggio 1995, Società romana di Storia Patria, Roma 2000, 106-130.
21 W.H.C. Frend, The Archaelogy of Early Christianity. A History, Geoffrey Chapman,
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Il “valore polemico” di un’archeologia 93
rii, apud S. Mariam in Vallicella, 1594, 81. Cfr. L. Spera, Cesare Baronio, «peritissimus an-
tiquitatis», e le origini dell’archeologia cristiana, in G.A. Guazzelli - R. Michetti - F. Scorza
Barcellona (curr.), Cesare Baronio tra santità e scrittura storica, Viella, Roma 2012 (Studi e
ricerche. Dipartimento di studi umanistici Università di Roma Tre 29), 393-423.
23 Rinvio alla dettagliata bibliografia prosopografica che è stata raccolta da Spera, Ce-
Mercer University Press, Macon (GA) 20032, 6. Cfr. anche l’episodio riportato da Frend,
The Archaelogy of Early Christianity, 18: «Nel 1693, il seminario gesuita di Laibach (Ljublja-
na) raccolse lungo le sue mura diverse false iscrizioni latine e paleocristiane […]. Credevano
che ci fosse un legame con il passato, in questo caso il passato classico e paleocristiano: se
pure non fossero stati capaci di rinvenirlo ne avrebbero in ogni caso dimostrato l’esistenza!».
Cfr. ora M. Ghilardi, Propaganda controriformista e uso apologetico delle catacombe romane,
in Id., Gli arsenali della fede. Tre saggi su apologia e propaganda delle catacombe romane (da
Gregorio XIII a Pio XI), Aracne, Roma 2006, 13-72.
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94 Le matrici di una critica
dopo aver visitato Roma, descrisse le catacombe come antiche cave ab-
bandonate e impiegate poi quali sepolture – di pagani e di cristiani –, le
cui decorazioni pittoriche egli reputava di stile gotico.
Non è questa la sede per seguire lo sviluppo di questa vicenda né per
osservarne dettagliatamente la ramificazione nell’Europa dell’età moder-
na. Qui è sufficiente rilevare il principio che accompagnò il rinvenimen-
to e lo studio della primigenia produzione monumentale cristiana. Essa
non venne accolta come un vettore di contenuti, argomenti, affermazio-
ni teologiche di un passato concluso, ma come la prova materiale che l’im-
magine sacra era da sempre stata parte costitutiva della prassi religiosa
cristiana come reclamavano allora i cattolici di età moderna.
---
Come i florilegi patristici erano stati composti facendo ricorso a brani
decontestualizzati dall’opera di antichi autori cristiani per provare assiomi
teologici relativamente recenti, che riguardavano in ogni caso un concetto
di immagine – l’icona – certamente estraneo al pensiero di quei primi scrit-
tori, così ora i resti archeologici della “Roma sotterranea” servivano unica-
mente a provare che quello stesso, relativamente recente, concetto di imma-
gine era originale e tipico del cristianesimo più antico, sin dai suoi esordi.
I cattolici potevano supportare la loro interpretazione dei florilegi pa-
tristici ricorrendo ora a uno sterminato florilegio archeologico.
Nell’interpretazione dell’“arte cristiana delle origini” si cristallizzava,
in questo modo, il ricorso esclusivo a un unico paradigma critico dell’im-
magine cristiana antica, quello di fatto introdotto solo con la disputa
iconoclasta ed efficace perciò unicamente nella discussione dell’icona 26:
l’immagine sacra, esposta alla venerazione dei credenti e finalizzata all’e-
dificazione dei pauperes.
Come già i riformati trovarono nei Libri carolini il loro naturale interlocutore, così i
26
cattolici si appellarono ampiamente all’autorità del secondo concilio di Nicea. Cfr. A. Cha-
stel, Le concile de Nicée et les théologiens de la Réforme catholique, in Boespflug - Lossky (éds.),
Nicée II, 787-1987, 333-338: sia Andrea Gilio di Fabriano nei suoi Due dialoghi (1564) sia
Gabriele Paleotti nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane (1582) attingono ai
florilegi di Nicea II, esplicitamente appellandosi all’autorità di questo Concilio.
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IV.
LA CONTEMPORANEITÀ:
IL DIFFICILE BILANCIO DI UNA STORIA INSIGNE
1 Oltre a quanto già osservato in G. Pelizzari, Vedere la Parola, celebrare l’attesa. Scrit-
ture, iconografia e culto nel cristianesimo delle origini, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)
2013 (Parola di Dio 71), 33-58, vedi anche infra, pp. 103-104.
2 Cfr. la risposta di L. De Bruyne all’intervento di T. Klauser, Die Äußerungen der Al-
ten Kirche zur Kunst (Revision der Zeugnisse, Folgerungen für die archäologische Forschung),
in Atti del VI Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana. Ravenna, 23-30 settembre
1962, PIAC, Città del Vaticano 1965, 223-238, che si trova nelle pagine seguenti dello stes-
so volume (239-242).
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96 Le matrici di una critica
3
Cfr. M.C. Murray, Rebirth and Afterlife. A Study of the Transmutation of Some Pagan
Imagery in Early Christian Funerary Art, BAR, Oxford 1981 (BAR International Series 100),
14. Cfr. E. Renan, Histoire des origines du christianisme, 7: Marc Aurèle et la fin du monde
antique, Calmann Levy, Paris 1883, 540 (sulla posizione di Renan e sull’asserita ipotesi di
una matrice ellenistica e gnostica per l’iconografia cristiana, cfr. anche P.C. Finney, Gnos-
ticism and the Origins of Early Christian Art, in Atti IX Congresso Internazionale di Archeo-
logia Cristiana. Roma, 21-27 Settembre 1975, PIAC, Città del Vaticano 1978, 391-405); E.
von Dobschütz, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen Legende, J.C. Hinrichs’sche
Buchhandlung, Leipzig 1899 (Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristli-
chen Literatur, n.f. 3).
4 Cfr. H. Koch, Die altchristliche Bilderfrage nach den literarischen Quellen, Vanden-
hoeck & Ruprecht, Göttingen 1917 (Forschungen zur Religion und Literatur des Alten und
Neuen Testaments, n.f. 10): il testo, che articolava una raccolta di fonti “patristiche” da Ter-
tulliano a Gregorio I relative al tema dell’idolatria – ma che lo studioso interpretava quale
fondamento della riflessione cristiana sull’“arte” –, fu favorevolmente recensito, già nel 1918,
dallo stesso Ernst von Dobschütz (Theologische Literaturzeitung 43 [1918] 175), concorren-
do non poco all’affermazione di questa ricerca che diverrà, di fatto, un fondamento dell’ar-
cheologia cristiana e un caposaldo della storia della ricerca sull’“arte” cristiana. Cfr. Finney,
The Invisible God, 7-10; l’importanza dello studio di Koch è ovviamente del tutto chiara
anche a Murray, Rebirth and Afterlife, 13. Va, per altro, segnalato che, due anni prima di
Koch, il tema era già stato toccato – con identici esiti – da C. Clerc, Les Théories relatives
au culte des images chez les auteurs grecs du IIme siècle après J.-C., Dissertation, Université de
Paris, 1915, 134-168.
5 Si pensi, per limitarsi a un solo esempio, al giudizio sprezzante che A. Schweitzer, Sto-
ria della ricerca sulla vita di Gesù, Paideia, Brescia 1986 (Biblioteca di storia e storiografia
dei tempi biblici 4), 270-283 (ed. or. Tübingen 1906, 19849), diede della ricerca di Renan.
È d’altra parte merito di Finney, The Invisible God, 7-9, aver sottolineato il rapporto dell’o-
pera di Koch sia con l’impianto teologico di A. Ritschl, Die Entstehung der altkatholischen
Kirche. Eine kirchen- und dogmengeschichtliche Monographie, Adolph Marcus, Bonn 1850,
sia con il modello storiografico di von Harnack, per il quale l’ellenizzazione del cristianesimo
portò alla nascita del dogma e del Cattolicesimo (cfr., per il ruolo dell’“arte paleocristiana”
nell’opera dello storico tedesco ancora Finney, The Invisible God, 13, note 21-23).
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Il difficile bilancio di una storia insigne 97
Ciò non di meno, nelle «fonti (belege)» che von Dobschütz, Christusbilder, elenca sot-
6
to varie rubriche, vengono raccolti materiali relativi al «divieto dell’arte presso i cristiani»
(100*-104*), al «culto cristiano e culto pagano» (104*-105*), al rapporto tra «immagine e
Vangelo» (110*), alle «prove inattendibili a favore del culto delle immagini» (111*-113*) e
alle «interpolazioni e falsificazioni circa il culto delle immagini» (113*-114*): com’è ovvio,
queste sono tematiche di più ampia portata, che ben si inseriscono nel quadro complessivo
della riflessione generale sul rapporto tra produzione iconica e più antica letteratura cristia-
na. M. Bettetini, Contro le immagini. Le radici dell’ iconoclastia, Laterza, Bari 2006 (Uni-
versale Laterza 869), VII, segue la linea interpretativa inaugurata da von Dobschütz, ricon-
ducendo le origini della sacralità dell’immagine cristiana alla comparsa delle leggende
sulle acheropite.
7 W. Elliger, Die Stellung der alten Christen zu den Bildern in den ersten vier Jahrhunder-
ten nach den Angaben zeitgenössischen kirchlichen Schriftsteller, Dieterich, Leipzig 1930 (Stu-
dien über christliche Denkmaler 20); cfr. anche gli sviluppi di questa ricerca in Id., Zur
Entstehung und frühen Entwicklung der Altchristlichen Bildkunst (Die Stellung der Alten Chris-
ten zu den Bildern in den ersten vier Jahrhunderten, Teil 2), Dieterich, Leipzig 1934 (Studien
uber christliche Denkmaler 23). Gli studi di Koch ed Elliger ebbero un forte impatto sul-
la comuntà scientifica, stimolando ricerche anche non direttamente impegnate a definire il
tema dell’origine dell’“arte cristiana”, ma sollecitate dalla visibilità dimostrata dal tema
dell’idolatria – e dell’“opera d’arte” – nella letteratura cristiana delle origini. Tra questi stu-
di meritano di essere menzionati E. Bevan, Holy Images. An Inquiry into Idolatry and Im-
age-Worship in Ancient Paganism and in Christianity, Allen & Unnwin, London 1940, 84-
112, in part. 84, nota 1; H.F. von Campenhausen, Die Bilderfrage als theologisches Problem
der alten Kirche, in Zeitschrift für Theologie und Kirche 49 (1952) 33-60, e N.H. Baynes, Idol-
atry and the Early Church, in Id., Byzantine Studies and Other Essays, Athlone, London 1955,
116-143. Più di recente, cfr. D. Menozzi, La Chiesa e le immagini. I testi fondamentali sulle
arti figurative dalle origini ai nostri giorni, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995, 11-29;
69-118; H.G. Thümmel, Die Frühgeschichte der ostkirchlichen Bilderlehre: Texte und Unter-
suchungen zur Zeit vor dem Bilderstreit, Akademie Verlag, Berlin 1992 (Texte und Untersu-
chungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur 139).
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98 Le matrici di una critica
8 Cfr. T. Klauser, Studien zur Entstehungsgeschichte der christlichen Kunst I, JbAC 1 (1958)
20-51; II: Heidnische Vorläufer des christlichen Oransbildes, JbAC 2 (1959) 115-145; III:
Schafträger und Orans als Vergegenwärtigung einer populären Zweitugendethik auf Sarkopha-
gen der Kaiserzeit, JbAC 3 (1960) 112-133; IV: Die ältesten biblischen Motive der christlichen
Grabkunst, JbAC 4 (1961) 128-145; V: Der “Sarkophag des Guten Hirten” in Split, JbAC 5
(1962) 113-124; VI: Das Siren Abenteuer des Odysseus – ein Motiv christlicher Grabkunst?, JbAC
6 (1963) 71-100; VII: Noch einmal zur heidnischen Herkunft des Bildmotives der Orans und des
Schafträgers, JbAC 7 (1964) 67-76; VIII: Vorbemerkungen zu abschließenden Untersuchungen
über das Schafträger-Motiv, JbAC 8/9 (1965/1966) 126-170; IX, JbAC 10 (1967) 82-120.
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Il difficile bilancio di una storia insigne 99
zare” la lezione di Koch ed Elliger per altra via, tramite un’ulteriore, de-
cisiva articolazione argomentativa. Sulla scorta di quanto già abbozzato
da George Florovsky 9, infatti, lo storico tedesco-americano riconosceva
nell’iconoclasmo l’ultima sopravvivenza della primigenia attitudine ani-
conica dei cristiani. L’argomentazione del partito ostile alle immagini
poteva in tal modo “ricevere l’eredità” della più antica tradizione cristia-
na: «Invece di pensare in termini di una semplice alternanza tra periodi
contrari all’immagine (anti-iconic) e altri favorevoli ( pro-iconic), è neces-
sario assumere il modello di un conflitto ininterrotto» nel quale «l’ico-
noclasmo bizantino tende a collegarsi più strettamente alla fase aniconi-
ca delle origini cristiane»10. Si favoriva in tal modo un’oscillazione che è
ancora oggi fin troppo presente negli studi critici: abbracciato il presup-
posto che riconosceva nella tradizione iconoclasta l’eco della più antica
riflessione cristiana sull’immagine, si riteneva di poter dedurre che l’in-
tento e l’argomento di questa prima discussione fossero sostanzialmente
sovrapponibili a quelli rilanciati dagli iconoclasti dell’VIII e IX secolo11.
La critica si allineava così a quella lunga teoria di secoli che, come si è
visto, aveva più volte riproposto una simile – pericolosa – retroproiezione
delle istanze iconoclaste sulla teologia delle origini cristiane12.
Questa prospettiva analitica, dalla quale non si è sottratta nemmeno
la più avveduta critica dedita alla “cultura visuale” delle origini cristiane,
9 Cfr. E. Kitzinger, The Cult of Icons before Iconoclasm, in Dumbarton Oaks Papers 8 (1954)
83-150; cfr. anche G. Florovsky, Origen, Eusebius, and the Iconoclastic Controversy, in Church
History 19 (1950) 77-96. Già N.H. Baynes, The Icons before Iconoclasm, in Harvard Theolog-
ical Review 44 (1951) 93-106, aveva posto la questione della possibilità di considerare l’icono-
clasmo bizantino come l’esito di un processo religioso risalente almeno alla fine del V secolo.
10 Kitzinger, The Cult of Icons, 85.
11 Cfr. B. Kötting, Die religiösen Grundlagen der Volksfrömmigkeit als Quelle kirchlich-re-
ligiöser Kunst, in Id., Ecclesia peregrinans, das Gottesvolk unterwegs: Gesammelte Aufsätze,
Aschendorff, Münster 1988, 2, 9-22 (= Schwarz auf Weiss 9 [1977] 3-14); R. Grigg, Aniconic
Worship and the Apologetic Tradition: A Note on Canon 36 of the Council of Elvira, in Church
History 45 (1976) 428-433.
12 Cfr. J.D. Breckenridge, The Reception of Art into Early Church, in Atti IX Congresso
Internazionale di Archeologia Cristiana. Roma, 21-27 Settembre 1975, PIAC, Città del Vati-
cano 1978, 361-369; L.W. Barnard, The Greco-Roman and Oriental Background of the Icon-
oclastic Controversy, Brill, Leiden 1974 (Byzantina Neerlandica 5), 51-52, e 52, nota 5.
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100 Le matrici di una critica
Cfr. Murray, Rebirth and Afterlife, 13; cfr. comunque ivi, 13-21.
13
Cfr. Fogliadini, L’ immagine negata, 73-77; 90: «Si mostra imperativa l’urgenza di
14
un’analisi attenta rispetto alle attestazioni di immagini a soggetto religioso fino al IV seco-
lo [sic], che evitino sia l’enfasi storiografica con cui spesso sono state investite tali testimo-
nianze sia la loro elezione teologica a inequivocabili indizi di una elaborazione iconofila in
nuce in un’epoca in cui l’avversione veterotestamentaria alle immagini faceva sentire anco-
ra tutto il proprio peso» (76). Come si può leggere, il rischio speculare a quello ora notifi-
cato dalla studiosa – quello, cioè, di una sovraesposizione critica dei presunti indizi di una
radicale opposizione cristiana all’immagine – non è avvertito dall’autrice.
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Il difficile bilancio di una storia insigne 101
15 H. Belting, Likeness and Presence. A History of the Image before the Era of Art, The Uni-
te: sulla longevità di questo schema interpretativo, cfr. già Murray, Rebirth and Afterlife, 13;
Finney, The Invisible God, 10.
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102 Le matrici di una critica
17 Benché in forma non del tutto sistematica e, per certi versi, solo in termini abboz-
zati, il tema è però stato posto all’attenzione della critica da un contributo a mio parere
assai significativo se non per gli esiti puntuali a cui esso è pervenuto, per la definizione di
questo rilevante snodo critico: P. Prigent, Immagini cristiane, immagini sacre. Un proble-
ma storico-teologico del paleocristianesimo, in E. Genre - Y. Redalié (curr.), Arte e Teologia.
Relazioni della «Rencontre des Facultés de théologie protestantes des pays latins», Roma, set-
tembre 1995, Claudiana, Torino 1997 (Collana della Facoltà Valdese di Teologia 21), 59-
71, in part. 70-71. Più lucidamente si è espressa in tal senso E. Brunet, Alle radici dell’ im-
magine cristiana. Considerazioni sulla supposta antinomia tra arte sacra orientale e
occidentale, in Marcianum 9 (2013) 139-165, in part. 141-144: «È utile ricordare che una
considerazione non univoca della natura dell’immagine cristiana, e certamente non mo-
nolitica rispetto alle sue funzioni, è avocata dalla stessa pluralità di livelli problematici che
essa suscita » (141).
18 Questa premessa risente forse dell’attitudine critica di voler considerare il religioso
come categoria “pregiudiziale”: se è argomento religioso, non può che essere comparato a,
o analizzato con, altri argomenti religiosi. E così l’attitudine dei primi cristiani verso l’im-
magine viene comparata a quella documentabile presso le religioni del mondo classico o a
quella dei movimenti giudaici prima, ed ebraici poi. Un simile termine di paragone, ovvia-
mente del tutto legittimo, diventa disfunzionale quando praticato esclusivamente. Ha sen-
so, in altri termini, domandarsi anche se sia possibile l’esistenza di un’immagine cristiana
non sacra, non venerata né venerabile, e se questa immagine non debba essere studiata at-
traverso categorie difformi da quelle impiegate per l’icona. Per altro verso, la distinzione tra
immagine e idolo è del tutto interna al pensiero filosofico antico e, in quanto tale, riverbe-
rava abbondantemente nella polemica anticristiana così come ha dimostrato, con encomia-
bile pazienza, M. Zambon, «Nessun dio è mai sceso quaggiù». La polemica anticristiana dei
filosofi antichi, Carocci, Roma 2019 (Frecce), 123-134.
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104 Le matrici di una critica
Cfr. Finney, The Invisible God, 99-115; R.M. Jensen, Understanding Early Christian Art,
23
Routledge, London - New York (NY) 2000, 13-15. L’elemento più vulnerabile di questa ipo-
tesi coincide con la descrizione delle comunità cristiane antiche quali gruppi di marginali nel
mondo antico. Certamente non si trattò di gruppi “di potere”, ma non è possibile dimentica-
re tutti quei marcatori che suggeriscono di dislocare le comunità cristiane in quote sociali me-
dio-alte. Il possesso di schiavi (cfr. Fm 10-19; Ef 6,5; Tt 2,9), l’ampia alfabetizzazione e la pre-
coce circolazione di manoscritti, la peculiare prossimità agli ambienti filosofici (si pensi ad At
17,16-33 o al dialogo che, sin dalla prima metà del II secolo, l’apologetica cristiana intratten-
ne con la filosofia), il profilo culturale (e biografico) di autori quali Clemente (che al tema del-
la compatibilità tra fede cristiana e ricchezza dedicò il trattaello Quale ricco si salva) e Tertul-
liano, o quali Origene e Cipriano, il primo sostenuto dall’inesauribile supporto finanziario
concessogli da Ambrogio, il secondo erede egli stesso di una delle più ricche famiglie di Car-
tagine ecc. Sul tema della committenza, vedi comunque infra, pp. 287-299.
24 Non disponiamo del testo degli editti, la cui portata però è ben chiaramente documen-
tata dai contemporanei (si pensi all’epistolario ciprianeo o a quanto ne scrive Dionigi di Ales-
sandria o alla sorte dello stesso Origene). Qui è sufficiente richiamare il tema della centralità
giocata dalla publicatio bonorum, la confisca dei beni, prevista per i cristiani (cfr. Cipriano, Let-
tera 80 1-2). Si tratta del provvedimento che conosce il più significativo incremento normati-
vo, nel senso che, mentre sotto Decio bastava l’abiura per sospendere qualsiasi iniziativa repres-
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Il difficile bilancio di una storia insigne 105
siva, sotto Valeriano questa avrebbe salvato solo dalla pena capitale, non dalla confisca dei beni:
cfr. P. Keresztes, Two Edicts of the Emperor Valerian, in Vigiliae Christianae 29 (1975) 81-95;
C.J. Haas, Imperial Religious Policy and Valerian’s Persecution of the Church, A.D. 257-260, in
Church History 52 (1983) 133-144, in part. 139; A. Barzanò, Il cristianesimo nelle leggi di Roma
imperiale, Paoline, Milano 1996 (Letture cristiane del primo millennio 24), 46-47.
25 Cfr. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 7,11,10, dove si riporta il decreto prefetti-
zio di Lucio Mussio Emiliano, viceprefetto d’Egitto, applicativo degli editti di Valeriano.
26 U. Fasola, s.v. «Cimitero», in NDPAC 1, 1015-1027, qui 1015.
27 Qui come altrove uso il lemma “persecuzione” – e correlati – tra virgolette (preferen-
dogli ove possibile la locuzione “repressione del cristianesimo”), non per sminuire l’incisi-
vità del fenomeno, ma per non assumere univocamente, rispetto ad esso, la prospettiva cri-
stiana. Giustamente sul tema attira l’attenzione D. Annunziata, «Nomen christianum»: sul
reato di cristianesimo, in Rivista di Diritto Romano 14 (2014) 1-9, qui 9, nota 63: « A ben ve-
dere lo stesso termine utilizzato dalla storiografia tradizionale, “persecuzioni”, non pare cor-
retto […]. Le procedure intraprese contro i cristiani s’inseriscono nell’ordinaria attività im-
periale di repressione criminale, secondo la coscienza giuridica del tempo. Ragion per cui
non si può parlare tecnicamente di “persecuzione”, termine che include un’accezione nega-
tiva sganciata da un modello criminale di riferimento».
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106 Le matrici di una critica
New York University Press, New York (NY) - London 1992, 95-182.
29 Menozzi, La Chiesa e le immagini, 11-12.
30 B. Pouderon, I primi cristiani e la cultura greca, in J.-M. Mayeur et alii (curr.), Storia
del Cristianesimo. Religione - Politica - Cultura, 1: L. Pietri (cur.), Il nuovo popolo (dalle ori-
gini al 250), Borla - Città Nuova, Roma 2003, 766-825, qui 792. Cfr. Omelie pseudoclemen-
tine 12,12 = Ricognizioni 7,12; cfr. anche Origene, Contro Celso 8,17.
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Il difficile bilancio di una storia insigne 107
cée II, 787-1987, 81-88. Non si dimentichi che gli studi di Hugo Koch e di Walter Elliger si
inseriscono nella stagione scientifica che von Harnack aveva aperto rilanciando il tema della
competizione tra componente giudaica e componente gentile nelle origini cristiane. Come
noto, la soluzione di von Harnack valorizzò grandemente la matrice “giudaico-cristiana”
(un’efficace storia di questa categoria si può leggere in C. Gianotto, Ebrei credenti in Gesù. Le
testimonianze degli autori antichi, Paoline, Milano 2012 [Letture cristiane del primo millen-
nio 48], 14-40), concorrendo a definire una sorta di “paradigma giudaico” delle origini. Nel-
la presentazione del messaggio di Gesù, A. von Harnack, L’essenza del cristianesimo, Bocca,
Torino 1923 (Piccola Biblioteca di Scienze moderne 59), 51-52, suggeriva di non chiedersi più
cosa vi fosse di nuovo in esso, «domandiamo piuttosto: che c’era di puro e di vigoroso in que-
sta nuova religione?». Dunque il cristianesimo e il suo pensiero potevano essere intesi, sul pia-
no del messaggio, come un’“intensificazione” del giudaismo: l’influenza che un simile ap-
proccio critico poté esercitare sul tema del rifiuto dell’immagine presso i cristiani,
considerato che agli inizi del XX secolo l’aniconismo più rigoroso veniva presentato come un
dato auto-evidente della storia del giudaismo e del rabbinismo, è facile da immaginare.
32 Il tema è rilevante perché, come si è visto, in ambito cristianistico l’argomento dell’at-
titudine nei confronti dell’immagine nei primi secoli ha dovuto confrontarsi costantemen-
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108 Le matrici di una critica
te con il “parametro teologico” dato dalle diverse posizioni che si fronteggiarono durante la
disputa iconoclasta dell’VIII secolo. L’assenza di questo “parametro” nelle diverse tradizio-
ni di Israele ha permesso agli studi di affrontare più autonomamente l’argomento delle “im-
magini della Sinagoga”. Anche il rinnovato rigorismo rabbinico che si osserva nelle fonti del
VI secolo – una «vague iconoclaste »: P. Prigent, Le Judaïsme et l’ image, Mohr, Tübingen 1990
(Texte und Studien zum Antiken Judentum 24), 349; cfr. anche 32-35 – non ebbe né la por-
tata né gli esiti dell’iconoclasmo cristiano.
33 Per la distinzione tra aniconismo “di fatto” (l’assenza di immagini) e aniconismo “pro-
grammatico” (la teorizzazione del rifiuto delle immagini), dopo H. Gressmann, Die Lade
Jahves und das Allerheiligste des salomonischen Tempels, Kohlhammer, Berlin - Stuttgart -
Leipzig 1920 (Forschungsinstitute für Religionsgeschichte - Israelitisch-Jüdische Abteilung
5), 67-72 (69: «Mosè non adorava le immagini [verehrte keine Bilder], non perché non gli
fosse permesso, ma semplicemente perché non le aveva »), cfr. K.-H. Bernhardt, Gott und
Bild. Ein Beitrag zur Begründung und Deutung des Bilderverbotes im Alten Testament, Evan-
gelische Verlagsanstalt, Berlin 1956 (Theologische Arbeiten 2), 149; O. Keel, Jahwe-Visio-
nen und Siegelkunst. Eine neue Deutung der Majestätsschilderungen in Jes 6, Ez 1 und 10 und
Sach 4, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1977 (Stuttgarter Bibelstudien 84/85), 44; T.D.N.
Mettinger, Veto on Images and the Aniconic God in Ancient Israel, in H. Biezais (ed.), Reli-
gious Symbols and Their Functions. Based on Papers Read at the Symposium on Religious Sym-
bols and Their Functions, Held at Åbo on the 28th-30th of August 1978, Almqvist & Wik-
sell, Stockholm 1979 (Scripta Instituti Donneriani Aboensis 10), 15-29, qui 22.
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Il difficile bilancio di una storia insigne 109
Mettinger, No Graven Image?, 17-18, si basa sugli studi di V. Turner - E.L.B. Turner, Image
and Pilgrimage in Christian Culture. Anthropological Perspectives, Columbia University Press,
New York 1978 (Lectures on the History of Religions - New Series 11), 235, e di B. Gerhardsson,
The Gospel Tradition, CWK Gleerup, Lund 1986 (Coniectanea Biblica. New Testament Series
15), 15-16; centrale appare la distinzione tra «tradizione programmatica» e «tradizione de facto».
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110 Le matrici di una critica
restringere il campo d’impiego del termine “aniconismo”, suggerendo di ricorrere alla lo-
cuzione di «tendenze aniconiche» là dove non siano documentabili severe condizioni di as-
senza dell’immagine («Culti in cui non esiste una rappresentazione iconica della divinità
[…] che funge da simbolo cultuale dominante o centrale, cioè quando si tratta [a] di un sim-
bolismo aniconico o [b] di un sacro vuoto»: ibidem; cfr. anche C. Renfrew, The Archaeol-
ogy of Cult: The Sanctuary at Phylakopi, The British School of Archaeology at Athens, Lon-
don 1985 [The British School of Archaeology at Athens - Supplementary Volume 18],
22-23).
36 Entrambe le citazioni provengono da J. Gutmann, The “Second Commandment” and
the Image in Judaism, in Hebrew Union College Annual 32 (1961) 161-174, qui 161; cfr. an-
che C. Konikoff, The Second Commandment and Its Interpretation in the Art of Ancient Is-
rael, Journal de Genève, Genève 1973; vedi anche supra, p. 90.
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Il difficile bilancio di una storia insigne 111
Lungo questo solco, gli studi si sono dunque indirizzati verso un ap-
profondimento dello “statuto biblico” sul quale si sarebbe fondato l’asse-
rito aniconismo giudaico ed ebraico, discutendo sia l’originale significato
del secondo comandamento (Es 20,4-5.23; Dt 4,15-19.23; 5,8; cfr. anche
Lv 19,4; 26,1; Dt 27,15) sia la sua efficacia nella prassi cultuale e religio-
sa di Israele 37. Non credo abbia molto senso ripercorrere qui la storia di
queste ricerche: sarebbe dispersivo e, in ogni caso, comporterebbe delle
semplificazioni e delle omissioni. Basti sinteticamente affermare che esse
hanno portato a riconoscere il valore identitario attribuito a questa norma
prototestamentaria 38 e, simultaneamente, a constatarne la moderata effi-
cacia nella prassi religiosa del Tempio e della Sinagoga antichi (cfr. alme-
no Es 25,17-22; 26,31; 31,3.6.11). In altri termini: «La conclusione a cui
inevitabilmente si giunge […] è che un atteggiamento rigidamente e uni-
formemente anti-iconico da parte della cultura giudaica resta un mito
tanto quanto quel letto di Procuste su cui la storia dell’arte ebraica è sta-
ta così spesso costretta a giacere»39.
Soprattutto in relazione a quest’ultimo punto, la ricerca ha potuto
spingersi anche oltre, constatando la simultaneità storica di una teologia
che, per quanto plurale, ha costantemente e fedelmente rilanciato il fermo
divieto di ogni forma di idolatria accanto a una diffusa produzione arti-
stica che, pur senza raggiungere volumi comparabili a quelli cristiani, è
certo sufficiente per testimoniare una disinvolta frequentazione dell’im-
37
Oltre al già menzionato Mettinger, No Graven Image?, mi limito qui a citare H. Knut,
Deuteronomy 4 and the Second Commandment, Peter Lang, New York (NY) 2003 (Studies
in Biblical Literature 60); N. MacDonald, Aniconism in the Old Testament, in R.P. Gordon
(ed.), The God of Israel, Cambridge University Press, Cambridge 2007 (University of Cam-
bridge Oriental Publications 64), 20-34, in part. 31-33; A. Schenker, Das Paradox des israe-
litischen Monotheismus in Dtn 4,15-20. Israels Gott stiftet Religion und Kultbilder der Völker,
in S. Bickel et alii (hrsg.), Bilder als Quellen. Images as Sources: Studies on Ancient Near East-
ern Artefacts and the Bible Inspired by the Work of Othmar Keel, Academic Press Fribourg
- Vandenhoeck & Ruprecht, Fribourg - Göttingen 2007 (Orbis Biblicus et Orientalis Son-
derband - Special volume), 511-528. Per una prima introduzione, mi permetto di rinviare
anche a Pelizzari, Vedere la Parola, 28-33.
38 Cfr. S. Pearce (ed.), The Image and Its Prohibition in Jewish Antiquity, Journal of Jewish
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112 Le matrici di una critica
chlili, Ancient Jewish Art and Archaeology in the Land of Israel, Brill, Leiden et alibi 1988
(Handbuch der Orientalistik. Der Alte Vordere Orient. Abschnitt. Die Denkmäler. Vor-
derasien 4); D. Urman - P.V.M. Flesher (eds.), Ancient Synagogues: Historical Analysis and
Archaeological Discovery, Brill, Leiden - New York (NY) - Köln 1994-1995 (Studia Post-Bi-
blica 47,1-2); R. Hachlili, Ancient Jewish Art and Archaeology in the Diaspora, Brill, Lei-
den - Boston (MA) - Köln 1998 (Handbuch der Orientalistik. Der Nahe und Mittlere
Osten 35).
41 Cfr. a questo proposito il tentativo di ridefinizione della questione proposto da
C. Uehlinger, Beyond “Image Ban” and “Aniconism”: Reconfiguring Ancient Israelite and Early
Jewish Religion\s in a Visual and Material Religion Perspective, in B. Meyer - T. Stordalen (eds.),
Figurations and Sensations of the Unseen in Judaism, Christianity and Islam: Contested Desires,
Bloomsbury, London et alibi 2019 (Bloomsbury Studies in Material Religion), 99-123. Me-
rita di essere segnalata l’osservazione di Bettetini, Contro le immagini, 63, che giustamente at-
tira l’attenzione sulle motivazioni del carattere radicalmente anti-iconico che il testo di Dt
5,7 e Es 20,4 sembra tradire: «Il comando è chiaro ed è sempre stato interpretato dalla cul-
tura ebraica come una proibizione a farsi creatori di cose copiate dalla realtà, per allontanare
la tentazione dell’idolatria, ma anche certamente per non pretendere di imitare l’unico vero
Creatore». Questo secondo aspetto del divieto prototestamentario – non “produrre figure” –
risultò meno efficace del primo – il divieto dell’idolatria –, non impedendo, come già sotto-
lineato, l’ampia diffusione di immagini e simboli nella cultura dell’Israele antico.
42 Ciò vale anche per l’attualità, come efficacemente sintetizza M. Raphael, Judaism and
the Visual Image. A Jewish Theology of Art, Continuum, London - New York (NY) 2009
(Continuum Religious Studies), 19-20: «Il secondo comandamento rimane “significativo
come distintivo dell’identità ebraica” […]. Ma poiché le violazioni del secondo comanda-
mento non provocano più una grande reazione salvo che nelle comunità più ortodosse, Mo-
nica Bohm-Duchen descrive la tradizionale diffidenza ebraica verso l’immagine scolpita co-
me “praticamente obsoleta”. L’interesse intellettuale per il secondo comandamento
potrebbe essere vivo, ma molto meno la sua osservanza » (le citazioni interne sono da M.
Bohm-Duchen, Rebellious Rubies, Precious Rebels, in Ead. - V. Grodzinski [eds.], Rubies and
Rebels: Jewish Female Identity in Contemporary British Art, Lund Humphries, London 1996,
41-59, qui 42; 53). Cfr. anche Y. Feder, The Aniconic Tradition, Deuteronomy 4, and the Pol-
itics of Israelite Identity, in Journal of Biblical Literature 132 (2013) 251-274.
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Il difficile bilancio di una storia insigne 113
damento nelle tradizioni dei giudaismi tardi e dei primi ebraismi rabbi-
nici hanno infine condotto a un vivace dibattito sul simbolismo
dell’“arte” giudaica, ambito nel quale i tredici volumi della monumenta-
le ricerca di Erwin R. Goodenough hanno giocato un ruolo indiscutibi-
le 43. Al di là degli esiti, che qui non importa ripercorrere e che certo sono
incomprimibili in una sintesi unitaria, resta comunque ormai acquisito
il principio che essi hanno stabilito: riconoscere in questa cultura visuale
una spiccata vocazione argomentativa. Le “immagini della Sinagoga”,
infatti, non furono esclusivamente né principalmente fregio e decoro:
furono contenuto e argomento, furono una risorsa lucidamente e scien-
temente impiegata da Israele. Come scrisse Pierre Prigent:
Quest’epoca ‹III-V secolo› è per noi la preziosa testimonianza di una fede
che, senza rinnegare la propria identità ebraica, ha cercato di esprimerla in un
nuovo linguaggio a misura d’uomo, cioè di tutti gli uomini (perché le immagi-
ni superano le barriere linguistiche), e della totalità dell’uomo (perché l’imma-
gine, in rapporto dialettico con il discorso o con il testo, concerne insieme l’in-
telligenza e la sensibilità) 44.
Pantheon, New York (NY) 1953-1968 (poi raccolti in una Abridged Edition a cura di J. Neusner
per i tipi di Princeton University Press, Princeton [NJ] 1988), cfr. i due saggi di Prigent, Le
Judaïsme et l’ image; Id., L’ image dans le Judaïsme. Du IIe au IVe siècle, Labor et Fides, Genève
1991 (Le monde de la Bible 24); cfr. anche S. Fine, Art and Judaism in the Greco-Roman
World: Toward a New Jewish Archaeology, Cambridge University Press, Cambridge - New
York (NY) 2005.
44 Prigent, Le Judaïsme et l’ image, 349.
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V.
1 Per la distanza tra “immagine” e “icona” nella cultura latina, cfr. A. Minazzoli, «Ima-
go» / «icona»: esquisse d’une problématique, in Boespflug - Lossky (éds.), Nicée II, 787-1987,
313-316. Più in generale, per la definizione ideale dello scarto tra questi due nuclei argo-
mentativi, cfr. G. Dagron, Décrire et peindre. Essai sur le portrait iconique, Gallimard, Paris
2007 (Bibliothèque illustrée des histoires), 65-83.
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Per un approccio critico 115
2 «La pittura delle icone è […] la fissazione delle immagini celesti, l’oggettivazione sul-
la tavola del nugolo vivente di testimoni che aleggia attorno al Trono […]. Sono il Nome di
Dio scritto in colori»: P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’ icona, Adelphi, Milano 2021
(Piccola Biblioteca Adelphi 44), 58-59. Cfr. anche Pseudo-Dionigi l’Aeropagita, La gerar-
chia ecclesiastica 4,1. Cfr. anche L. Uspenskij, La teologia dell’ icona. Iconografia e storia, La
Casa di Matriona, Milano 2009.
3 Con questo lemma si intende indicare ogni logos che mira a descrivere la “sophia
Centuries, Brill, Leiden - New York (NY) - Köln 1996 (The Medieval Mediterranean 12), 182.
6 Cfr. Pseudo-Dionigi l’Aeropagita, La gerarchia ecclesiastica 3,7; Id., Circa i nomi divi-
ni 4,7. Cfr. A. Tavolaro, Eikon and Symbolon in the Corpus Dionysiacum: Scriptures and
Sacraments as Aesthetic Categories, in F. Dell’Acqua - E.S. Mainoldi (eds.), Pseudo-Dionysius
and Christian Visual Culture, c. 500-900, Palgrave Macmillan, Cham 2020 (New Approaches
to Byzantine History and Culture), 41-75, in part. 48-51.
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116 Le matrici di una critica
7 «La pittura ha soppiantato la scrittura; vi si ritrova non solo l’espressione più diretta e
autentica delle verità della fede, ma l’unico modo possibile per riconoscere l’esistenza di un
soggetto»: Dagron, Décrire et peindre, 66.
8 Cfr. B.V. Pentcheva, Icons and Power. The Mother of God in Byzantium, The Pennsyl-
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Per un approccio critico 117
«mondo altro». Già nell’Editto di Serdica promulgato da Galerio (30 aprile 311), dove an-
cora si biasima la «tanta stultitia» dei cristiani, si stabilisce che, sancita l’«indulgenza » im-
periale («indulgentia nostra »), i cristiani debbano «pregare il proprio Dio per la prosperità
nostra [di Galerio], dell’impero e loro, affinché ovunque l’impero sia vigoroso e incolume»
(Lattanzio, La morte dei persecutori 34,5; cfr. anche Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica
8,17). La struttura ideale dell’Editto galeriano fornirà poi la base per il successivo Rescritto
milanese di Licinio e Costantino (febbraio 313) che infatti pure vincolò l’erogazione del di-
spositivo imperiale a un obiettivo: «Perché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia,
possa essere pacifica e propizia a noi e a tutti coloro che sono sotto la nostra potestà » (Lat-
tanzio, La morte dei persecutori 48,2).
10 Mi limito a rinviare a R. Cacitti, «L’ immagine del Regno di Cristo». La forgiatura dei
temente investito molto. Sinteticamente si può affermare che l’esito di questa riflessione sia
duplice. Sul piano storico artistico, che qui meno importa, si è compreso che l’“opera” non
si limita a sussistere nella sua fruizione – se la figura è celata smette di esistere; il “setting”
della figura è parte della stessa –, ma da essa viene anche generata (si pensi, per esempio, al-
la distorsione della statua progettata per sovrastare un edificio: se essa viene osservata fron-
talmente parrà sgraziata e goffa; al contrario, quando viene vista nella prospettiva generata
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118 Le matrici di una critica
dalla sua collocazione finale, essa sembra del tutto corrispondente al vero). Sul piano stori-
co culturale e storiografico in senso lato – ed è questa la prospettiva più rilevante per que-
sta ricerca –, si è compreso che le categorie concettuali sollecitate dall’idea di “immagine”,
di “bello” e di “vero” influenzano la visione dell’opera – nel senso che ne pregiudicano la
valutazione e la comprensione – e condizionano l’efficacia con cui quest’ultima sa produr-
re idee e cultura. Se, per rubare all’esegesi neotestamentaria bultmanniana una categoria
critica, si volesse provare a riformulare, credo si potrebbe dire che la mitologia dell’osserva-
tore condiziona la ricezione dell’opera e il modo in cui quest’ultima vive nel tempo.
12 Per questa cronologia alta, vedi infra, pp. 202-237.
13 Richiamo ovviamente le ricerche di D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo
delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Einaudi, Torino 20092 (Piccola Biblioteca Ei-
naudi 474), e di P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino
2014 (Universale Bollati Boringhieri 513). Cfr. anche D. Manconi - F. Catalli (curr.), Le
immagini del potere, il potere delle immagini. L’uso del ritratto ufficiale nel mondo romano da
Cesare ai Severi, F. Fabbri, Perugia 2005; O.D. Cordovana, Segni e immagini del potere tra
antico e tardoantico. I Severi e la provincia Africa proconsularis, Edizioni del Prisma, Cata-
nia 2007 (Testi e studi di storia antica 17).
14 Mansi, 13, 416D.
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Per un approccio critico 119
Mansi, 13, 252C. Il passo è menzionato anche da Florenskij, Le porte regali, 57.
15
Uno degli esiti della controversia iconoclasta fu quello di vincolare ancora più esclu-
16
obiettivo: garantire ai cristiani l’accesso alla contemplazione di Dio. Se, infatti, l’esito del
logos teologico fu la definizione della deità, la sua descrizione per via logica e dialettica, la
figura iconica venne incaricata di raffigurare, di mostrare Dio. Al disvelamento razionale,
alla “vera gnosi” rivelata – ma anche, di necessità, rettamente argomentata –, perseguita tra-
mite la teologia, si associava la visione, la “perfetta bellezza”, essa pure rivelata – si pensi al
fiorire delle leggende sull’acheropitia delle prime icone, al loro essere realizzate da autori
ispirati (tra tutti, Luca, in un’evidente corrispondenza tra la sua attività letteraria, in quan-
to evangelista, e pittorica) o miracolosamente da Dio stesso –, ed essa pure bisognosa di una
rigorosa disciplina di santità, garantita dall’icona. Sull’acheropitia (letteralmente il “non es-
sere fatto da mano [d’uomo]”) delle prime immagini iconiche, meritano di essere menzio-
nate almeno le leggende sul santo volto del mandilio (“sudario”) di Kamulia e su quello di
Edessa, riconducibili entrambe al VI secolo, e quelle, coeve, relative alla raffigurazione del-
la Vergine con il Cristo bambino sulle ginocchia (da cui poi deriverà il tipo della Vergine
Odighitria – dal monastero di Hodigoi – o “di san Luca”, che rappresenta la Vergine con il
Cristo bambino in braccio). Sul tema, cfr. A. Monaci Castagno (cur.), Sacre impronte e og-
getti “non fatti da mano d’uomo” nelle religioni. Atti del Convegno Internazionale: Torino, 18-20
maggio 2010, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2011 (Collana di Studi del Centro di Scien-
ze Religiose 2), con particolare riferimento al contributo, ivi raccolto, di E. Brunet, Le ico-
ne acheropite a Nicea II e nei Libri Carolini, 201-230.
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120 Le matrici di una critica
Lattanzio, La morte dei persecutori 48,7. La sezione si estende, per ciò che interessa
19
stianorum» insiste sul valore di corpus quale “corpo aggregato”, nel senso corporativo di “ag-
gregato di persone”.
21 Lattanzio, La morte dei persecutori 48,9.
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Per un approccio critico 121
b. Un’iconografia cristiano-imperiale
Mentre questo processo di clericalizzazione della cultura visuale cri-
stiana si affermava, l’imperializzazione del “linguaggio artistico” cristia-
no procedette lungo tre traiettorie:
leia. Qui l’epigrafe commemorativa del vescovo Teodoro di Aquileia, che celebrava il ter-
mine della stesura dei mosaici del pavimento dell’aula Sud, recitava: «THEODORE FELI[X]
| [AD]DIVANTE DEO OMNIPOTENTE ET | POEMNIO CAELITUS TIBI | [TRA]DITUM OMNIA |
[B]AEATE FECISTI ET | GLORIOSE DEDICAS|TI ». Il testo, che può essere tradotto con: «O Teo-
doro Felice, avendoti assistito Dio onnipotente e la mandria che dal cielo ti era stata con-
segnata, hai compiuto tutto santamente e lo hai dedicato con gloria », presenta diverse pe-
culiarità. La prima è la mancata coordinazione della declinazione del participio perfetto
[TRA]DITUM con il sostantivo POEMNIO, «per evidenziare il genere neutro di POEMNIO,
necessario per indicare una mandria mista di animali diversi, in luogo del gregge omoge-
neo» (G. Pelizzari, Il Pastore ad Aquileia. La trascrizione musiva della catechesi catecume-
nale nella cattedrale di Teodoro, Glesie Furlane, Udine 2008 [Trois 4], 119, che riprende
R. Iacumin, Le porte della salvezza. Gnosticismo alessandrino e Grande Chiesa nei mosaici
delle prime comunità cristiane. Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Ga-
spari, Udine 2000, 132): la Chiesa di Teodoro, in altri termini, si pone oltre i criteri di pu-
rità prototestamentari, non proviene più da un solo popolo (cfr., con lo stesso significato,
At 10,9-28). In secondo luogo, «nel testo epigrafico si legge… che il poemnium Theodori
risulta sì traditum Theodoro (caelitus), ma allo stesso tempo anche che è eum adiuvans se-
condo una sintassi che accosta paratatticamente il soccorso dell’Onnipotente a quello del
popolo aquileiese (adiuvante Deo et poemnio)» (Pelizzari, Il Pastore ad Aquileia, 120). In-
fine, lo stesso lemma CAELITUS credo sia qui impiegato con particolare oculatezza, per sot-
tolinearne la valenza religiosa di contro all’abituale impiego giuridico che con questo av-
verbio intendeva sottolineare la provenienza imperiale (cfr. Codice Teodosiano 6,32,2;
10,20,16): la basilica aquileiese, insomma, è provenuta a quella Chiesa da Dio e dal suo
popolo, quest’ultimo consegnato al vescovo Teodoro dal (vero) cielo, quello in cui si pre-
para il Regno.
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122 Le matrici di una critica
23 T.F. Mathews, Scontro di Dei. Una reinterpretazione dell’arte paleocristiana, Jaca Book,
Milano 2005 (Di fronte e attraverso 646 - Storia dell’arte 28), 11.
24 Cfr. F. Bisconti, Sull’unità del linguaggio biblico nella pittura cimiteriale romana, in
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Per un approccio critico 123
25 A. Grabar, Christian Iconography. A Study of Its Origins. The A.W. Mellon Lectures in
the Fine Arts, 1961, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1968 (Bollingen series XXXV
10), 41; cfr. anche Jensen, Understanding Early Christian Art, 98-103, che propone efficace-
mente la dialettica tra il «Cristo imperiale» del IV secolo e il «Gesù umano» della più an-
tica tradizione visuale cristiana.
26 P. Testini, «Basilica», «domus ecclesiae» e aule teodoriane di Aquileia, in Aquileia nel
IV secolo, Arti Grafiche Friulane, Udine 1982 (Antichità Altoadriatiche 22), 2, 368-398,
qui 372. Cfr. anche L. Crippa (cur.), La basilica cristiana nei testi dei Padri dal II al IV seco-
lo, LEV, Città del Vaticano 2003 (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 32).
27 Testini, «Basilica», 375.
28 Testini, «Basilica», 373.
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124 Le matrici di una critica
29 J. Elsner, Art and the Roman Viewer. The Transformation of Art from the Pagan World
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30 In altri termini, l’“opera” e il suo valore non si identificano di per sé, in una sorta di
a priori; la finalità di un’“opera”, la sua dislocazione, la sua storia d’uso, il tempo in cui è
osservata e l’osservatore medesimo (con la sua cultura, visuale e non, le sue aspettative, le
sue capacità ecc.) sono tutte variabili, insieme a molte altre ancora, che concorrono a defi-
nire, di volta in volta, il valore di un’“opera d’arte”. La proposta di Jaś Elsner è di cogliere
il significato del documento visuale entro questo spazio più ampio, a partire dalla relazio-
ne fondamentale tra “opera” e osservatore.
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126 Le matrici di una critica
Figura 5: l’omaggio dei Magi a Maria. Pittura dell’arcone divisorio della “Cap-
pella greca”, Catacomba di Priscilla, Roma (Nestori, Pri39). Si tratta di una pit-
tura generalmente datata tra 230 e 250 (cfr. R. Giuliani, Il complesso di Priscil-
la, in F. Bisconti - R. Giuliani - B. Mazzei, La catacomba di Priscilla. Il
complesso, i restauri, il museo, Tau, Todi 2013 [Ricerche di Archeologia e Anti-
31 Entro la vastissima bibliografia dedicata all’iconografia dei Magi, credo si possano pre-
liminarmente segnalare gli studi di F. Cumont, L’adoration des Mages et l’art triomphal de Ro-
me, in Memorie della Pontificia Accademia Romana di Archeologia 3 (1932-1933) 81-105; C.
Pietri, Imago Mariae. Les origines, in Id., Christiana respublica. Éléments d’une enquête sur le
christianisme antique, École Française de Rome, Roma 1997 (Publications de l’École Fran-
çaise de Rome 234) 1391-1403 (= Imago Mariae: le origini, in Tesori d’arte della civiltà cristia-
na, Roma 1989, 1-6), qui 1395. Volentieri rinvio anche alla ricca voce di F.P. Massara, s.v.
«Magi», in Bisconti (cur.), Temi, 205-211. Da qui in poi, in assenza della specificazione di
provenienza dell’immagine riportata in figura, si intenda che è china realizzata dall’autore.
32 J. Dresken-Weiland, Immagine e parola. Alle origini dell’ iconografia cristiana, LEV,
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Per un approccio critico 127
chità Cristiane 6], 3-36, qui 19, e, per la bibliografia fondamentale, ivi, nota
52). Si distinguono facilmente le sagome dei diversi personaggi, mentre la mag-
gior parte dei dettagli pittorici è ormai difficile da cogliere. Colpisce la marca-
ta monocromia delle tre figure degli offerenti: il primo è realizzato in gamma
di bianchi, il secondo in scala di rossi, il terzo in modulazione di verdi. Non è
facile comprendere le ragioni di questa scelta peculiare: potrebbe costituire un
richiamo obliquo ad Apocalisse, dove bianco, rosso e verde sono i colori più
attestati (cfr. U. Vanni, L’Apocalisse, ermeneutica esegesi teologia, EDB, Bologna
1988 [Supplementi alla Rivista Biblica 17], 49). Il senso di un simile accosta-
mento tra l’omaggio dei Magi e il tracollo apocalittico andrebbe ricercato in un
coerente intervento esegetico sul testo matteano (Mt 2,1-12). Già nel primo
canonico la nascita di Gesù viene descritta quale prefigurazione della regalità
escatologica del Messia, come testimoniano due indizi eloquenti:
1. l’appellativo di «re dei Giudei» (2,2) che, tolta quest’unica attestazione, è
impiegato esclusivamente nel ciclo della passione (Mc 15,2.9.12.18.26; Mt
27,11.29.37; Lc 23,3.37-38; Gv 18,33.39; 19,3.19.21), là dove si descrive l’o-
ra dell’immolazione-esaltazione del Cristo;
2. la filigrana dell’«oracolo di Balaam» (Nm 24,15-19, in part. 24,17; cfr. E.R.
Brown, La nascita del Messia secondo Matteo e Luca, Cittadella, Assisi 20022,
246-255) che, sciolto dal suo originario riferimento davidico, veniva impie-
gato correntemente nel giudaismo del secondo tempio coevo a Gesù in fun-
zione escatologica (cfr. 4QTest 11-13; 1QM 11,6; si pensi all’appellativo di
«Bar-Kochba [figlio della stella]» che Simone trasse, in chiave messianica,
da Nm 24,17, allorché si pose alla testa della grande insurrezione antiroma-
na del 132; per uno status quaestionis, cfr. H. Eshel, The Bar Kochba Revolt,
132-135, in S.T. Katz [ed.], The Cambridge History of Judaism, 4: The Late
Roman-Rabbinic Period, Cambridge University Press, Cambridge et alibi
2006, 105-127, in part. 109, note 20-22).
Ulteriore elemento coerente all’ipotesi di questo intento ermeneutico per la raf-
figurazione dei Magi della “Cappella greca” proviene dalla presenza, sempre
nella regione dell’“Arenario centrale” della Catacomba di Priscilla, del celebre
“Nicchione della Virgo lactans”, datato abitualmente tra 230 e 250 (Nestori,
Pri10; cfr. F. Bisconti, La Madonna di Priscilla. Interventi di restauro ed ipotesi
sulla dinamica decorativa, in Rivista di Archeologia Cristiana 72 [1996] 7-34;
C.C. Taylor, Painted Veneration: The Priscilla Catacomb Annunciation and the
Protoevangelion of James as Precedents for Late Antique Annunciation Iconography,
in M. Vinzent [ed.], SP 59,7, 21-37, qui 31-33, propone una datazione ben più
risalente, sino al II secolo). In quest’ultima pittura, accanto a Maria che allatta,
si osserva proprio Balaam profetizzare la stella, in una sintesi ermeneutica che
accosta Nm 24,17 al neonato Gesù. In questi due casi, dunque, l’argomento
della nascita di Gesù verrebbe risolto iconograficamente attraverso l’enfatizza-
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128 Le matrici di una critica
Sin dal suo primo manifestarsi, poi, i caratteri formali di questo tema
iconografico si presentano già consolidati, come dimostra l’ampia docu-
mentazione visuale che attesta la costanza della resa iconografica di que-
sta scena in ambito sia pittorico sia epigrafico sia plastico.
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secolo da Giustino, Dialogo con Trifone 100,5-6 («Eva […] generò […] la ribel-
lione e la morte, Maria […] la fede e la gioia»), si interseca qui con il tema del-
la regalità escatologica del Cristo. La tensione ermeneutica sottesa tra le due
donne non si limita dunque a raffigurare genericamente il passaggio dall’eco-
nomia della caduta a quella della reintegrazione, ma insiste piuttosto sul pas-
saggio dalla storia, inaugurata con la caduta genesiaca, al Regno, inteso come
tempo escatologico della ricapitolazione (si pensi allo sviluppo caratteristico che
il collegamento teoretico di protologia ed escatologia ricevette nella teologia di
Ireneo di Lione, che proprio su questo nesso costituì il teologumeno dell’anake-
phalaiōsis, “ricapitolazione”: cfr. almeno M.C. Steenberg, Irenaeus on Creation.
The Cosmic Christ and the Saga of Redemption, Brill, Leiden 2008 [Supplemen-
ts to vigiliae christianae 91], 49-60).
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134 Le matrici di una critica
Figura 11: i Magi di fronte alla maestà di Maria e del Cristo bambino. Mosai-
co, Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna. Il pannello raffigurato in china proviene
da una delle sezioni di mosaico di Sant’Apollinare Nuovo riallestite dopo la
conquista giustinianea della civitas (540) e la conseguente attribuzione alla co-
munità nicena di tutte le chiese ariane della città (tra cui questa, già chiesa pa-
latina di Teodorico dedicata a “Nostro Signore Gesù Cristo”, poi, con l’assegna-
zione ai niceni, chiesa di San Martino in Ciel d’Oro e, solo a partire dall’856,
dalla traslazione cioè delle spoglie di Apollinare dall’omonima chiesa del porto
di Classe, Sant’Apollinare Nuovo). Dei tre registri di cui si componeva la son-
tuosa decorazione della navata centrale della chiesa teodoriciana, per certo solo
il terzo e più basso venne riformulato in parte, dando vita alle due celebri pro-
cessioni, convenzionalmente dette di “martiri” e di “vergini” (ma se da una
parte non si trovano solo “martiri” – si pensi a Martino di Tours –, dall’altra non
si susseguono solo figure di sante vergini: numerose sono anche le martiri, tra
cui Perpetua, che pure partorì in carcere). Una splendida descrizione di questi
mosaici e del loro sviluppo iconografico è fornita da D. Mauskopf Deliyannis,
Ravenna in Late Antiquity, Cambridge University Press, Cambridge et alibi
2010, 152-174, in part. 158-160 e 171-172; inoltre, all’indirizzo https://mostre-
virtuali.uniroma1.it/mostra/restaurimusiviravenna/it/10/santapollinare-nuovo
(consultato il 7 gennaio 2022) è possibile osservare dettagliatamente la storia
di tutti gli interventi su questi cicli musivi, dalla prima stesura sino al XX se-
colo. Senza volere ripercorrere qui la dettagliata disamina di Deborah Mauskopf
Deliyannis, basterà forse segnalare che le due teorie si situano all’intersezione
ideale tra la liturgia celeste – che prefigurano, tramite il contesto paradisiaco,
lo sfondo dorato e l’abbigliamento opulento – e la liturgia terrena – che accom-
pagnavano e assumevano su di sé, come perspicuamente osserva anche Mau-
skopf Deliyannis, Ravenna, 170: «Lo stesso Agnello [Liber pontificalis ravenna-
te 23; 36; 67] richiama l’attenzione sul fatto che tradizionalmente il lato
meridionale di una chiesa […] era dove stavano gli uomini, mentre il lato set-
tentrionale […] era destinato alle donne. Così, le processioni dei santi e delle
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136 Le matrici di una critica
Sin dal suo primo apparire, la raffigurazione di questa scena assunse colori-
ture escatologiche, capaci di enfatizzare questa specifica connotazione teolo-
gica dell’episodio, già propria della narrazione matteana. La storia della tra-
dizione visuale dell’epifania ai Magi fu dunque del tutto congruente
all’intenzione del testo evangelico, da cui prendeva le mosse e nel quale rico-
nosceva ora una ricapitolazione finale della caduta protologica (la trasgressio-
ne di Adamo ed Eva), ora un anticipo del compimento finale e ora, più gene-
ricamente, una professione della regalità del Cristo. Se questi due dati hanno
valore – la preferenza giustinianea per questi personaggi e la loro correlazione al-
la maestà di Maria e del Cristo bambino –, a Sant’Apollinare Nuovo andreb-
bero osservati non già i tre Magi mentre guidano le sante sino al gruppo ma-
riano della maestà, ma un’ulteriore riformulazione del carattere escatologico
di Mt 2,1-12. In questo strepitoso pannello musivo, in altri termini, il rac-
conto del primo canonico sarebbe già traslato nel suo significato escatologico:
le offerte dei Magi non rappresentano la cronaca di uno struggente episodio,
ma il riconoscimento della regalità messianica – e perciò escatologica – del
Cristo. Di conseguenza, ripristinando l’unità della scena dell’epifania di
Sant’Apollinare Nuovo, sarebbe piuttosto Eufemia – la prima della processio-
ne di sante, la martire che compì il miracolo risolutore del concilio di Calce-
donia – a guidare le donne della teoria femminile. Si dirà che questa ipotesi
di lettura viola la simmetria tra le due processioni (quella maschile e quella
femminile), ma è piuttosto la presenza dei Magi a violare lo schema, dal mo-
mento che, comunque li si voglia correlare (alle sante che li seguono o al grup-
po della maestà a quale si rivolgono), questi tre personaggi non hanno un
corrispondente iconico nella serie dei santi.
Figura 12: Maria in trono ostende Gesù bambino, ricevendo l’omaggio dei Ma-
gi. Particolare dai resti di un ambone monumentale, a pianta geminata, in mar-
mo, conservato ora presso il National Museum of Istanbul, proveniente dalla
“basilica della rotonda” di Tessalonica. Ricondotto in origine a un’epoca di po-
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Ciò che emerge dal confronto di questi due documenti visuali – le raffigura-
zioni dell’epifania ai Magi di Sant’Apollinare Nuovo e dell’ambone di Tessa-
lonica – è l’attestarsi di uno “spazio d’intersezione” tra il tema iconografico
dell’omaggio dei Magi e quello delle maestà mariane che preludono alla storia
dell’icona.
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dire il “nesso ermeneutico” tra l’episodio del ciclo dell’infanzia matteano e l’ico-
na della maestà mariana, provvede su questa medaglia aurea la fedele replica-
zione degli stessi marcatori iconografici nella figura superiore, tra gli angeli, e,
nella figura più piccola, nella scena dell’omaggio dei Magi.
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lità tra quella riscrittura della scena dell’omaggio reso dai Magi e queste prime
formalizzazioni visuali di maestà mariane. Si tenga, per altro, presente che, se si
accetta quanto osservato da M. Guj, s.v. «Nimbo», in Bisconti (cur.), Temi, 230-
231, qui 230, secondo la quale «nella figura di Maria il nimbo è applicato in
modo limitato sino a tutto il V secolo», sarà forse possibile anticipare alla fine del
V secolo il pannello di Adria, facendone una delle più significative e precoci at-
testazioni di questo tipo mariano.
Si noti che fu il concilio di Efeso del 431 a scegliere proprio il tema della generazio-
33
ne di Gesù per affermare la piena divinità del Logos, attraverso l’“espediente” mariano in
ragione del principio della communicatio idiomatum: «La piena umanità di Gesù, unita all’i-
postasi divina, è generata dalla Vergine; il titolo [di Theotokos] stabilisce un fondamento on-
tologico per l’incarnazione e una garanzia soteriologica per il destino dell’umanità. […] Il
concilio di Efeso ha […] stabilito un presupposto fondamentale: Gesù, il Cristo, è l’uma-
nizzazione di Dio e la Theotokos ne è garanzia » (A. Gila, Maria nelle origini cristiane. Pro-
filo storico della mariologia patristica, Paoline, Milano 2017 [Spiritualità del quotidiano],
150). Si può dunque osservare un interessante parallelismo nella storia della documentazio-
ne visuale cristiana antica: anche qui, per significare il passaggio a una nuova cognizione di
Maria – sollecitato da un rafforzamento ulteriore della cristologia –, si scelse di operare sul
ciclo della natività e, ancor più specificamente, sull’episodio al quale la narrazione evange-
lica ha attribuito il compito di illustrare il momento in cui tutte le genti riconoscevano nel
neonato il Re dell’Universo, Cristo in vista del Regno.
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re” e l’ideale dell’immagine che gli si dispiegava dinanzi. Per quanto ri-
guarda la disamina che qui si conduce, questa rivoluzione determinò la
fine di una stagione – la prima, quella delle “immagini ermeneutiche” –,
e l’avvio di una nuova epoca, quella dell’icona. Non si può immaginare
di transitare entro le due epoche che questa soglia distingue impiegando
i medesimi criteri analitici e le medesime categorie interpretative.
Si badi: tale avvertenza non è valida solo da un punto di vista stori-
co-artistico (o storico dello stile, delle tecniche d’arte ecc.). Altro furono,
infatti, anche sul piano concettuale, l’immagine paleocristiana, il suo
“funzionamento”, le sue finalità e il suo “statuto storico”, altro furono
l’icona, il suo ideale e la sua definizione teoretica. In altri termini: i di-
battiti, i concili, le dispute che attorno all’icona si animarono non possono
costituire, in negativo o in positivo, il filtro critico per cogliere il signifi-
cato della cultura visuale paleocristiana. Si tratterebbe di una pericolosa
retroproiezione di categorie e di una(un) “idea(le) dell’immagine” del
tutto antistorica.
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L’APPROCCIO ERMENEUTICO.
L’“ARTE PALEOCRISTIANA”
COME SVILUPPO STORICO
DELL’ESEGESI CRISTIANA ANTICA
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I.
Come si vedrà (vedi infra, pp. 276-281), nel mondo romano-imperiale l’immagine ave-
1
va il compito di veicolare l’affermazione di sé, del proprio status e delle proprie idee. In que-
sta più ampia prospettiva rientra anche la funzione decorativa dell’immagine, nell’accezione
etimologica del termine che, risalendo al decus romano, implica sia l’idea dell’ornamento
sia quella della dignità (politica, sociale, familiare e personale). In questo senso, l’immagi-
ne cristiana si rivelò, come si vedrà, uno strumento di grande efficacia.
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146 L’approccio ermeneutico
2 L’onere di una discussione metodologica è ciò che segna il passaggio dalla compren-
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Una diversa prospettiva critica 147
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148 L’approccio ermeneutico
3 Impiega questa categoria già E. Dassmann, Sündenvergebung durch Taufe, Buße und Mar-
rativa romana del III secolo, in Annali di Storia dell’Esegesi 7 (1990) 455-466, qui 457.
5 Ricupero in parte l’ipotesi di un «approccio tipologico (typologischer Ansatz)» che R.
più antica cultura visuale cristiana, da K. Künstle, Ikonographie der christlichen Kunst, 1:
Prinzipienlehre / Hilfsmotive Offenbarungstatsachen, Herder, Freiburg im Breisgau 1928, 13.
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Una diversa prospettiva critica 149
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150 L’approccio ermeneutico
1. LA TIPOLOGIA
«Queste cose, per la verità, accadevano a loro in tipologia (typikōs);
furono scritte poi per nostra intelligenza, noi per i quali la fine dei tempi
è giunta» (1Cor 10,11).
Sono state proposte molte definizioni di tipologia. Benché non sia
questa la sede per tentare uno status quaestionis 7, se si volesse provare
almeno a elaborare una sintesi, se pure essa è possibile, si dovrebbe clas-
sificare come tipologia quel meccanismo esegetico che correla sul piano
della verità due racconti “biblici” che, per i cristiani 8, provengono l’uno
dall’economia prototestamentaria (“tipo” o “figurante”), l’altro dal tem-
po che il Cristo ha inaugurato (“antitipo” o “figurato”)9. È importante
osservare che alla base della tipologia non vi è l’elaborazione di una cor-
7 Un bilancio ancora efficace mi pare sia quello offerto da R.M. Davidson, Typology in
mentre il tipo è sempre tratto dalle Scritture, l’antitipo può essere riconosciuto tanto nelle
diverse raccolte neotestamentarie quanto nella vicenda storica delle comunità cristiane. Sarà
il caso, per limitarsi a un solo esempio, della vicenda del martirio, nella quale verrà ricono-
sciuto l’antitipo dei tre ebrei nella fornace, di Daniele nella fossa dei leoni ecc.; cfr. J.W. Sa-
lomonson, Voluptatem spectandi non perdat sed mutet. Observations sur l’Iconographie du
martyre en Afrique Romaine, North-Holland Publishing Company, Amsterdam - Oxford -
New York (NY) 1979 (Koninklijke Nederlandse Akademie van Wetenschappen Verhand-
lingen Afdeling Letterkunde 98); C. Valenti, “Vetera fidei exempla”. La teologia del mar-
tirio nell’esegesi dell’ iconografia paleocristiana, M.A. Diss., Milano a.a. 2011-2012. Sul
lessico di typos (e antitypos) in antico, cfr. K.-H. Ostmeyer, Typos: weder Urbild noch Ab-
bild, in R. Zimmermann - H.-G. Gadamer (hrsg.), Bildersprache verstehen: zur Hermeneu-
tik der Metapher und anderer bildlicher Sprachformen, Fink, München 2000, 215-236; Id.,
Typologie und Typos: Analyse eines schwierigen Verhältnisses, in New Testament Studies 46
(2000) 112-131.
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Una diversa prospettiva critica 151
relazione sul piano dell’ immagine 10 (non si considera, cioè, il nesso tra i
diversi episodi come un apporto creativo istituito dall’esegeta), ma, per
l’appunto, la constatazione di un legame sul piano della verità: gli episodi
dell’antica economia ricevono in quelli della nuova la propria conclusio-
ne; questi ultimi, a loro volta, traggono il proprio principio in quegli
eventi antichi che accaddero preordinatamente ad essi11. Sussiste, in altri
termini, la convinzione dell’esegeta di non conferire alcun contenuto al
testo, ma di limitarsi a riconoscere l’unitarietà della storia della salvezza,
ormai giunta in prossimità del suo compimento escatologico12.
Dal nuovo evento – la predicazione, la morte e la risurrezione di Gesù – si
sviluppò una maniera di intendere l’Antico Testamento che differiva radical-
mente da quella del giudaismo […]. L’Antico Testamento non era più letto sot-
to l’aspetto esclusivo della legge, ma in prospettiva storico-salvifica; si vedeva,
cioè, nell’Antico Testamento una rivelazione divina precorritrice dell’apparizio-
ne di Cristo, rivelazione che si risolveva interamente in un preannuncio della
venuta del Signore13.
10 Con “immagine” si intendono qui le figure retoriche di senso e di pensiero, tra le qua-
li soprattutto l’analogia. Dire che Gesù è l’antitipo di Adamo, in altri termini, non si limi-
ta a constatare dei parallelismi di funzioni, di ruolo, di valore tra quanto accadde ad Ada-
mo e ciò che si è compiuto per mezzo del Cristo; significa bensì affermare che la vicenda di
Adamo si è pienamente compiuta solo in quella di Gesù Cristo e che l’incarnazione del Lo-
gos ha le sue radici negli accadimenti protologici.
11 Una convincente analisi del meccanismo tipologico è stata effettuata da P.J. Cahill,
damentale la convinzione di essere giunti alla fine dei tempi (cfr. 1Cor 10,11). L’avvento del
Regno, infatti, è quella variabile che sia sul piano teologico sia sul piano logico permette di
cogliere del tutto il disegno provvidenziale della salvezza.
13 G. von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, 2: Teologia delle tradizioni profetiche di
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152 L’approccio ermeneutico
Cfr. almeno D. Stern, Rhetoric and Midrash: The Case of the Mashal, in Prooftexts 1
16
(1981) 261-291; I.B. Gottlieb, Mashal le-Melekh: The Search for Solomon, in Hebrew Studies
51 (2010) 107-127. Va in ogni caso ricordato che, secondo una felice definizione di Cahill,
Hermeneutical Implications, 269, la tipologia è un «atto poetico di ermeneutica ( poetic herme-
neutic act)», non un codice interpretativo formalmente normato da un disciplinare stabilito.
17 Su questa tipologia, cfr. le diverse opinioni di O. Davidsen, Adam-Christ Typology in
sma») rende assai complesso coglierne e restituirne esattamente il senso. Sulla scorta di P.J.
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Una diversa prospettiva critica 153
Sulla scia di Paolo ci riportano […] 1 Petr. 3,21 […] e soprattutto lo Ps.
Barnaba. Il suo paolinismo radicale lo ha portato a sviluppare l’embrionale ti-
pologia paolina […]: e in questo contesto […] il termine di gran lunga predilet-
to è typos, adoperato con valenza ormai tecnica […]. Il termine era destinato ad
acclimatarsi nella tradizione cristiana soprattutto in forza dell’ampio uso che di
esso avrebbero fatto gli scrittori dell’ambiente asiatico (Giustino, Melitone, Ire-
neo, Ippolito)20.
Achtemeier, La prima lettera di Pietro, LEV, Città del Vaticano 2004 (Letture bibliche 18),
445-455, considero sia antitypon sia baptisma apposizioni dell’ho introduttivo, pronome neu-
tro singolare che si può riferire o all’intera evocazione del diluvio noachico di 1Pt 3,20 o al-
la sola menzione dell’acqua (come giustamente Achtemeier, La prima lettera di Pietro, 446,
suggerisce in accordo a N. Brox, Der erste Petrusbrief, Benzinger - Neukirchener, Zürich -
Neukirchen-Vluyn 1979 [Evangelisch-Katholischer Kommentar zum Neuen Testament 21],
177) che chiude quel versetto, precedendo immediatamente il v. 21. Sarebbe stato dunque
più accurato proporre: «Il che, ‹come› antitipo (antitypon), ora salva anche voi ‹come› batte-
simo», ma questa formulazione avrebbe forse reso la lettura del testo malagevole.
20 M. Simonetti, Sul significato di alcuni termini tecnici nella letteratura esegetica greca,
in La terminologia esegetica nell’antichità. Atti del Primo Seminario di antichità cristiane. Ba-
ri, 25 ottobre 1984, Edipuglia, Bari 1987 (Quaderni di «Vetera Christianorum» 20), 25-58,
qui 28.
21 Non può stupire questa precoce definizione della prassi ermeneutica in seno alle co-
munità cristiane; significativamente Lc 24,27 identifica, come noto, nel risorto il primo er-
meneuta cristiano; cfr. R. Marlé, Il problema teologico dell’ermeneutica, Queriniana, Brescia
1968 (Giornale di teologia 24), 13-16.
22 Mi limito a segnalare i contributi di J. Daniélou, Sacramentum futuri. Études sur les ori-
gines de la typologie biblique, Beauchesne, Paris 1950 (Études de Théologie Historique); Id.,
Études d’exégèse judéo-chrétienne (Les Testimonia), Beauchesne, Paris 1966 (Théologie Histo-
rique 5); M. Simonetti, Profilo storico dell’esegesi patristica, Augustinianum, Roma 1981 (Sus-
sidi patristici 1); Id., Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, Augu-
stinianum, Roma 1985 (Studia Ephemeridis Augustinianum 23); E. Norelli (cur.), La Bibbia
nell’antichità cristiana, 1: Da Gesù a Origene, EDB, Bologna 1993 (La Bibbia nella storia 15,1).
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154 L’approccio ermeneutico
«discepoli del Signore», d’altra parte, è certo che essa non sia stata l’uni-
ca e che, con l’affermarsi della lezione origeniana, a partire dal III secolo,
gli approcci anche più spericolatamente allegorici ai testi biblici finirono
per prevalere. Si impone, pertanto, con naturalezza la domanda circa lo
spazio storico nel quale collocare l’ipotesi di un’influenza così aperta e
caratteristica della tipologia sulla prima cultura visuale cristiana.
Se, per un verso, si può affermare che la tipologia stia all’origine stessa
dei più antichi scritti cristiani, tra i quali spiccano quei testi che verranno
poi considerati canonici, per altro verso si deve anche osservare che l’ap-
proccio tipologico governò sin da subito le modalità dell’impiego delle
Scritture nel culto cristiano. Già nel racconto lucano dei discepoli di Em-
maus, sulla genesi della cui struttura influì la prassi cultuale cristiana del-
le origini 23, Gesù si incarica di un’autentica ermeneutica tipologica 24: «E
cominciando da Mosè e da tutti i profeti fu ermeneuta per loro (diermē-
neusen autois) di ciò che, in tutte le Scritture, lo riguardava» (Lc 24,27).
La stessa organizzazione del lezionario25, che si compone struttural-
mente attraverso la giustapposizione di testimonia prototestamentari ai
F. Bovon, Luca, 3: Commento a 19,28 - 24,53, Paideia, Brescia 2013 (Commentario Paideia.
Nuovo Testamento 3,3), 545-550. Sull’influenza del culto paleocristiano sulla genesi di
questo racconto, cfr. R. Orlett, An Influence of the Early Liturgy upon the Emmaus Account,
in Catholic Biblical Quarterly 21 (1959) 212-219; A.A. Just, The Ongoing Feast: Table Fel-
lowship and Eschatology at Emmaus, Liturgical Press, Collegeville (MI) 1993; C. Grappe,
Au croisement des lectures et aux origines du repas communautaire. Le récit des pèlerins d’Em-
maüs, Luc 24,13-35, in Études théologiques et religieuses 73 (1998) 491-501.
24 La matrice tipologica dell’esegesi gesuana nel Vangelo di Luca è esplicitamente affer-
mata da D.S. Russel, Dal primo giudaismo alla chiesa delle origini, Paideia, Brescia 1991 (Stu-
di biblici 96), 78-79; D. Mirizzi, Il Gesù-esegeta di Luca. Analisi narrativa di brani scelti, Cit-
tadella, Assisi 2016 (Studi e ricerche. Sezione biblica). Su Gesù come «grande ermeneuta »,
cfr. G. Gusdorf, Storia dell’ermeneutica, Laterza, Roma - Bari 1989 (Manuali Laterza 7),
47-48.
25 Cfr. A.-G. Martimort, Les lectures liturgiques et leurs livres, Brepols, Turnhout 1992
(Typologie des Sources du Moyen Âge Occidental 64); E. Palazzo, A History of Liturgical
Books from the Beginning to the Thirteenth Century, Liturgical Press, Collegeville (MN) 1998,
83-105; M. Metzger, L’Église dans l’Empire Romain. Le culte, 1: Les institutions, Pontificio
Ateneo S. Anselmo, Roma 2015 (Studia Anselmiana 163 - Analecta liturgica 33), 143-146;
R. Tichý, Proclamation de l’Évangile dans la Messe en Occident. Ritualité, histoire, comparai-
son, théologie, Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma 2016 (Studia Anselmiana 168 - Ana-
lecta liturgica 34), 62-69.
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Una diversa prospettiva critica 155
342-378, qui 360-362. Cfr. anche G. Pelizzari, Manifestos of the Kingdom. Early Christian
Iconography and Biblical Hermeneutics. A New Methodological Approach, in A. Eusterschulte -
I. Helffenstein - C. Reufer (hrsg.), Figurales Wissen. Medialität, Ästhetik und Materialität
von Wissen in der Vormoderne, Harrassowitz, Wiesbaden c.d.s. (Episteme in Bewegung. Beiträge
zu einer transdisziplinären Wissensgeschichte 17).
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156 L’approccio ermeneutico
I primi cristiani, i quali assunsero per le loro cene l’usanza dello shabbat
ebraico di leggere pagine della Legge e dei Profeti, ben presto aggiunsero ad
esse le pericopi dagli scritti degli Apostoli e dei Vangeli: questa prassi – che
si costituì quale pesher cristiano attraverso testimonianze selezionate e fatte
sedimentare entro la coscienza identitaria delle diverse Chiese – diede vita,
tramite un processo spontaneo, corale e non preordinato, ai lezionari 27.
L’«approccio ermeneutico», dunque, senza presupporre la dipendenza
della più antica tradizione visuale cristiana dalla cultura ermeneutica di
certi autori, la riscatta dal pregiudizio che essa si limiti a illustrare dei testi,
fossero essi pure le Scritture (o i lezionari), rivendicando al contrario la con-
tinuità di questa fonte documentaria con il modo di leggere, interpretare e
impiegare le Scritture che caratterizzava la prassi liturgica di tutte le comu-
nità antiche.
Figura 17: confronto tra l’impiego liturgico dei materiali biblici e quello della
prima cultura visuale cristiana. Schema riassuntivo. La tabella riportata offre i
realia fondamentali per la costituzione teoretica dell’«approccio ermeneutico».
In esso gli elementi di continuità tra prassi liturgica e sintassi iconografica ven-
gono assunti come matrici della definizione metodologica.
offerte da A.B. McGowan, Il Culto Cristiano dei primi secoli. Uno sguardo sociale, storico e teologi-
co, EDB, Bologna 2019 (Studi e ricerche di liturgia), 98-102. Sulla precocità di quest’uso, cfr. al-
meno Giustino, Apologia (I) 67,3-4. Resta d’obbligo il riferimento a M. Metzger, L’Église dans
l’Empire Romain. Le culte, 2: Les célébrations, Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma 2021 (Studia
Anselmiana 184 - Analecta liturgica 38), ove è tracciata una dettagliata storia della prassi cultua-
le cristiana; alle pp. 17-19 sta una sorta di sommario delle informazioni relative alle letture, con
i riferimenti alle trattazioni più ampie nel corso dell’opera (per Giustino, cfr. ivi, 34-42).
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Una diversa prospettiva critica 157
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Scopo delle prossime pagine sarà quello di riflettere sui caratteri sa-
lienti dell’«approccio ermeneutico» alla prima documentazione visuale
cristiana, fin qui solo sommariamente enunciato.
Nello specifico, ci si soffermerà sui tre mutamenti di paradigma cri-
tico che definiscono tale approccio.
1. Da un repertorio tematico a una “disciplina sintattica”. Per prima
cosa, si presterà attenzione alla centralità critica della dimensione
unitaria dei diversi documenti figurativi delle origini cristiane, os-
servando il parallelo tra il Grundgesetz tipologico di questa cultura
visuale e l’impiego – liturgico, esegetico e teologico – delle raccol-
te di testimonia.
2. Da un approccio tassonomico a uno di tipo critico-esegetico. Si
rifletterà sulla natura ermeneutica (Grundlogik) della cultura vi-
suale cristiana delle origini e sulla necessità critica che essa deter-
mina di non limitare la comprensione di questi documenti alla
sola descrizione dei soggetti in essi raffigurati, bensì di spingersi
sino all’identificazione dell’intento argomentativo che portò alla
loro scelta e al loro accostamento in ciascun prodotto visuale pa-
leocristiano (il progetto iconografico del documento).
3. Dalla prospettiva “monumentale” alla prospettiva “documentaria”.
Infine, si cercherà di ricondurre questa documentazione al suo
Sitz im Leben, per valutare la congruità dei presupposti critici
dell’«approccio ermenutico», alla luce del contesto storico di questa
documentazione. Il fine di tale operazione è quello di predisporre
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158 L’approccio ermeneutico
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II.
UN MODELLO METODOLOGICO:
LA PRIMA CULTURA VISUALE CRISTIANA
COME SINTASSI ERMENEUTICA
1 Per capire quanto appena affermato e la sua rilevanza critica, potrà forse giovare il pa-
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160 L’approccio ermeneutico
2 Künstle, Ikonographie der christilichen Kunst, 1, 13. Identica valorizzazione della Let-
tera agli Ebrei «tra le possibili fonti di ispirazione della più antica iconografica cimiteriale
‹cristiana›» è stata proposta da G. Otranto, Alle origini dell’arte cristiana precostantiniana:
interpretazione simbolica o storica?, in Annali di storia dell’esegesi 7 (1990) 437-454, qui 444.
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Un modello metodologico 161
Erforschung und Erhaltung Kunst- und Historischen Denkmale 5 (1860) 29-33, 67-75, 125-
134, 309-322, qui 31, ripreso da Künstle, Ikonographie der christilichen Kunst, 1, 15.
4 Künstle, Ikonographie der christilichen Kunst, 1, 14.
5 Così K.A. Credner, Beiträge zur Einleitung in die biblischen Schriften, 2: Das alttesta-
mentliche Urevangelium, Waisenhaus, Halle 1838. Cfr. anche, benché si esprimano in mo-
do più sfumato, E.C. Selwyn, The Oracles in the New Testament, Hodder & Stoughton, Lon-
don - New York [NY] - Toronto 1912; A.F. von Ungern-Sternberg, Der traditionelle
alttestamentliche Schriftbeweis De Christo und De Evangelio in der alten Kirche bis zur Zeit
Eusebs von Caesarea, Niemeyer, Halle 1913.
6 Cfr. E. Hatch, Essays in Biblical Greek, Clarendon, Oxford 1889, e, ovviamente, J.R.
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162 L’approccio ermeneutico
7 Il secondo volume dell’opera di Künstle uscì nel 1926, prima del primo volume, edi-
to solo nel 1928. Sono di questi anni le ricerche di G.H. Box, The Value and Significance of
the Old Testament in Relation to the New, in A.S. Peake (ed.), The People and the Book: Es-
says on the Old Testament, Clarendon, Oxford 1925, 433-467, e soprattutto di L. Delporte,
Les principes de la typologie biblique et les éléments figuratifs du Sacrifice de l’Expiation (Lev
16), in Ephemerides theologicae lovanienses 3 (1926) 307-327.
8 Cfr. Grabar, Christian Iconography, rispettivamente 112-127 e 128-146.
9 Come farà anche Peter Bloch, già Grabar considerò il modello tipologico quello più
caratteristico dell’arte medievale, nella quale portò «i più ricchi risultati» (Grabar, Christian
Iconography, 111).
10 Cfr. Grabar, Christian Iconography, 111.
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Un modello metodologico 163
La celebre lezione che Grabar tenne, sul tema dell’origine dell’iconografia cristiana,
12
alla National Gallery of Arts di Washington D.C. nel 1961, nell’ambito delle prestigiose
A.W. Mellon Lectures in the Fine Arts, verrà infatti pubblicata solo nel 1968.
13 H.-J. Geischer, Das Problem der Typologie in der ältesten christlichen Kunst: Studien
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164 L’approccio ermeneutico
tipologiche dell’arte paleocristiana […] coinvolgono la fede ‹del credente› tramite la sua con-
fessione dell’evento che esse raffigurano? Qui la domanda è particolarmente rivolta al con-
testo in cui, quasi esclusivamente, incontriamo le più antiche immagini cristiane: le tombe
e i sarcofagi. Che significato ha questo ambito ‹funerario› per l’interpretazione tipologica
delle scene del Primo Testamento?».
18 Geischer, Das Problem der Typologie, 46.
19 Geischer, Das Problem der Typologie, 45; cfr. anche E.F. Ohly, Typologie als Denkform
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Un modello metodologico 165
Cfr. Geischer, Das Problem der Typologie, 47: «Da qui la domanda […] se non ci si
21
debba aspettare che l’evento dell’Antico Testamento sia presentato come vivo e intero, ‹im-
piegato› come un typos nel suo insieme e non per i singoli dettagli, intesi allegoricamente».
22 Cfr. Geischer, Das Problem der Typologie, 48: «L’evento, che si conserva nella sua sto-
ricità, non porta sempre con sé altri possibili significati della sua tradizione (per esempio
quelli che gli erano stati attribuiti dall’interpretazione ebraica)?».
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166 L’approccio ermeneutico
Cfr. rispettivamente Geischer, Das Problem der Typologie, 51-190 e 191-284. Sul te-
24
ma iconografico del sacrificio di Isacco, letto in prospettiva tipologica, cfr. già E. Fascher,
Isaak und Christus. Zur Frage einer Typologie in Wort und Bild: Bild und Verkündigung, in
J. Schüffler (hrsg.), Bild und Verkündigung. Festgabe für Hanna Jursch zum 60. Geburtstag,
Evangelische Verlagsanstalt, Berlin 1962, 38-53.
25 Passando, infatti, dall’indagine del singolo soggetto a quella dei singoli documenti,
di volta in volta si potrà, per esempio, rispondere alle tre questioni che lo studioso tedesco
poneva nel caso della tipologia rappresentativa. Sarà il progetto iconografico nel suo com-
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Un modello metodologico 167
Berlin, Walter de Gruyter 1969 (Miscellanea mediaevalia 6), 127-142, qui 127-128.
27 Va segnalato, però, che Bloch, Typologische Kunst, 128, pur osservando che «anche le
prime testimonianze dell’arte cristiana nei dipinti delle catacombe, sui sarcofagi e sui pro-
dotti delle arti minori utilizzano un numero limitato di temi del Primo Testamento come
metafore della speranza della risurrezione (Metaphern der Auferstehungshoffnung): la storia
di Giona, Daniele nella fossa dei leoni, i giovani nella fornace ardente, Noè nell’arca», è con-
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168 L’approccio ermeneutico
vinto che le aggregazioni di questi temi avvengano in modo casuale, senza una struttura ar-
gomentativa: «Fin dai periodi costantiniano e teodosiano, da entrambi i Testamenti sono
stati creati elaborati cicli pittorici, che sono stati casualmente aggregati o giustapposti».
28 Sulla tipologia nell’arte medievale, rimane di grande importanza anche il contributo
Third to Seventh Century. Catalogue of the Exhibition at the Metropolitan Museum of Art, No-
vember 19, 1977, through February 12, 1978, Metropolitan Museum of Art - Princeton Uni-
versity Press, New York (NY) 1980; Id. (ed.), Age of Spirituality. A Symposium, Metropoli-
tan Museum of Art - Princeton University Press, New York (NY) 1980.
30 K. Weitzmann, Introduction, in Id. (ed.), Age of Spirituality. Late Antique, XIX-XXVI,
qui XIX.
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Un modello metodologico 169
Scopo del presente lavoro è dare risposta alla domanda su come sia stata
illustrata la comprensione tipologica ‹delle Scritture› […]. Occorre anzitutto
definire l’espressione “rappresentazione tipologica (typologische Darstellung)” su
cui essa si basa: in questo genere di rappresentazioni si rende visibile (!) che una
specifica scena prototestamentaria è impiegata come “pre-figurazione (Vorab-
bildung)” di un episodio neotestamentario o legato al Cristo (quale “compimen-
to [Erfüllung]”). Questa definizione non implica che altre immagini, per le
quali non è possibile isolare corrispondenti dettagli iconografici, non possano
essere basate anch’esse sull’interpretazione tipologica 31.
1995 (Jahrbuch für Antike und Christentum. Ergänzungsband 21), 25. L’autrice precisa
con un esempio la distinzione tra ciò che considera oggetto della sua indagine e ciò che,
pur non potendo escludere un’intenzione tipologica, programmaticamente tralascia: «Per
tornare all’esempio del passaggio del Mar Rosso ‹scolpito› sui sarcofagi: il committente o
l’artista può benissimo aver scelto la storia del passaggio degli Israeliti attraverso il Mar
Rosso (come typos) per descrivere il battesimo (come antitypos). Tuttavia, non ci sono pro-
ve visibili di questa ipotesi né sotto forma di un’evidenza iconografica né nella forma di
una scena neotestamentaria che potesse assumere la funzione di antitipo» (ivi, 25-26). La
sua tesi è stata riassunta anche in Ead., «Erneuerung des Alten»: biblisch-typologische Dar-
stellungen frühchristlicher Zeit, in B. Brenk (ed.), Innovation in der Spätantike: Kolloquium
Basel 6. und 7. Mai 1994, Reichert, Wiesbaden 1996 (Spätantike, Frühes Christentum,
Byzanz 1), 409-422.
32 Schrenk, Typos und Antitypos, 26.
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170 L’approccio ermeneutico
In realtà, già E.S. Malbon, The Iconography of the Sarcophagus of Junius Bassus. Neo-
34
fitus Iit Ad Deum, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1990 (Princeton Legacy Li-
brary), 42-44; 129-136, purtroppo limitandosi al solo sarcofago di Giunio Basso, aveva già
sottolineato la centralità del «pensare tipologico» (ivi, 42): esso, infatti, «offre la chiave per
lo schema (pattern) delle connessioni iconografiche sul sarcofago» (ivi, 129). Cfr. anche, per
l’arco di Costantino, C.S. Jungman, The Christian Context of the Late-Antique Frieze on the
Arch of Constantine, M.A. Diss., Tallahassee (FL) a.a. 1971-1972, in part. 83.
35 Elsner, Art and the Roman Viewer, 283.
36 Elsner, Art and the Roman Viewer, 251.
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Un modello metodologico 171
d’uso. Esso, infatti, non si riferisce più esclusivamente alla capacità delle immagini di ela-
borare un’ermeneutica delle Scritture – così come si propone in questa ricerca –, ma ha as-
sunto almeno altri due significati. Per prima cosa, in relazione alla costruzione retorica di
un testo, con «esegesi visuale» si intende il modo con cui le immagini retoriche (per lo più
di senso: metafora, parabola, iperbole ecc.) possano essere state impiegate per costruire
un’interpretazione – dei testi biblici o di un concetto. Secondariamente, in riferimento al-
la strumentazione critica, con «esegesi visuale» si è inteso il ricorso alle evidenze della cul-
tura materiale del Sitz im Leben di un testo per comprenderne il contenuto (per esempio,
l’archeologia degli spettacoli gladiatori per comprendere Ef 6,10-17). Una raccolta di saggi
che mira a ispezionare questi tre paradigmi dell’«esegesi visuale» è stata recentemente cu-
rata da V.K. Robbins - W.S. Melion - R.R. Jeal (eds.), The Art of Visual Exegesis. Rethoric,
Texts, Images, SBL Press, Atlanta (GA) 2017 (Emory Studies in Early Christianity 19).
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172 L’approccio ermeneutico
poteva esprimere. D’altra parte, tali documenti visuali non possono esse-
re classificati prioritariamente come “strumenti catechetici”: essi diedero
corpo a una tradizione ampia e diversificata ma coerente che, dal più
semplice graffito sino al più complesso sarcofago, attesta tenacemente
l’adesione fondamentale alla stessa lettura delle Scritture, quella tipologi-
ca. In altri termini: quest’“arte” documenta la partecipazione condivisa
alla stessa cultura esegetica. La visualità che ne nacque, dunque, non può
essere ridotta a mero espediente di una parte di queste comunità, ma va
riconoscuta quale linguaggio condiviso, esito coerente del modo di leg-
gere, di celebrare e di comprendere le Scritture praticato dai cristiani di
II, III e IV secolo.
---
38 In questa linea si deve collocare anche Jensen, Understanding Early Christian Art, 64-
93, che ricupera da Elsner, Art and the Roman Viewer, le categorie di «tipologie pittoriche»
e di «esegesi visuale», ma pur sempre in relazione ai singoli soggetti. Più di recente, cfr. an-
che R.M. Jensen, Early Christian Images and Exegesis, in J. Spier (ed.), Picturing the Bible:
The Earliest Christian Art, Yale University Press, New Haven (CT) 2007, 65-85; R.M. Jen-
sen, Early Christian Visual Art as Biblical Interpretation, in P.M. Blowers - P.W. Martens
(eds.), The Oxford Handbook of Early Christian Biblical Interpretation, Oxford University
Press, Oxford 2019, 315-327; anche in questi due saggi la studiosa statunitense si concen-
tra principalmente sui singoli temi e non sulla loro associazione (di cui pure riconosce l’im-
portanza: cfr. almeno ivi, 325); introduce, per altro, interessanti riflessioni circa la fattibi-
lità del confronto tra esegesi «verbale» e «visuale».
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Un modello metodologico 173
39 È necessario citare la ricerca, ancora fondamentale sul tema, di C.H. Dodd, Secondo
le Scritture. Struttura fondamentale della teologia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1972
(Studi biblici 16). Per una panoramica introduttiva, cfr. anche A. George - P. Grelot (curr.),
Introduzione al Nuovo Testamento, 5: Il compimento delle Scritture, Borla, Roma 1983.
40 Oltre al fondamentale articolo di H.J. Schoeps, Jésus et la Loi juive, in Revue d’ histoire
et de philosophie religieuses 33 (1953) 1-20, cfr. R.T. France, Jesus and the Old Testament: His
Application of Old Testament Passages to Himself and His Mission, Tyndale, London 1971.
Sul Sitz im Leben in cui operò Gesù, rimane a mio avviso fondamentale P. Grelot, La spe-
ranza ebraica al tempo di Gesù, Borla, Roma 1981 (Collana di cristologia), in part. 117-165.
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174 L’approccio ermeneutico
41 Si tratta di una qualifica formulare di uso frequente già dal Nuovo Testamento, im-
dei principali passaggi della prima scrittura cristiana, parte della quale darà vita alla raccol-
ta neotestamentaria, è da presupporsi la regola che qui si è descritta e che costituisce, per
l’appunto, il tratto dominante di quell’«esegesi giudeo-cristiana » che lo studioso francese
riconobbe persistere proprio nell’uso dei testimonia.
43 Cfr. G.I. Gargano, Il formarsi dell’ identità cristiana. L’esegesi biblica dei primi Padri
della Chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010 (Parola di Dio 201), 14: «Nella letteratura
cristiana antica si possono trovare qua e là liste più o meno ampie di Testimonia analoghi a
quelli citati da Luca negli Atti degli Apostoli. Molto indicativi […] sono i testi raccolti dal-
la Lettera di Barnaba (Pseudo) e quelli presenti nelle opere di Giustino martire». Sull’uso
dei testimonia nella Lettera di Barnaba, cfr. ancora P. Prigent, Les Testimonia dans le chri-
stianisme primitif. L’Épître de Barnabé I-XVI et ses sources, Lecoffre - Gabalda, Paris 1961
(Études Bibliques). Più in generale, mi pare che E. Norelli, Il dibattito con il giudaismo nel
II secolo. Testimonia; Barnaba; Giustino, in Id. (cur.), La Bibbia nell’antichità cristiana, 1:
Da Gesù a Origene, EDB, Bologna 1993 (La Bibbia nella storia 15,1) 199-233, qui 199-224,
abbia descritto in modo esemplare la progressiva diffusione, nella più antica vicenda cristia-
na, dei testimonia.
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Un modello metodologico 175
‹la Scrittura› ed essendomi informato con cura dei libri del Primo Testamento,
ti mando l’elenco che ne ho redatto […]; da questi scritti ho fatto degli estratti
(eklogas), distribuendoli in sei libri» 44.
P.G. Di Domenico [cur.], Melitone di Sardi, Clavis Scripturae, LEV, Città del Vaticano 2001
[Visibile parlare 4]), di evidente struttura tipologica. Sull’adozione di questo approccio er-
meneutico in tutta la produzione di Melitone – a partire, com’è ovvio, dall’omelia Sulla Pa-
squa –, cfr. J. Daniélou, Figure et événement chez Méliton de Sardes, in Neotestamentica et pa-
tristica. Eine Freundesgabe O. Cullmann zu seinem 60. Geburtstag überreicht, Brill, Leiden
1962 (Supplements to Novum Testamentum 6), 282-292; H.A. Blair, Allegory, Typology and
Archetypes, in E.A. Livingstone (ed.), SP 17, Pergamon, Oxford 1982, 263-267.
46 Vedi infra, pp. 201-237. Per una breve storia della tipologia nelle origini cristiane, cfr.
di testimonia nelle origini cristiane si può trovare in M.C. Albl, “And Scripture Cannot Be
Broken”. The Form and Function of the Early Christian Testimonia Collections, Brill, Leiden
- Boston (MA) - Köln 1999 (Supplements to Novum Testamentum 96), in part. 7-69. La
stessa genesi dei lezionari liturgici può essere letta come un esito di questo processo di con-
solidamento nell’uso e nella definizione di raccolte di testimonia. Pur senza mezionare espli-
citamente questi libri, Daniélou, Sacramentum futuri, XII, scrive che «gli scritti liturgici ci
restituiscono la tipologia comune della Chiesa, quella che faceva parte dell’insegnamento
iniziale (élémentaire)».
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176 L’approccio ermeneutico
Si pensi, a partire dai trenta tomi DACL, ai sette volumi di H. Aurenhammer (hrsg.),
48
Lexikon der christlichen Ikonographie, Hollinek, Wien 1968-1974, agli otto di E. Kirschbaum
- W. Braunfels (hrsg.), Lexikon der christlichen Ikonographie, Herder, Freiburg - Basel - Wien
1968-1976, o, in tempi più recenti ai Temi curati da Fabrizio Bisconti, o a Dresken-Weiland,
Immagine e parola, o, ancora, all’EEECA edita da Paul Corby Finney.
49 Per questo vedi infra, pp. 189-197.
50 Impiego il concetto di “sistema”, mutuandolo da W. Kemp, Medieval Pictorial Systems,
in B. Cassidy (ed.), Iconography at the Crossroads. Papers from the Colloquium Sponsored by
Index of Christian Art. Princeton University, 23-24 March 1990, Department of Art and
Archeology, Princeton University, Princeton (NJ) 1993, 121-133. Con esso si intende la dina-
mica che governa il rapporto tra le parti e le opere compiute in una tradizione storico-artisti-
ca. Si tratta quindi di qualcosa di difforme tanto dalla Grundlogik, intesa come “carattere pre-
valente” di una cultura visuale, tanto dal Grundgesetz, inteso come “norma o meccanismo
compositivo”.
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Un modello metodologico 177
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178 L’approccio ermeneutico
52 P. Prigent, L’arte dei primi cristiani. L’eredità culturale e la nuova fede, Arkeios, Roma
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Un modello metodologico 179
documento visuale e sua “efficacia documentaria”, a partire da quanto J. Le Goff, s.v. «Do-
cumento/Monumento», in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino 1978, 5, 38-43, qui 38, af-
fermava, sottolineando giustamente che i «materiali della memoria possono presentarsi sot-
to due forme principali: i monumenti, eredità del passato, e i documenti, scelta dello
storico» (cfr. G. Pelizzari, L’adozione critica dei documenti visuali paleocristiani nella ricostru-
zione delle origini cristiane. Presupposti metodologici e prassi esegetica, in Adamantius 26 [2020]
16-31, qui 17). Si tratta, in altri termini, di distinguere tra due aspetti forse attigui del do-
cumento iconico, ma certo non coincidenti. Da una parte, alle origini dell’“opera”, si tro-
va, infatti, l’intenzione per cui essa fu realizzata, la sua finalità monumentale, ciò che essa
avrebbe dovuto eternare; dall’altra, nello sguardo dello storiografo, vi è viceversa ciò che es-
sa riesce a documentare del passato – e interverrano ora molteplici argomenti d’interesse
critico, da quelli materiali al “negativo documentario”, dai riflessi dell’originale contesto
storico-artistico a quelli di natura storico-religiosa ecc.
56 Per questa definizione, cfr. Pelizzari, Manifestos of the Kingdom.
57 Otranto, Alle origini dell’arte cristiana, 447.
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180 L’approccio ermeneutico
---
58 Cfr. P. Styger, Die altchristliche Grabeskunst: ein Versuch der einheitlichen Auslegung,
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III.
P.J. Korshin, Typologie als System, in Bohn (hrsg.), Typologie, 277-308, qui 277.
1
Come afferma, sin dall’avvio del Contro i giudei, Tertulliano (1,1-2), l’argomento che
2
sul fronte tipologico veniva conteso era duplice: per un verso riguardava l’“ispezione” dei
testi biblici, per l’altro comportava la possibilità di rivendicare la Legge e, con essa, l’intera
economia della salvezza.
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182 L’approccio ermeneutico
più profondo, mentre l’allegoria implica l’uso delle parole come simboli o segni
che si riferiscono arbitrariamente ad altre realtà […] e quindi ‹comporta› la di-
struzione della coerenza narrativa 3.
Uno dei pregiudizi che più spesso ricorrono circa le diverse culture
visuali delle molte storie cristiane è che esse non siano altro che Bibliae
3 F.M. Young, Esegesi biblica e cultura cristiana, Paideia, Brescia 2014 (Introduzione al-
lo studio della Bibbia. Supplementi 61), 157-158. L’autrice dichiara il debito che, sul piano
concettuale, contrae con N. Frye, The Great Code: The Bible and Literature, Routledge, Lon-
don 1982, 85. Su questo tema, cfr. anche Cahill, Hermeneutical Implications, 273.
4 Analogamente a Young, anche Cahill, Hermeneutical Implications, 276-278, riscontrò
una struttura iconica della tipologia, argomentata in questo caso con alcuni parallelismi
con i modi del “figurare le Scritture”. Non dunque una matrice tipologica dell’iconografia
cristiana, ma un parallelo nella concezione dei testi biblici.
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Ermeneutiche codificate 183
5 La categoria di Biblia pauperum è, peraltro, propria della produzione del Medioevo e de-
riva dal titolo di un’opera la cui struttura tipologica è già stata ampiamente sottolineata (cfr. A.
Henry, Introduction, in Id. [ed.], Biblia Pauperum. A Facsimile and Edition, Scolar Press, Alder-
shot 1987, 3-46; un’ottima contestualizzazione della Biblia pauperum si trova in Fabiny, Figu-
ra and Fulfillment, 93-103: il quarto capitolo di questo volume – «Leggere le immagini» [ivi,
78-110] – elenca una serie di esempi medioevali di tipologia visuale ). Viene però impiegata, in
riferimento alle origini cristiane, con il significato più lasso di “illustrazione della Bibbia per gli
analfabeti”, rilanciando non di rado affermazioni di autori “patristici” (cfr. Paolino di Nola, Li-
bri in lode di san Felice [“Natalicia”], Natalicium 9 [= Carme 27 Hartel] 514-515; Gregorio Ma-
gno, Lettere 9, 209,12; 11,10,22.44). Già per quanto concerne l’impiego di questa categoria cri-
tica, relativamente alle iconografie del Medioevo, la sua utilità è stata opportunamente
contestata da L.G. Duggan, Was Art Really the “Book of the Illiterate”?, in Word and Image 5
(1989) 227-251; cfr. anche Id.,: Reflections on “Was Art Really the ‘Book of the Illiterate’?”, in M.
Hageman - M. Mostert [eds.], Reading Images and Texts: Medieval Images and Texts as Forms of
Communication. Papers from the Third Utrecht Symposium on Medieval Literacy, Utrecht, 7-9 De-
cember 2000, Brepols, Turnhout 2005 (Utrecht Studies in Medieval Literacy 8), 109-119.
6 La stessa cognizione dell’iconografia cristiana antica attraverso la categoria di Biblia
pauperum presuppone la valutazione storiografica dei suoi spettatori come, appunto, pau-
peres culturali.
7 Sulla competenza esegetica di questo pubblico, cfr. anche Jensen, Understanding Early
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184 L’approccio ermeneutico
A. Quacquarelli, L’unità dei due Testamenti nell’ iconografia del II e III secolo, in Id., Re-
9
torica e iconologia, Istituto di Letteratura cristiana antica, Bari 1982 (Quaderni di «Vetera Chri-
stianorum» 17), 219-240, qui 223. Benché M. Dulaey, I simboli cristiani. Catechesi e Bibbia
(I-IV secolo), San Paolo, Cinisello Balsamo 2004 (Guida alla Bibbia), 51, non si spinga oltre a
una definizione genericamente “ermeneutica” di questa prima cultura visuale e nonostante ne
enfatizzi soprattutto la capacità didascalica, condivido la sua opinone circa la piena sincronia
di questo carattere con il Sitz im Leben delle origini cristiane: «La testimonianza dell’arte pa-
leocristiana, della liturgia e dei testi antichi convergono: l’insegnamento cristiano dei primi
secoli si fonda soprattutto sull’Antico Testamento, di cui viene fatta una lettura simbolica.
Molti fattori hanno contribuito a questo fatto e il valore pedagogico delle immagini non è il
minore di essi. Quale mezzo migliore poteva essere immaginato per fissare nella memoria l’es-
senziale della dottrina che quello di collegarla alle antiche figure?».
10 Per la teorizzazione della “prevalenza” della produzione letteraria su quella visuale, cfr.
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186 L’approccio ermeneutico
G.-H. Baudry, Simboli cristiani delle origini. I-VII secolo, Jaca Book, Milano 2009, 11.
12
La peculiarità anche tematica del primo lessico iconografico cristiano ha permesso, co-
13
me noto, di distinguere tra una stagione pre-costantiniana e una post-costantiniana. Molti sog-
getti, tra quelli che da principio erano tra i più frequentati (si pensi ai casi del Buon Pastore,
del Ciclo di Giona, dei racconti di Daniele, per limitarsi agli esempi più clamorosi) vennero
progressivamente accantonati quando non bruscamente sostituiti da un lessico figurativo più
prossimo al codice espressivo della regalità imperiale. Cfr. Grabar, Christian Iconography, 42;
J.G. Deckers, Kostantin und Christus. Der Kaiserkult und die Entstehung des monumentalen
Christusbildes in der Apsis, in G. Bonamente - F. Fusco (curr.), Costantino il Grande. Dall’An-
tichità all’Umanesimo. Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico. Macerata 18-20 Dicembre
1990, Università degli Studi di Macerata, Macerata 1992, 1, 357-362; Dresken-Weiland, Im-
magine e parola, 292-293. Sulla “nuova” iconografia cristiana, da Costantino in poi, cfr. la re-
cente miscellanea L.M. Jefferson - R.M. Jensen (eds.), The Art of Empire. Christian Art in Its
Imperial Context, Fortress, Minneapolis (MN) 2015.
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Ermeneutiche codificate 187
14 Ciascun termine di questa proposta sintetica meriterebbe una discussione la cui am-
piezza trascende i limiti della presente ricerca: se ne accetti il carattere evocativo, volto qui
solo a puntualizzare in che modo la natura codificata del repertorio iconografico paleocri-
stiano comporti l’esigenza critica di postulare una struttura metodologica complessivamen-
te difforme da quella storico-artistica per questa prima cultura visuale cristiana.
15 Su questo punto, oltre ai numerosi lessici iconografici dell’“arte” paleocristiana, cfr.
dizione visuale e la cultura biblica dei cristiani di II-III secolo è fondamentale per presup-
porre la possibile intelleggibilità di queste opere: «Una completa comprensione dei sogget-
ti e dei contenuti di un’opera ‹artistica› sarebbe garantita solo se lo spettatore si trovasse
allo stesso livello culturale dell’autore»: Engemann, Deutung und Bedeutung, 23.
17 C. Kannengiesser, Scripture as a Legacy of the Fathers, in L. DiTommaso - L. Turce-
scu (eds.), The Reception and Interpretation of the Bible in Late Antiquity. Proceedings of the
Montréal Colloquium in Honour of Charles Kannengiesser, 11-13 October 2006, Brill, Leiden
- Boston (MA) 2008, 529-541, qui 536, riconosce nelle origini cristiane una «testimonian-
za unanime e indefettibile […] che rivendica per la Scrittura il significato di una permanen-
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188 L’approccio ermeneutico
te novità di interpretazione». Si può affermare che la prima cultura visuale cristiana è pie-
namente parte di queste origini, esercitando con costanza questa stessa fondamentale
aspettativa ermeneutica nei confronti delle Scritture.
18 « Anche l’immagine può sviluppare ermeneutica tipologica », afferma, in relazione ai
mosaici di San Vitale a Ravenna, Jensen, Early Christian Visual Art as Biblical Interpreta-
tion, 322, per concludere, su un piano più generale: «La varietà della rappresentazione visi-
va ‹delle scene bibliche› trovava un corrispondente nella miriade di modi in cui queste sto-
rie venivano interpretate nelle omelie o nei commenti scritti come profeticamente o
tipologicamente significative. […] L’arte paleocristiana utilizzava metodi affini a quelli de-
gli esegeti verbali. Tuttavia, mentre le immagini e i testi utilizzavano strategie ermeneuti-
che simili, sarebbe sbagliato concludere che l’esegesi visiva replicasse l’esegesi verbale. Seb-
bene entrambe le modalità di interpretazione derivino da un contesto culturale e religioso
comune, avevano valori e scopi diversi. ‹L’esegesi visuale› Obbediva a una sua logica […], che
dipendeva dalla familiarità dello spettatore sia con la storia ‹biblica› sia con la sua tradizio-
ne esegetica ».
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IV.
Com’è noto, nella descrizione delle origini cristiane è stato per lungo
tempo operante uno schema binario che teorizzava i primi secoli di dif-
fusione e propagazione del Vangelo quale risultante dinamica della ten-
sione scaturita tra due polarità: la tendenza conservatrice di gruppi “giu-
deo-cristiani”1 e quella, sempre più incline alle modalità della teoresi
filosofica greca, caratteristica delle comunità e tradizioni ellenizzate.
A disinnescare l’antitesi tra questi due paradigmi, concorse in modo
decisivo l’introduzione di una terza luce prospettica che Jean Daniélou
riconobbe nel «cristianesimo latino»2. Ovviamente lo studioso france-
se non pretendeva di scoprire la teologia e, più in generale, i cristianesimi
in lingua latina, ma ebbe la lucidità di constatare come le Chiese dell’A-
frica romana, per le loro caratteristiche religiose e per le modalità e i con-
tenuti della loro produzione teologica, non fossero né aggregabili alla
1 Il violento dibattito che, attorno a questa categoria storiografica, si è animato in anni del
tutto recenti, mi costringe all’impiego delle virgolette alte. Se, com’è noto, questa classifica-
zione è un prodotto interamente storiografico non esente da limiti anche puramente formu-
lari (perché non parlare di “giudaismi cristiani”?), d’altra parte credo che esso mantenga an-
cora un nucleo di efficacia soprattutto in relazione a una ideale storia della teologia cristiana
delle origini. In altri termini, si utilizzeranno qui “giudeo-cristianesimo” e derivati esclusiva-
mente per indicare quegli argomenti che i discepoli di Gesù, il Cristo, professavano traendo-
li direttamente dalle tradizioni giudaiche del secondo tempio (come, per altro, J. Daniélou -
W.J. Quinn, A New Vision of Christian Origins: Judaeo-Christianity, in CrossCurrents 18 [1968]
163-173, qui 166, esplicitamente affermavano). Un’efficace storia di questo dibattito, nei con-
fronti della quale ben volentieri esprimo il mio debito e alla quale rinvio per una più ampia
bibliografia, è stata delineata da C. Gianotto, Introduzione, in Id. (cur.), Ebrei credenti in Gesù.
Le testimonianze degli autori antichi, Paoline, Milano 2012 (Letture cristiane del primo mil-
lennio 48), 7-212, qui 9-50.
2 Cfr. J. Daniélou, Le origini del cristianesimo latino, EDB, Bologna 1991 (Collana di
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190 L’approccio ermeneutico
3 Non a caso la ricerca sul cristianesimo latino fu terza entro la sua trilogia sulla Storia
delle dottrine cristiane prima di Nicea, accanto a Id., La teologia del giudeo-cristianesimo,
EDB, Bologna 1980 (Collana di studi religiosi) (ed. or. Tournai 1958) e a Id., Messaggio
evangelico e cultura ellenistica, EDB, Bologna 1975 (Collana di studi religiosi) (ed. or. Tour-
nai 1961).
4 Cfr. Daniélou, Le origini, 241-248.
5 Cfr. G. Aragione, Les chrétiens et la loi. Allégeance et émancipation aux IIe et IIIe siècles,
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La cultura visuale come documento 191
7
Dodd, Secondo le Scritture, 117. Cfr. anche Cahill, Hermeneutical Implications, 279-
281.
8 Cfr. B. De Margerie, Introduzione alla storia dell’esegesi, 2: I primi grandi esegeti lati-
ni, Borla, Roma 1984 (Cultura cristiana antica), 52-59, riconosce giustamente negli esordi
dell’ermeneutica latina la prosecuzione delle modalità di quella apostolica. Su questi esordi
cfr. T.P. O’Malley, Tertullian and the Bible: Language, Imagery, Exegesis, Dekker & Van de
Vegt, Nijmegen - Utrecht 1967 (Latinitas christianorum primaeva 21); M.A. Fahey, Cyprian
and the Bible: A Study in the Third-century Exegesis, Mohr, Tübingen 1971 (Beiträge zur
Geschichte der biblischen Hermeneutik 9). Circa la definizione ermeneutica della Chiesa
si osservi che, benché caratteristica dei cristianesimi dell’Africa romana, naturalmente l’ec-
clesiologia anti-tipologica (la Chiesa come antitipo delle Scritture) non fu loro esclusiva; si
consideri, per esempio, alla frequenza con cui Ambrogio di Milano impiega la locuzione
tecnica di «typus ecclesiae »: cfr. per esempio Esamerone 4,8,32; Circa Abramo 1,5,38; Espo-
sizione del Vangelo di Luca 2,1245; 3,376; 4,608.823; 7,1918; Lo Spirito Santo 1,16,166; 2,
Prologo 14; Lettera 68 5; Lettera 74 24; Lettera “extra seriem” 1a 24.
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192 L’approccio ermeneutico
‹che proviene› dalla trafittura del suo fianco»9. Attraverso questa definizio-
ne tipologica della prima teologia della Chiesa, le Scritture potevano dive-
nire, nella coscienza cristiana, «nostra figura e tipologia della Chiesa»10.
Come si è visto, per la prima cultura visuale cristiana, a un Grundgesetz
tipologico, che ne scandisce la prassi progettuale, restituendone la norma
fondamentale, si è potuta accostare una Grundlogik ricapitolativa, che inve-
ce qualifica il tenore generale di questa più antica iconografia. Rivolgendoci
ora a una prospettiva più ampia, è possibile ravvisare un parallelo generale
con la storia della più antica teologia cristiana. Le prime comunità, infatti,
impiegarono meccanismi esegetici per articolare il proprio pensiero e al con-
tempo si considerarono esse stesse compimento e ricapitolazione – e dunque
innanzi tutto esegesi – delle Scritture: «Sono nostre tipologie (Figurae nostrae
fuerunt) – noi infatti siamo templi di Dio e lampade e vasi ‹sacri›»11.
Ne deve derivare una considerazione radicalmente mutata dell’esege-
si rispetto alle più antiche teologie cristiane: il “perimetro ideale” dell’er-
meneutica scritturistica diventa, infatti, la misura di tutto lo “spazio di
possibilità” della speculazione teologica cristiana più antica12:
È stato detto che la storia del dogma è storia dell’esegesi, in quanto tutta
l’elaborazione della dottrina cristiana si fonda su un certo numero di passi scrit-
turistici, interpretati alla luce di determinate esigenze; ma lo stesso si può affer-
mare di ogni altro aspetto della vita della Chiesa, organizzazione disciplina
culto, ecc. Per tale motivo lo studio della Sacra Scrittura costituì nella Chiesa
dei primi secoli l’autentico fondamento di tutta la cultura cristiana 13.
Tertulliano, L’anima 43,10. Questa tipologia della Chiesa ebbe una grande importan-
9
za nella definizione dell’ecclesiologia antica. Ancora nel Trattato sui misteri di Ilario di Poi-
tiers – per molti versi, un autentico manuale di ermeneutica tipologica – il nesso tra la crea-
zione di Eva e la Chiesa viene rilanciato, arricchito di un’esplicita connotazione escatologica
(cfr. G. Pelland, Le thème biblique du Règne chez saint Hilaire de Poitiers, in Gregorianum 60
[1979] 639-674).
10 Agostino, Enarrazioni sui Salmi 50,22. Cfr. comunque Daniélou, Le origini, 290-296.
Sul tema delle “figure” della Chiesa resta ancora fondamentale lo studio di H. Rahner, Sim-
boli della Chiesa. L’ecclesiologia dei Padri, San Paolo, Cinisello Balsamo 19942 (Reprint) (ed.
or. Salzburg 1964), il quale, va pur detto, non si occupa soltanto della definizione tipologi-
ca dell’ecclesiologia più antica.
11 Tertulliano, La corona 9.
12 Cfr. ancora Cahill, Hermeneutical Implications, 275-276.
13 Simonetti, Lettera e/o allegoria, 9-10.
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La cultura visuale come documento 193
Come tu hai richiesto, per mezzo di una sintesi che rendesse più agile il tut-
to (compendio breviante) è stato composto un discorso e messo in ordine un
breve libretto (sermo… et libellus) […] per raccogliere il necessario ‹dalle Scrit-
ture›, estraendo dei brani e raccogliendoli insieme (excerptis capitulis et adnexis);
sembrerà così che noi non abbiamo trattato l’argomento ma che abbiamo pre-
disposto i materiali per chi lo tratterà 15.
S. Prickett, The Bible in Literature and Art, in J. Barton (ed.), The Cambridge Com-
14
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194 L’approccio ermeneutico
16 Cfr. anche P. Monat, Les testimonia bibliques de Cyprien à Lactance, in Fontaine - Pie-
That the Scripture Might Be Fulfilled: Christianity as a Jewish Sect, in A. Toynbee (ed.), The
Crucible of Christianity: Judaism, Hellenism and the Historical Background to the Christian
Faith, Thames & Hudson, London 1969; Id., Herméneutique judéo-chrétienne, in Archivio
di Filosofia 2 (1963) 255-261.
19 Vere e proprie raccolte di testimonia si trovano già a Qumran (cfr. 4Q174; 4Q175),
ma si può certo affermare che questo tipo di strumentazione ermeneutica debba aver carat-
terizzato le più diverse tradizioni esegetiche giudaiche che, pure, manterranno la loro in-
fluenza diretta anche sugli autori cristiani, non solo per il tramite delle predicazioni gesua-
na e apostolica (cfr. almeno A. Kamesar, I Padri della Chiesa e il midrash rabbinico, in
Vetera Christianorum 44 [2007] 257-282). Questa comune radice ermeneutica, per altro,
determinò profonde linee di continuità pur se tra tradizioni cristiane antiche diverse: si pen-
si alle fortissime affinità tra l’esegesi africana e quella quartodecimana, per limitarsi a un
solo esempio: cfr. O. Perler, Typologie der Leiden des Herrn in Melitons Peri Pascha, I, in
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La cultura visuale come documento 195
Testamento che essa comportava, è a mio avviso uno degli elementi fondamentali della rea-
zione anti-marcionita di Tertulliano. Il Cartaginese, peraltro, recepì numerosi argomenti dal-
la tradizione della “nuova profezia” – che gli eresiologi etichetteranno “montanismo” –, tra i
quali vi è la “successione carismatica”, che postula una Chiesa profetica in ideale continuità
non solo con gli Apostoli, ma con tutti i Profeti del Primo Testamento. Sulla centralità dell’ar-
gomento biblico nella “gestione” della figura di Marcione, cfr. D.W. Deakle, The Fathers
against Marcionism: A Study of the Methods and Motives in the Developing Patristic anti-Mar-
cionite Polemic, Ph.D. Diss., Saint Louis (MO) a.a. 1991-1992, 205-208; J.M. Lieu, Marcion
and the Making of a Heretic: God and Scripture in the Second Century, Cambridge University
Press, Cambridge - New York (NY) 2015, 71-75.
21 Vedi supra, pp. 189-190.
22 Vale la pena di essere sottolineato anche il fatto che una connotazione “giudaico-cri-
stiana” può essere esplicitamente affermata pure per parte della documentazione visuale cri-
stiana delle origini (non mi riferisco ora al quadro d’insieme – ormai sostanzialmente ab-
bandonato dalla critica – fatto emergere dagli studi di E. Testa, Il simbolismo dei
giudeo-cristiani, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1961 [Studium Biblicum Francisca-
num. Collectio Maior 14], I. Mancini, L’archéologie judéo-chrétienne, Franciscan Printing
Press, Jerusalem 1977 [Studium Biblicum Franciscanum. Collectio Minor 10] e B. Bagatti,
The Church from the Circumcision. History and Archaeology of the Judeo-Christians, Franci-
scan Printing Press, Jerusalem 1970 [Studium Biblicum Franciscanum. Collectio Minor 2],
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196 L’approccio ermeneutico
duramente contestati da J.E. Taylor, Christians and the Holy Places. The Myth of Jewish-Chris-
tians Origins, Clarendon Press, Oxford 1992, saggio quest’ultimo pure non esente da alcu-
ne radicalizzazioni critiche delle obiezioni che muove ai suoi interlocutori scientifici). Si
considerino alcuni esempi nei quali coesistono iconografie cristiane e giudaiche, come la la-
stra di Calevio (cfr. Bagatti, The Church from the Circumcision, 201, figura 87; vedi anche
infra, p. 254, nota 27) o a quella di Siracusa (cfr. H. Leclercq, s.v. «Chandelier a sept bran-
ches », in DACL 3,1, 215-220, qui 219, figura 2471).
23 Atti dei martiri di Scilli 12. Cfr. A. Rossi, “Mysterium simplicitatis”: escatologia e li-
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La cultura visuale come documento 197
le ansie che creerà alla critica, ancora oggi tutta protesa a capire se il ge-
nitivo “paolino” fosse da riferire esclusivamente a «epistulae » (e dunque:
“Alcuni libri più le lettere di Paolo”) o anche a «libri» (e quindi: “I libri
e le lettere composti da Paolo”). Qui non è necessario sciogliere tale dub-
bio; basta osservare che, in questa risposta, nel momento in cui si costi-
tuisce documentariamente la tradizione ecclesiale latina, questo modo di
professare la fede appare già connotato dai suoi due caratteri più forti: il
martirio e l’ubiqua presenza delle Scritture.
---
turgia battesimale negli “Acta Scilitanorum”, in Annali di Scienze Religiose 9 (2004) 227-270,
in part. 263-265.
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IL SITZ IM LEBEN
LE ORIGINI DELLA CULTURA VISUALE CRISTIANA
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I.
IL QUADRO CRONOLOGICO.
QUANDO SI DEVE DATARE
LA PRIMA ICONOGRAFIA CRISTIANA?
1 Jensen, Understanding Early Christian Art, 9. Cfr. anche A. Besançon, L’ image inter-
dite. Une histoire intellectuelle de l’ iconoclasme, Fayard, Paris 1994 (L’esprit de la cité), 151-
152.
2 Così Finney, The Invisible God, 100-101.
3 Merita di essere preliminarmente riportata un’osservazione di Bernardi, I colori di Dio,
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202 Le origini della cultura visuale cristiana
1. LA DOCUMENTAZIONE LETTERARIA
Quanto appena osservato circa lo stato della documentazione dispo-
nibile rende ovviamente necessario rivolgere prioritariamente l’attenzione
alla documentazione letteraria precedente al III secolo per verificare se
sia possibile rintracciare materiale che permetta di dissolvere quel «mi-
stero» che, secondo Piergiuseppe Bernardi 4, avvolge ancora l’origine di
un’immagine propriamente cristiana, non prioritariamente per soggetto
o per stile, ma per uso.
sunto epicureismo di Celso (ma dal quinto libro Origene non toccherà più l’argomento). Si
tratta probabilmente di un’eco della notizia che attribuiva al dedicatario dell’Alessandro un
trattato Contro i maghi (cfr. Luciano di Samosata, Alessandro 21), o, forse, di una “confu-
sione” indotta dalla memoria dell’altro Celso epicureo, nominato da Galeno, I propri libri
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Il quadro cronologico 203
17 (cfr. P. Ressa, Introduzione, in Id. [cur.], Origene, Contro Celso, Morcelliana Brescia 2000
[Letteratura cristiana antica, Testi], 11-79, qui 17: «Risulta chiaramente […] che, se Orige-
ne non avesse avuto conoscenza per sentito dire di un Celso epicureo, non sarebbe giunto a
definire [...] il suo avversario un seguace di Epicuro»).
7 S. Galli, Il Discorso vero di Celso: una risposta alla dottrina escatologica cristiana, in
sos und die Antwort des Origenes, Peter Lang, Frankfurt am Main - Bern 1980 (Regensbur-
ger Studien zur Theologie 23), 94-97. Per l’Italia cfr. in ogni caso Ressa, Introduzione, 19;
G. Lanata, Prefazione, in Ead. (cur.), Celso, Il discorso vero, Adelphi, Milano 19942 (Picco-
la Biblioteca 206), 9-38, qui 15; S. Rizzo, Premessa al testo, in Id. (cur.), Celso, Contro i cri-
stiani, Rizzoli, Milano 20065 (BUR), 19-20.
9 Così sembrano preferire Lanata, Prefazione, 14: «La tradizione culturale in cui il Cel-
so del Discorso vero si inserisce è totalmente greca; la sua familiarità con l’Egitto e con am-
bienti mediorientali, la mancata distinzione fra cristianesimo ortodosso ed eresie gnostiche,
sembrano rimandare a un ambiente alessandrino» e G. Rinaldi, La Bibbia dei pagani, 1:
Quadro storico, EDB, Bologna 1997 (La Bibbia nella storia 19), 111, nota 88.
10 Così ora S. Goranson, Celsus of Pergamum: Locating a Critic of Early Christianity, in D.R.
Edwards - C.T. McCollough (eds.), The Archaeology of Difference: Gender, Ethnicity, Class and
the “Other” in Antiquity: Studies in Honor of Eric M. Meyers, American Schools of Oriental Re-
search, Boston (MA) 2007 (Annual of the American Schools of Oriental Research, 60-61),
363-369.
11 Celso, Discorso veritiero 8,73-75; è fin troppo facile osservare il dialogo con le pagine
che delineano il modello dell’ascesi cristiana; cfr. per esempio Tertulliano, Apologetico 37.
Si tratta, come giustamente osserva Galli, Il Discorso vero, 615, di una risposta all’escato-
logia cristiana, prioritariamente colta come l’affermazione di un’alterità politica: «Celso at-
tacca il cristianesimo [...] a partire da un ben strutturato modello di pensiero che lo porta a
muoversi dal piano ontologico a quello politico».
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204 Le origini della cultura visuale cristiana
12 Sono i cliché già impiegati da Tito Livio per biasimare i druidi galli, quelli che ven-
nero rivolti dai Romani contro i cristiani e che poi questi ultimi sfruttarono con eretici ed
ebrei e che, in tempi del tutto recenti, hanno dimostrato di funzionare anche nei confron-
ti dei comunisti; cfr. R. Cacitti, « Athei in mundo». Il carattere della diversità cristiana nel
giudizio della società antica, in Id. - G.G. Merlo - P. Vismara Chiappa (curr.), Il cristianesi-
mo e le diversità: studi per Attilio Agnoletto, Biblioteca Francescana, Milano 1999 (Studi di
Storia del cristianesimo e delle Chiese cristiane 1), 37-68.
13 Celso, Discorso veritiero 8,76.
14 Cfr. M. Lods, Étude sur les sources juives de la polémique de Celse contre les chrétiens,
in Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses (1941) 1-33; cfr. anche L. Alexander, The
Four among Pagans, in M. Bockmuehl - D.A. Hagner (eds.), The Written Gospel, Cam-
bridge University Press, Cambridge - New York (NY) 2005, 222-237, qui 217, e, ancor più
radicalmente, L.H. Blumell, A Jew in Celsus’ True Doctrine? An Examination of Jewish An-
ti-Christian Polemic in the Second Century C.E., in Studies in Religion (Sciences Religieuses)
36 (2007) 297-315.
15 Ressa, Introduzione, 39.
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Il quadro cronologico 205
Per prima cosa è necessario porre attenzione allo spazio e alla rilevan-
za che Celso concede complessivamente alla morte di Gesù. Si tratta di
un elemento non sorprendente, a giudizio di Lovedey Alexander, il qua-
le, riferendosi a questo specifico argomento, osserva perspicuamente che
«per molti versi la dialettica tra l’apologetica cristiana e quella pagana nei
primi tre secoli può essere letta come una linea di battaglia in movimen-
to di carica e contro carica attorno a tale questione, in bilico tra i due
poli del culto e della croce, il punto più alto e quello più basso sul conti-
16 Cfr. Lanata, Prefazione, 17: «La strategia di Celso punta al massimo effetto di natu-
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206 Le origini della cultura visuale cristiana
Alexander, The Four among Pagans, 225 (cfr. anche ivi, 224-228).
18
della Bibbia e della primitiva Chiesa, Marietti, Genova 1997, 165. Cfr. anche Celso, Discor-
so veritiero 6,10c: «I cristiani dicono a chi li accosta: “Prima di tutto credi che quello che ti
mostro è figlio di Dio: anche se è stato incatenato in modo disonorevole, anche se è stato
punito con onta e anche se […] è stato trascinato da una parte all’altra sotto gli occhi di tut-
ti nel modo più oltraggioso. Anzi, proprio per questo, ancor di più credi”».
20 Cfr. L. Troiani, Celso, gli eroi greci e Gesù, in Ricerche Storico Bibliche 4 (1992) 65-76;
A. Van den Hoek - J.J. Herrmann, Celsus’ Competing Heroes: Jonah, Daniel, and Their Ri-
vals, in A. Frey - R. Gounelle (éds.), Poussières de christianisme et de judaïsme antiques: Études
réunies en l’ honneur de Jean-Daniel Kaestli et Eric Junod, Zèbre, Lausanne 2007 (Publications
de l’Institut Romand des Sciences Bibliques 5), 307-339.
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Il quadro cronologico 207
rio di quanto sottolineato sin qui, una frequentazione meditata con la più
consapevole esegesi della Pasqua cristiana.
Escluso, con la critica, sia che Celso abbia conosciuto i due libri pro-
fetici prototestamentari – ai quali alluderebbe solo in questo passo21 – sia
che la menzione di Giona gli sia provenuta dal famoso “segno di Giona”
(Mt 12,38-41 || Lc 11,29-32, che, in effetti, non cita il dettaglio della
zucca), si pone la domanda se l’origine di questa menzione debba essere
considerata per forza “testuale”.
Accanto all’ignoranza dei due libri di Daniele e di Giona, sussistono
almeno altri due argomenti che sconsigliano, a mio avviso, di insistere
sul presupposto che Celso abbia letto questi due profeti o a loro riguardo:
«In che modo Giona sotto la zucca può essere incluso entro quella teoria
di decessi e sofferenze eroiche che Celso menziona? 22. Perchè di tutto il
21 È opinione comune che la “Bibbia” di Celso fosse, pur se assai più vasta di quella de-
gli altri polemisti anticristiani, di per sé limitata: vi si trovava Genesi, parte di Esodo (Rinal-
di, La Bibbia dei pagani 1, 116, ipotizza che conoscesse sostanzialmente tutta la Torah, con
la sola assenza di Levitico; cfr. anche G.T. Burke, Celsus and the Old Testament, in Vetus Te-
stamentum 36 [1966] 241-245) e probabilmente il solo Vangelo di Matteo; cfr. G. Lanata,
Nota informativa, in Ead. (cur.), Celso, Il discorso vero, 39-57, qui 49-50; Rizzo, Premessa,
16; Ressa, Introduzione, 39-41. Di grande aiuto è anche il contributo di E. Norelli, La tra-
dizione sulla nascita di Gesù nell’AΛΗΘΗΣ ΛΟΓΟΣ di Celso, in L. Perrone (cur.), Discorsi
di verità. Paganesimo, giudaismo e cristianesimo a confronto. Atti del II convegno del Gruppo
di ricerca su «Origene e la tradizione alessandrina», Institutum Patristicum Augustinianum,
Roma 1998 (Studia Ephemeridis Augustinianum 61), 133-169.
22 Cfr. Burke, Celsus and the Old Testament, 244-245: «D’altra parte, Celso non sembra
aver ricavato la storia di Giona e la zucca leggendo il libro di Giona, perché egli sta specifi-
camente riferendosi a storie “incredibili” che raccontano i Giudei e, per un gentile, Giona
e la balena sarebbe stato molto più impressionante di Giona con la sua zucca ». L’osservazio-
ne di Burke mi pare del tutto condivisibile, a maggior ragione se si ricorda che racconti si-
mili a quello di Giona erano noti anche presso la cultura religiosa del mito (si pensi alle at-
testazioni archeologiche raccolte da J.K. Papadopoulos - R. Ruscillo, A Ketos in Early Athens:
An Archaeology of Whales and Sea Monsters in the Greek World, in American Journal of Ar-
chaeology 106 [2002] 187-227). Van den Hoek - Herrmann, Celsus’ Competing Heroes, pro-
pongono come possibili fonti di Celso gli Oracoli sibillini 2,238-251 (che però menziona-
no Giona e Daniele tra gli altri [e senza nulla specificare a proposito dei due profeti]: Mosè,
Abramo, Isacco, Giacobbe, Elia…), il Terzo libro dei Maccabei 6,6-8 (dove la discendenza
di Abramo, la prole di Giacobbe, l’uscita dall’Egitto, i tre fanciulli ebrei, Giona e Daniele
vengono evocati nella preghiera di Eleazaro, sacerdote arrestato e condotto nello stadio di
Alessandria per subire il martirio; qui, però, Daniele e Giona sono menzionati come me-
moria della potenza di YHWH: «Daniele, che per invidie e calunnie fu gettato nel cuore del-
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208 Le origini della cultura visuale cristiana
racconto fantastico del profeta Giona ‹Celso› coglie un dettaglio che, nel-
la narrazione biblica, non conclude un episodio, ma è funzionale all’essi-
cazione del pergolato e al conseguente dialogo risolutivo con YHWH?»23.
Varie spiegazioni sono state proposte per capire da dove Celso abbia saputo
di questi due personaggi ‹Giona e Daniele›, partendo dai rispettivi libri del Pri-
mo Testamento sino a Giustino e all’arte cristiana. L’ultima tra queste è proba-
bilmente l’ipotesi più efficace, dal momento che queste scene erano due entro
quella dozzina abitualmente dipinta presso le tombe paleocristiane 24.
la terra ai leoni, in pasto alle bestie feroci, tu hai ricondotto alla luce, illeso. E Giona, depe-
rendo nel ventre di un enorme mostro nato dal mare, tu, Padre, hai vegliato e restituito
illeso a tutta la sua famiglia »: ivi, vv. 7-8; si noti il caso di Giona, qui ovviamente colto non
per il riposo sotto il qiqajon, ma per il prodigioso transito nel ventre del mostro). L’associa-
zione tra Daniele e Giona torna anche nella grande preghiera di Costituzioni apostoliche 7,37
(ma anche qui vengono menzionati «Daniele nella fossa dei leoni» e «Giona nel ventre del
mostro marino»: ivi, ll. 24-25). Nessuno dei casi citati da Van den Hoek e Herrmann mi
sembra possa rappresentare la “fonte” di Celso che, come si vede, cita solo i due esempi di
Daniele e di Giona e, rispetto a quest’ultimo, sottolinea singolarmente il momento del ri-
poso sotto il pergolato anziché l’episodio favoloso del mostro del quale, perciò, è lecito im-
maginare che il polemista greco non avessa alcuna nozione, diretta o indiretta.
23 Pelizzari, Vedere la Parola, 37.
24 Burke, Celsus and the Old Testament, 244; lo segue Y.-M. Duval, Le Livre de Jonas
dans la littérature chrétienne grecque et latine. Sources et influences du Commentaire sur Jonas
de saint Jérôme, 1, Institut d’Études Augustiniennes, Paris 1973 (Collection des Études au-
gustiniennes, Antiquité 53), 19, nota 34; cfr. anche Rinaldi, La Bibbia dei pagani, 1, 116:
«Celso conobbe […] le vicende di Daniele e di Giona molto probabilmente da raffigurazio-
ni artistiche» (così anche in Id., La Bibbia dei pagani, 2: Testi e Documenti, EDB, Bologna
1998 [La Bibbia nella storia 20], 247: «Ben difficilmente Celso ha potuto derivare la cono-
scenza di questi due episodi biblici da una lettura diretta dei rispettivi libri. Forse […] bi-
sogna ipotizzare che il pagano sia rimasto colpito da raffigurazioni artistiche cristiane»).
Vale la pena di richiamare qui quel «diagramma (diagraphē)» che Celso descrive con dovi-
zia di particolari in Discorso veritiero 6,25 (non a caso nell’edizione di Salvatore Rizzo [pa-
gina 211], alla descrizione di questo disegno viene premesso «[Ho avuto occasione di osser-
vare un loro] diagramma ») e che, per quanto importa qui, illustra un grafico figurativo.
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Il quadro cronologico 209
25 Cfr., infatti, quanto segnala Rizzo, Premessa, 30, «Nell’indagine celsiana, sono am-
mirevoli i contatti, le interviste e le discussioni con i rappresentanti della nuova fede, pic-
coli e grandi. Celso ha avvicinato gruppi cristiani diversi».
26 Cfr. il catalogo descrittivo di R. Ferrario, Il riposo di Giona. Analisi di un motivo ico-
nografico nel cristianesimo delle origini, M.A. Diss., Milano a.a. 2003-2004, dove tale abbi-
namento è elencato ventisei volte (cfr. anche il più dettagliato repertorio di N. Bonansea,
Simbolo e narrazione. Linee di sviluppo formali e ideologiche dell’ iconografia di Giona tra III
e VI secolo, CISAM, Spoleto 2013 [Istituzioni e Società 18], 169-245). Cfr. anche
Dresken-Weiland, Immagine e parola, 99.
27 Pelizzari, Vedere la Parola, 37-38.
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210 Le origini della cultura visuale cristiana
tria pagana” sono equiparate); Clemente di Alessandria, Protrettico ai greci 4,46-63; Tertul-
liano, L’ idolatria 1,1 («Il principale crimine [Principale crimen] del genere umano, il reato
sommo [summus reatus] del secolo e l’intera ragione del giudizio è l’idolatria [tota causa iu-
dicii idololatria]»).
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Il quadro cronologico 211
suchungen zur Geschichte und Anschauungswelt eines spätgnostischen Systems, Jordan & Gram-
berg, Leipzig 1938, cfr. oggi I. Jurasz, Carpocrate et Épiphane: chrétiens et platoniciens radi-
caux, in Vigiliae Christianae 71 (2017) 134-167.
31 Cfr. Clemente di Alessandria, Stromati 3,5-9.
32 La notizia di quest’uso è attestata anche in un Frammento greco, conservato presso
Ippolito, Elenchos 7,32: cfr. A. Pousseau (éd.), Irénée de Lyon, Contre les Hérésies. Livre I, 2:
Texte et traduction, Cerf, Paris 1979 (SCH 264), 98; 343. Cfr. comunque G. Rota, «Body
mod»: alcune note sulla cauterizzazione auricolare dei Carpocraziani (Iren. Haer. 1,25,6), in
Paideia 70 (2015) 341-352.
33 La traduzione proposta è fortemente debitrice delle osservazioni di P.C. Finney, Ima-
ges on Finger Rings and Early Christian Art, in Dumbarton Oaks Papers 41 (= Studies on Art
and Archeology in Honor of Ernst Kitzinger on His Seventy-Fifth Birthday) (1987) 181-186, e
di J.A. Francis, Clement of Alexandria on Signet Rings: Reading an Image at the Dawn of Chri-
stian Art, in Classical Philology 98 (2003) 179-183.
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212 Le origini della cultura visuale cristiana
ritratto di quello che oggi si chiamerebbe “il Gesù storico” (si tratterebbe,
infatti, di copie di un originale commissionato addirittura da Pilato)34.
D’altra parte, si deve notare anche che, pur essendo il testo caratteriz-
zato da uno scoperto intento polemico, l’autore non si spinge sino a formu-
lare esplicitamente un’accusa di idolatria, limitandosi al contrario alla sola
stigmatizzazione dell’adempimento del culto presso le immagini («circa
eas»)35. Certo, l’originale greco dell’opera di Ireneo è andato perduto e quel
che leggiamo di questa notizia proviene in realtà solamente da una versione
latina; d’altra parte, proprio perché si tratta di una pagina polemica, è ve-
rosimile presupporre un inasprimento dei toni, non una loro mitigazione 36.
Sussiste inoltre almeno un aspetto del testo che allontana il tema dell’ido-
latria, nonostante quell’accenno polemico ai culti profani («come i gentili
[ut gentes]»): il ritratto di Gesù starebbe, infatti, insieme a quello dei filoso-
fi, in un contesto, quindi, non prioritariamente religioso né idolatrico37.
li. Una tra le più prococi è quella ricavabile dal racconto di Atti di Giovanni 26-29 (seconda
metà del II secolo), dove Licomede, discepolo miracolosamente risuscitato con la moglie per
intercessione dell’apostolo Giovanni, fa ritrarre quest’ultimo, omaggiandone poi l’effigie al-
lo stesso modo descritto dal brano di Ireneo: «Licomede, che aveva per amico un abile pit-
tore, andò in fretta da lui e gli disse: “[…] Vieni presto a casa mia e dipingi, a sua insaputa,
l’uomo che ti indicherò […]. Il pittore, dunque, il primo giorno tracciò il profilo e se ne an-
dò; il giorno successivo lo dipinse con i suoi colori e consegnò il ritratto a Licomede, con sua
grande gioia. Licomede […] mise ‹il ritratto› nella sua camera da letto e lo decorò con ghir-
lande» (26-27). Seguirà poi il duro scambio tra l’Apostolo e Licomede nel quale, pur aven-
do constatato la straordinaria rassomiglianza del ritratto («Licomede gli portò uno specchio;
quando ‹l’Apostolo› si vide allo specchio e dopo aver fissato il ritratto, disse: “Come ‹è vero
che› il Signore Gesù Cristo vive, il ritratto è come me!”» [28]), Giovanni inviterà il suo in-
terlocutore a dipingere con i colori della virtù la propria somiglianza con Dio. Cfr. Thümmel,
Die Frühgeschichte der ostkirchlichen Bilderlehre, numero 5. Come scrive Grabar, Le vie dell’ico-
nografia cristiana, 72: «È […] molto interessante possedere una simile testimonianza scritta
su un ritratto […] ripreso dal vivo, anche se fu eseguito da un pittore che non sembra aver
conosciuto il santo. Non è meno istruttivo leggere che uno dei discepoli dell’apostolo, che si
considerava un cristiano, ritenesse logico possedere un ritratto del maestro e persino farlo
oggetto di quella venerazione che […] era tributata alle immagini dei benefattori».
35 Come si vedrà in seguito (vedi infra, pp. 374-375), sussiste un legame privilegiato tra
no per aspetti affini a ciò che oggi si definisce propriamente “religioso” e che la biografia
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Il quadro cronologico 213
dell’eponimo dei diversi insegnamenti poteva essere coinvolta in processi mitizzanti. Si pen-
si, su tutti, al caso di Pitagora; cfr. G. De Cesaris, Iamblichus’ Investiture of Pythagoras, in
Méthexis 30 (2018) 175-196.
38 Così – tra i più, per la verità – si esprime Dulaey, I simboli cristiani, 32-33.
39 La definizione di: «Veloce puntata (Epidromē kephalaiōdēs) sulla migliore vita » inti-
dría: el aporte de la sabiduría bíblica, in Scripta Mediaevalia 11 (2018) 39-69, che analizza
il contributo che le Scritture diedero alla progettazione dell’ideale del cristiano, nel conte-
sto della raffinata élite della scuola catechistica di Alessandria, per lo più di origine greca e
ispirata al modello della paideia ellenistica.
41 Cfr. Clemente di Alessandria, Pedagogo 3,57,1.
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214 Le origini della cultura visuale cristiana
ricevuto l’educazione del Pedagogo, nel qual caso «non ci sarebbe nep-
pure bisogno di sigilli (sphragidōn), essendo onesti allo stesso modo tan-
to i servi tanto i padroni» 42. Il sigillo, dunque, e l’immagine che esso
reca non hanno funzione decorativa, aderendo Clemente radicalmente a
quella postura antisuntuaria che riconosceva nelle ricercatezze della mo-
da e nello sfarzo del lusso altrettanti sintomi di fragilità morale. Le im-
magini che Clemente evoca, perciò, in nessun modo possono essere in-
terpretate come concessioni a presunte vanità delle donne o alla moda del
tempo o, a maggior motivo, a nostalgie idolatriche.
Che i nostri sigilli (sphragides ēmin) siano una colomba o un pesce o una nave
sospinta da venti favorevoli o una lira musicale, come quella usata da Policrate, o
l’ancora nautica, come quella che Seleuco aveva inciso sulla sua pietra ‹del sigillo›.
E se ‹la figura› dovesse essere un uomo che pesca, ‹l’immagine riportata sul sigil-
lo› ricorderà alla mente ‹di chi lo indossa› l’apostolo e i fanciulli tratti fuori dall’ac-
qua (tōn ex ydatos anaspōmenōn paidiōn) 43. Noi, a cui è proibito il legame con gli
idoli, non dobbiamo incidere ‹sui sigilli› il loro volto ‹letteralmente: “Il volto degli
idoli” (eidōlōn prosōpa)› né la spada né l’arco, perché seguiamo la via della pace,
né le coppe, perché siamo sobri. Tra i dissoluti molti hanno inciso i propri aman-
ti e le concubine, come per non dimenticare mai […] le loro passioni erotiche con
questo promemoria della loro lussuria 44.
42 Si osservi anche che Clemente di Alessandria, Pedagogo 3,57,1, autorizza l’uso del si-
gillo «d’oro (ek chrysiou) […] per la cura delle esigenze domestiche». Se ne deduce tanto la
disponibilità economica necessaria all’acquisto dell’oggetto prezioso tanto la proprietà di
beni il cui possesso va amministrato severamente (il sigillo aveva una funzione simile a quel-
la delle nostre chiavi).
43 Altra traduzione possibile è: «E se qualcuno ‹cioè chi calza il sigillo› è un pescatore,
si ricordi dell’apostolo e dei fanciulli tratti fuori dall’acqua » (così in Italia, per esempio, D.
Tessore [cur.], Clemente Alessandrino, Il pedagogo, Città Nuova, Roma [Collana di Testi
Patristici 181], 308), ma, come giustamente osserva Francis, Clement of Alexandria on Si-
gnet Rings, 180, «è chiaro che il Pedagogo fosse destinato a un pubblico di una certa cultu-
ra letteraria, mezzi sociali e posizione: l’opera abbonda di allusioni e citazioni dall’epica gre-
ca, dal dramma e dalla filosofia. Prima e dopo aver espresso la sua opinione sugli anelli,
Clemente […] chiarisce che gli uomini che li indossano […] sono persone coinvolte nell’am-
ministrazione civile, uomini d’affari e proprietari terrieri. Non sarebbe, d’altronde, in pri-
mo luogo, insolito, per un pescatore, avere bisogno e possedere un anello con sigillo scolpi-
to?». Cfr. anche L. Eizenhöfer, Zum Satz des Clemens von Alexandrien über das Siegelbild des
Fischers, in Jahrbuch für Antike und Christentum 6 (1963) 173-174.
44 La traduzione proposta è fortemente debitrice delle osservazioni di Finney, Images on
Finger Rings, e di Francis, Clement of Alexandria on Signet Rings. Sul documento cfr. anche L.
Eizenhöfer, Die Siegelbildvorschläge des Clemens von Alexandrien und die älteste christliche Li-
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Il quadro cronologico 215
teratur, in Jahrbuch für Antike und Christentum 3 (1960) 51-69; H.-D. Altendorf, Die Siegel-
bildvorschläge des Clemens von Alexandrien, in Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft
58 (1967) 129-138; Thümmel, Die Frühgeschichte der ostkirchlichen Bilderlehre, numero 7.
45 Una significativa eccezione è da menzionare: Klauser, Studien zur Entstehungsge-
schichte, IV, propose per primo (ma l’ipotesi ebbe fortuna: cfr., per la storiografia italiana,
Carletti, Origine, committenza e fruizione, 463-465) che la successiva iconografia biblica
cristiana, giudicata estremamente riduttiva («Vereinfachung [semplificazione]» la definisce
Klauser, Studien zur Entstehungsgeschichte, IV, 142), fosse tale per la sua origine glittica – re-
lativa all’incisione di gemme e pietre dure – e di oreficeria. Il pochissimo spazio concesso
dalla dimensione del sigillo avrebbe imposto la genesi di motivi iconici estremamente sin-
tetici, e in tal modo si sarebbe originato il primo lessico dell’iconografia cristiana. La tesi
non pare essere più seguita dalla critica che, semmai, impiega oggi il passo del Pedagogo per
documentare il transito da un’iconografia del simbolico a un’iconografia descrittiva.
46 Non si tratta cioè di un’accusa polemica, ma di una prescrizione che l’autore condi-
vide e che, quindi, ancor più delle testimonianze di Ireneo e di Tertulliano, direttamente
documenta la prassi cristiana.
47
La prioritaria menzione degli idoli, in apertura dei divieti citati dall’Alessandrino, po-
trà forse sembrare incoerente con quanto affermato nel corpo del testo; non si dimentichi,
però, che anche nella mentalità profana la venerazione degli idoli era descritta come una
forma deteriore della prassi religiosa, distintiva di persone incolte e frequentemente corre-
lata a stili di vita non conciliabili con la ricerca del bene e della verità. F. Bisconti, Introdu-
zione, in Id. (cur.), Temi, 252-258, 9-86, qui 13-14, ravvisa in questo passo clementino un
parallelo con la «cultura giudaica »: «Questo eloquio figurativo di tipo segnico sembra sor-
gere nell’ambito della cultura giudaica e sembra utile a rappresentare gli elementi fonda-
mentali della liturgia ebraica, dall’aron alla menorah, dal coltellino per la circoncisione alla
torah della legge».
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216 Le origini della cultura visuale cristiana
Tale significato, per altro si riscontra già nella letteratura cristiana delle origini; cfr.
48
per esempio già Martirio di Policarpo 13,2 (sull’originale significato di questo segno, cfr. R.
Cacitti, Grande sabato. Il contesto pasquale quartodecimano nella formazione della teologia del
martirio, Vita e Pensiero, Milano 1994 [Studia Patristica Mediolanensia 19], 71-72, nota
119); Origene, Omelie sul Cantico 2,12. Su questo simbolo e sul suo impiego in ambito pro-
fano si tornerà in seguito: vedi infra, pp. 485-486.
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Il quadro cronologico 217
lomba 49 siano stati poi accostati il monogramma cristologico e, infine, pur de-
terminando una parziale sovrapposizione con la colomba, lo stilo. Colpisce di
questa figura la calibrata architettura iconografica. Com’è noto, il kerygma cri-
stiano è espresso da un semplice predicato nominale: “Gesù è il Cristo”; l’appel-
lativo di “Cristo” perciò poteva da solo bastare ad affermare la propria profes-
sione di fede. Il cristogramma, pur in tutta la varietà delle sue configurazioni
(cfr. il “classico” V.E. Gardthausen, Das alte Monogramm, Hiersemann, Leipzig
1924; cfr. anche K. Wessel, s.v. «Christusmonogramm», in Id. - M. Restle [hrsg.],
Reallexikon zur byzantinischen Kunst, 1, Hiersemann Hauswedell, Stuttgardt
1966, 1047-1050; P. Bruun, The Victorious Signs of Constantine: A Reappraisal,
in Numismatic Chronicle 157 [1997] 41-59), si costituì dunque come uno dei più
efficaci equivalenti strumenti iconici per indicare la professione di fede. Con
tale fondamentale connotazione del chi-rho poteva interferire l’uso trionfale di
questo monogramma, ampiamente sfruttato dalla corte costantiniana. Nel caso
qui esaminato, la presenza dello stiletto che attribuisce alla colomba, simbolo
dell’anima, l’iscrizione delle due lettere greche riscatta l’intera scena da questa
possibile interferenza di significato. Cfr., per riferimenti bibliografici, anche Pe-
lizzari, Vedere la Parola, 73-74.
ceversa. L’unico dato ricavabile con maggiore sicurezza mi pare essere quello della seriorità
dell’aggiunta dello stiletto, che logicamente presuppone le due figure da correlare. Il mono-
gramma è l’unico elemento che possa fornire qualche parametro cronologico, diffondendo-
si in ambito cristiano più largamente a partire dal IV secolo. L’ipotesi della priorità della co-
lomba, dunque, consente di datare l’avvio di questo graffito anche all’ultimo quarto del III
secolo.
50 Cfr. almeno Tertulliano, Il battesimo 1,3; Oracoli sibillini 8, 217-250. È ancora aper-
to il dibattito circa l’uso iconografico del pesce in ambito cristiano: se questo abbia porta-
to all’escogitazione dell’acrostico o se la circolazione di quest’ultimo abbia determinato la
fortuna del simbolo. L. Gambassi, s.v. «Pesce », in Bisconti (cur.), Temi, 252-258, qui 252,
propone di «riferire la pratica di far uso, in ambito letterario e figurativo, dell’immagine
del pesce, a quel più ampio contesto culturale creatosi nell’impero romano sulla scorta del-
le filosofie ellenistiche, specialmente di ascendenza platonica ». Resta ovviamente necessa-
rio richiamare la monumentale ricerca di Franz Joseph Dölger che portò ai cinque volumi
del suo ᾿Ιχϑύς, das Fischsymbol in frühchristlicher Zeit (1909-1940).
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218 Le origini della cultura visuale cristiana
Figura 19: l’apostolo Paolo conduce la nave Tecla. Bassorilievo, Musei Capito-
lini, Roma. Inizi del IV secolo. La china è tratta da H. Leclercq, s.v. «Paul
(saint)», DACL 13,2, 2567-2700, qui 2695-2696, figura 10000. Questo famo-
so pannello reca un peculiare impiego della tradizionale iconografia dell’im-
barcazione «sospinta da venti favorevoli» (Clemente Alessandrino, Pedagogo
3,59,1): pur tra le molte ipotesi avanzate, io credo si debba riconoscere qui la
trascrizione iconografica di quel processo, documentato in ambito “patristico”,
di sovrapposizione delle categorie ecclesiologiche all’agiografia di Tecla (cfr. M.
51 L’esempio forse migliore di questa qualificazione può essere riconosciuto nei c.d. “pe-
sci eucaristici” del cubicolo doppio X-Y della Regione di Lucina nella Catacomba di Calli-
sto, che verranno esaminati di seguito, vedi infra, pp. 224-233.
52 Cfr. almeno E. Peterson, La nave come simbolo della Chiesa nell’escatologia, in Id., Chie-
sa antica, giudaismo e gnosi. Studi e ricerche (1959), Paideia, Brescia 2021 (Scritti scelti di
Erik Peterson 10), 249-258; J. Daniélou, I simboli cristiani primitivi, Arkeios, Roma 1990,
69-81 (ed. or. Paris 1961); Rahner, Simboli della Chiesa, 397-966.
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Il quadro cronologico 219
Pesthy, Thecla among the Fathers of the Church, in J.N. Bremmer [ed.], The Apo-
cryphal Acts of Paul and Thecla, Pharos, Kampen 1996 [Studies on Early Chri-
stian Apocrypha], 164-178, qui 177). A motivare questa scelta vi fu probabil-
mente la volontà di riconoscere in Tecla l’eponima di un paradigma cristiano,
paolino per ispirazione, ma distintivo per esiti: «Qui, insomma, Tecla è la Chie-
sa di Paolo» (G. Pelizzari, La discepola ribelle. Tecla di Iconio nel ciclo agiografi-
co degli Atti di Paolo, Paoline, Milano 2017 [Saggistica Paoline 79], 86-87;
rinvio a queste pagine anche per la bibliografia archeologica e storico-artistica
dedicata a questo pezzo).
Judaism and Early Christianity?, in Journal of Jewish Art 5 (1978) 6-16; F. Bisconti, Un feno-
meno di continuità iconografica. Orfeo citaredo, Davide salmista, Cristo pastore, Adamo e gli
animali, in Augustinianum 28 (1988) 429-436.
54 Cfr. J.H. Eaton, Music’s Place in Worship: A Contribution from the Psalms, in J. Bar-
ton (ed.), Prophets, Worship, and Theodicy. Studies in Prophetism, Biblical Theology, and
Structural and Rhetorical Analysis, and on the Place of Music in Worship: Papers Read at the
Joint British-Dutch Old Testament Conference Held at Woudschoten, 1982, Brill, Leiden 1984
(Oudtestamentische Studiën 23), 85-107; P. Siniscalco, Profezia e storia nei primi secoli cri-
stiani, in Id., Il senso della storia: studi sulla storiografia cristiana antica, Rubbettino, Sove-
ria Mannelli 2003 (Armarium 11) 315-330, qui 322.
55 Il testo oracolare è conservato presso Epifanio, Panarion 48,4,1. Su questo oracolo,
cfr. M. Dell’Isola, L’ultima profezia. La crisi montanista nel cristianesimo antico, Il pozzo di
Giacobbe, Trapani 2020 (Oi christianoi 30), 45-46.
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220 Le origini della cultura visuale cristiana
Clemente non è stata riconosciuta. Sull’uso di questa immagine in Clemente, cfr. T. Hal-
ton, Clement’s Lyre. A Broken String, a New Song, in The second century 3 (1983) 177-199.
57 Cfr. J.-P. Kirsch, s.v. « Ancre », DACL 1,2, 1999-2031, qui 2000-2010.
58 L. Gambassi, s.v. « Ancora», in Bisconti (cur.), Temi, 105-106, qui 106; rinvio a que-
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Il quadro cronologico 221
59 Per le difficoltà poste dal testo in ordine all’identificazione di questa scena, vedi su-
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222 Le origini della cultura visuale cristiana
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Il quadro cronologico 223
ginese, ma soltanto di una radicalizzazione teologica del tutto coerente con il debito con-
tratto da Tertulliano con Ireneo di Lione (cfr. almeno Contro le eresie 3,24,1).
61 Tertulliano, La pudicizia 7,1; a questo brano ha dedicato specifica attenzione H.G.
Thümmel, Tertullians Hirtenbecher, die Goldgläser und die Frühgeschichte der christlichen
Bestattung, in Boreas 17 (1994) 257-265.
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224 Le origini della cultura visuale cristiana
2. LA DOCUMENTAZIONE ARCHEOLOGICA.
LA R EGIONE DI LUCINA DELLA CATACOMBA DI CALLISTO:
IL CUBICOLO X-Y
Tra la fine del II secolo e gli inizi del III o, al più tardi, entro un arco
cronologico compreso tra l’episcopato di Callisto († 222) e la fine della
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Il quadro cronologico 225
cronologico più “prudente” – tra il terzo e il quarto decennio del III secolo –, non insisten-
do su una forbice particolarmente ampia, viene talora assunto preferenzialmente; nel disco-
starmene, a favore di una datazione più prossima allo scavo dei cubicoli, segnalo però an-
che l’inesorabile, progressivo abbassamento cronologico che, in tempi del tutto recenti, ha
fatto slittare la pittura di questi cubicoli dal primo al quarto decennio del III secolo. Riten-
go del tutto condivisibile quanto risolutivamente ha scritto L. Spera, Il paesaggio suburbano
di Roma dall’antichità al medioevo: il comprensorio tra le vie Latina e Ardeatina dalle Mura
Aureliane al III miglio, L’Erma di Bretschneider, Roma 1999 (Bibliotheca Archaeologica
27), 124: «Sono ottimi indicatori cronologici tutto l’apparato epigrafico e la decorazione di
alcuni vani, in particolare del cubicolo Y […], collocabile tra il 180 e il 220» (similmente
anche P.M. Barbini, Catalogo ragionato, di ipogei e catacombe romane [entro il VI miglio], in
P. Pergola, Le catacombe romane, Carocci, Roma 1997 [Quality Paperbacks 46], 107-243,
qui 199). Diversamente, esprime una tra le posizioni più “prudenti” F. Bisconti, Prime de-
corazioni nelle catacombe romane. Prove di laboratorio, invenzioni e remakes, in V. Fiocchi
Nicolai - J. Guyon [curr.], Origine delle catacombe romane. Atti della giornata tematica dei
Seminari di Archeologia Cristiana (Roma - 21 marzo 2005), PIAC, Città del Vaticano 2006
[Sussidi allo Studio delle Antichità Cristiane 18], 65-89, qui 65, che riconduce in toto il
«primo linguaggio figurativo cristiano, così come si affaccia allo scenario catacombale ro-
mano» alla «prima metà del secolo III», agli «anni Trenta del secolo» (segue Bisconti,
Dresken-Weiland, Immagine e parola, 297).
63 Questo cubicolo fa parte di una delle Regioni della Catacomba di Callisto che venne
scavata tra le prime – se non è la prima in assoluto – di tutto il complesso catacombale (insie-
me all’“Area I”; cfr. ora V. Fiocchi Nicolai - J. Guyon, Relire Styger: les origines de l’Area I du
cimetière de Calliste et la crypte des papes, in Iid. [curr.], Origine delle catacombe romane, 121-
161). Fu proprio per la spontaneità dello scavo e la conseguente confusione planimetrica, che
M.S. de Rossi, Analisi geologica ed architettonica del Cemetero di Callisto, in G.B. de Rossi, Il
cimetero di Callisto presso la Via Appia, Cromo-Litografia Pontificia, Roma 1867, con nuova
numerazione, qui 22, definì la Regione di Lucina un «inextricabilis error ».
64 F. Bisconti, Conclusioni, in Id. (cur.), Le pitture delle catacombe romane. Restauri e in-
dere la Parola, 46-58; Id., «Vedere» la Parola: alle origini dell’ iconografia cristiana. Appunti
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226 Le origini della cultura visuale cristiana
Figura 22: l’area della galleria U, in prossimità del cubicolo doppio X-Y, Re-
gione di Lucina, Catacomba di Callisto, Roma (Nestori, Cal1-2). Fine II secolo
- inizi III. Pianta e spaccato longitudinale, ricavati da L. Reekmans, La tombe
du pape Corneille et sa région cémétériale, PIAC, Città del Vaticano 1964 (Roma
Sotterranea Cristiana 4), 52-53, figure 31-32. Le planimetrie riportate illustra-
no lo sviluppo delle due camere ipogee, scavate longitudinalmente all’incrocio
fra la galleria U e la galleria V, in posizione riscattata anche dalla scala numero
4. Quello che stiamo esaminando è dunque un cubicolo non realizzato tramite
il recupero di spazi di risulta, ma progettato da subito come ambiente rilevante,
forse in vista di sepolture destinate a personaggi di spicco (per estrazione socia-
per la riconsiderazione di una fonte documentaria, in Cristianesimo nella Storia 35 (2014) 715-
745, qui 723-740.
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Il quadro cronologico 227
le o per importanza nella comunità). Con questa ipotesi collimano sia l’appa-
rato iconografico che si dispiega in questi due locali sia lo sfondamento dei
pavimenti di entrambe le camere per creare altrettanti ambienti sepolcrali, in
evidente continuità d’uso, come spesso accade nella moltiplicazione delle sepol-
ture presso le tombe dei martiri.
66 Nestori, Cal1, elenca questi soggetti: sulla volta, distrutta per la maggior parte, un
«personaggio maschile, uccelli in volo, fiori stilizzati» (cfr. Wp. 03, t. 24,1); sulla parete di
ingresso, a destra, «colombe affrontate a un cespo»; sulla parete di sinistra, un «vaso con
fiori»; sulla parete di fondo, altri «vas‹i› con fiori» e un «personaggio del quale rimane dal-
la cintola in giù» (su questa parete, sopra l’ingresso alla camera Y, si trova la scena del bat-
tesimo di Cristo); sulla parete di destra, «motivo ornamentale, uccello alla pastura ».
67 Sulla non sovrapponibilità tra battesimo di Gesù e battesimo cristiano, mi limito a
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228 Le origini della cultura visuale cristiana
Nestori, Cal2.
68
Per l’iconografia della volta della camera Y, cfr. Wp. 03, t. 25; Pelizzari, Vedere la Pa-
69
rola, 56, figura 13. Molta bibliografia è stata dedicata al tema di Daniele nella fossa dei leo-
ni, a partire da G. Wacker, Ikonographishe Untersuchungen zur Darstellung Daniels in der
Löwengrube, Ph.D. Diss., Marburg a.a. 1954-1955; cfr. anche Salomonson, Voluptatem
spectandi, 55-90; C. Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”. The Recep-
tion of Daniel “Tales” in Early Christianity (II-IV Century), Ph.D. Diss., Milano a.a. 2014-
2015. Si noti la valenza ecclesiologica di questa tipologia, chiaramente imperniata sull’espo-
sizione ad bestias di molti martiri: cfr. A. Carfora, I cristiani al leone. I martiri cristiani nel
contesto mediatico dei giochi gladiatori, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2009 (Oi christianoi
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Il quadro cronologico 229
Daniele “rinasce” dal “lacus dei leoni”, come il cristiano rinasce dal batte-
simo o, meglio ancora, come il martire cristiano rinasce dal suo secondo batte-
simo “di sangue”. Così, attraverso un semplice intervento iconografico, il tema
di Daniele si distacca […] dal contesto storico del Primo Testamento, per esse-
re interpretato, su base puramente simbolica, nello spirito del Nuovo Testamen-
to – come esempio di “sacrificio” e “liberazione” 70.
Del resto, il progetto iconografico che qui aggrega Daniele salvo tra i
leoni (cfr. Dn 6,17-24; 14Vulgata [= Bel e il DragoLXX],31-42), il Buon Pasto-
re e gli oranti codifica nel complesso una densa ermeneutica. Nella figura
del profeta, infatti, si intersecavano tanto la tipologia cristologica quanto
quella martirologica, ambiti questi ultimi che, a loro volta, erano già sta-
ti fatti coincidere sul piano della teologia sacrificale. L’equazione tra Cristo
e martire era infatti già stata sperimentata da Ap 7,13-15, proprio facendo
leva sull’unico sangue effuso: «Uno tra gli anziani mi disse: “Questi, av-
volti in bianche stole, chi sono e da dove vengono?”. E io gli dissi: “Mio
signore, tu sai”. E mi disse: “Questi sono coloro che provengono dalla
grande tribolazione e che hanno mondato le loro stole e le hanno rese can-
dide nel sangue dell’agnello. Per questo stanno di fronte al trono di Dio
[…] e colui che sta assiso […] porrà la tenda su di loro”». L’alternanza tra
effigi del Buon Pastore e figure di oranti rende con efficacia questo dupli-
ce piano ermeneutico – cristologico e martiriale –: Daniele è qui profezia
tanto del Buon Pastore immolato quanto del suo gregge martire.
Anche il sistema delle decorazioni che viene distribuito lungo le pare-
ti rivela una grande coerenza progettuale: sulla parete d’ingresso stanno
personaggi virili e scene pastorali (pecore, uccellini e vasi); sulle pareti
laterali stanno figure di pesci e il riposo di Giona; sulla parete di fondo
si trovano i celebri “pesci eucaristici”, di cui si dirà fra poco71.
10); Pelizzari, «Vedere» la Parola: alle origini dell’ iconografia cristiana, 730-740. Cfr. anche
Jensen, Understanding Early Christian Art, 27.
70 Salomonson, Voluptatem spectandi, 71.
71 Per Giona, vedi infra, pp. 496-501; per i “pesci eucaristici”, vedi infra, pp. 231-233.
Per le pecore e il vaso di latte, vedi infra, pp. 248-253. Cfr., per l’elenco delle pitture di que-
sta camera, Nestori, Cal2. Per la parete di ingresso, cfr. anche Wp. 03, t. 24,2; per la pare-
te di destra, cfr. Wp. 03, t. 26,1; per la parete di fondo, cfr. Wp. 03, t. 27,1.
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230 Le origini della cultura visuale cristiana
Figura 24: il cubicolo doppio X-Y: dislocazione delle pitture. Lo schema è rica-
vato disponendo sulla planimetria di Reekmans, La tombe du pape Corneille, 52,
figura 31, i dati catalogati in Nestori, Cal1-2. Lo schema appena proposto permet-
te di apprezzare la congruità della dislocazione dei materiali figurativi di questo
cubicolo nello spazio architettonico delle due camere che lo compongono. Come
si sottolineava al principio della descrizione di questi ambienti ipogei, uno degli
elementi che più colpisce del loro progetto iconografico è l’efficacia con cui esso
interagisce con lo spazio volumetrico in cui è inserito. Si pensi all’osservatore,
“costretto” dalla conformazione di queste camere e dalla dislocazione delle figu-
re a percorrere una sorta di breve “tragitto” in queste stanze72. Appena entrato nel
cubicolo (camera X), il visitatore non vedrà che motivi paradisiaci (i numerosis-
simi fiori) e simbologie già efficacemente impiegate dall’iconografia classica per
alludere all’anima (le diverse colombe), finalmente libera di pasturare gioiosamen-
te; sulla volta, forse, un’effigie del Buon Pastore73 avrebbe iterato questa sintesi
del “giardino” (paradeisos in greco). Per accedere al secondo ambiente gli sarà ri-
chiesto di “passare attraverso” il battesimo di Cristo, dipinto sovrastante il pas-
saggio alla camera Y. Una volta entrato – giunto sotto l’effigie di Daniele nella
Non stupirebbe; così accade sei volte nella Catacomba di Callisto (su 15 volte deco-
73
rate e leggibili [di tre di queste, però, si conservano solo marginali frammenti]): in Nesto-
ri, Cal3-4; 14; 21-23.
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Il quadro cronologico 231
fossa dei leoni, solenne tipologia della Chiesa martire –, egli osserverà finalmen-
te Giona che si riposa, tipologia della glorificazione pasquale del Cristo (vedi infra,
pp. 496-501), l’Ichthys, le pecore e il vaso del latte munto (cfr. Wp. 03, t. 24,2;
l’immagine della mungitura delle pecore è impiegata anche da Passione di Perpe-
tua e Felicita 4,8-9 come visione del paradiso) e, infine, i celebri “pesci eucaristi-
ci” (cfr. Wp. 03, t. 28,1-2). Il percorso tracciato dall’iconografia dalle camere X e
Y della Regione di Lucina riassumeva e dispiegava, dunque, l’itinerario «dell’e-
sperienza cristiana; se il battesimo era sphragis, il martirio diveniva taxis ineludi-
bile per accedere al Regno». D’altra parte, «Va anche sottolineato il fatto che
queste coordinate – battesimo, eucaristia, martirio, Regno – vengono enfatizzate
proprio dal fatto di essere espresse entro il contesto catacombale: quanto di reto-
rico esse recano, infatti, cade nella misura in cui il loro discorso è “consacrato” da
quello spazio prima di tutto reliquario e, quindi, cultuale in cui esso trova formu-
lazione» (Pelizzari, «Vedere» la Parola: alle origini dell’ iconografia cristiana, 730).
In queste camere, insomma, la disposizione delle figure non è prodotto casuale o
irrilevante per la comprensione delle immagini; al contrario è esso stesso “fattore
semantico”, padroneggiato con maestria.
74 Solo Styger, Die altchristliche Grabeskunst, 45-50 e nota 61, ritenne questo gruppo una
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232 Le origini della cultura visuale cristiana
che per prime permettono di attestare la peculiare attitudine dei cristiani alla
gestione del rapporto tra documento testuale e documento iconico. Com’è evi-
dente, il prototipo immediato di queste figure è dato dai due racconti di mol-
tiplicazione dei pani e dei pesci (il primo: Mc 6,30-44 || Mt 14,13-21 || Lc 9,10-
17 || Gv 6,1-13; il secondo Mc 8,1-9 || Mt 15,32-39; sull’impiego di questi
materiali nella genesi del tema iconografico della moltiplicazione dei pani, cfr.
anche J. Wybo, Du texte à l’ image. Vers une proposition visuelle du récit de la
multiplication des pains (Mc 6,36-44), in Lumen Vitae 35 [1980] 387-464). D’al-
tra parte, ancora una volta, l’immagine cristiana non si limita a illustrare un
passo del testo biblico – in questo caso raffigurandone l’elemento saliente degli
alimenti moltiplicati –, ma lo interpreta, per precisare di volta in volta il signi-
ficato con cui lo richiama. Come si è visto, l’esegesi cristiana delle origini, sia
orientale sia occidentale, programmaticamente moltiplicò i piani semantici del
testo biblico, elaborando, di conseguenza, per le stesse pericopi bibliche solu-
zioni ermeneutiche quanto più difformi tra loro (un fenomeno, questo, che, nel
caso del racconto della moltiplicazione dei pani, opera già in fase redazionale
dei Vangeli, da Marco in poi; cfr. ora almeno J.-M. Van Cangh, Le thème des
poissons dans les récits évangéliques de la multiplication des pains, in Revue Bibli-
que 78 [1971] 71-83; R.D. Aus, Feeding the Five Thousand. Studies in the Judaic
Background of Mark 6:30-44 par. and John 6:1-5, University Press of America,
Lanham [MD] et alibi 2010 [Studies in Judaism]; P. Auffret - C. Berton, Les
deux multiplications des pains dans l’ évangile de Marc. Etude structurelle, in Ri-
vista Biblica 66 [2018] 373-390). Richiamare un brano scritturistico, dunque,
equivaleva a evocare una gamma di significati: per questo motivo, esattamente
come avveniva nell’esegesi letteraria, anche le prime immagini cristiane dovet-
tero affrontare il problema di spiegare di volta in volta in quale accezione im-
piegavano ciascun episodio biblico. Anche nelle pitture che ora si stanno esa-
minando l’inclusione del tassello rosso al centro delle due ceste (nella
restituzione in bianco e nero questo elemento si identifica più facilmente nel
“pesce eucaristico” di sinistra, ma si ritrova anche nell’altro) precisa puntual-
mente sia la fonte di queste pitture sia il significato sacramentale (eucaristico)
di questa menzione figurativa. È, infatti, solo nella duplice spiegazione di Gv
6,22-59 che per due volte (6,35.53) si menziona, accanto al nutrimento, anche
la bevanda. Dunque l’accezione eucaristica della citazione dell’episodio della
moltiplicazione dei pani e dei pesci nella camera Y di questo cubicolo viene
puntualizzata precisandone la matrice giovannea. Nel complesso, poi, la scelta
di questa ermeneutica si inserisce perfettamente nel progetto iconografico svi-
luppato lungo queste antichissime celle ipogee, del quale anzi essa amplifica
efficacemente il senso complessivo. Per il cristiano avere accesso, dopo il batte-
simo, alla partecipazione alla cena significa sia esser parte della Chiesa martire
sia pregustare la salvezza (cfr. almeno 1Cor 11,23-26; Mc 14,25 ecc.).
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Il quadro cronologico 233
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75 Per un’ipotesi di datazione affine, benché argomentata su basi di probabilità, cfr. Sny-
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234 Le origini della cultura visuale cristiana
3. UN PARALLELO CONTESTUALE.
LA PIÙ ANTICA DOCUMENTAZIONE DELLA STORIA CRISTIANA
Il quadro emerso nelle pagine precedenti può essere riassunto in que-
sti termini: la documentazione escussa suggerisce di situare entro il primo
terzo del II secolo i primi esperimenti visuali cristiani mentre resta salda
tra la fine del II e gli inizi del III secolo la datazione dei più antichi re-
perti pervenutici.
Le implicazioni di questa cronologia più risalente credo possano esse-
re colte più efficacemente prestando brevemente attenzione alla datazio-
ne attribuita ai più antichi reperti materiali della storia cristiana: i papiri
neotestamentari. Va premesso che la critica dibatte fortemente rispetto
alla cronologia di questi manoscritti e spesso la forbice proposta dagli
studiosi non è inferiore al secolo di ampiezza (si limita ai venticinque an-
ni per i casi più definiti). I papiri del Nuovo Testamento datati entro la
fine del II secolo o agli inizi del III sono molto pochi; il maggior consen-
so della critica converge sui seguenti:
1. 𝔓52 (Rylands Greek P 457), conservato presso la John Rylands
University Library di Manchester: un tempo abitualmente collo-
ni simboli generici, per lo più mutuati dalla gentilità, generalmente in contesto privato, so-
prattutto nei quadranti più ellenizzati delle Chiese; con il III secolo, poi, con il “dilagare”
dell’immagine nelle comunità cristiane, iniziarono a circolare anche immagini bibliche più
complesse. La testimonianza di Celso impedisce di abbracciare questa prospettiva ermeneu-
tica univocamente o troppo rigidamente.
78 Alcune fonti, benché solo esemplificative, sono state esaminate in Pelizzari, Vedere la
Parola, 33-46; il catalogo di Ferrario, Il riposo di Giona, entro la fine del III secolo ne elenca
già sedici; vedi comunque supra, nota 21 a p. 207. Otranto, Alle origini dell’arte cristiana, 442-
445, ha sottolineato possibili intersezioni della prima cultura visuale cristiana con Eb 11 e, an-
cor più significativamente per l’origine romana di questo secondo scritto, con la c.d. Prima
lettera di Clemente. Le coincidenze persuasivamente presentate dall’autore non vengono dis-
sipate nel tentativo di ri-discutere, su quella base, la cronologia della prima cultura visuale cri-
stiana (datata agli «inizi del III secolo»: ivi, 438), ma sono acutamente lette per documentare
«l’utilizzazione dell’Antico Testamento da parte della comunità romana » (ivi, 445).
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Il quadro cronologico 235
79 Cfr. B. Nongbri, The Use and Abuse of P52: Papyrological Pitfalls in the Dating of the
Fourth Gospel, in Harvard Theological Review 98 (2005) 23-48, che, basandosi sui soli mar-
catori paleografici della tassonomia delle lettere, reputa sia possibile spingersi dalla fine del
II sino agli inizi del III secolo.
80 Così D. Baker, The Dating of New Testament Papyri, in New Testament Studies 57 (2011)
571-582, qui 575, che si basa su G. Cavallo, Funzione e strutture della maiuscola greca tra i secoli
VIII-IX, in J. Glénisson - J. Bompaire - J. Irigoin (éds.), La Paléographie grecque et byzantine. Pa-
ris 21-25 octobre 1974, C.N.R.S., Paris 1977 (Colloques Internationaux du Centre National de
la Recherche Scientifique 559), 91-110. Più alta (tra 125 e 175) è la datazione proposta da P. Or-
sini - W. Clarysse, Early New Testament Manuscripts and Their Dates; A Critique of Theological
Palaeography, in Ephemerides Theologicae Lovanienses 88 (2012) 443-474, qui 470.
81 Cfr. B. Nongbri, Reconsidering the Place of Papyrus Bodmer xiv-xv (P75) in the Tex-
tual Criticism of the New Testament, in Journal of Biblical Literature 135 (2016) 405-437; Id.
- D.B. Sharp, Four Newly Identified Fragments of P.Bodmer 14-15 (P75), in Novum Testa-
mentum 62 (2020) 99-106; cfr. anche P. Orsini, I papiri Bodmer: scritture e libri, in Ada-
mantius 21 (2015) 60-78.
82 Cfr. P. Rodgers, The Text of the New Testament and Its Witnesses Before 200 A.D.: Ob-
servations on P90 (P.Oxy. 3523), in C.-B. Amphoux (ed.), The New Testament Text in Early
Christianity: Proceedings of the Lille Colloquium, July 2000, Zèbre, Lausanne 2003 (Histoire
du texte biblique 6), 83-91.
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236 Le origini della cultura visuale cristiana
Sulla “permeabilità” del confine tra manoscritto e “cultura visuale” nella prima pro-
84
duzione documentaria cristiana si è recentemente espresso L.W. Hurtado, The Earliest Evi-
dence of an Emerging Christian Material and Visual Culture. The Codex, the Nomina Sacra
and the Staurogram, in S.G. Wilson - M. Desjardins (eds.), Text and Artifact in the Religions
of Mediterranean Antiquity. Essays in Honour of Peter Richardson, Wilfrid Laurier Universi-
ty Press, Waterloo 2000 (Studies in Christianity and Judaism 9), 271-288; L.W. Hurtado,
The Earliest Christian Artifacts: Manuscripts and Christian Origins, Eerdmans, Grand Ra-
pids (MI) - Cambridge 2006.
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Il quadro cronologico 237
nesimo delle origini, viene studiata come un parametro per definire l’elle-
nizzazione dei movimenti che professavano Gesù quale Cristo.
Insomma, circostanze analoghe hanno determinato giudizi critici an-
titetici. Volendo assumere il quadro critico relativo alla diffusione di una
cultura letteraria cristiana come un esercizio analitico più felice di quello
che si è dedicato alla prima “arte cristiana”, forse quest’ultima suggestio-
ne può servire per ridiscutere alcuni dei parametri ai quali la ricerca sem-
bra talora non voler prestare adeguata attenzione.
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II.
IL CONTESTO STORICO-ECCLESIALE
ED ECCLESIOLOGICO
1 Sono tre opere a cui la critica da sempre attribuisce un decisivo valore storico-culturale:
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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 239
nita “apologetica”, che non di rado viene riguardata come il sintomo più
evidente dell’inizio di un processo di ellenizzazione del cristianesimo
delle origini. Si tratta per quest’ultimo, come noto, di un pregiudizio sto-
riografico che, pur se ormai contestato nelle sue “linee di principio” 2,
di fatto è ancor oggi largamente operante nella ricerca. Esso considera
l’apertura cristiana, sempre più evidente, alle forme del pensiero elleni-
stico – ben presenti nella letteratura apologetica – come equivalente
all’abbandono dei caratteri originari della predicazione gesuana e della
missione post-pasquale dei suoi Apostoli. Un movimento giudaico, sna-
turato dalla sua aspirazione universalistica e sradicato per effetto di un’e-
spansione (troppo) veloce e fortunata, si sarebbe trasformato – questa è
la tesi – in un fenomeno interamente ellenizzato. Se, dal punto di vista
degli aspetti obiettivi della prima storia cristiana, questa descrizione co-
glie, almeno in parte, alcune vistose caratteristiche di sviluppo del feno-
meno, per quel che concerne la sua struttura interpretativa, essa presenta
il grave limite di voler stabilire l’antitesi tra il movimento giudaico, pri-
migenio e autentico, e il fenomeno ellenizzato, tardivo e contaminato.
Come ha giustamente sottolineato la critica più avveduta, però, già la
natura apocalittica della predicazione gesuana non poteva che implicare
una dimensione “cattolica”, universale, né l’intenzione di voler diffonde-
re il Vangelo lungo le traiettorie della diaspora ellenizzata – quindi in
un’ottica di massima ampiezza 3 – o anche solo la scelta immediata di
A partire da G.W. Bowersock, L’ellenismo nel mondo tardoantico, Laterza, Roma - Ba-
2
ri 1992 (Quadrante 55), 4, che di fatto propose di abbandonare globalmente (non solo in
relazione al cristianesimo) la categoria stessa di “ellenizzazione”. Cfr. anche G. Essen, Hel-
lenisierung des Christentums? Zur Problematik und Überwindung einer polarisierenden Deu-
tungsfigur, in Theologie und Philosophie 87 (2012) 1-17; un bilancio dell’intero dibattito, a
cui queste pagine sono in larga misura debitrici, è stato proposto da C. Markschies, L’elle-
nizzazione del cristianesimo. Senso e non senso di una categoria storica, Paideia, Brescia 2022
(Studi biblici 204).
3 Emblematica di questa precoce tendenza è la storia redazionale di At 2,1-13. Non è que-
sta la sede per affrontare nel dettaglio la questione circa l’originalità, o meno, di At 2,6b-11
(il catalogo delle nazioni presenti a Gerusalemme) nel racconto della Pentecoste: G. Schnei-
der, Gli Atti degli Apostoli, 1, Paideia, Brescia 1985 (Commentario Teologico del Nuovo Te-
stamento 5,1), 337-340, propose convincentemente di considerare il racconto originale di Atti
in linea con il concetto paolino di glossolalia, un “parlare in lingue” bisognoso di interprete
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240 Le origini della cultura visuale cristiana
(cfr. 1Cor 14,27) – il che spiegherebbe anche il sospetto che i Dodici fossero «ubriachi di mo-
sto», al quale poi Pietro esplicitamente risponde (At 2,13.15) –: l’esegeta ne derivò la seriorità
di quell’elenco di nazioni che udiva «annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio»
(2,11; cfr. anche 2,6b: «Perché udivano nella propria lingua [tē-i idia-i dialektō-i]»). Nella tra-
smissione di questo racconto, dunque, assai precocemente glōssa venne reinterpretata come
dialektos, mutando radicalmente il significato della Pentecoste: dalla manifestazione di un
evento carismatico esoterico, all’annuncio universale del Vangelo in una prospettiva ormai del
tutto essoterica. Questo esempio è significativo perché coinvolge il manifesto stesso dell’ec-
clesiologia paleocristiana, mostrando come l’ondulazione tra un movimento strettamente giu-
daico e una missione universale connoti già gli esordi della riflessione protocristiana.
4 A giudizio di chi scrive, la rilettura del fenomeno dell’ellenizzazione delle origini cristia-
ta) predicazione di Paolo all’areopago di Atene (At 17,16-34) che, al di là di come si valuti
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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 241
stiane, Gaspari, Udine 1999 (I gelsi 10), 81. Sul tema dell’escatologia degli apologisti, cfr. an-
che le acute annotazioni di S. Mazzarino, L’impero romano, Laterza, Roma - Bari 1973, 2 (Uni-
versale Laterza 244), 474-475, che colse senza difficoltà le ricadute politiche di questa
posizione teologica; cfr. anche M. Rizzi, L’escatologia degli apologisti: giudizio, rivelazione e teo-
dicea nella seconda metà del II secolo, in Annali di Storia dell’Esegesi 16 (1999) 161-178.
7 Credo valga ancora quanto scriveva Daniélou, Messaggio evangelico, 359: «Non è l’in-
contro del Vangelo con l’ellenismo che susciterà la teologia, come voleva Harnack. La teo-
logia non è più l’ellenizzazione del cristianesimo, ma l’incontro con la filosofia greca porrà
il cristiano in presenza di un altro problema oltre a quello delle speculazioni apocalittiche:
quello dell’utilizzazione delle tecniche della filosofia greca per l’elaborazione del dogma cri-
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242 Le origini della cultura visuale cristiana
stiano». Cfr. anche N. Hyldhal, Philosophie und Christentum. Eine Interpretation der Ein-
leitung zum Dialog Justins, Prostant apud Munksgaard, Kopenhagen 1966 (Acta theologi-
ca danica 9), 295.
8 Oltre alla più netta posizione che si rintraccia in Tertulliano, Apologetico 46; Id., La
prescrizione contro gli eretici 7,9-11, la cui opposizione alla filosofia è certo poco sorprenden-
te (cfr. T. Georges, Die Philosophen in Tertullians Apologeticum: Ihre Bedeutung für den Epi-
log und das gesamte Werk, in F.R. Prostmeier - H.E. Lona [hrsg.], Logos der Vernunft, Logos
des Glaubens, De Gruyter, Berlin - New York [NY] 2010 [Millennium-Studien zu Kultur
und Geschichte des Ersten Jahrtausends n. Chr. 31], 287-300), è in ogni caso necessario ri-
considerare globalmente il tema della valutazione della filosofia nel pensiero degli apologi-
sti (cfr. Daniélou, Messaggio evangelico, 25-37; si pensi anche al rapporto tra filosofia ed ere-
sia che in essi è costantemente rilanciato): cfr. almeno M.C. Bartolomei, Ellenizzazione del
cristianesimo. Linee di critica filosofica e teologica per una interpretazione del problema stori-
co, Japadre, L’Aquila - Roma 1984 (Methodos 12), 79-89.
9 Clemente di Alessandria, Stromati 6,10,80. Cfr. anche ivi 1,1,18; 1,16,80; Id., Peda-
gogo 1,6,33.
10 Cfr. Markschies, L’ellenizzazione del cristianesimo, 110.
11 Vedi supra, pp. 189-197 e infra, pp. 254-258.
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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 243
tra apologetica e culture dell’ellenismo –, del tutto prevalente nella ricerca, credo possa fa-
vorire una percezione critica univoca di questa letteratura. Si pensi alla sottostima che essa
induce dell’importante polarità esercitata, in questa dialettica, dal potere imperiale roma-
no (cfr. di recente, le osservazioni di R. López Montero, La recepción de Augusto en la apo-
logética latina: el caso de Tertuliano, in Estudios Clásicos 3 [2016] 157-167) o alla puntualità
della contestazione giurisprudenziale con cui Tertulliano inaugurò il suo Apologetico (cfr.
almeno L.J. Swift, Forensic Rhetoric in Tertullian’s Apologeticum, in Latomus 27 [1968] 864-
877; ma già Giustino si era dedicato a questo argomento: cfr. P. Keresztes, Law and Arbi-
trariness in the Persecution of the Christians and Justin’s First Apology, in Vigiliae Christianae
18 [1964] 204-214), per limitarsi a due argomenti.
13 Fino al principato di Costantino I, il Grande, e fino alle radicali novità che esso intro-
dusse sul piano storico e politico, è possibile affermare che il dilatarsi di questo tempo interi-
nale abbia rappresentato una delle dinamiche che maggiormente stimolò la riflessione cristia-
na e il dispiegamento di correttivi – teologici, esegetici, cultuali e istituzionali – volti a darne
ragione e a rilanciare l’annunco del Vangelo del Regno. Si tratta di una dinamica di lungo pe-
riodo che è possibile cogliere sin dalla prima documentazione cristiana pervenutaci: cfr. già
1Ts 4,13-18 (cfr. A.J. Malherbe, The Letters to the Thessalonians, Yale University Press, New
Haven [CT] - London 2000 [The Anchor Yale Bible 32b], 261-286; R. Fabris, 1-2 Tessaloni-
cesi, Paoline, Milano 2014 [I libri biblici. Nuovo Testamento 13], 131-144).
14 Vedi supra, p. 197.
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244 Le origini della cultura visuale cristiana
15 Come si vedrà infra, pp. 299-307, per quel che riguarda la prima produzione figura-
tiva cristiana, va osservato come essa occupi uno spazio insieme individuale (o privato) e co-
munitario. I documenti già escussi supra, pp. 201-237, mostrano che le prime attestazioni
di immagini cristiane implicano l’evocazione di una dimensione collettiva, quando non
esplicitamente ecclesiale (il comune sentire dei cristiani, a cui Celso reagisce; le immagini
di un movimento cristiano, contro il quale Ireneo si scaglia; persino l’iconografia dei sigil-
li privati, discussa però nello spazio di una catechesi universale; e, infine, i calici della chie-
sa di Cartagine). Identico discorso, come è ovvio, assume esplicita evidenza nel caso dei più
antichi documenti visuali pervenutici, ossia quell’arte funeraria chiamata a definire il luo-
go della sepoltura di singoli cristiani entro un contesto, quello cimiteriale e catacombale,
che fu il primo spazio delle Chiese.
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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 245
16
A Diogneto 5,9. Il capitolo 5 di questo straordinario trattatello è giustamente riguar-
dato come il manifesto della “cittadinanza paradossale” che i cristiani professavano nei pri-
mi secoli.
17 È necessario distinguere tra teologumeno del martirio e raffigurazione delle vicende
dei singoli martirii: con la prima espressione si intende richiamare il significato teologico
della testimonianza a cui i cristiani e le antiche Chiese erano chiamati nella dialettica con
i fondamenti teologici del potere imperiale romano (si pensi al sesto comma della Lex de im-
perio Vespasiani); con la seconda, il contenuto delle narrazioni agiografiche di Atti e Passio-
ni dei martiri, una delle pagine più rilevanti e caratteristiche dell’antica letteratura cristia-
na. Se rispetto a quest’ultimo argomento la critica è divisa tra chi ne protesta una tardiva e
marginale presenza nell’iconografia cristiana (cfr. almeno F. Bisconti, Appunti e spunti di
iconografia martiriale, in Id. - D. Mazzoleni, Alle origini del culto dei martiri. Testimonian-
ze nell’archeologia cristiana, Aracne, Roma 2005 [A10 112], 33-54, qui 33-34: «Per i primi
secoli manca totalmente qualsiasi allusione iconografica al fenomeno del martirio, nel sen-
so che delle prime grandi persecuzioni non viene tradotto in figura né il momento violen-
to delle esecuzioni né quello della gloria del martire») e chi no (cfr., oltre al già citato Salo-
monson, Voluptatem spectandi, il caso descritto da R. Cacitti et alii, L’ara dipinta di
Thaenae. Indagini sul culto martiriale nell’Africa paleocristiana, Viella, Roma 2011 [Pubbli-
cazioni dell’Aissca]), la presenza del teologumeno del martirio mi pare, viceversa, sia stata
efficacemente documentata da Valenti, “Vetera fidei exempla”.
18 Oltre alla bibliografia già citata nella nota precedente, mi pare utile richiamare alme-
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246 Le origini della cultura visuale cristiana
19 Quest’ultima funzione delle catacombe è stata messa in discussione, tra gli altri, da
dattore in Martirio di Policarpo 14,1, e chiaramente rievocata dall’anziano vescovo nella pre-
ghiera di consacrazione che egli stesso pronuncia su di sé in 14,2. Tale immagine viene ri-
chiamata anche negli Atti dei martiri di Lione 1,10 dove, per significare il carisma
manifestato da Zaccaria, si dice che egli fosse «uno che segue l’agnello (akolouthōn tō-i ar-
niō-i)». Come già visto, supra, pp. 20-22, la proibizione di raffigurare il Cristo come agnel-
lo è espressamente sancita dal Canone 82 del Concilio Quin(i)sesto del 692, uno dei primi
atti della controversia iconoclasta, a riprova della specifica incidenza che questa raffigura-
zione aveva nella tradizione iconografica paleocristiana.
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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 247
caristia: se il vescovo di Smirne si era consacrato quale offerta eucaristica, Perpetua riceve
il frutto del suo martirio a mani giunte e con un “amen” corale.
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248 Le origini della cultura visuale cristiana
80[79],2; Sir 18,13; Is 63,11; Ger 31,10; Ez 34,11-12); l’armento che viene
munto iconizza la stessa Perpetua, pecora del gregge di Dio (cfr. Ez 34,31;
Sal 119[118],176; Mt 18,12-14; Lc 15,3-7); nel formaggio, che prodigio-
samente viene tratto già pronto dalla sola mungitura (cfr. Gb 10,10; Is
60,16), si deve pertanto riconoscere il frutto maturato dalla giovane don-
na con il suo assenso al martirio.
L’ostacolo mostruoso del martirio25, la determinazione e l’oculatezza
necessarie per raggiungere la patria celeste, il paradiso popolato dalle mi-
gliaia di martiri a cui pure Perpetua si aggrega mentre il pastore la ricom-
pensa della sua testimonianza costituiscono dunque il prologo della vi-
cenda del gruppo di martiri africani. In questo crescendo martirologico,
la mungitura della pecora diventa, quindi, l’icona di Perpetua stessa che
“porta frutto” – per se stessa: sarà lei a ricevere quel boccone di speciale
formaggio dolce, aggregandosi in tal modo al gregge del Buon Pastore.
25 È necessario precisare il significato di questa espressione, per evitare qualsiasi tipo di ri-
duzionismo psicologico del racconto visionario di Perpetua (si pensi al fin troppo fortunato
esercizio di M.-L. von Franz, Passio Perpetuae. Le visioni e i sogni di santa Perpetua, martire
cristiana del III secolo, interpretati alla luce della psicologia analitica, TEA, Milano 1997 [Tea-
due 577], ripresa ampiamente da P. Cox Miller, Dreams in Late Antiquity: Studies in the Ima-
gination of a Culture, Princeton University Press, Princeton [NJ] 1998): la “mostruosità” a cui
si fa riferimento è quella del repertorio visionario apocalittico – di cui l’immagine del draco è
un diretto prestito (cfr. Ap 12 - 13 ma già Dn 14Vulgata [= Bel e il DragoLXX],23-30).
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Princeton [NJ] 1995, 103-111). La china fallisce nel restituire il significato delle
sintetiche linee di pittura che tratteggiano allusivamente giovani rami e foglie, a da-
re proprio quel paesaggio bucolico, tipico delle scene paradisiache. Se l’interpreta-
zione globalmente martirologica ed ecclesiologica proposta per questa camera è
corretta (supra, pp. 231-232), il riquadro riportato in figura potrebbe svolgere la me-
desima funzione “argomentativa” assolta dalla prima visione di Perpetua: raffigu-
rare il “frutto” portato dal fedele – in primis dai martiri, il cui numero «non può
essere contato» (Cipriano, A Fortunato 11) – e del quale egli stesso godrà in cielo.
Figura 28: il padre del defunto (?); la risurrezione di Lazzaro; imago clipeata del
bambino defunto tra colombe; pastore che munge; scena di giudizio; la madre
del defunto (?). Lastra sepolcrale (secondo Rep. 1, 811) o fronte di sarcofago (se-
condo O. Marucchi, I monumenti egizi ed i monumenti cristiani recentemente
sistemati nel Museo Capitolino. Parte II. Collezione cristiana, in Bullettino della
Commissione Archeologica Comunale di Roma 40 [1912] 177-203, qui 199) per la
sepoltura di un fanciullo (la lunghezza ammonta a solo 1,6 m; cfr. Wp. 29, t. 3,4;
Rep. 1, 811), Musei Capitolini, Roma. Ultimo quarto del III secolo. Il progetto
iconografico di questo sarcofago dimostra una forte “sintonia” con la struttura
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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 251
cui è assisa la figura centrale – del tipo curule, riservato ai magistrati – e il per-
sonaggio alle spalle della giovane donna, il quale indossa un abito ben difficil-
mente compatibile con una scena di magistero (e vicino all’abbigliamento che
non di rado connota i carcerieri di Pietro, Processo e Martiniano); a sconsiglia-
re l’identificazione con un processo di fronte a Daniele, invece, vi è l’assenza
degli anziani e una struttura compositiva che, nel suo complesso, non corrispon-
de al modello evocato (entrambe queste ipotesi sono escluse anche da Rep. 1,
811). Abbracciando dunque l’opzione di una scena di giudizio non è d’altra par-
te necessario evocare ulteriori piani di significato allegorici (cfr. ancora Maruc-
chi, I monumenti egizi, 199, secondo il quale questa immagine «esprime‹rebbe›
il concetto della giustificazione dell’anima»): la datazione del pezzo e i marca-
tori iconografici di questa raffigurazione permettono senza difficoltà di ricono-
scere in questo pannello una martire mentre rende la sua testimonianza (martyria
in greco) di fronte al giudice. Si spiegherebbe in tal modo anche il particolare
del rotolo che la fanciulla stringe saldamente in mano: indizio eloquente per
raffigurare ciò che la donna sta dichiarando – una professione di fede che la
martire ha già appreso e fatto propria. Non credo sia possibile pervenire a iden-
tificazioni della scena più puntuali di questa proposta, d’altra parte è suggestivo
osservare come il particolare dei capelli raccolti della fanciulla processata si ac-
cordi al dettaglio descritto in Passione di Perpetua e Felicita 20,5.
Figura 29: schema del progetto iconografico del sarcofago Wp. 29, t. 3,4; Rep.
1, 811. A motivare l’architettura teologica di questo documento può aver con-
corso la fortuna del celebre racconto del destino del piccolo Dinocrate narrato
in Passione di Perpetua e Felicita 7 - 8 (cfr. almeno F.J. Dölger, Antike Parallelen
zum leidenden Dinocrates in der Passio Perpetuae, in Id., Antike und Christen-
tum. Kultur- und religionsgeschichtliche Studien, 1, Aschendorff, Münster 1929,
1-80; C. Beretta, La visione di Dinocrate nella Passio Perpetuae come ermeneu-
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252 Le origini della cultura visuale cristiana
tica di 1Cor 15, 29, in Annali di scienze religiose 7 [2002] 195-223). Il fratellino
di Perpetua, morto senza battesimo, per intercessione del martirio della sorella
riceve la purificazione, è «refrigerans » (sul significato del refrigerium e sull’im-
portanza del culto martiriale, vedi infra, p. 307, nota 51), viene sanato e, final-
mente, guadagna l’accesso a quell’acqua, dissetatosi della quale può infine gio-
care e gioire (Passione di Perpetua e Felicita 8,1). È infatti del tutto plausibile
pensare che i genitori cristiani di un bimbo morto, forse senza aver ricevuto il
battesimo come il piccolo Dinocrate, abbiano deciso di argomentare teologi-
camente l’augurio di salvezza indirizzato alla loro prole (il pastore che munge)
richiamandone il presupposto fondamentale (la “condizione necessaria”: la
potenza del Cristo, che essi professano in Gesù [pannello della risurrezione di
Lazzaro]) e la circostanza di possibilità (la “condizione sufficiente”: l’interces-
sione della Chiesa martire, capace di ottenere la salvezza per il piccolo defunto
come Perpetua ottenne per il fratellino Dinocrate [il riquadro della martyria]).
In questo straordinario documento, realizzato nei decenni che precedettero la
“svolta costantiniana”, il compianto di due genitori cristiani si trasforma in un
manifesto teologico articolato attingendo largamente ai temi della martirologia
cristiana delle origini. I paradigmi entro cui si muove questo ritratto familiare
sono quelli della manifestazione della potenza del Cristo e della testimonianza
resa dalla Chiesa: il contenuto della professione di fede (Gesù è il Cristo) e la
professione stessa della fede (la martyria). Il sepolcro di questo bambino – il cui
ritratto è abbinato strettamente alla stessa raffigurazione idilliaca che nella Pas-
sione di Perpetua e Felicita aveva prefigurato la salvezza alla martire – prova di
essere largamente partecipe di quel sentire che permeava e si nutriva del culto e
della teologia del martirio cristiana delle origini.
Figura 30: Pietro ottiene miracolosamente acqua dalla roccia per i suoi carcerie-
ri, Processo e Martiniano; ritratto della defunta; scena pastorale: la mungitura del
latte e il pastore che vigila; Gesù risuscita Lazzaro. Sarcofago (Lateranense 108),
Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Rep. 1, 85). Il sarcofago – di
inizi IV secolo – raffigurato nel disegno di Bosio 1, t. 36,2, proposto in figura,
in questa forma è purtroppo andato perduto: la vasca è stata resecata, privata dei
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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 253
pannelli strigilati e ridotta a un collage delle tre sole scene figurate. Il disegno
pubblicato da Antonio Bosio d’altra parte raffigura imprecisamente il riquadro
centrale. In questo disegno, infatti, è riportato un pastore che accudisce la peco-
ra (ne accarezza il dorso) e non, com’è, la scena della mungitura.
Anche in questo caso la sintonia tra la costruzione di questa tabella iconica e la prima visio-
26
ne della Passione di Perpetua e Felicita mi pare evidente; casi analoghi di abbinamento tra ritratto
dei defunti e figure pastorali si trovano in diversi sarcofagi; cfr. le splendide teorie pastorali di tre
sarcofagi romani: Wp. 29, tt. 134,1 e 3 [= Rep. 1, 1003 e 239] e Rep. 1, 34, databili agli inizi del
IV secolo, e conservati rispettivamente a Palazzo Torlonia, presso la basilica di San Sebastiano e
nei Musei Vaticani.
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254 Le origini della cultura visuale cristiana
la quale già B. Bagatti, The Church from the Circumcision. History and Archaeology of the Ju-
daeo-Christians, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1970 (Studium biblicum Francisca-
num. Collectio minor 2), 201, figura 87, aveva attirato l’attenzione. Si tratta di un’opera
epigraficamente databile al consolato di Stilicone (400-405); in essa viene inserita, entro
una breve teoria di simboli propriamente cristiani (come la risurrezione di Lazzaro o
l’ichthys), una menorah. Cfr. anche M. Luni - G. Gori, Il museo archeologico di Urbino, Quat-
troVenti, Urbino 1986, 76, figura 2; F. Bisconti, Mestieri nelle catacombe romane: appunti
sul declino dell’ iconografia del reale nei cimiteri cristiani di Roma, PCAS, Città del Vaticano
2000 (Studi e ricerche 2), 254; P. Quiri, n. 16: «Lapide sepolcrale di Calevius», in A. Dona-
ti (cur.), Pietro e Paolo. La storia, il culto, la memoria nei primi secoli, Electa, Milano 2000,
194-195, e, da ultimo, anche Pelizzari, Vedere la Parola, 85-86, figura 28.
28 Vedi infra, pp. 311-411.
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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 255
Cfr. M.-Y. Perrin, Roma e l’estremo Occidente fino alla prima metà del III secolo, in
29
Mayeur et alii (curr.), Storia del Cristianesimo, 1: L. Pietri (cur.), Il nuovo popolo (dalle origi-
ni al 250), 586-631, qui 613: «Questa iconografia biblica non deve nulla a precedenti ebrai-
ci […]: quelle immagini sono propriamente cristiane».
30 Il tema delle ermeneutiche gnostiche non è tra i più frequentati dall’agenda della
ricerca, d’altra parte esso riveste, a mio avviso, un ruolo decisivo per cogliere la costru-
zione delle diverse identità cristiane a vario titolo rubricate sotto la categoria di “gnosi”.
Per l’esegesi del Primo Testamento, cfr. comunque M. Simonetti, Note sull’ interpretazio-
ne gnostica dell’Antico Testamento, in Vetera Christianorum 9 (1972) 331-359; ivi 10 (1973)
103-126; G. Filoramo - C. Gianotto, L’ interpretazione gnostica dell’Antico Testamento. Po-
sizioni ermeneutiche e tecniche esegetiche, in Augustinianum 22 (1982) 53-74; Simonetti,
Lettera e/o allegoria, 29-33. Per il Nuovo Testamento, cfr. C. Barth, Die Interpretation des
Neuen Testaments in der valentinianischen Gnosis, Hinrichs, Leipzig 1911 (Texte und Un-
tersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur 37,3); E.H. Pagels, The Gnostic
Paul. Gnostic Exegesis of the Pauline Letters, Fortress, Philadelphia (PA) 1975; Simonetti,
Lettera e/o allegoria, 33-37. Cfr. anche C.A. Evans - R.L. Webb - R.A. Wiebe (eds.), Nag
Hammadi Texts and the Bible. A Synopsis and Index, Brill, Leiden 1993 (New Testament
tools and studies 18); P.C. Miller, “Words With an Alien Voice”: Gnostics, Scripture, and
Canon, in Journal of the American Academy of Religion 57 (1983) 459-483; D. Brakke,
Gnostics and Their Critics, in P.M. Blowers - P.W. Martens (eds.), The Oxford Handbook
of Early Christian Biblical Interpretation, Oxford University Press, Oxford 2019, 383-398,
in part. 389-394.
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256 Le origini della cultura visuale cristiana
Per molti versi, ciò che qui si afferma della sola scuola marcionita po-
trebbe essere esteso a gran parte dei movimenti della gnosi cristiana: le
Scritture prototestamentarie vennero lette e impiegate per definire il mi-
to della parcellizzazione del pleroma (il moto di decadenza protologico),
per contestare il contenuto religioso di quegli scritti, per denunciare la
deità in essi descritta e per rafforzare quel gioco di antitesi che il dualismo
di questi sistemi religiosi aveva istituito tra la religio del Primo Testamen-
to e il Vangelo di Gesù, il Cristo. La «ratio ermeneutica […] molto com-
plessa»32 che un simile atteggiamento determinò diede vita più che al
rifiuto radicale del Primo Testamento a una sorta di sua ermeneutica
negativa, un’autentica “anti-esegesi del testo scritturistico”, perseguita
enfatizzandone le contraddizioni interne, le difformità con il Nuovo Te-
stamento, i principi teologici considerati censurabili 33. Letteralismo ana-
litico e allegoresi di marca platonica costituirono i fondamenti operativi
di questo approccio alla raccolta prototestamentaria.
La reazione della polemica antignostica fu ovviamente duplice: da un
lato passò per l’enfatizzazione del tema della canonicità del testo biblico
– aprendo, di fatto, la strada alle polemiche relative a quale fosse detto
canone –; dall’altro lato, portò a una radicale discussione dei principi er-
meneutici e della prassi esegetica che era messa in atto dai movimenti con
31 Lieu, Marcion and the Making, 357. Per la bibliografia su Marcione, mi limito a rin-
ne critica disponibile alla tradizione ellenistica; non a caso sarà proprio lo “gnostico valen-
tiniano” Eracleone (su questa affiliazione cfr. M. Kaler - M.-P. Bussières, Was Heracleon a
Valentinian ? A New Look at Old Sources, in Harvard Theological Review 99 [2006] 275-289)
a introdurre nella letteratura cristiana lo strumento del commentario, applicandolo per la
prima volta al Vangelo di Giovanni; cfr. H.W. Attridge, Heracleon and John: Reassessment of
an Early Christian Hermeneutical Debate, in C. Helmer - T.G. Petrey (eds.), Biblical Inter-
pretation: History, Context, and Reality, Society of Biblical Literature, Atlanta (GA) 2005
(Symposium 26), 57-72; A. Bastit, Forme et méthode du Commentaire sur Jean d’Héracléon,
in Adamantius 15 (2009) 150-176.
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Il contesto storico-ecclesiale ed ecclesiologico 257
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258 Le origini della cultura visuale cristiana
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III.
IL CONTESTO STORICO-ARTISTICO
1 Questa peculiare interazione formale verrà più ampiamente considerata di seguito, ve-
tazione visuale cristiana, richiamo qui soltanto lo studio di Murray, Rebirth and Afterlife.
Vedi comunque infra, pp. 474-476.
3 Cfr. P. Zanker - B.C. Ewald, Vivere con i miti: l’ iconografia dei sarcofagi romani, Bol-
lati Boringhieri, Torino 2008 (Nuova cultura 177). Si tratta ovviamente di un pregiudizio
di marca polemica che, come si è visto, emerse nell’ambito delle dispute teologiche sull’im-
magine del VII-VIII secolo. Poiché l’idolo è pagano, realizzare idoli è prassi pagana. La cri-
tica ha, di fatto, per lungo tempo in parte perpetuato e, per certi versi, anche rilanciato que-
sto assioma (a questo tema è dedicato il primo capitolo di questo volume).
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260 Le origini della cultura visuale cristiana
4 Traggo questa efficace definizione da V.M. Hope, Roman Death. The Dying and the
Dead in Ancient Rome, Continuum, London - New York (NY) 2009, 35.
5
È troppo vasto il dibattito sulla presenza, o meno, nella cultura della koinè, di una fe-
de nella vita oltre la morte. Discutendone in merito alla tipologia delle “tombe a tempio”,
B.E. Borg, Roman Tombs and the Art of Commemoration: Contextual Approaches to Funerary
Customs in the Second Century CE, Cambridge University Press, Cambridge - New York
(NY) 2019, 267-279, si appella alle due categorie di «apoteosi postuma » (268-272; una sor-
ta di ricompensa eccezionale per vite eccezionali che, di fatto, si limitava a proiettare in un
“altrove” non meglio definito ciò che sulla terra sarebbe stato meritato) e di «vita nell’al-
dilà » (272-274). L’autrice osserva come quest’ultima idea fosse sostanzialmente un’“acqui-
sizione” culturale (e religiosa) tardiva, non precedente al I secolo augusteo – l’epoca in cui
l’espansionismo di Ottaviano (si pensi alla conquista dell’Egitto o all’acquisizione cliente-
lare della Cappadocia di Archelao e dell’Armenia di Tigrane III e di quasi tutto il periplo
del Ponto Eusino) permise il riversarsi a Roma di culti “orientali” (cfr. J. Davies, Death, Bu-
rial, and Rebirth in the Religions of Antiquity, Routledge, London - New York [NY] 1999
[Religion in the First Christian Centuries], 23-68) – e che, comunque, fosse vista con iro-
nia e disincanto dalla più parte dei Romani. Nell’ironica descrizione dell’arrivo del pappa-
gallino di Corinna nel luogo degli altri uccellini buoni e pii («volucrum locus ille piarum»),
– luogo precluso ai pennuti «schifosi (obscenae)» –, Orazio, Amori 2,6,51, precisa: «Se è da
aver qualche fede in ciò che è dubbio (Si qua fides dubiis)». Come giustamente osservava già
J. Ferguson, Le religioni nell’Impero romano, Laterza, Roma - Bari 1989 (Biblioteca univer-
sale Laterza 286), 116-117, la pervasività dell’idea di un oltretomba squallido, cupo e tetro,
luogo tutt’al più di punizione, si era a tal punto perpetuata che, «fatto abbastanza ironico,
la visione cristiana dell’inferno è assolutamente pagana. L’ebraico Sheol era il regno del nul-
la e la Gehenna era un fuoco che bruciava i rifiuti: la concezione del castigo dopo la morte,
anche se non priva di basi nella Scrittura, è stata arricchita con immagini della mitologia
greco-romana ».
6 Si pensi all’epigrafe funebre (I secolo a.e.v.) che il medico liberto Caio Ostio Panfilo
fece redigere per sé e per la moglie Nelpia Hymnina: «Questa è la nostra casa per l’eterni-
tà, questo è | il nostro podere, questi i nostri giardini, questo | è il nostro memoriale (HAEC
EST DOMUS AETERNA, HIC EST | FUNDUS, HEIS SUNT HORTI, HOC | EST MONUMENTUM NO-
STRUM)» (CIL 6, 9583; CIL 12 , 1319; ILS 8341; CLE 247; AE 2013, 130; l’epigrafe è oggi
conservata presso i Musei Capitolini di Roma [NCE 123]): cfr. P. Keegan, Reading Epi-
graphic Culture, Writing Funerary Space in the Roman City, in G. Sears - P. Keegan - R. Lau-
rence (eds.), Written Space in the Latin West, 200 BC to AD 300, Bloomsbury, London et
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Il contesto storico-artistico 261
casa perenne del defunto, nei cimiteri cristiani si consolidò viceversa uno
schema del tutto speculare. Il desiderio di perpetuare la propria fama,
monumentalizzando la sepoltura, lasciava ora spazio a una “tomba” che
non rispondeva più all’ansia di tramandare la vita del defunto7 ma all’in-
tenzione di professare il kerygma della fede, nella quale egli aveva vissuto.
La paura per l’oltretomba lasciava spazio alla visione trionfale della sal-
vezza e di un Regno celeste pronto a irrompere nella storia. La domus
aeterna del defunto, ormai altrove, mutava lo statuto della tomba cristia-
na: luogo di custodia dei corpi in vista della loro risurrezione e strumen-
to per le comunità, autentico laboratorio monumentale dove sperimen-
tare una ricca strumentazione esegetica con cui la Chiesa 8, pellegrina e
vivente nel mondo, descriveva e celebrava la salvezza, mentre «le anime
di coloro che sono stati uccisi a causa della testimonianza ‹gridano,› di-
cendo a gran voce: “Fino a quando?”» (Ap 6,9-10)9.
A differenza della cultura classica, il “tempo della morte” smise di de-
finire il futuro dell’uomo né la disperazione cifrò più il carattere della sua
dipartita. Speranza, salvezza, Regno e vita sono solo una minima parte del
lessico che i cristiani impiegarono per parlare della fine della loro esperien-
za mondana 10: tale presupposto può forse servire a comprendere il neces-
alibi 2013, 49-64, in part. 57-60. Cfr. anche E. Thomas, “Houses of the Dead”? Columnar
Sarcophagi as “Micro-architecture”, in J. Elsner - J. Huskinson (eds.), Life, Death and Repre-
sentation: Some New Work on Roman Sarcophagi, De Gruyter, Berlin - New York (NY) 2011
(Millennium-Studien 29), 387-435.
7 Sul «declino» di questa funzione della “tomba cristiana”, cfr. Bisconti, Mestieri nelle
catacombe romane.
8 L’idea della tomba come “libro” della Chiesa emerge in un importante frammento del-
che limitandosi al punto di vista archeologico, come nota R. Bianchi Bandinelli, Roma. La
fine dell’arte antica. Dal II secolo d.C. alla fine dell’Impero, Rizzoli, Milano 2005 (Grandi
civiltà 2) (ed. or. Milano 1970), 70: «Con il prevalere di ideologie filosofico-religiose, cul-
minanti o non in vere iniziazioni a “verità rivelate”, il cui fondo era sempre quello di pro-
mettere una nuova vita dopo la morte, nella prima metà del III secolo prevalgono i sarcofa-
gi decorati con soggetti collegati al ciclo mitico di Dioniso-Bacco, il dio che muore e
risorge». Si tratta però della progressiva penetrazione nel tessuto culturale della koinè impe-
riale di fenomeni culturali e religiosi esterni.
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262 Le origini della cultura visuale cristiana
11 Si tornerà in seguito (vedi infra, pp. 299-307) sulla “dimensione funeraria” della pri-
ma iconografia cristiana. Per il momento basti osservare che questo fu il contesto quantita-
tivamente più rappresentativo della più antica documentazione visuale cristiana.
12 Negli studi critici è ormai consolidata la categoria di “spazio letterario”: con essa si
intende sostanzialmente porre la chiave ermeneutica – se non di valore – del documento let-
terario nella sua interazione con la storia («L’arte è reale nell’opera. L’opera è reale nel mon-
do, perché essa vi si realizza […], perché essa aiuta la sua realizzazione, e ha senso, avrà ri-
poso solo nel mondo in cui l’uomo sarà per definizione»: M. Blanchot, Lo spazio letterario,
Einaudi, Torino 1967 [Saggi 408], 184). Con “spazio visuale” della koinè imperiale, inten-
do richiamare il nucleo degli studi sull’arte quale “cultura visuale”: non la figura di per sé,
ma l’immagine come rete di relazioni tra l’intenzione che l’ha determinata, il suo signifi-
cato intrinseco e l’esito che ha sortito sul suo spettatore.
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Il contesto storico-artistico 263
ta in ogni caso di opzioni lessicali che, non riuscendo a comprendere interamente le intera-
zioni che con e dall’oggetto visuale si attivano, finiscono per cogliere solo una quota parzia-
le della realtà, talora condizionandone l’interpretazione.
14 R. Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte nel centro del potere. Dalle origini al II secolo d.C.,
Rizzoli, Milano 2005 (Grandi civiltà 1) (ed. or. Milano 1969), 72; cfr. anche M. Curcio,
L’arte romana oltre l’autore. Originalità, imitazione e riproduzione, Mimesis, Milano - Udi-
ne 2020 (Archeologia, arte e società 4).
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264 Le origini della cultura visuale cristiana
15
Così annota di suo pugno Pirro Ligorio in un appunto raccolto nel manoscritto XIII
B.7 (qui p. 424), conservato ora presso la Biblioteca Nazionale di Napoli.
16 L’anno del rinvenimento – il 1551 è l’anno dichiarato da Martin Smetius, colui al qua-
le Ligorio si rivolse, dopo aver scoperto la statua, per tradurne le iscrizioni –, come pure le
circostanze e il luogo sono stati messi in dubbio da M. Guarducci, La «statua di Sant’Ippo-
lito» e la sua provenienza, in Nuove ricerche su Ippolito, Augustinianum, Roma 1989 (Studia
Ephemeridum Augustinianum 30), 61-74, qui 65-66: l’insigne antichista propose di situa-
re il rinvenimento presso la «Loggia del papa ». Trovo convincenti le ragioni che B. Allen,
Hippolytus and the Roman Church in the Third Century. Communities in Tension before the
Emergence of a Monarch-Bishop, Brill, Leiden 1995 (Vigiliae Christianae, Supplements 31),
3-50, ha addotto per riabilitare le notizie fornite dall’umanista napoletano.
17 Quella “quartodecimana” rappresentò una delle prime e più profonde crisi tra Occiden-
te e Oriente cristiani, le cui radici affondano già nel I secolo, e i cui primi sintomi sono docu-
mentabili sino almeno dalla prima metà del II secolo, con il dibattito tra Policarpo, vescovo
di Smirne, e Aniceto, vescovo di Roma, e poi con la disputa tra Policrate, vescovo di Efeso, e
Vittore, vescovo di Roma, nella quale intervenne, come mediatore, Ireneo, allievo di Policar-
po e vescovo di Lione. Alla base di questa contrapposizione stavano due teologie della Pasqua
– l’una, quella asiana, più arcaica, legata al paradigma sacrificale, e dunque rivolta prioritaria-
mente alla celebrazione dell’immolazione del Cristo quale elevazione del sacrificio perfetto e
ricapitolativo di tutta la storia della salvezza; l’altra, quella occidentale, immediatamente orien-
tata al teologumeno della risurrezione. Queste due tradizioni teologiche ebbero come sinto-
mo più evidente il diverso calendario delle celebrazione pasquale: i quartodecimani celebra-
vano la Pasqua nel giorno del Pesach ebraico – il quattordici di Nisan (da cui l’appellativo di
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Il contesto storico-artistico 265
zionale di Napoli.
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266 Le origini della cultura visuale cristiana
19 E. Castelli, La cattedra della Chiesa e il trono del vescovo tra II e III secolo a Roma: ri-
cerche sul contesto storico della “statua d’Ippolito”, in ASE 27 (2010) 35-50, qui 37-38.
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Il contesto storico-artistico 267
Figura 34: statua di donna assisa (Fortuna? Una Dea madre? Dedicati a entrambe
queste divinità sono stati ritrovati altari in prossimità del luogo di rinvenimento di
questa effigie). La statua (alta poco più di un metro), scavata tra 1849 e 1850, pro-
viene da una sala con ipocausto del forte romano di Banna (Birdoswald) – probabil-
Di certo era ben nota a Roma, come documentano le irrisioni che Cicerone, Il bene
20
sommo e il male sommo 2,21,68, indirizza a Epicuro, proprio per questa sua discepola.
21 Cfr. Castelli, La cattedra della Chiesa, 40: «I dati appena richiamati supportano […] che
la rappresentazione della Chiesa come nobile figura femminile seduta in cattedra e con un ro-
tolo tra le mani, secondo quanto leggiamo nel Pastore, sia stata adottata dai cristiani di Roma
anche sul versante figurativo, utilizzando la statua di cui abbiamo sin’ora discusso».
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268 Le origini della cultura visuale cristiana
22 Paolino di Nola, Carme 27 514-515. Si noti il significativo passaggio dalle «figure va-
cue» all’«immagine non vacua »: lo strumento (figura) dischiude la verità teologica (imma-
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Il contesto storico-artistico 269
gine). Già A. Venturi, Storia dell’arte italiana, 1: Dai primordi dell’arte cristiana al tempo di
Giustiniano, Hoepli, Milano 1901, 199, aveva colto l’importanza di questo passaggio per
delineare l’attitudine cristiana verso l’arte. Questo stesso passo è ben analizzato anche da
Elsner, Art and the Roman Viewer, 249-251. Cfr. comunque C. Conybeare, Paulinus No-
ster. Self and Symbols in the Letters of Paulinus of Nola, Oxford University Press, Oxford
2000 (Oxford Early Christian Studies), 95. Di grande interesse per la tematica qui affron-
tata anche T. Piscitelli, L’ekphrasis nella poesia di Paolino da Nola, in Adamantius 26 (2020)
280-291, in part., sul passo menzionato nel testo, 288.
23 Cfr. T.G. Hölscher, Visual Power in Ancient Greece and Rome. Between Art and Social
Reality, University of California Press, Oackland (CA) 2018 (Sather Classical Lectures 73), 1.
24 Hölscher, Visual Power, 3.
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270 Le origini della cultura visuale cristiana
25 Immagini la cui connotazione non è nel loro “contenuto” stilistico o tematico ma nel-
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Il contesto storico-artistico 271
Elsner, Art and the Roman Viewer, 250-251. Il cristianesimo trasse dal mondo roma-
28
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272 Le origini della cultura visuale cristiana
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Il contesto storico-artistico 273
56 (2001) 73-80, qui 78: «L’obiettivo di Bianchi Bandinelli fu sempre l’opera d’arte, né su-
bordinata agli studi storici, né come mero documento, ma come entità distinta che, in com-
binazione con altre simili entità, incarnava in forma visiva un’intrinseca realtà sociale».
32 Cfr. G. Rodenwaldt, La transizione all’arte della tarda antichità, in S.A. Cook et alii
(curr.), Storia antica, 12,2: Crisi e ripresa dell’ impero, 193-324 d.C., Il Saggiatore, Milano
1970 (La cultura. Biblioteca storica dell’Antichità 7,2), 695-726, qui 721-723.
33 Cfr. R. Bianchi Bandinelli, Formazione e dissolvimento della “ koinè” ellenistico-roma-
na, in Id., Dall’Ellenismo al Medioevo, Editori Riuniti, Roma 1978 (Biblioteca di storia an-
tica 4), 51-78 (originariamente apparso negli Atti del Huitième Congrès International d’Ar-
chéologie classique [Paris, 1963]: Le rayonnement des civilisations grecque et romaine sur les
cultures périphériques, editi per i tipi di De Boccard, Paris 1965); cfr. anche il suo Arte ple-
bea (del 1967) (ora pure nella raccolta Dall’Ellenismo al Medioevo, 35-48). Globalmente cfr.
G. Agosti, Ranuccio Bianchi Bandinelli, dall’ invenzione del «Maestro delle imprese di Traia-
no» alla scoperta dell’« Arte plebea», in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe
di Lettere e Filosofia, Serie III, 16 (1986) 307-329, qui 324-329.
34 Non si tratta, cioè di un’arte “ignorante”, priva di capacità intellettuale o cultural-
mente irrilevante (Bianchi Bandinelli rifiutava anche per questo la dizione di «arte popola-
re»); si tratta di una cultura visuale che proviene da un quadrante diverso della società ro-
mana: non dalle élites del patriziato o del ceto equestre, ma da quella sorta di “borghesia
urbana” spesso facoltosa e desiderosa di affermare la propria identità.
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274 Le origini della cultura visuale cristiana
nisti di questa nuova stagione visuale: il popolo (plebs nel senso migliore e
qualificante del termine latino, non a caso in relazione al tribunato, in con-
trapposizione a quelle élites culturali che ora egli vedeva sempre più margi-
nali nell’impero, a partire dal principato di Commodo e con la dinastia dei
Severi)35 e il potere imperiale. «Deve dunque essere ben evidente che non
di “decadenza” si tratta, o di incapacità […], ma di un nuovo inizio», scri-
veva Bianchi Bandinelli in relazione al fregio dell’arco di Costantino, il
modello di cui, almeno in parte, «si serviranno gli artigiani cristiani»: qui,
nel manifesto ideale di una nuova stagione, sui pannelli del lato Nord, i più
maturi per l’archeologo, «non si narra più, ma si rappresenta»36.
Le coordinate critiche stabilite dalla lezione di Ranuccio Bianchi Ban-
dinelli situano in modo del tutto originale l’immagine romana di III-IV
secolo: in essa trovarono forma e si espressero sia le ansie di un’epoca che
andava chiudendosi sia la vivacità e la spontaneità di un tempo nuovo che
stava sorgendo. Nel passaggio tra queste due stagioni, l’immagine seppe,
assai meglio del testo, esprimere ed elaborare i contenuti di questo cam-
biamento, attraverso la nascita di una nuova forma, sì, ma anche cambian-
do matrice e paternità. La geniale definizione di «arte plebea», infatti, non
vuole qualificare la committenza di queste opere, vuole piuttosto espri-
mere l’origine di questa nuova cultura visuale, per impiegare una cate-
goria almeno formalmente estranea alla teoresi di Bianchi Bandinelli.
35 Cfr. R. Bianchi Bandinelli, Arte plebea, in Id., Dall’ellenismo al medioevo, Editori Riu-
niti, Roma 1978 (Biblioteca di storia antica 4), 35-48, qui 47-48: «Vi sono dunque motivi suf-
ficienti, di natura critica e storica, per dare a questa corrente d’arte un nome, che non vuol es-
sere […] determinazione sociologica innanzi tutto, ma innanzi tutto definizione e distinzione
critica e storica; un nome, quello di “arte plebea”, che corrisponde allo ambiente storico entro
il quale si costituisce e che aveva piena coscienza di sé». Per altro una simile qualificazione ri-
calca anche in parte il pensiero di autori – che probabilmente potremmo definire, con Bian-
chi Bandinelli, appartenenti alle élite culturali del mondo antico – quali Massimo di Tiro, Di-
scorsi 2,2 (su questo passo, cfr. V. Fazzo, La giustificazione delle immagini religiose dalla tarda
antichità al cristianesimo, 1: La tarda antichità, con un appendice sull’Iconoclasmo bizantino,
Edizioni Scientifiche, Napoli 1977 [Nuova Collana Saggi], 137), che esplicitamente assegna
la necessità dell’immagine solo a coloro che non hanno una “memoria forte”, i quali si dimo-
strano incapaci di «raggiungere direttamente i cieli con la loro anima e incontrare il divino»;
cfr. anche A. Karivieri, Divine or Human Images? Neoplatonic and Christian Views on Works of
Art and Aesthetics, in Numen 63 (2016), 196-209, in part. 198-200.
36 Bianchi Bandinelli, Roma. La fine dell’arte antica, 99.
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Il contesto storico-artistico 275
Quest’arte fu plebea perché rifiutò il ricorso, che era stato delle élites, ai
diversi stili dell’arte ellenistica quale “linguaggio” per esprimere i propri
valori, come era stato per l’arte romana della Repubblica e del primo im-
pero, dove operò un’autentica «semantizzazione degli stili»37. La nuova
immagine plebea non poteva più ricorrere alla filigrana dello stile: le man-
cavano forse i raffinati requisiti culturali che questa operazione presuppo-
neva o, pur disponendone, preferì essere fruibile a un più vasto pubblico;
essa scelse dunque di raffigurare, sfruttando al massimo il codice dei pro-
pri temi figurativi, in una sorta di sintassi dell’immagine in cui «l’ideo-
logia determina la struttura iconografica della composizione»38.
Questa nuova “arte”, che seppe (e forse volle) ergersi a specchio di un
tempo che cambiava, la cui vocazione corale si trasferì necessariamente
in un inedito spontaneismo stilistico, fu il Sitz im Leben della prima cul-
tura visuale cristiana.
Numerosi elementi dell’analisi di Ranuccio Bianchi Bandinelli colpi-
scono per la loro congruità alla storia della prima arte cristiana; mi limi-
to qui a richiamarne solamente tre:
1. la “complementarità”, se così si può dire, tra le ansie di un mondo
che finiva, sospeso tra «dolore di vivere» e «volontà di potenza», e
le aspettative entusiastiche di donne e uomini sulla soglia di un
Regno celeste che giungeva: in entrambi i casi, l’arte di questi an-
ni diviene arte della soglia;
2. la sincronia cronologica: sia l’«arte plebea» descritta da Bianchi
Bandinelli sia la più massiccia produzione iconografica cristiana
delle origini presero avvio dal principato di Commodo e con la
dinastia dei Severi (180-235)39;
37 Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, 67. Cfr. anche ivi, 74: «Le forme figurative e
stilistiche tràdite componevano […] innanzi tutto un sistema di valori espressivi […]. E ta-
le sistema, in cui le forme erano anche valori, era aperto sia alla riflessione artistica sia alla
pratica artistica irriflessa ».
38 Bianchi Bandinelli, Roma. La fine dell’arte antica, 101.
39 Cfr. almeno P. Testini, «Tardoantico» e «Paleocristiano». Postille per una positiva defini-
zione della più antica iconografia cimiteriale cristiana, in Tardo Antico e Alto Medioevo. La forma
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276 Le origini della cultura visuale cristiana
artistica nel passaggio dall’Antichità al Medioevo. Atti del Convegno internazionale sul tema (Ro-
ma, 4-7 aprile 1967), Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1968 (Quaderni 105), 121-141.
40 Bianchi Bandinelli, Arte plebea, 37. I corsivi sono redazionali.
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Il contesto storico-artistico 277
41 P. Zanker, Immagini come vincolo: il simbolismo politico augusteo nella sfera privata, in
Id., Un’arte per l’ impero. Funzione e intenzione delle immagini nel mondo romano, Electa,
Milano 2002 (Saggi di archeologia 7), 79-91, qui 80. Cfr. anche R.R.R. Smith, Typology
and Diversity in the Portraits of Augustus, in Journal of Roman Archaeology 9 (1996) 31-47.
42 Zanker, Augusto e il potere delle immagini, 5.
43 Così anche Hölscher, Visual Power, 1: «Nell’antica Grecia e a Roma, la visualità gio-
cava un ruolo enorme a tutti i livelli della vita. Vita sociale significava vivere con le imma-
gini. Ma c’era di più: anche la vita sociale in quanto tale era segnata in misura estrema da
manifestazioni del visuale, esperienze del visuale e interazioni con il visuale» (cfr. anche ivi,
1-13; R.R.R. Smith, The Use of Images: Visual History and Ancient History, in T.P. Wiseman
[ed.], Classics in Progress: Essays on Ancient Greece and Rome, British Academy - Oxford Uni-
versity Press, Oxford 2002, 59-102).
44 Ha d’altra parte ragione C. Ando, Imperial Ideology and Provincial Loyalty in the Ro-
man Empire, University of California Press, Berkeley (CA) - Los Angeles (CA) - London
2000 (Classics and contemporary thought 6), 228-239, a sottolineare l’iniziativa imperia-
le nella selezione della ritrattistica e nella sua diffusione attraverso le province imperiali:
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278 Le origini della cultura visuale cristiana
«Per l’impero dal IV secolo in poi […] abbondanti testimonianze letterarie descrivono non
solo l’invio di ritratti all’inizio dei principati, ma anche la ricezione di questi ritratti da par-
te delle comunità locali» (229).
45 P. Zanker, Il mondo delle immagini e la comunicazione, in Id., Un’arte per l’ impero,
fare riferimento anche a Zanker, Augusto e il potere delle immagini, 255-280, il quale giusta-
mente segnala il ruolo angolare che all’elemento stilistico il nuovo impero augusteo affidò,
non però sul piano della definizione di un “gusto”, ma appunto nella configurazione di un
ideale politico e culturale: «La nuova cultura doveva essere una sorta di supercultura, capa-
ce di unire il meglio della tradizione greca al meglio dell’eredità romana, di fondere l’este-
tica greca col senso romano della moralità e della virtus. Doveva essere una cultura esem-
plare, degna di un popolo dominatore e tale da imporsi in tutto l’impero […]. Solo entro
questa cornice diventano comprensibili le qualità specifiche del classicismo e dell’arcaismo
augusteo. Non si trattava di una moda o di un semplice orientamento del gusto […]. Lo
“sguardo indietro” dell’arte augustea obbedisce, invece, a una precisa ideologia, a una ben
definita e aggressiva visione del mondo» (ivi, 155-156).
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Il contesto storico-artistico 279
zione alla prima produzione visuale cristiana perché elimina la necessità di un indirizzo ec-
clesiastico. Come non vi fu alcuna «regia occulta » nella più generale tradizione iconografi-
ca imperiale, così non è necessario postulare che, per essere teologicamente rilevante,
l’immagine cristiana debba presupporre una matrice ecclesiastica.
49 Zanker, Il mondo delle immagini, 11.
50 Zanker, Il mondo delle immagini, 10. Cfr. la straordinaria descrizione del monumento fu-
nebre di Trimalcione di Petronio Arbitro, Satyricon 71, che Bianchi Bandinelli, Arte plebea, 41,
paragona al rilievo funebre proveniente da Amiternum e ora al Museo Nazionale de L’Aquila.
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280 Le origini della cultura visuale cristiana
Per capire questa intima interazione tra ideale politico e prassi religiosa (che si con-
51
cretizzava in quel formalismo rituale che veniva identificato dal sostantivo thrēskeia), può
essere utile richiamare il comma sesto della discussa c.d. “Lex de Imperio Vespasiani”, ero-
gata per senatoconsulto il 22 dicembre 69 e.v., pervenutaci attraverso una trascrizione su la-
stra bronzea conservata ai Musei Capitolini di Roma (NCE 2553). Da questo testo emerge
chiaramente «il carisma, soteriologico e metagiuridico» del principato romano (F. D’Ippo-
lito - F. Lucrezi, Profilo storico istituzionale di diritto romano, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli 2018, 321). Nel definire il mandato del Principe, il testo senatorio precisa (righe 14-
16): «Egli abbia diritto e facoltà di intraprendere e compiere tutto ciò che egli deciderà pos-
sa giovare, a partire dalla consuetudine, per la maestà della Repubblica nelle questioni di-
vine e umane, pubbliche e private (Quaecunque ex usus rei publicae maiestate divinarum, |
huma‹na›rum, publicarum privatarumque rerum esse {ei} | censebit, ei agere, facere ius potestas-
que sit)» (CIL 6, 930; ILS 244). Si tratta, in altri termini di un mandato che coinvolge la
somma di tutto ciò che esiste: al principe era affidato il compito di religare, unire assieme
(ed è questa l’etimologia di “religio” secondo Lattanzio, Divine istituzioni 4,28,2) “imma-
nente e trascendente”, “umano e superumano”, “mondano e divino”. Cfr. la perspicua ana-
lisi di M. Peachin, Exemplary Government in the Early Roman Empire, in O. Hekster - G.
de Kleijn - D. Slootjes (eds.), Crises and the Roman Empire. Proceedings of the Seventh Work-
shop of the International Network Impact of Empire (Nijmegen, June 20-24, 2006), Brill,
Leiden - Boston (MA) 2007 (Impact of Empire 7), 75-95, in part. 82-95.
52 N. Hannestad, Roman Art and Imperial Policy, Aarhus University Press, Aarhus 1988,
261. Tutti e quattro questi paradigmi dell’ideale imperiale trovarono spazio nella decora-
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Il contesto storico-artistico 281
zione dell’Arco di Leptis Magna o sul c.d.“Arco degli Argentari” di Roma: cfr. ibidem e ivi,
rispettivamente 270-277 e 277-283.
53 Ovviamente questa osservazione coglie un fenomeno che è al di là anche della fon-
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282 Le origini della cultura visuale cristiana
replica di modelli ellenistici e dalla selva della copie di opere greche, per
lungo tempo è stato descritto come un fenomeno culturalmente subalter-
no. Al contrario, osserva l’archeologo, per coglierne l’originalità e, se si
vuole, la specificità, è necessario assumere una posizione diversa. L’origi-
nalità dell’arte romana, cioè, non sarebbe più data dal “fare l’opera d’arte”
– perché qui, in effetti, molto venne tratto dalla tradizione greca –, ma dal
“fare tramite l’opera d’arte”. Si determina in tal modo la decisiva doman-
da circa «il compito […] d‹e›lla tradizione greca all’interno della civiltà
imperiale romana»55.
La rilevanza di questa domanda si può cogliere solo rispettandone
l’ampiezza: Tonio G. Hölscher non si chiede, infatti, quale obiettivo im-
mediato – propagandistico, parenetico, educativo ecc. – fosse affidato
all’arte, ma quale ruolo essa abbia ricoperto entro la trama culturale e
sociale dell’edificio imperiale romano. Se Paul Zanker aveva attirato l’at-
tenzione sul potere dell’immagine nell’età augustea (e imperiale), Höls-
cher ne ha identificato la sistematizzazione semantica:
Le forme stilistiche dei vari periodi dell’arte greca venivano riprese soprat-
tutto perché in tal modo si potevano rappresentare adeguatamente temi e con-
tenuti differenti […]: a dominare non è un relativismo determinato dall’arbitrio,
e neppure una preferenza di gusto, bensì una selezione regolata su ciò che si
intende comunicare […]. Si produsse così un sistema in cui le forme dell’arte
greca venivano filtrate da criteri non stilistici ma principalmente semantici, […]
una semantizzazione degli stili56.
Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, 67; cfr. anche Id., Greek Styles and Greek Art
56
in Augustan Rome: Issues of the Present Versus Records of the Past, in J.I. Porter (ed.), Classical
Pasts. The Classical Traditions of Greece and Rome, Princeton University Press, Princeton
(NJ) 2006, 237-259.
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Il contesto storico-artistico 283
per comunicare57. Il fatto, poi, che questo carattere possa e debba essere
considerato rilevante sul piano artistico è provato dal fatto che esso fu ar-
tisticamente generativo:
Molte delle immagini […] ‹romane› non sono copie in senso stretto da ori-
ginali antichi, bensì adattamenti da opere greche, o addirittura creazioni ex
novo nello stile dei modelli greci; è indicativo che, in relazione alla funzione
programmatico-contenutistica delle immagini, non si distingua tra riproduzio-
ni fedeli e creazioni più o meno innovative 58.
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do ricorso al parallelo con la “cultura letteraria” delle origini cristiane: l’obiezione che si
muove alla nascita di una cultura visuale cristiana coincide con l’affermazione che l’adozio-
ne della lingua greca, in vece dei dialetti aramaici, connoti una “paganizzazione” precoce
dei movimenti cristiani. Del resto, come giustamente sottolinea T. Burckhardt, The Foun-
dations of Christian Art, World Wisdom, Bloomington (IN) 2006, 1: «Quando gli storici
dell’arte impiegano l’espressione “arte sacra” per ciascuna opera di soggetto religioso dimen-
ticano che l’arte è essenzialmente forma ».
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IV.
IL CONTESTO GENETICO
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Il contesto genetico 287
1. LA COMMITTENZA
La committenza d’arte cristiana è un campo ancora in parte inesplo-
rato2; quel che se ne può dire emerge dall’intersezione di diverse coordi-
nate storiografiche: il parallelo con il coevo contesto romano-imperiale; la
“storia sociale” delle origini cristiane; le informazioni che ci provengono
direttamente dalle opere superstiti – epigrafiche, ma non solo.
geschichte Roms in der Zeit von Augustus bis zum Ausgang der Antonine, 4: Anhänge, Hirzel,
Leipzig 19219-10, 304-309. Una breve descrizione del “patronato artistico” nel mondo clas-
sico si può trovare in P. Stewart, The Social History of Roman Art, Cambridge University
Press, Cambridge - New York (NY) 2008 (Key Themes in Ancient History), 32-38.
4 Cfr. anche, per un periodo posteriore, ICUR 2, 6077 (del 426, dove si attesta l’acqui-
sto di un «locum » per «un solido d’oro e mezzo»); cfr. inoltre ICUR 1,1282; 7, 19158; 7,
20669; a partire dal IV secolo in poi, cfr. J. Guyon, La vente des tombes à travers l’ épigraphie
de la Rome chrétienne (IIIe-VIIe siècles): le rôle des fossores, mansionarii, praepositi et prêtres,
in Mélanges de l’Ecole française de Rome 86 (1974) 549-596.
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288 Le origini della cultura visuale cristiana
5 CIL 6, 29975; l’aureo fu battuto dal I secolo agli inizi del IV, quando venne sostitui-
to dal solido dioclezianeo. Sembra propendere per una matrice cristiana di questa epigrafe
Dresken-Weiland, s.v. «Patronage », 306, ove è menzionata quale «unica isolata attestazio-
ne […] del costo di un sarcofago».
6 F. Bulić, Scavi nell’antico cimitero cristiano di Manastirine (Coemeterium legis sanctae
christianae) durante l’a. 1896, in Bullettino di archeologia e storia dalmata 20 (1897), 81-96,
qui 89, numero 2289. Il pezzo viene messo in relazione all’iscrizione CIL 3, 8742, riferita a un
sarcofago cristiano di metà IV-inizi V secolo di Salona (dove pure si trova la necropoli di Ma-
nastirine [Croazia]), fatto realizzare da Severa per il marito, il protector Flavius Magnianus, e
costato quindici solidi. In entrambi i casi si tratta ovviamente di solidi aurei di Diocleziano.
7 Marucchi, I monumenti egizi, 191.
8 Per questo parametro cfr. almeno B. Salway, Mancipium Rusticum Sive Urbanum:
The Slave Chapter of Diocletian’s Edict on Maximum Prices, in Bulletin of the Institute of Clas-
sical Studies 109 (2010) 1-20. Come nota S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV secolo. Ricerche
di storia tardo-romana, RCS, Milano 2002 (BUR Saggi) (ed. or. Roma 1951), 91-97, però,
l’operazione dioclezianea aveva attribuito alla moneta un valore nominale assai rilevante,
potenziandone fortemente il potere d’acquisto, il che lascia aperta la questione se il costo
dichiarato da queste epigrafi sia da ricondurre a quel valore nominale o se sia da parame-
trare rispetto all’uso comune; tale forbice non cambia nella sostanza l’osservazione della ri-
levanza dell’investimento necessario per acquistare un sarcofago.
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Il contesto genetico 289
9 Cfr. B. Russell, The Economics of the Roman Stone Trade, Oxford University Press,
Oxford 2013 (Oxford Studies On The Roman Economy), 256-310. Cfr. anche Y.A. Mara-
no, Marmo e committenze nell’Adriatico tardoantico (V-VI secolo d.C.), in E. Cirelli - E. Gior-
gi - G. Lepore (eds.), Economia e Territorio. L’Adriatico centrale tra tarda Antichità e alto Me-
dioevo, BAR, Oxford 2019 (International Series 2926), 41-49.
10 Sulla produzione dei sarcofagi, cfr. B. Russell, The Roman Sarcophagus ‘Industry’: a
Reconsideration, in Elsner - Huskinson (eds.), Life, Death and Representation, 119-147, qui
123-127. L’alto costo dei sarcofagi sembra confermato ancora da una notizia riportata da
Cassiodoro, Varie 3,19, in riferimento al periodo teodoriciano (Teodorico il Grande fu re del
regno ostrogoto in Italia dal 493 al 526; il testo della missiva riportata da Cassiodoro è per
gli anni 507-511). Qui viene documentato il tentativo di disciplinare il costo dei sarcofagi
(« Affinché non vi sia un prezzo iniquo [iniqua taxatio] sotto ‹la pressione di› queste circo-
stanze, né coloro che hanno subito la perdita siano obbligati, tra i dolorosi gravami dei lut-
ti, a piangere la dispersione delle loro ricchezze [plorare dispendia facultatum] e, costretti a
un’empia devozione [nefanda devotione constricti], vengano forzati ‹alternativamente› a per-
dere i loro patrimoni a vantaggio dei morti [patrimonia pro mortuis perdere], o a gettare i
corpi amati nelle più squallide fosse»), investendo un certo Daniele, scultore apprezzato a
corte («Deliziati dall’abilità della tua arte che eserciti con cura nello scavo e nella decora-
zione dei marmi [Artis tuae peritia delectati quam in excavandis atque ornandis marmoribus
diligenter exerces]»), del compito di sovrintendere al loro commercio. Per una contestualiz-
zazione del testo, cfr. Marano, Marmo e committenze.
11 Cfr. Russell, The Economics of the Roman Stone Trade, 258-259. Cfr. però anche
T. Cornell, Artists and Patrons, in T. Cornell - M. Crawford - J. North (eds.), Art and Pro-
duction in the World of the Caesars, Olivetti, Milano 1987, 17-36; Stewart, The Social History.
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290 Le origini della cultura visuale cristiana
gon” (CIL 13, 5708). È d’altra parte questo il senso della famosa pagina di Petronio, Satyri-
con 71.
14 Zanker - Ewald, Vivere con i miti, 28-29.
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Il contesto genetico 291
doveva avere un sarcofago di marmo per i loro resti e per i suoi, “in mo-
do che quando morirò io possa essere deposto lì, prossimo a loro”»15.
Conseguire questo duplice scopo – affermare la propria identità
(ideale) e dislocare nello spazio del valore e della perpetuità la propria
familia – venne considerato meritevole di un crescente investimento pe-
cuniario e comportò un sempre maggiore coinvolgimento da parte della
committenza che, dunque, va riguardata come un attore coinvolto nella
genesi ideale dell’“opera”, non come un semplice acquirente “finale”16.
Cfr. Hope, Roman Death, 175-176. L’iscrizione di Alphius è del 155 (CIL 6, 2120).
15
te», per usare una felice definizione di Zanker - Ewald, Vivere con i miti, 28. Non si deve
dimenticare che il sarcofago e la tomba erano ciò a cui si affidava non solo il proprio corpo
ma anche e soprattutto la preservazione del proprio ricordo e, in taluni casi, l’onere di ma-
nifestare la propria eredità ideale.
17 G. Koch, Frühchristliche Sarkophage, Beck, Munich 2000 (Handbuch der Archäo-
logie), 90.
18 Cfr. M. Corbier, Les familles clarissimes d’Afrique proconsulaire (Ier -IIIe siècle), in Titu-
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292 Le origini della cultura visuale cristiana
cristianesimo nei primi tre secoli, Bocca, Torino 1906 (Biblioteca di scienze moderne 21),
387-406. Cfr. anche M. Mazza, Struttura sociale e organizzazione economica della comuni-
tà cristiana di Roma tra II e III secolo, in Fiocchi Nicolai - Guyon (curr.), Origine delle ca-
tacombe romane, 15-28; P. Lampe, From Paul to Valentinus. Christians at Rome in the First
Two Centuries, Fortress Press, Minneapolis (MN) 2003 (ed. or. Mohr, Tübingen 1983),
23-38; 366-372.
21 Anche nella tradizione profana non di rado – nella maggior parte dei casi – manca la
commemorazione epigrafica dei defunti. A custodire l’identità del defunto, in altri termini,
più che una descrizione epigrafica commemorativa della vita trascorsa è il manifesto idea-
le – mitologico o biblico – nel quale vengono inseriti i ritratti (cfr. magistralmente Z. Newby,
In the Guise of Gods and Heroes: Portrait Heads on Roman Mythological Sarcophagi, in Elsner
- Huskinson [eds.], Life, Death and Representation, 189-227). Non si tratta, dunque, di una
lotta contro la dimenticanza, ma di un tentativo di esprimere quella «potenza formale ‹che
sa far› passare nel valore ciò che in natura corre verso la morte» (E. de Martino, Morte e
pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Bo-
ringhieri, Torino 2008 [Universale Bollati Boringhieri 559], 214).
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Il contesto genetico 293
a. I dati epigrafici
Si può affermare che, fra i tanti aspetti inerenti alla vita delle comunità cri-
stiane a Roma visti alla luce delle testimonianze epigrafiche, quello relativo
alle componenti sociali è indubbiamente uno dei più interessanti, anche per
il numero di elementi che si possono raccogliere dallo spoglio degli epitaffi 23.
22 Cfr. K. Sessa, The Formation of Papal Authority in Late Antique Italy: Roman Bishops
and the Domestic Sphere, Cambridge University Press, Cambridge et alibi 2012, 175.
23 D. Mazzoleni, La vita del popolo cristiano a Roma alla luce delle testimonianze epigra-
fiche (dal III secolo alla fine del VI), in L. Pani Ermini - P. Siniscalco, La comunità cristiana
di Roma. La sua vita e la sua cultura dalle origini all’Alto Medioevo, LEV, Città del Vaticano
2000 (Atti e documenti 9), 206-227, qui 209. Cfr. anche J. Janssens, Vita e morte del cri-
stiano negli epitaffi di Roma anteriori al sec. VII, Pontificia Università Gregoriana, Roma
1981 (Analecta Gregoriana 223); D. Mazzoleni, Il lavoro nell’epigrafia cristiana, in S. Feli-
ci (cur.), Spiritualità del lavoro nella catechesi dei Padri del III-IV secolo. Convegno di studio
e aggiornamento, Facoltà di Lettere cristiane e classiche (Pontificium institutum altioris latini-
tatis), Roma 15-17 marzo 1985, LAS, Roma 1986 (Biblioteca di scienze religiose 75), 263-
271 (di Mazzoleni cfr. anche la raccolta di saggi Epigrafi del mondo cristiano antico, Lateran
University Press, Roma 2002 [Facoltà di teologia], in part 11-84); C. Carletti, Iscrizioni cri-
stiane a Roma. Testimonianze di vita cristiana (secoli III-VII), Nardini, Firenze 1986 (Biblio-
teca Patristica 7); Id., Epigrafia dei cristiani in Occidente dal III al VII secolo. Ideologia e pras-
si, Edipuglia, Bari 2008 (Inscriptiones Christianae Italiae. Subsidia 6).
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294 Le origini della cultura visuale cristiana
Aurelius Prosenes. Freigelassener und Christ am Kaiserhof, Steiner, Wiesbaden 1964 (Abhand-
lungen der Geistes- und Sozialwissenschaftlichen Klasse 3); per un bilancio delle criticità
di questa epigrafe, cfr. Carletti, Epigrafia dei cristiani, 131-132 (numero 3).
26 M. Armellini, Il cimitero di S. Agnese sulla via Nomentana, Tipografia poliglotta di
Propaganda Fide, Roma 1880, 98; Mazzoleni, La vita del popolo, 208. Bertolino, Dagli ipo-
gei, 80-81, ne conta almeno ventiquattro. Cfr. comunque Tertulliano, A Scapula 4,7.
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Il contesto genetico 295
b. La ritrattistica
Il tema del ritratto cristiano antico, recentemente rilanciato da Clau-
dia Corneli e oggetto di un importante convegno a Brno27, interseca,
com’è noto, i numerosi snodi ideali dell’identità, della memoria, della
posterità – per limitarmi ai più evidenti.
Non è però in questo senso “alto” che vorrei qui brevemente richiama-
re l’importanza del ritratto cristiano. Esso mi pare piuttosto significativo
in ordine a due sue prerogative: la prima, di più immediata spendibilità, è
quella delle informazioni che l’abbigliamento e – più in generale – la sun-
tuaria di questi ritratti possono offrire 28; la seconda è data dai “caratteri di
paradossalità” che non di rado emergono dalla ritrattistica cristiana.
Con questa espressione, “caratteri di paradossalità”, intendo riferirmi
a quegli elementi che sembrano trasgredire la funzione propria della com-
memorazione funebre. Sono, questi ultimi, particolarmente significativi,
a mio avviso, perché presuppongono un’esplicita intenzionalità da parte
della committenza – non possono essere considerati i frutti di una pro-
duzione seriale, ma la risposta a richieste mirate – e dimostrano, d’altra
parte, un’elaborata finalità espressiva.
In altri termini, nella più antica ritrattistica cristiana è possibile rav-
visare alcune peculiarità che paiono antitendenziali rispetto a un’univoca
funzione commemorativa o che, quand’anche favoriscono la preservazio-
ne della memoria del defunto, lo fanno differenziandosi profondamente
da stilemi e caratteri propri della coeva arte funeraria. Il proprium cri-
stiano di questi ritratti si esprime anche attraverso l’adozione di marca-
tori figurativi “paradossali”, intenzionalmente impiegati per dichiarare la
specificità cristiana di quei manufatti.
27 Cfr. almeno C. Corneli, Dalle imagines maiorum al “ritratto” nelle catacombe di Ro-
ma, Ph.D. Diss., Viterbo a.a. 2010-2011; I. Foletti (ed.), The Face of the Dead and the Ear-
ly Christian World, Viella, Roma 2013; cfr. però anche A. Caillaud, La figure du comman-
ditaire dans l’art funéraire des catacombes de Rome (IIIe-VIe siècles), in S. Brodbeck - A.-O.
Poilpré (éds.), Actes de la journée d’ études “La culture des commanditaires. L’oeuvre et l’em-
preinte” (Paris, 15 novembre 2013), HiCSA Editions, Paris 2015, 66-121.
28 Cfr. Dresken-Weiland, s.v. «Patronage », 306.
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296 Le origini della cultura visuale cristiana
Figura 35: acroterio; il ciclo di Giona; Tabula inscriptionis compilata (cfr. CIL 6,
37231); il banchetto escatologico; acroterio; ritratto dei defunti; il pastore vigila
sui suoi animali (la mandria è eterogenea; non è un gregge di sole pecore). “Sar-
cofago di Baebia Hertofile”, Museo Nazionale Romano, Roma (Wp. 29, t. 53,3;
Rep. 1, 778; su questo sarcofago cfr. anche S.M. Salvadori, Per Feminam Mors,
Per Feminam Vita. Images of Women in the Early Christian Funerary Art of Rome,
Ph.D. Diss., New York [NY] a.a. 2002-2003, 179-267). Ultimo terzo del III se-
colo. La china in figura è tratta da Pelizzari, Vedere la Parola, 184, figura 78. Il
progetto iconografico di questo sarcofago è tanto semplice quanto incisivo: «Se
al centro del decoro strigilato si trova il ritratto dei due coniugi, ai lati della tabu-
la si trovano il kerygma – illustrato attraverso la tipologia di Giona – e la salvezza
escatologica – riassunta dal banchetto celeste» (Pelizzari, Vedere la Parola, 185).
La scena bucolica sulla quale poggia il clipeo con il ritratto dei defunti raffigura
ovviamente l’aspettativa di salvezza sulla quale riposava la loro speranza.
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Il contesto genetico 297
La moglie viene elogiata per l’onestà, per la castità, per essere stata un’«incom-
parabile matrona» (« H[ONESTAE] M[EMORIAE] F[EMINA] UNICE CASTITATIS [S]
ORORI ET COMITI SUPER FINEM AMORIS DILIGENS MARITUM CONIUG[I] BENI-
GNISS[IMAE] ET INCOMPARABIL[I] MATRONE »), ove chiaramente quest’ultimo
titolo rivendicava per la donna l’immaginario e gli ideali del femminile tipici
della severa cultura romano-imperiale. Ma è proprio nel rapporto dissonante
tra questo elogio funebre e il ritratto di Baebia che si può rintracciare il “carat-
tere di paradossalità” di cui è carica questa figura. Come già notava Joseph
Wilpert (Wp. 29, pagina 76), richiamando R. Paribeni, La collezione cristiana
del Museo Nazionale Romano, in Nuovo Bullettino di archeologia cristiana 21
(1915) 95-118, qui 97: «La moglie, honestae memoriae femina, […] stona alquan-
to con l’iscrizione, la quale “lascia credere che i due coniugi abbiano condotto
la vita in perfetta castità”» (rileva questa distonia anche J. Huskinson, Roman
Strigillated Sarcophagi. Art and Social History, Oxford University Press, Oxford
2015, 61; cfr. anche Salvadori, Per Feminam Mors, Per Feminam Vita, 185;
J. Huskinson, Reading Identity on Roman Strigilated Sarcophagi, in Res: Anthro-
pology and Esthetics 61 [2012], 80-97, qui 95-96). Il grande archeologo romano
aveva infatti buon gioco nel notare come l’iconografia di Baebia, con il capo
scoperto, la spalla nuda e il panneggio dell’abito lasciato ricadere mollemente
sul seno, contraddiceva il rigore con cui, già dall’età augustea, era stato forma-
lizzato l’austero abbigliamento del matronato romano. Baebia, in altri termini,
si potè fregiare di quelle che il marito considerava le migliori virtù della matro-
na, ma non accettò di indossarne la “maschera sociale”, affidando, al contrario,
il ricordo di sé a un’immagine provocatoria, se non apertamente provocante.
Simile scelta dev’essere a mio avviso ricondotta a quella pretesa escatologica
cristiana che, anche nella prassi del quotidiano, si traduceva, sin dal già citato
inno di Gal 3,28, in una sovversione dei ruoli sociali e dei loro costumi: «Non
c’è più maschile e femminile». Una simile costruzione ideale poggiò certo su
una committenza avvertita di essa e fermamente intenzionata a gestire il pro-
cesso creativo di questo monumento (per la matrice cristiana di questo ideale
del femminile, vedi infra, pp. 389-399).
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298 Le origini della cultura visuale cristiana
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Il contesto genetico 299
2. LA FRUIZIONE
Il discorso sulla fruizione di un documento visuale prevede di conside-
rare almeno due parametri, già menzionati più sopra: il “contesto perfor-
mativo” (dove l’immagine era situata e vista) e l’“audience” del documento
(chi osservava l’immagine). Si tratta di due coordinate fondamentali: il
luogo dove si trova un oggetto iconico concorre in modo decisivo a defi-
nirne il valore, così come il pubblico atteso, che già è parte integrante del-
la progettazione dell’immagine (altro è immaginare una figura per un
bambino, altro è pensarla per un adulto, per limitarsi a un banale esempio),
diventa poi il soggetto del processo di significazione.
Tra il contenuto dell’immagine e il luogo in cui essa è dislocata si at-
tiva per altro un rapporto biunivoco: l’immagine qualifica il contesto, il
contesto definisce l’immagine. Che l’iconografia trionfale degli impera-
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300 Le origini della cultura visuale cristiana
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Il contesto genetico 301
32 Non è questa la sede per entrare nel merito della spinosissima “questione ippolitea” (resta
a mio avviso determinante la sintesi di E. Prinzivalli, s.v. «Ippolito», in Enciclopedia dei Papi, Isti-
tuto dell’Enciclopedia Italiana G. Treccani, Roma 2000, 1, 246-258); per uno status quaestionis
circa l’Elenchos, cfr. almeno A. Cosentino, The Authorship of the Refutatio omnium haeresium,
in Zeitschrift für Antikes Christentum 22 (2018) 218-237, e la raccolta curata da G. Aragione - E.
Norelli (éds.), Des évêques, des écoles et des hérétiques: Actes du Colloque International sur la Réfuta-
tion de toutes les hérésies, Genève, 13-14 juin 2008, Zèbre, Lausanne 2011; cfr. anche M. Simo-
netti, Per un profilo dell’autore dell’Elenchos, in Vetera Christianorum 46 (2009) 157-173.
33 Ippolito di Roma, Elenchos 9,12,14. Su questo fondamentale passaggio è di estremo
interesse quanto scrive G.M. Vian, Dai cimiteri al potere temporale: note sulle origini della
proprietà ecclesiastica, in Vetera Christianorum 42 (2005) 307-316.
34 Cfr. almeno K. Beyschlag, Kallist und Hippolyt, in Theologische Zeitschrift 20 (1964)
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302 Le origini della cultura visuale cristiana
35 Non è certo se debba essere attribuito a Callisto il primo scavo delle regioni ipogee di
quel complesso (nel caso il «cimitero» a cui fa riferimento Ippolito sarebbe il solo soprater-
ra, il cimitero vero e proprio) o se il loro più antico nucleo fosse già stato inaugurato, come
mi parrebbe più verosimile.
36 Non è ovviamente necessario ipotizzare regioni cimiteriali ipogee che, come noto, si
ritiene abitualmente siano state scavate tra la fine del II secolo e gli inizi del III: cfr. per un
primo orientamento Pergola, Le catacombe romane, 51-58.
37 A partire dal IV secolo, come ben attesta la documentazione epigrafica (cfr. almeno
Guyon, La vente des tombes, 587-594), vi sarà un deciso intervento da parte del clero roma-
no anche nella compravendita dei singoli spazi funerari. Informazioni parallele alla notizia
ippolitea, per altro, si possono rinvenire per l’Africa cristiana; cfr. Tertulliano, A Scapula
3,1. Cfr. L. Spera, Forme di autodefinizione identitaria nel mondo funerario: cristiani e non
cristiani a Roma nella tarda antichità, in E. Dettori - C. Braidotti - E. Lanzillotta (curr.), οὐ
πᾶν ἐφήμερον. Scritti in memoria di Roberto Pretagostini, Quasar, Roma 2009 (Pubblica-
zione dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Dipartimento di Antichità e tra-
dizione classica), 2, 769-804, qui 779. Sul tema della proprietà ecclesiastica dei cimiteri pri-
ma di Costantino I, cfr. ancora G. Bovini, La proprietà ecclesiastica e la condizione giuridica
della Chiesa in età precostantiniana, Giuffrè, Milano 1949 (Pubblicazioni dell’Istituto di Di-
ritto Romano e dei Diritti dell’Oriente mediterraneo 28).
38 Si noti che la notizia di Ippolito di Roma, Elenchos 9,12,14-16, non riporta altri inca-
richi od offici che siano stati affidati da Zefirino a Callisto; ciò comporta che ricevere l’uf-
ficio «del cimitero» fosse considerato un premio sufficiente per ricompensare un’elezione
episcopale così prestigiosa.
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Il contesto genetico 303
Problemi dell’organizzazione economica in comunità cristiane tra II e III secolo, in Atti dell’Ac-
cademia Romanistica Costantiniana. IX Convegno internazionale, Edizioni scientifiche ita-
liane, Napoli 1993, 187-216; Sessa, The Formation of Papal Authority, 88-90.
40 Pur se condotta in una prospettiva prioritariamente archeologica, credo meriti di es-
tacombe: l’immediata proprietà ecclesiale (così emergerebbe dagli Editti di Valeriano del
258 e di Gallieno del 260); la costituzione delle comunità in collegia e, in tal modo, una di-
versa forma di proprietà ecclesiale, solo non immediata, ma “mediata” da quell’istituto giu-
ridico; una proprietà individuale – di ricchi benefattori, giuridicamente intestatari del be-
ne, concesso poi alla Chiesa per le necessità di tutti (si veda il caso dell’epigrafe di Faltonia
che «costituì questo cimitero esclusivamente con i suoi beni e lo donò alla […] Chiesa [re-
ligioni]»: cfr. M. Carroll, Spirits of the Dead. Roman Funerary Commemoration in Western
Europe, Oxford University Press, Oxford 2006 [Oxford Studies in Ancient Documents],
261-262). Come segnala l’autore, non è necessario escludere nessuna di queste ipotesi, pen-
sando piuttosto a una coesistenza delle tre che, in ogni caso, convergono sulla natura eccle-
siale di questi luoghi (cfr. Bertolino, Dagli ipogei, 16).
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304 Le origini della cultura visuale cristiana
Se l’“arte dei primi cristiani” ebbe negli spazi funerari il proprio Sitz
im Leben, essa non poté costituirsi in questi luoghi della Chiesa quale
per la prima volta la “personalità giuridica” di queste Chiese (che guadagnavano in tal mo-
do la proprietà, il possesso, lo ius mortuum inferendi e lo ius sepulchri) significa documen-
tare l’origine della Chiesa come soggetto di diritto. È ovvio che la celebrazione della Pasqua,
l’annuncio del Vangelo, come pure il sostegno caritatevole agli indigenti occupassero, sin
dai primi anni della missione cristiana, un luogo privilegiato nelle comunità di credenti.
Ciò che qui si sottolinea non è la priorità dell’allestimento di cimiteri su queste ben più ri-
levanti pagine dell’agenda ecclesiale, ma la centralità che anche questi luoghi e la loro am-
ministrazione occuparono in essa: non, dunque, una periferia della vita di questi movimen-
ti, ma un argomento così sentito da spingere, esso per primo, le Chiese ad assumere un
profilo anche giuridicamente costituito, attraverso l’istituto della proprietà consorziata. Si
ricordi, per altro, che la sepoltura era, nel diritto romano (cfr. Corpus Iuris Civilis, Digesto
11,7,2 [Ulpiano, Libro 25 ad edictum]), res religiosa: la tomba infatti diventa locus (nel signi-
ficato fondiario di portio fundi) religiosus (sul valore dell’inumazione, cfr. R. Turcan, Ori-
gines et sens de l’ inhumation à l’ époque impériale, in Revue des études anciennes 60 [1958] 323-
347) a partire dal momento in cui riceve le spoglie del defunto; da quel momento diventa
inalienabile, extra commercium, poiché ricade nello ius divinum (cfr. F. De Visscher, Le régi-
me juridique des plus anciens cimetières chrétiens de Rome, in Analecta Bollandiana 69 [1951]
40-54; cfr. anche l’orizzonte tracciato da J.M.C. Toynbee, Death and Burial in the Roman
World, Thames and Hudson, London 1971 [Aspects of Greek and Roman Life]). La pro-
prietà e il possesso dei cimiteri, dunque, erano per le Chiese, in un’epoca di “persecuzione”,
gli unici diritti “sicuri”.
43 Prinzivalli, s.v. «Callisto», in Enciclopedia dei Papi, 238; la citazione interna è da Tra-
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Il contesto genetico 305
2.2. L’utenza
Carlo Carletti, osservando la presenza di «porte ora scomparse ma di
cui rimangono chiarissime le tracce», invocò la «prova contraria» di un
uso esclusivamente privato – e familiare – degli ambienti decorati, per
lo più cubicolari, nelle catacombe 45. Penso che la richiesta dell’insigne
epigrafista possa dirsi soddisfatta sia dalla constatazione dello statuto
comunitario dei maggiori cimiteri, ipogei e catacombe cristiani sia dal-
la non univoca funzione delle porte (che non per forza servono a esclu-
dere visitatori, talora semplicemente servono a compiere il volume degli
spazi architettonici, a proteggere luoghi più delicati – come ambienti
interessati da estesi progetti pittorici –, a definire l’ordine planimetrico
di uno spazio ecc.) sia dal significato almeno martirologico ben presto
assunto dalle necropoli cristiane antiche. Spazi rivendicati anche giuri-
dicamente dalla Chiesa, riconosciuti quali monumentali reliquiari della
persecuzione, non offrirono certo la circostanza ideale per costituire
luoghi riservati, di stretta fruizione familiare, di natura esclusiva, in sen-
so etimologico.
44 Non è questa la sede per elencare cimiteri e ipogei privati e comunitari; ve ne furono
ovviamente di entrambe le tipologie (sul tema, per gli ipogei, cfr. il caso di studio discusso
da P. Pergola, Le catacombe romane: miti e realtà (A proposito del cimitero di Domitilla), in
A. Giardina [cur.], Società romana e impero tardoantico, 2: Roma: politica, economia, paesag-
gio urbano, Laterza, Roma - Bari 1986 [Collezione Storica], 333-350, qui 341-342); ciò che
importa osservare è che sin da principio – e sempre di più – gli spazi funerari cristiani rice-
vettero una connotazione collettiva (per via di proprietà, possesso e/o fruizione): “comuni-
taria” e, perciò, “ecclesiale”.
45 Carletti, Origine, committenza e fruizione, 459-460.
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306 Le origini della cultura visuale cristiana
del IV secolo iniziarono a essere prodotti, a partire dal Martirologio cartaginese, di poco po-
steriore.
48 Cfr. l’edizione di A. Ferrua (ed.), Epigrammata Damasiana, PIAC, Città del Vatica-
do capitolo del Libro Primo (pagine 3-63) dell’Archeologia cristiana di Pasquale Testini (Edi-
puglia, Bari 19802).
50 Girolamo, Commento a Ezechiele 12,40, su Ez 40,5.
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Il contesto genetico 307
51 Pelizzari, Vedere la Parola, 50. Sulla prassi del refrigerium, cfr. R. Cacitti, Sepulcro-
rum et picturarum adoratores. Un’ iconografia della Passio Perpetuae et Felicitatis nel culto
martiriale donatista, in Cacitti et alii, L’ara dipinta di Thaenae, 71-136, in part. 103-115.
Cfr. anche P.-A. Février, Le culte des morts dans les communautés chrétiennes durant le IIIe
siècle, in Atti del IX Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana, Roma, 21-27 settem-
bre 1975, PIAC, Città del Vaticano 1978 (Studi di antichità cristiana), 1, 211-274; 303-329;
E. González, The Christian Cult of the Dead in Early Third Century North Africa: Literary
Evidence and Material Contexts, in Early Christianity 4 (2013) 454-473. Un autentico clas-
sico sul tema rimane A. Stuiber, Refrigerium interim: die Vorstellungen vom Zwischen-
zustand und die frühchristliche Grabeskunst, Hanstein, Bonn 1957 (Theophaneia 11).
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IL LESSICO TIPOLOGICO
DELL’ICONOGRAFIA PALEOCRISTIANA
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I.
1
Vedi supra, pp. 160-168. Volentieri rinvio a Fascher, Isaak und Christus, per Isacco; a Gei-
scher, Das Problem der Typologie, per Isacco e Giona; a H.R. Seeliger, ∏άλαδ μάρτνρες. Die
drei Jünglinge im Feuerofen als Typos in der spätantiken Kunst, Liturgie und patristichen Litera-
tur. Mit einigen Hinweisen zur Hermeneutik der christlichen Archäologie, in H. Becker - R.
Kaszynski, Liturgie und Dichtung. Ein interdisziplinäres Kompendium, 2: Interdisziplinäre
Reflexion, EOS, St. Ottilien 1983 (Pietas liturgica 2), 257-334, per i tre fanciulli ebrei. Per l’I-
talia, mi limito a segnalare la raccolta di M. Perraymond, Paradigmi di esegesi figurale nell’arte
paleocristiana, Aracne, Roma 2007 (A10 258), dove sono affrontati: il ciclo di Sansone; Tobia
e Tobiolo; Giobbe; Abacuc; la figura dell’ossesso; il miracolo dell’emorroissa; l’emorroissa e la
Cananea; l’iconografia dell’Iscariota; l’incredulità di Tommaso; la raffigurazione di Tabitha.
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312 Il lessico tipologico
2 Torna di attualità, ancora una volta, l’equazione che il Prologo della Passione di Perpe-
tua e Felicita sviluppa tra gli «antichi esempi di fede» e i «nuovi»: si tratta di un paradigma
che spiega bene l’eccezionalità dello spazio concesso al tema ecclesiologico nell’impiego del-
la tipologia entro la tradizione latina (cfr. Daniélou, Le origini, 290-302, che fu il primo a
riconoscervi un carattere distintivo di quella tradizione). Pur sotto la definizione di «teolo-
gia simbolica », alcuni argomenti dell’ecclesiologia tipologica sono stati esemplarmente stu-
diati da Rahner, Simboli della Chiesa.
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 313
3 Cfr. R. Bodenmann, Naissance d’une Exégèse. Daniel dans l’Eglise ancienne des trois pre-
miers siècles, Mohr, Tubingen 1986 (Beitrage zur Geschichte der biblischen Exegese 28);
W.D. Tucker Jr., s.v. «Daniel: History of Interpretation», in M.J. Boda - J.G. McConville
(eds.), Dictionary of Old Testament Prophets, IVP Academic, Downers Grove (IL) 2012, 123-
132, in part. 126-129.
4 Styger, Die altchristliche Grabeskunst, 6, conta diciassette pitture e venticinque bassori-
lievi di tre fanciulli nella fornace ardente (Dresken-Weiland, Immagine e parola, 236-237, per-
viene a cifre più consistenti: più di venti raffigurazioni pittoriche e trentasette bassorilievi); sei
pitture e sette bassorilievi per il lamento di Susanna; due pitture e un bassorilievo per il “giu-
dizio di Daniele”; sei bassorilievi del ciclo di Bel e il drago; trentanove pitture e trenta basso-
rilievi della scena di Daniele nella fossa dei leoni (ancora una volta Dresken-Weiland, Imma-
gine e parola, 190-191, conta più esemplari: cinquantadue pitture e trentotto bassorilievi; su
questo tema, cfr. R. Sörries, Daniel in der Löwengrube. Zur Gesetzmäßigkeit frühchristlicher
Ikonographie, Reichert, Wiesbaden 2005: l’autore ne cataloga complessivamente trecentotren-
tasette esemplari). Per la fortuna di questi temi, cfr. H. Schlosser, s.v. «Daniel », in LCI, 1, 469-
473; M. Minasi, s.v. «Daniele », in Bisconti (cur.), Temi, 162-164. Sulla ricezione – iconogra-
fica e letteraria– dei cicli narrativi del libro di Daniele, queste pagine sono fortemente
debitrici della ricerca di Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, a cui ne-
cessariamente rimando per un approfondimento sul tema.
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314 Il lessico tipologico
5 È importante considerare la natura composita del testo che reca questi racconti. Da-
niele è infatti un libro che riscosse grande fortuna nell’antichità – giudaica e cristiana: in
quest’ultima fu tra i primissimi libri biblici ai quali venne applicato il genere del commen-
tario (è il celebre caso del Commento a Daniele dell’Ippolito d’Asia) – e che, forse anche per
questo motivo, conobbe una storia articolata, caratterizzata da numerosi interventi redazio-
nali ancora riconoscibili nella filigrana di un’imponente stratigrafia testuale, evidente già a
partire dal marcatore linguistico (sul tema, cfr. T. J. Meadowcroft, Aramaic Daniel and Greek
Daniel: A Literary Comparison, Sheffield Academic Press, Sheffield 1995 [Journal for the
Study of the Old Testament. Supplement Series 198]). Limitandoci a quest’unico dato, il li-
bro può essere suddiviso in tre sezioni: quella aramaica (Dn 2,4b - 3,23; 4 - 7,28: plausibilmen-
te il nucleo più antico del testo), quella ebraica (data dalla somma di 1,1 - 2,4a, il “Prologo”
al testo, e di 8 - 12, la sezione delle celebri visioni) e quella delle “glosse deuterocanoniche”,
in greco (l’inclusione di 3,24-90 [24-45 è la preghiera di Azaria; 46-50 è la “clausola della
fiamma”, un breve interludio descrittivo prima del solenne Cantico dei tre fanciulli nella
fornace di 51-90], il c.d. “Libro di Susanna”, del capitolo 13 Vulgata, e il racconto del confron-
to di Daniele con i sacerdoti di Bel e con il drago [14 Vulgata = Bel e il dragoLXX ]; questi ulti-
mi due capitoli, 13 Vulgata e 14 Vulgata, hanno guadagnato la loro posizione conclusiva solo a
partire dal V secolo, con la traduzione geronimiana).
6 Cfr. B. Marconcini, Daniele, Paoline, Milano 2004 (I libri biblici. Primo Testamento
28), 22. Cfr. anche Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, 5-6. Per hag-
gadah si intende quell’interpretazione che mira a ricavare dal testo il suo valore “spirituale” e
“parenetico”, costituendosi come un’ermeneutica che spesso è stata definita “omiletica”, in an-
titesi all’interpretazione legalistica o halakica; cfr. J. Maier, Il giudaismo del secondo tempio.
Storia e religione, Paideia, Brescia 1991 (Biblioteca di cultura religiosa 59), 163-166.
7 Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, 11.
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 315
8 Non sarà possibile ripercorrere la disamina proposta da Valenti, “Similes Ananiae, Aza-
riae et Michaeli extiterunt”. L’autrice distingue tra impiego dei racconti di Daniele «tipologi-
co» (25-337: per articolare il nesso fondamentale della teologia del martirio, che sta nel rap-
porto tra Pascha ex passione e testimonianza cristiana; per descrivere il caos apocalittico dei
tempi ultimi e il destino escatologico; per articolare la tipologia della Chiesa), «allegorico» (339-
380: per lo più in funzione parenetica) e «letterale» (382-413: per via della possibilità di isola-
re alcuni «cicli di Daniele», raffigurazioni, cioè, dei diversi episodi tratti da Daniele in serie).
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316 Il lessico tipologico
Il primo studio sistematico dedicato a questo tema è stato quello di C. Carletti, I tre gio-
9
vani ebrei di Babilonia nell’arte cristiana antica, Paideia, Brescia 1975 (Quaderni di «Vetera
Christianorum» 9), in part., per il rifiuto a Nabucodonosor, 64-95; per la scena della forna-
ce, 25-63. Cfr. anche, però, la risposta di M. Rassart-Debergh, «Les trois hébreux dans la four-
naise» dans l’art paléochrétien. Iconographie, in Byzantion 48 (1978) 430-455. Cfr. Seeliger,
∏άλαδ μάρτνρες, in part. 306-316, per la struttura tipologica dell’impiego di questo raccon-
to (la natura martirologica dell’impiego di questo episodio è considerata prevalente dallo stu-
dioso); M. Dulaey, Les trois Hébreux dans la fournaise (Dn 3) dans l’ interprétation symbolique
de l’Église ancienne, in Revue des Sciences Religieuses 71 (1997) 33-59; F.M. Kulcak-Rudiger -
P. Terbuyken - M. Perkams - H. Brakmann, s.v. «Jünglinge im Feuerofen», in E. Dassmann
(hrsg.), Reallexikon für Antike und Christentum, 19, Hiersemann, Stuttgart 2001, 346-388.
10 Tertulliano, Scorpiace 8,7; cfr. però anche Id., L’ idolatria 15,8-9; Origene, Ai martiri
33. Tutto il capitolo 8 dello Scorpiace articola una rubrica di testimonia rivolti alla defini-
zione tipologica del martirio. Su questa costruzione argomentativa si è giustamente soffer-
mata Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, 277-290. Per il più ampio
riferimento al tema soteriologico, cfr. Dresken-Weiland, Immagine e parola, 234-236, che
segue da vicino Dulaey, Les trois Hébreux dans la fournaise, dove la prospettiva martirologi-
ca è considerata secondaria (cfr. ivi, in part. 34).
11 Cfr. almeno M. Rassart-Debergh, Les trois hébreux dans la fournaise en Égypte et en
Nubie chrétiennes, in Rivista degli studi orientali 58 (1984) 141-151; S. Chojnacki, Les trois
hébreux dans la fournaise: une enquête iconographique dans la peinture éthiopienne, in Rasse-
gna di Studi Etiopici 35 (1991) 13-40.
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 317
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318 Il lessico tipologico
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 319
Figura 39: i tre fanciulli ebrei si rifiutano di adorare il simulacro. Fianco destro
del “sarcofago di Ancona”, Museo Diocesano, Ancona (Wp. 29, t. 14,4; Rep.
2, 149). Seconda metà del IV secolo. L’immagine è tratta da Garr. 5, t. 326,3.
Il sarcofago di Ancona offre un esempio evidente di questo processo di “irru-
zione dell’attualità” nel racconto di Dn 3. Tanto i caratteri con cui viene con-
notato il personaggio inquirente (la sella curulis su cui è assiso, infatti, nella
Roma antica era distintiva del potere giudiziario; era perciò apparato anche
consolare e, per questa via, imperiale) tanto le inequivocabili uniformi dei sol-
dati trasferiscono la vicenda prototestamentaria nello stesso Sitz im Leben dei
cristiani condotti a processo. Dn 3, dunque, fu introdotto nell’immaginario
cristiano come ermeneutica (tipologica) del testo biblico, non come sua illustra-
zione. «È certo significativo che le prime testimonianze della scena del rifiuto
risalgano proprio all’ultimo periodo della tetrarchia, epoca in cui il culto im-
periale raggiunse il suo apogeo. Gli imperatori si ritengono ormai figli della
divinità e come tali hanno diritto all’adoratio della propria persona e alla com-
pleta sottomissione dei sudditi […]. Le loro pretese divine si esasperano in oc-
casione della persecuzione. Diocleziano, rinnovando il tentativo di Decio, im-
pone ai sudditi di sacrificare agli dèi dell’impero. Le comunità vivono
nell’attesa di grandi sconvolgimenti e l’attuarsi dei provvedimenti imperiali, che
mirano a recidere alla base le strutture della Chiesa, consolidano la convinzio-
ne della venuta dell’Anticristo […]. Tale situazione politico-religiosa dovette
indubbiamente favorire la nascita della scena del rifiuto. Essa esprimeva in ter-
mini espliciti la posizione della comunità di fronte al problema della divinizza-
zione dell’imperatore. Colui che imponeva ai propri sudditi l’adorazione della
sua persona appariva infedele come la reincarnazione di Nabuchodonosor, il
precursore di tutti gli imperatori nemici del cristianesimo» (Carletti, I tre gio-
vani ebrei, 65-66).
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320 Il lessico tipologico
Figura 40: Noé nell’arca riceve la colomba che reca l’ulivo; i tre fanciulli ebrei
innalzano il loro cantico tra le fiamme della fornace mentre un addetto alimen-
ta il fuoco. Pannello sinistro di alzata (Lateranense 134), Musei Vaticani, Pio
Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t. 175,6; Rep. 1, 121). Fine III - inizi IV
secolo. L’immagine è tratta da Leclercq, s.v. «Hébreux (Les trois jeunes)», 2121-
2122, figura 5610. Analoga riflessione può essere sviluppata per la raffigurazio-
ne dell’esposizione alla fornace ardente. Anche questo soggetto denota una
sostanziale stabilità formale, pur non mancando la possibilità di integrazioni
iconografiche che, ancora una volta, non ne compromettono la leggibilità e
l’immediata riconoscibilità (si segnala, in particolar modo, l’eventuale presenza,
tra le fiamme, di un angelo, su cui si tornerà; cfr. D.E. Estivill, La imagen del
ángel en la Roma del siglo IV. Estudio de iconología, Pontificium Institutum
Orientale, Roma 1994, 85-110).
Figura 41: schema riassuntivo dell’alzata Lateranense 134 (Wp. 32, t. 175,6;
Rep. 1, 121; in grigio la porzione superstite descritta supra, e riportata in figura
40). Stando alle informazioni disponibili relative allo stato del Lateranense 134
al momento del suo rinvenimento (cfr. già Garr. 5, a pagina 142), l’alzata si
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 321
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322 Il lessico tipologico
gruppo di cinque alzate (oltre a quella esaminata: 1. Wp. 32, t. 181,3; Rep. 1,
834, dei Musei Capitolini di Roma; 2. Wp. 32, t. 174,10; Rep. 1, 143, Latera-
nense 182; 3. Wp. 32, t. 181,4; Rep. 1, 637, del Cimitero dei santi Marco e
Marcelliano; 4. Wp. 32, t. 181,5; Rep. 1, 959, di Villa Doria Pamphili) che re-
plicano l’accostamento ora escusso. Lo stringente parallelo con Ireneo di Lione,
Contro le eresie 5,29,2, e con Metodio di Olimpo, La risurrezione 1,56,3, su cui
la studiosa attira l’attenzione, permette di motivare efficacemente questa aggre-
gazione visuale: « Ancora una volta, la connessione iconografica tra persecuzio-
ne e salvezza riproduce la paradossale concezione cristiana del martirio che situa
nel momento della morte del testimone il suo autentico dies natalis » (Valenti,
“Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, 147).
Figura 43: i tre ebrei nella fornace; i santi Cosma e Damiano, Antimo, Leonzio
ed Euprepio. Pittura su stucco (EA 73139) proveniente da Wadi Sarga, Egitto,
ora presso il British Museum di Londra. VI secolo (cfr. E.R. O’Connell - C.
Fluck, Die drei Glaubensgemeinschaften im Alltag, in Ead. et alii [hrsg.], Ein
Gott. Abrahams Erben am Nil: Juden, Christen und Muslime in Ägypten von der
Antike bis zum Mittelalter, Michael Imhof, Petersberg 2015, 174-175). Il docu-
mento riportato è composto di due parti, verosimilmente dipinte in momenti
diversi. La più antica, realizzata a linee rosse dalla mano migliore, coincide con
il pannello centrale dove i tre ebrei (Azaria è identificato mediante iscrizione)
e l’angelo (pure indicato mediante iscrizione sopra l’ala destra) sono raffigurati
in mezzo alle fiamme della fornace. Sotto la figura corre un’(incerta) iscrizione
copta, nella quale viene implicitamente stabilita l’identificazione tipologica tra
i fanciulli ebrei e «i sessanta martiri di Samalut; il loro giorno, dodicesimo ‹del
mese di› Mekheir. Hourkene il minore, mio fratello Mena il minore. ‹Nel nome
di› Gesù Cristo» (mi baso sullo scioglimento proposto dai curatori del British
Museum).
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 323
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324 Il lessico tipologico
Figura 45: il ciclo dei tre ebrei. Frammento marmoreo inciso, proveniente dal-
la chiesa di Saint-Caprais di Agen, ora andato perduto (Rep. 3, 9). Primo terzo
del IV secolo. L’immagine è tratta da Leclercq, s.v. «Hébreux (Les trois jeunes)»,
2118, figura 5607. Il ciclo iconografico dei tre ebrei si può ovviamente presen-
tare anche unitariamente, secondo forme narrative articolate semplicemente
tramite la giustapposizione delle due scene.
12 Salvo per le offerte recate al neonato, non vi è marcatore formale che permetta di di-
stinguere i tre ebrei dai Magi. Anche il numero dei componenti dei due gruppi (seppure,
come visto supra, pp. 130-133 e figure 8-9, la tradizione figurativa cristiana non sia stata
immediatamente unanime nel considerare di tre componenti la spedizione dei Magi: cfr.
F.P. Massara, s.v. « Magi», in Bisconti [cur.], Temi, 205-211, qui 206) ne facilitò l’equazio-
ne tipologica: infatti, benché il testo matteano si limiti a indicare l’arrivo di «alcuni magi
dall’Oriente» (Mt 2,1), «in base alla enumerazione dei tre doni, la maggior parte delle vol-
te (finché in modo esclusivo) fu stabilito il numero di tre» (R.E. Brown, La nascita del mes-
sia secondo Matteo e Luca, Cittadella, Assisi 20022, 257; già in Origene, Omelie su Genesi
14,3, si parla di «questi tre [isti tres]»). Alcuni studiosi (mi limito qui a citare ancora Car-
letti, I tre giovani ebrei, 107-112; Massara, s.v. « Magi», 208), tuttavia, hanno preferito par-
lare di una «derivazione iconografica » che avrebbe portato alla nascita della scena dei Ma-
gi di fronte a Erode, trasposizione figurativa dell’episodio di Mt 2,7-9. La ragione di questa
più prudente formulazione è l’eccentrico irrompere della stella nella scena del “processo”
ai tre personaggi in abito orientale (oltre che sul fianco del sarcofago del Museo Diocesa-
no di Ancona, riportato supra, p. 319, in figura 39, questa inclusione si ritrova anche sull’al-
zata del “sarcofago di Stilicone” di Milano [Wp. 32, tt. 188,1-189,2, qui t. 188,2; Rep. 2,
150; F. Rebecchi, n. 2a.28d: «Sarcofago cosiddetto di Stilicone », in Milano capitale dell’Im-
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 325
Figura 46: i tre ebrei abbandonano l’idolo inseguendo la stella; tabula in-
scriptionis tra personaggi alati (angeli? eroti?); l’adorazione dei Magi. Fram-
menti di alzata, Maison Romane, Saint-Gilles-du-Gard (Wp. 32, t. 202,3;
Rep. 3, 492). Fine del IV secolo. L’immagine è tratta da Leclercq, s.v. «Héb-
reux (Les trois jeunes)», 2114, figura 5603. I due frammenti di alzata supersti-
ti di questo documento sono stati oggetto di ampia discussione critica. Come
pero romano: 286-402 d.C., Silvana, Milano 1990, 134; vedi infra, p. 327 e figura 48], sul
fianco del sarcofago di Tolentino [Wp. 29, t. 73,1; Rep. 2, 148; vedi supra, p. 318], sull’al-
zata di Saint-Gilles-du-Gardes [Wp. 32, t. 202,3; Rep. 3, 492; vedi infra, p. 326 e figura
47] e sulla perduta alzata di sarcofago della Collezione Mansfeld [dal Lussemburgo: cfr.
Leclercq, s.v. «Hébreux (Les trois jeunes)», 2114-215, figura 5604; F. Gerke, Der Trierer Agri-
cius-Sarkophag. Ein Beitrag zur Geschichte der altchristlichen Kunst in den Rheinland, Pau-
linus, Trier 1949 14, nota 62 e t. 3,5]). Se è vero che la stella è estranea al racconto di Dn 3,
d’altra parte, va osservato che anche la presenza dell’idolo (o del simulacro) da venerare lo
è rispetto al racconto matteano. Che nelle scene in cui compare insieme alla stella quest’ul-
timo elemento sia da considerarsi prevalente lo potrebbe dimostrare anche l’alzata di Saint-
Gilles-du-Gardes, una di quelle tradizionalmente associate al tema dei “Magi di fronte a
Erode”. Qui i tre personaggi, seguendo la stella, voltano le spalle a un idolo presidiato da
un soldato (con lancia e scudo) presso il quale non è (più) raffigurato alcun re/magistrato
(Wp. 32, t. 202,3, infatti, propone di reintegrare questo personaggio). Ben difficilmente,
infatti, si potrebbe considerare una raffigurazione del colloquio dei Magi con Erode una
scena che, omettendo l’interlocutore regale, recasse viceversa soltanto un idolo e una guar-
dia a presidiarlo.
13 Mathews, Scontro di Dei, 46. Sui presupposti già letterari di questa associazione, va
oggi menzionato G.J. Steyn, Kingdom and Magi: Comparative Notes on LXX Daniel, Philo
of Alexandria and Matthew’s Gospel, in E.G. Dafni (ed.), Studies on the Theology of the Sep-
tuagint (Studien zur Theologie der Septuaginta), 2: Divine Kingdom and Kingdoms of Men
(Gottesreich und Reiche der Menschen), Mohr Siebeck, Tübingen 2019 (Wissenschaftliche
Untersuchungen zum Neuen Testament 432), 111-123.
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326 Il lessico tipologico
già ricordato supra, nella nota 12 di questo capitolo, gli studiosi hanno spes-
so sentito la necessità di integrare la scena dell’abbandono dell’idolo con una
figura regale, come già proposto da Joseph Wilpert. Come si potrà osservare
dal prossimo confronto, però, questa integrazione introduce una dismisura
evidente tra i due pannelli, non sanabile neppure dall’inclusione della figura
di Giuseppe (per la verità non così frequente nell’iconografia dell’adorazione
dei Magi) alle spalle di Maria. Al contrario, senza pretendere la figura regale
e con la sola presenza del gruppo di madre e figlio nell’altro pannello, si ot-
tiene una corrispondenza pressoché esatta della misura dei due pannelli.
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 327
Figura 48: i tre ebrei abbandonano l’idolo seguendo la stella; clipeo con ritratto
dei defunti sorretto da personaggi alati (angeli? eroti?); l’adorazione dei Magi.
Alzata del “sarcofago di Stilicone”, Sant’Ambrogio, Milano (Wp. 32, t. 188,1;
Rep. 2, 150). Seconda metà del IV secolo. L’immagine è tratta da Leclercq, s.v.
«Hébreux (Les trois jeunes)», 2118, figura 5606. Ancora una volta, i committenti
cristiani «immedesimarono […] i fanciulli con i Magi: per motivare il rifiuto ad
adorare la statua, i fanciulli mostrano la stella» (Wp. 32, pagina 290). Di nuovo,
però, è necessario sottolineare come sia il tertium comparationis tipologico a spie-
gare appieno le ragioni e l’organizzazione di questo fortunato abbinamento erme-
neutico. Alla base dell’accostamento tra queste due scene non sussiste solo – né
principalmente – la somiglianza formale tra i due gruppi di tre (i giovani ebrei e
i Magi). Li accomuna, anzi, il significato ultimo delle loro rispettive vicende: i
racconti, infatti, possono essere aggregati se li si considera espressione di una co-
erente riflessione attorno al tema che in Gv 4,23-24 Gesù stesso introduce: «È
giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spi-
rito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo ado-
rano devono adorarlo in spirito e verità». Il tema della vera adorazione non è un
tema unicamente né principalmente cultuale, o “liturgico”; esso viene introdotto
innanzi tutto quale marcatore escatologico del compiersi dei tempi. Non è un
caso che all’affermazione sul sopraggiungere dell’ora dei «veri adoratori» la Sa-
maritana risponda a Gesù: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo)…» (4,25).
Così come nella tradizione apologetica l’idolatria determinava non solo la con-
danna morale dell’idolatra ma anche la sua esclusione dal Regno, così la vera
adorazione prefigurava quel «contemplare faccia a faccia» di cui Paolo stesso si
era fatto profeta (1Cor 13,12) proprio per descrivere lo scarto tra l’«ora» e l’«allo-
ra». Riaffiora in queste pagine neotestamentarie – e si ritrova all’origine dell’ag-
gregazione tipologica che si sta esaminando – il tema arcaico dell’autentica ado-
razione quale marcatore della “presenza”: nel giorno del Signore, Israele potrà
finalmente adorarlo in autenticità, stando al suo cospetto, in mezzo alle nazioni
(cfr. Sal 22[21],27-28). La vera adorazione, in altri termini, non implica solamen-
te – e, forse, neppure prioritariamente – una forma di disciplina liturgica o, in
senso più ampio, cultuale. Essa si profila sull’orizzonte teologico protocristiano
come un marcatore escatologico, in senso proprio: avere autentico accesso alla
contemplazione del Padre significa, infatti, essere “alla sua presenza” e, perciò,
trovarsi in una condizione che certo non è più quella della storia mondana.
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328 Il lessico tipologico
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 329
tolineava peraltro la necessità di non costringere i materiali iconografici entro la ridotta gri-
glia ermeneutica della letteratura c.d. patristica, constatando come, in quest’ultima, la for-
tuna di Dn 6 fosse modesta e, di fatto, assai stereotipata.
15 A questo soggetto è stata dedicata una ricca bibliografia; mi limito a rinviare a Wacker, Die
Ikonographie des Daniel in der Löwengrube; Sörries, Daniel in der Löwengrube; J. Ohm, Daniel und
die Löwen. Analyse und Deutung nordafrikanischer Mosaiken in geschichtlichem und theologischem
Kontext, Brill, München 2008 (Paderborner Theologische Studien 49); risultano in particolare di
estremo interesse le «linee guida» che l’autrice discute (ivi, 151-179) per una lettura contestuale dei
mosaici africani di Daniele nella fossa dei leoni. Per l’ovvia ermeneutica martirologica dell’episo-
dio, cfr. Cipriano, Lettera 57,8, e J. Lassus, Daniel et les martyrs, in Rivista di Archeologia Cristiana
42 (1966) 201-205. Per lo sviluppo iconografico del luogo del supplizio, cfr. A. Di Tommasi, Quan-
do il lacus diventa laqum. I caratteri iconografici della fossa dei leoni tra arti maggiori e arti minori,
in F. Bisconti - M. Braconi - M. Sgarlata (curr.), Arti Minori e Arti Maggiori. Relazioni e interazio-
ni tra Tarda Antichità e Alto Medioevo, Tau, Todi 2019, 699-756; mentre, per il significato dell’e-
ventuale presenza del profeta Abacuc, cfr. M. Perraymond, Abacuc e il cibo soterico: iconografia e
simbolismo (Dan. 14, 33-39), in Ead., Paradigmi di esegesi figurale, 65-85. Segnalo infine anche
R.B. Green, Daniel in the Lions’ Den as an Example of Romanesque Typology, Ph.D. Diss., Chica-
go (IL) a.a. 1947-1948, sia per la conferma della ricezione tipologica della scena (in part. 10-29) sia
per aver dimostrato che, a partire dall’XI secolo, la struttura formale di questo tema iconografico
mutò radicalmente, introducendo una sostanziale soluzione di continuità con la tradizione pale-
ocristiana (ivi, 5-9) che, in effetti, era già entrata in crisi in seguito ai cambiamenti introdotti dal
principato costantiniano. La notazione mi pare rilevante perché implica una costante riflessione
anche formale sulla scena, con ciò testimoniandone una coerente longevità. Il lavoro di sintesi di
Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, anche in questo caso, mi sembra il più
consistente dal punto di vista metodologico.
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330 Il lessico tipologico
16
Il catalogo di Sörries, Daniel in der Löwengrube, 37-144, conta trecentotrentasette
esemplari di questa scena. G. Noga-Banai, All-in-One: Expectations from Daniel in the Lions’
Den in Two Palestinian Cases, in Rivista di Archeologia Cristiana 97 (2021) 361-378, sottoli-
nea la fortuna di questo tema figurativo anche presso gli apparati sinagogali – uno dei rari
casi in cui lo stesso episodio biblico viene iconizzato tramite il medesimo schema figurati-
vo sia in tradizione paleocristiana sia in tradizione ebraica –, riconoscendo nella diffusione
di questo un sintomo del fatto che «la retorica visuale (visual rhetoric) creata per il testo bi-
blico fu comune alle diverse comunità » (ivi, 375), a riprova della matrice tutt’altro che “pro-
fana” di questa tradizione visuale.
17 Le più vistose aggiunte del secondo racconto sono: il numero dei leoni (sette) e la lo-
ro preparazione; l’intervento del profeta Abacuc e la permanenza nella fossa per sette gior-
ni anziché una notte soltanto. Come segnala M. Settembrini, Daniele, San Paolo, Cinisel-
lo Balsamo (MI) 2019 (Nuova Versione della Bibbia dai Testi Antichi 26), 183: «La pena,
infame in quanto toglie all’eroe la possibilità di avere una tomba, risulta ancor più grave di
quella inflittagli al capitolo 6, ove doveva trascorre tra i leoni una notte […]. La sua soprav-
vivenza, nondimeno, è simbolicamente possibile grazie a una misteriosa visita di Abacuc: la
parola dei profeti, il vero cibo che custodiscono per i fedeli, è lo strumento con cui Dio pro-
tegge coloro che lo amano».
18 Per l’area africana, cfr. M. Veronese, Quid gloriosius Danihele? Il ruolo di Daniele nel-
la predicazione di Cipriano, in Auctores Nostri 12 (2013) 265-279, in part. 266-270. Sul «con-
testo mediatico» del martirio antico, cfr. A. Carfora, I cristiani al leone. I martiri cristiani nel
contesto mediatico dei giochi gladiatorii, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2009 (Oi christianoi
10), 29-49; cfr. anche, in specifica relazione a questo tema figurativo, A. Kalinowski, A
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 331
Mosaic of Daniel in the Lions’ Den from Borj el Youdi (Furnos Minus) Tunisia: The Iconography
of Martyrdom and the Arena in Roman North Africa, in Antiquités Africaines 53 (2017) 115-
128. Ancora una volta Dulaey, I simboli cristiani, 129-135 (cfr. anche Ead., Daniel dans la
fosse aux lions, Lectures de Dn 6 dans l’Église ancienne, in Revue des Sciences Religieuses 72
[1998] 38-50), non ravvisa la matrice martirologica della scena (la segue Dresken-Weiland,
Immagine e parola, 187-196). Sul meccanismo tipologico che sovrintese alla ricezione di que-
sto soggetto, mi permetto di rinviare a quanto scritto in Pelizzari, «Vedere» la Parola: alle
origini dell’ iconografia cristiana, 730-740.
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332 Il lessico tipologico
Figura 51: Giona gettato nelle fauci della pistrice; tabula inscriptionis; Daniele
nella fossa dei leoni riceve il pane da Abacuc; ritratto (incompiuto) di defunto
entro clipeo a conchiglia; il sacrificio di Isacco; tabula inscriptionis; il riposo di
Giona. Alzata di sarcofago (Lateranense 147), Musei Vaticani, Pio Cristiano,
Città del Vaticano (Wp. 29, t. 136,4; Rep. 1, 144). Inizi IV secolo. L’immagine
è tratta da Garr. 5, t. 384,3. Il ciclo iconografico di questo documento, già del
tutto leggibile nella rappresentazione parziale del suo frammento maggiore, è
stato tuttavia integralmente ricomposto – come già si può osservare nella tavo-
la di Joseph Wilpert – consentendo di scartare la possibilità di variationes figu-
rative. La presenza delle due tabulae, purtroppo non compilate, ritma il proget-
to iconografico di questo documento in tre campi, secondo lo schema seguente.
Figura 52: schema dell’alzata Lateranense 147. Il progetto iconografico del docu-
mento ora esaminato procede attraverso associazioni “concentriche” volte a situa-
re il defunto in un ben preciso “spazio teologico”, se mi si passa la definizione.
Ovviamente l’orizzonte ultimo del Lateranense 147 è descritto dalle due scene del
ciclo di Giona: la tipologia per eccellenza della tradizione cristiana delle origini.
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 333
Figura 53: Giona gettato nel ventre del mostro; il riposo del profeta sotto il per-
golato. Particolari dell’alzata di sarcofago Lateranense 147, Musei Vaticani, Pio
Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 29, t. 136,4; Rep. 1, 144). Inizi IV secolo (la
linea a tratto più spesso indica la demarcazione tra i diversi frammenti dell’alza-
ta). Il ciclo di Giona codifica con evidenza un testimonium tipologico: lo si può
affermare per due ragioni. Innanzi tutto, perché come tale viene attribuito dai
redattori dei Sinottici all’insegnamento di Gesù, che menziona esplicitamente
un momento “decentrato” della vicenda del profeta (Gn 2,1; si tratta di un pas-
saggio dell’intreccio narrativo del libro profetico funzionale al raggiungimento
dell’acme della vicenda [la “conversione” finale di Giona]; esso, però, nel ricu-
pero sinottico, viene astratto dal proprio contesto letterario d’origine e rilancia-
to in ragione del significato tipologico che gli viene attribuito) quale «segno»
della sua Pasqua (cfr. Mt 12,38-41 || Lc 11,29-32; Mt 16,4 [à Mc 8,11-12]).
Secondariamente, perché, diversamente da quanto accaduto con i racconti dei
tre fanciulli ebrei e con quello di Daniele nella fossa dei leoni, l’iconografia cri-
stiana precostantiniana assunse solo una porzione della vicenda di Giona che,
da sola, stravolgeva il senso del libro profetico. Concludendo il racconto figura-
tivo con la gioia del profeta per il qiqajon miracoloso (Gn 4,6), se ne escludeva,
infatti, il disseccamento, la furia del profeta e, soprattutto, quell’ultimo dialogo
con YHWH sul quale poggia l’intera architettura argomentativa del testo proto-
testamentario che mirava all’ammansimento del profeta riottoso. Nella vicenda
di questo soggetto iconografico, la soglia cronologica è dirimente: a partire dal
principato costantiniano, farà la sua comparsa – e verrà sempre più spesso inclu-
so in questo ciclo figurativo – il tema del c.d. “Giona triste”, che, a giudizio di
Bonansea, Simbolo e narrazione, 83-85, dev’essere inteso come uno dei sintomi
di quella «“biblicizzazione” dell’iconografia» cristiana, segno di una «volontà
cosciente e consapevole di “biblicizzare” l’immaginario religioso cristiano attra-
verso la formulazione di un linguaggio artistico espressione diretta del testo sa-
cro» (così già Prigent, L’arte dei primi cristiani, 161). L’inclusione del “Giona
triste”, in altri termini, costituì uno degli strumenti che resero possibile il pas-
saggio da una tradizione visuale ermeneutica a una illustrativa. Come affermava
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334 Il lessico tipologico
ancora Pierre Prigent (ivi, 164): «La conclusione è che, decisamente, anche quan-
do le rappresentazioni si riferiscono a Giona, non è del tutto certo che siano
state create per illustrare il libro biblico, né per raccontare la storia del profeta
per come vi è riportata». L’enorme successo di questo soggetto figurativo (cfr. A.
Ferrua, Paralipomeni di Giona, in Rivista di Archeologia Cristiana 38 [1962] 7-69;
Ferrario, Il riposo di Giona; G. Pelizzari, Dal battesimo al regno: il sarcofago di
Giona, un’Apocalisse scolpita, in R. Guglielmetti [cur.], “L’Apocalisse nel medioevo”.
Atti del Convegno Internazionale dell’Università degli Studi di Milano e della So-
cietà Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino (S.I.S.M.E.L.). Gargnano
sul Garda, 18-20 maggio 2009, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, Firenze 2011
[Millennio Medievale 90], 2011, 37-80, per il celebre “sarcofago di Giona” [La-
teranense 119], e Bonansea, Simbolo e narrazione, che nel suo catalogo conta
complessivamente trecentosettantuno esemplari [più dieci scomparsi o privi di
documentazione fotografica] tra pitture, sarcofagi e rilievi, graffiti, mosaici, ter-
racotte, vetri, gemme, avori, metalli, tessuti e una miniatura), del tutto corri-
spondente alla sua fortuna in ambito letterario (cfr. Y.-M. Duval, Le Livre de
Jonas dans la littérature chrétienne grecque et latine. Source et influence du Com-
mentaire sur Jonas de saint Jérôme, Études Augustiniennes, Paris 1973; C. San-
morì, Il libro di Giona nel Cristianesimo delle origini: documenti e monumenti, in
A. Giudice - G. Rinaldi [curr.], Realia Christianorum, 2: La Bibbia e la sua ese-
gesi. Atti del Convegno, Napoli, 15 aprile 2016, Ante Quem, Bologna 2018 [Ri-
cerche 5], 91-107) ne fa un autentico preferito dell’“arte paleocristiana”. Oltre
all’istituzione sinottica, a giustificare il successo di questa “tipologia complessa”
(naufragio di Giona à immolazione di Cristo; liberazione / riemersione di Giona
à risurrezione di Cristo; riposo di Giona à anapausis di Cristo) credo abbia
concorso, almeno per la documentazione visuale, anche l’intersecarsi qui di nu-
merose simbologie già largamente circolanti in ambito cristiano. La nave, il legno
del suo scafo, il suo albero (quell’antenna crucis che rappresentò, sino a tutto il
IV secolo, una delle curces dissimulatae più ricorrenti: cfr. Minucio Felice, Otta-
vio 29,8: «Noi riconosciamo spontaneamente [naturaliter visimus] il segno della
croce sulla nave, mentre avanza a gonfie vele»; cfr. anche Rahner, Simboli della
Chiesa, 636-689), l’ancora, il «mare del mondo» (cfr. ivi, 455-509; cfr. esemplar-
mente Agostino, Enarrazioni sui Salmi 92,7), ma anche l’acqua… sono temi di
largo impiego nella letteratura e nella più antica iconografia cristiana. La matri-
ce tipologica di questo tema figurativo, se coniugata alla sua disposizione sull’al-
zata Lateranense 147, serve a puntualizzare quanto viene definito nel gruppo
centrale di questo documento. Il sintetico manifesto di fede entro il quale la com-
mittenza volle situare il ritratto commemorativo del defunto può essere inteso
soltanto alla luce di quell’orizzonte teologico (e storico-teologico) stabilito dai due
momenti della Pasqua sacrificale di Cristo (il Giona inghiottito dalla pistrice) e
della sua glorificazione (questo il significato tipologicamente assunto dalla scena
del riposo di Giona).
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Figura 54: Daniele nella fossa dei leoni riceve il pane da Abacuc; ritratto (in-
compiuto) di defunto entro clipeo a conchiglia; il sacrificio di Isacco. Particola-
re dell’alzata di sarcofago Lateranense 147, Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città
del Vaticano (Wp. 29, t. 136,4; Rep. 1, 144). Inizi IV secolo (la linea a tratto più
spesso indica la demarcazione tra i diversi frammenti dell’alzata). Professato il
kerygma pasquale che era stato annunciato tipologicamente dal Cristo (il sacri-
ficio del servo sofferente, costretto a transitare per «tre giorni e tre notti nel
cuore della terra»: Mt 12,40), il gruppo centrale dell’alzata Lateranense 147 può
finalmente definire il tempo e la militanza in cui il defunto situò la propria vita.
Se, infatti, Daniele nella fossa dei leoni dev’essere recepito prioritariamente qua-
le tipologia del martirio (come credo dimostri l’ampia e convincente disamina
di Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, 158-202; cfr. anche
Salomonson, Voluptatem spectandi, 55-90), allora porre alla destra del proprio
ritratto funebre tale raffigurazione non può che esprimere l’adesione per lo me-
no di principio all’ideale dell’ecclesia martyrum (il documento è compatibile con
l’età tetrarchica, dunque potrebbe addirittura avere accolto le spoglie di un con-
fessore o di un martire). Ma qual è la radicale teologica di una postura ecclesio-
logica che teorizza la costituzione necessariamente alternativa al secolo e libera
dalle sue potestà della comunità dei credenti? Provvede a rispondere a questa
domanda l’altra tipologia che accompagna questo ritratto: il sacrificio di Isacco
(Gen 22). Come noto, sin da Melitone di Sardi, Frammenti 9-12 (cfr. R. Canta-
lamessa, I più antichi testi pasquali della Chiesa. Le omelie di Melitone di Sardi e
dell’Anonimo Quartodecimano e altri testi del II secolo, Edizioni Liturgiche, Roma
1972 [Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae”. Sectio Historica 33], 141-143; cfr.
anche Ireneo di Lione, Contro le eresie 4,5,4; Tertulliano, Contro i giudei 10,6;
13,20-22; Origene, Omelie su Genesi 8), questo episodio genesiaco venne rece-
pito dall’esegesi cristiana innanzi tutto come testimonium tipologico della Pasqua
di Gesù (per le implicazioni martirologiche di questa scena, cfr. R.A. Clements,
The Parallel Lives of Early Jewish and Christian Texts and Art: The Case of Isaac
the Martyr, in G.A. Anderson - R.A. Clements - D. Satran [eds.], New Approa-
ches to the Study of Biblical Interpretation in Judaism of the Second Temple Period
and in Early Christianity: Proceedings of the Eleventh International Symposium of
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336 Il lessico tipologico
the Orion Center for the Study of the Dead Sea Scrolls and Associated Literature,
9-11 January, 2007, Brill, Leiden - Boston [MA], 207-240, in part. 223-237).
Tale valutazione reputo prevalga anche in ambito visuale: basti a suffragare que-
sta impressione il fatto che tale scena viene abitualmente impiegata quale con-
trappunto alla raffigurazione della ricezione della Legge sul Sinai, in un ideale
dialogo tra le Alleanze, come ha efficacemente provato S. Mussinelli, Legge e
Sacrificio. Economie della salvezza nell’esegesi iconografica paleocristiana, M.A.
Diss., Milano a.a. 2018-2019 (per la fortuna di questo tema iconografico, cfr. I.
Speyart Van Woerden, The Iconography of the Sacrifice of Abraham, in Vigiliae
Christianae 15 [1961] 214-255, qui 243-248, che ne cataloga centonovantacinque
esemplari sino all’VIII secolo). Nel gruppo centrale dell’antefissa Lateranense
147, dunque, si replica quella medesima associazione tra il martirio del credente
e il sacrificio perfetto elevato da Cristo sulla croce che si è riscontrata già nel
progetto iconografico dell’alzata Lateranense 134 (vedi supra, figure 40-42 di
questo capitolo). Pur mutati i testimonia (i tipi), tuttavia, la coincidenza dei loro
referenti tipologici (gli antitipi) permette ai due documenti di sviluppare un di-
scorso analogo, se non in tutto, almeno per questa ecclesiologia martirologica.
Figura 55: il sacrificio di Isacco; il Buon Pastore; Daniele nella fossa dei leoni
(le iscrizioni recano in greco i nomi dei personaggi: « Abramo | Isacco | pastore
| Daniele»). Sarcofago, chiesa di Santa Cruz, Écija (Rep. 4, 48). Fine IV - inizi
V secolo. L’immagine è tratta da H. Leclercq, s.v. «Ecija», in DACL 4,2, 1725-
1726, figura 3901 (per questo pezzo, cfr. S. Vidal Álvarez, Problemas en torno
a la iconografía del Libro de Daniel en la escultura hispánica de los siglos IV-VII,
in Madrider Mitteilungen 43 [2002] 220-238, in part. 226-228; Di Tommasi,
Quando il lacus diventa laqum, 716-718). Questo documento, realizzato pove-
ramente, caratterizzato da un bassorilievo privo di tentativi prospettici e con-
notato dalla semplice alternanza tra due quote planari, quella dei soggetti e
quella dello sfondo, pur appartenendo a un’epoca tardiva e pur denunciando
una mano della quale non par lecito ipotizzare alcuna parentela con gli artigia-
ni di epoca precostantiniana, dimostra efficacemente la persistenza nella cul-
tura visuale cristiana sia delle tre iconografie che esso reca (la variante del
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Daniele vestito non è infrequente: vedi infra, p. 390, figura 86) sia dell’intera-
zione, appena analizzata, tra il sacrificio di Isacco e la scena del lacus leonis.
Assumendo la prospettiva critica proposta in queste pagine, però, l’efficacia
documentaria del sarcofago di Santa Cruz può dimostrarsi ancora maggiore,
attestando anche la persistenza del paradigma religioso che soggiacque a quel
progetto iconografico. Questo sarcofago, infatti, concorre innanzi tutto ad at-
testare la fortuna di un’ermeneutica – l’associazione tra le tipologie di Daniele
e di Isacco, in chiave martirologica, ecclesiologica e cristologica – che non può
essere derubricata a ripetizione di uno schema iconografico circolante tra offi-
cine, dal momento che esso, a partire dalla fine della produzione urbana dei
sarcofagi, ricorrerà su documenti troppo distanti, geograficamente (Salonicco,
Gallie e penisola iberica: cfr. Dresken-Weiland, Immagine e parola, 233-234) e
stilisticamente, per essere considerati prodotti della medesima tradizione arti-
gianale.
Figura 56: due leoni rampanti ai lati di un cantaro ricolmo d’acqua. Mosaico,
basilica di Cresconio, Djémila (Algeria: cfr. Salomonson, Voluptatem spectandi,
69, figura 55a). VI secolo. L’immagine è tratta da Pelizzari, Vedere la Parola, 169,
figura 70. Giustamente Salomonson, Voluptatem spectandi, 70, 105, così com-
menta questo mosaico, posto sulla soglia della grande basilica fatta edificare dal
vescovo Cresconio: «Con il motivo del mosaico d’ingresso […] – che è essenzial-
mente di natura escatologica (cantharus: “fonte di vita”, tra leoni: “demoni di
morte”) – concorda, all’altra estremità della navata centrale, proprio davanti al
grande pannello con l’iscrizione metrica, il motivo sacramentale del “cantharos
affiancato da due cervi assetati” […] che è ad esso strettamente legato dallo sche-
ma ‹iconografico› e che si riferisce al battesimo e alla vita eterna ‹cfr. Sal 42-43(41-
42),2› […]. Entrambi i motivi sono chiaramente correlati al contenuto dell’iscri-
zione, in particolare alla tendenza escatologica che si esprime negli ultimi versi:
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338 Il lessico tipologico
19 Minasi, s.v. «Daniele », in Bisconti (cur.), Temi, 162-164, qui 162; cfr. anche Di Tom-
masi, Quando il lacus diventa laqum, 704: «In realtà, ci troviamo davanti ad una scena sinte-
tica e neutrale, esito ultimo della volontà di fondere i due episodi delle esposizioni ai leoni».
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 339
c. Susanna
Il capitolo 13Vulgata (= SusannaLXX) del libro di Daniele rappresenta uno
dei più vistosi interventi della LXX su questo scritto profetico: in esso trovò
spazio il primo nucleo narrativo (poi rimodulato e ampliato da Teodozione)
del racconto della vicenda della casta Susanna 22. Va preliminarmente osserva-
un elemento “qualificante” delle tradizioni cristiane; viceversa, infatti, per la centralità del rac-
conto ebraico (di contro a quello della LXX) nella definizione della cultura della diaspora ebrai-
ca, cfr. D. Helms, Konfliktfelder der Diaspora und die Löwengrube. Zur Eigenart der Erzählung
von Daniel in der Löwengrube in der hebräischen Bibel und der Septuaginta, De Gruyter, Berlin -
Boston (MA) 2016 (Beihefte zur Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft 446).
22 Cfr. E. Engel, Die Susanna-Erzählung. Einleitung, Übersetzung und Kommentar zum
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340 Il lessico tipologico
to che, come la tradizione testuale (ed esegetica) di questa storia, anche la sua
ricezione iconografica presentò caratteri di particolare incertezza 23, sia quanti-
tativa sia ermeneutica. Per la prima è necessario osservare che né l’ampiezza
(il numero di scene) del ciclo figurativo che ne fu tratto né la codificazione
formale dei suoi diversi passaggi si fissarono mai in modo del tutto stabile.
Per la seconda, come si vedrà, l’oscillazione tra tipologia martirologica (Su-
sanna tipo della passione di Cristo e della Chiesa martire) e allegoria parene-
tica (Susanna modello per il credente) non potrà mai dirsi del tutto risolta.
Figura 57: punizione dei due anziani (cfr. Dn 13Vulgata [= SusannaLXX],61-62); in-
contro tra Susanna e Daniele (cfr. 13Vulgata [= SusannaLXX],45-46); Susanna pro-
cessata dagli anziani (cfr. 13Vulgata [= SusannaLXX],28-41); Susanna aggredita dagli
anziani sulla soglia di casa mentre si sta apprestando al bagno (Susanna si è sco-
perta il capo e si riconosce un’ancella che reca una patera ansata per il lavacro: cfr.
13Vulgata [= SusannaLXX],15-26); Susanna nel giardino spiata dai due anziani (cfr.
precht, Freiburg - Göttingen 1985 (Orbis Biblicus et Orientalis 61); sul contesto del “libro
di Susanna”, cfr. anche M. Segal, Dreams, Riddles, and Visions. Textual, Contextual, and In-
tertextual Approaches to the Book of Daniel, De Gruyter, Berlin - Boston (MA) 2016 (Beihefte
zur Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft 455), 180-199.
23 Cfr. H. Schlosser, Die Daniel-Susanna-Erzählung in Bild und Literatur der christlichen
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 341
no, Il bene della pudicizia 8-9; Cirillo di Gerusalemme, Catechesi 16,31, ecc. Sul costituirsi dei
modelli del femminile nelle origini cristiane, resta a mio giudizio fondamentale lo studio di
E. Giannarelli, La tipologia femminile nella biografia e nell’autobiografia cristiana del IV seco-
lo, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma 1980 (Studi Storici 127); Ead., Apostole,
Diaconesse, Profetesse: Il difficile cammino delle origini, in D. Corsi (cur.), Donne cristiane e sa-
cerdozio. Dalle origini all’età contemporanea, Viella, Roma 2004 (I libri di Viella 41), 19-31.
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342 Il lessico tipologico
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 343
Figura 58: Daniele e il drago (A); un covone di grano (cacciata dal paradiso
terrestre [?]; [B’]); la trasgressione dei progenitori (B); tabula inscriptionis tra
personaggi alati (angeli? eroti?); la moltiplicazione dei pani (C); un anziano nel
giardino di Susanna (D’); il giudizio di Daniele (D). Alzata di sarcofago (Late-
ranense 136), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t.
197,4; Rep. 1, 146). Prima metà del IV secolo. L’immagine è tratta da Garr. 5,
t. 383,5 (in figura l’immagine è accompagnata dallo schema di lettura). Il pro-
getto iconografico di questa alzata di sarcofago presenta quattro o sei scene, a
seconda di come si interpretino due particolari (B’ e D’ nello schema), uno in
ogni pannello dell’alzata.
1. Il pannello di sinistra.
Figura 59: Daniele e il drago (A) e la caduta dei progenitori (B’ - B). Partico-
lare di alzata di sarcofago (Lateranense 136), Musei Vaticani, Pio Cristiano,
Città del Vaticano. Prima metà del IV secolo. L’immagine è ricavata da Garr.
5, t. 383,5. Questo pannello alterna due momenti principali: la sconfitta del
drago e il peccato dei progenitori. Il primo (A) raffigura Daniele mentre avve-
lena il drago, porgendogli la focaccia di pece ed esaurendone, in tal modo, il
culto fasullo (cfr. Dn 14Vulgata [= Bel e il dragoLXX ],23-30; si noti la resa figura-
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344 Il lessico tipologico
Figura 60: la «consegna dei simboli del lavoro». Particolare di sarcofago (La-
teranense 189), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t.
157,1; Rep. 1, 40). 300-330. L’immagine proposta in figura è un particolare
tratto da Garr. 5, t. 367,2. La trasgressione e la cacciata dei progenitori. Fianco
destro di sarcofago, Santa Engracia, Saragozza (Rep. 4, 149; Sotomayor, Sar-
cófagos romano-cristianos de España, 159-169, su questo pannello, 163). Seconda
metà del IV secolo. I particolari riportati in figura mostrano rispettivamente la
scena della cacciata e una sintesi tra il momento della trasgressione di Adamo
ed Eva e quello della consegna «‹del›l’agnello e ‹del›le spighe – simboli del lavo-
ro – ‹che› indicano la condizione materiale dell’umanità dopo la caduta dei
protoparenti (le spighe, il lavorare i campi; la pecora, il tessere, cioè l’attività
principale della donna nell’antichità)»: Calcagnini, s.v. « Adamo ed Eva», 99
(H. Kaiser-Minn, s.v. « Adam and Eve », in EEECA, 1, 10-13, qui 11, ipotizza
acutamente un ulteriore piano di significato: «È anche possibile che questi due
attributi indichino in modo prolettico le successive disposizioni per i sacrifici
[Gen 4,3-4; Es 13,2; Lv 27,30]: grano e agnello sono raffigurati in modo stra-
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 345
Figura 61: la moltiplicazione dei pani (C) e la vicenda di Susanna (D’ - D). Parti-
colare di alzata di sarcofago (Lateranense 136), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Cit-
tà del Vaticano. Prima metà del IV secolo. L’immagine è ricavata da Garr. 5, t. 383,5.
Si trovano qui le raffigurazioni dell’episodio neotestamentario della moltiplicazione
dei pani e di quello prototestamentario del giudizio di Daniele sugli anziani che
avevano cercato di stuprare Susanna, in parziale rilettura di Dn 13Vulgata [= Susan-
naLXX],50-64 (nel testo biblico, infatti, per due volte [vv. 55 e 59] è minacciata una
punizione eseguita «‹dal›l’angelo di Dio»; sul Lateranense 136, invece, l’aguzzino
del reo è evidentemente un essere umano). Quest’ultima scena raggruppa la gio-
vane, in abito matronale, Daniele assiso, in posizione frontale, e il colpevole che
subisce la punizione, venendo percosso sulla testa. Anche in questo pannello si
osserva l’inclusione di un marcatore iconografico (D’), tratto da un tema figura-
tivo non riprodotto per intero: il personaggio che sbircia tra i rami di un albero
del giardino rinvia infatti alla scena degli anziani che insidiano la casta Susanna;
qui, si noti, il personaggio non si protende verso la seducente fanciulla ma verso
una capsa ricolma di rotoli.
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346 Il lessico tipologico
Figura 62: Susanna nel giardino spiata dai due anziani. Particolare del “sarco-
fago di Susanna”, chiesa di San Feliu, Girona (Wp. 32, t. 196,1; Rep. 4, 56).
Datato al 300-330. L’immagine proposta in figura è un particolare tratto da
Garr. 5, t. 377,3 (vedi supra, p. 340, figura 57). Susanna nel giardino spiata dai
due anziani. Particolare del “Sarcofago della casta Susanna”, Musée de l’Arles
antique, Arles (Wp. 32, t. 195,4; Rep. 3, 41). Prima metà del IV secolo. L’im-
magine è tratta da Pelizzari, Vedere la Parola, 71, figura 26 (cfr. anche Boehden,
Der Susannensarkophag von Gerona, 20-23). La scena, raffigurata sul “sarcofago
di Susanna” gerundense in forme statiche e più solenni (per questo monumen-
to, Rep. 4, 56 parla di un esito «statuario nello stile della scultura», forse ricon-
ducibile a «una bottega romana trasferita nella penisola iberica, che attuava le
richieste […] della sua committenza sulla base del repertorio stilistico e icono-
grafico dei sarcofagi a fregio [pre-]costantiniani»), presenta gli stessi caratteri
che si ritrovano nell’inclusione dell’alzata Lateranense 136: si osservi in parti-
colare la funzione degli alberi, che creano una sorta di nascondiglio per i due
malintenzionati (il dettaglio sembrerebbe collimare con l’annotazione di Dn
13,15Teodozione, in cui esplicitamente si menzionano gli anziani nascosti nel giar-
dino). Resta ovviamente da spiegare la scelta di far protendere l’anziano verso
una capsa ricolma di testi. Se l’identificazione tipologica tra Susanna e la Chie-
sa può valere, come credo, anche per il Lateranense 136, allora l’anziano che
insidia la giovane Susanna diviene la profezia del persecutore che minaccia la
Chiesa. Su questo monumento, poi, tale implicazione tipologica viene svilup-
pata con particolare acutezza. È noto infatti che, almeno a partire dalle c.d.
“persecuzioni edittali”, da Decio in poi, fosse ingiunto innanzi tutto il sequestro
delle Scritture – da cui, per chi le consegnava, venne coniato il termine spregia-
tivo di traditor. Dunque nel dettaglio dell’anziano che cerca di afferrare la cap-
sa con i rotoli – particolare ovviamente del tutto estraneo al testo biblico – si
può riconoscere la trascrizione visuale, di marca tipologica, di quell’odioso co-
rollario della repressione anticristiana, il sequestro e la distruzione delle Scrit-
ture delle Chiese.
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 347
Figura 63: schema riassuntivo del progetto iconografico del Lateranense 136
(Wp. 32, t. 197,4; Rep. 1, 146). Il progetto di questa alzata si può cogliere arti-
colandone il contenuto su due “piani di lettura”. Il primo riconduce le associa-
zioni iconografiche che caratterizzano ciascun pannello a un’argomentazione
storico-teologica, che potremmo dire “in forma narrativa”, nella quale scene
selezionate tipologicamente vengono giustapposte (né il gruppo A - B [B’] né
quello C - D [D’], infatti, possono essere considerati “illustrazioni” dei testi
biblici, dal momento che accorpano materiali letterariamente eterogenei). Il
secondo “livello di lettura”, invece, unifica il messaggio complessivo del pro-
getto di questa alzata tramite il ricorso a nessi ermeneutici in grado di precisa-
re il significato delle singole scene alla luce dello sviluppo complessivo del do-
cumento. Prima di descrivere analiticamente il manifesto che fu affidato al
Lateranense 136, si deve precisare la scansione del suo itinerario argomentativo;
è cioè necessario stabilire in quale ordine vadano osservate le scene qui raffigu-
rate. Per capirlo, basta prestare attenzione alla collocazione dei due dettagli (B’
e D’) che, introducendo un elemento narrativo rispetto a B e a D, permettono
di definire il verso della progressione dei due pannelli. La sanzione dei proge-
nitori segue la loro trasgressione (B à B’), così come il tentativo di stuprare
Susanna precede il processo degli anziani (D’ à D). Ciò posto, diventa sempli-
ce riconoscere che la lettura di questa alzata debba procedere dalla tabula in-
scriptionis verso l’esterno del rilievo. Diviene così possibile ripercorrere i due
“piani di lettura” che strutturano il documento:
1. La lettura dei singoli pannelli. Il pannello di sinistra articola la successione
tra due episodi il cui tertium comparationis è vistosamente stabilito dalla
presenza del medesimo marcatore figurativo: il draco (che per la verità è
«ophis » in Gen 3LXX e «drakōn» solo in Bel e il dragoLXX [= Dn 14Vulgata],23,
ma che, sulla scorta di Ap 12,9, tuttavia venne interpretato come “draco[-
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348 Il lessico tipologico
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 349
28 Cfr. Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”, 322-334, in part., per
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350 Il lessico tipologico
29
La critica è particolarmente titubante su questo “transito iconografico” né mi pare
particolarmente fiduciosa circa la possibilità di poter sempre distinguere incontrovertibil-
mente tra questi due temi iconografici né sull’incidenza quantitativa dell’iconografia della
donna tra Pietro e Paolo. Le ragioni di questa esitazione sono molteplici e mi limiterò qui a
presentarle schematicamente: 1. nella maggior parte dei casi, mancano marcatori risolutivi
per assegnare con sicurezza le scene all’una o all’altra tipologia (cfr. M. Minasi, s.v. «Susan-
na», in Bisconti [cur.], Temi, 282-284, qui 284: «Si tratta […] di uno schema che dà adito
a confusioni e sovrapposizioni con l’iconografia della defunta introdotta dai santi protet-
tori nel giardino celeste; solo in presenza di didascalie esplicitanti o del segnale iconografi-
camente inequivocabile della nudità della donna […] si può dunque riconoscere con certez-
za una raffigurazione del tema »); 2. l’iconografia degli anziani giudici può contemplare la
presenza di cartigli e rotoli, che favoriscono la sovrapposizione con Pietro e Paolo; 3. anche
la connotazione espressiva dei personaggi, soprattutto nei documenti che rivelano una mi-
nore perizia tecnica del loro artefice, è quasi sempre inutilizzabile.
30 Vedi supra, pp. 337-338.
31 Il tema dei due battesimi – di acqua e di sangue –, già teorizzato da Tertulliano e fre-
quente nella letteratura del martirio (cfr. M Giuli, “Lavacrum Sanguinis”: il battesimo di san-
gue e la sua efficacia in Tertulliano, Pontificia Universitas Lateranensis, Roma 1961; M.S.
Grogan, Baptisms by Blood, Fire, and Water: A Typological Rereading of the Passio S. Marga-
retae, in Traditio 72 [2017] 377-409), va interpretato come persistenza di una rubrica “sacra-
mentaria” della teologia del martirio. La testimonianza del credente, infatti, per il suo intrin-
seco valore, è in grado di esprimere un’efficacia sacramentaria i cui effetti equivalgono a
quelli dell’azione misterica battesimale. Nella Passione di Perpetua e Felicita, la visione di Di-
nocrate (§§ 8 - 9) documenta la credenza di un’efficacia battesimale del martirio anche per
terzi (cfr. C. Beretta, La visione di Dinocrate nella Passio Perpetuae come ermeneutica di 1Cor
15,29, in Annali Di Scienze Religiose 7 [2002] 195-223).
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 351
Figura 65: Susanna, in forma di agnello, tra i due anziani, in forma di lupi.
Parapetto dell’arcosolio di Celerina, Catacomba di Pretestato, Roma (Wp. 03,
t. 251; Nestori, Pre5). Seconda metà IV secolo. L’immagine è tratta da H. Le-
clercq, s.v. «Suzanne », in DACL 15,2, 1742-1752, qui 1749-1750, figura 10976.
Il parapetto dell’arcosolio di Celerina (su questo celebre progetto iconografico,
cfr. ora F. Bisconti, L’arcosolio di Celerina in Pretestato. Fasi e significati della
decorazione pittorica, in Rivista di Archeologia Cristiana 81 [2005] 21-52) ripor-
ta quello che più volte è stato definito un unicum della tradizione iconografica
paleocristiana: la raffigurazione dell’episodio della seduzione di Susanna, ri-
letto attraverso i termini di Mt 10,16 (Lc 10,3), crea un’ovvia sintesi tipologica
tra la vicenda della donna ebrea e la condizione dei discepoli del Signore. Su-
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352 Il lessico tipologico
Figura 66: un agnello tra due pecore; il monogramma tra due colombe. Lunet-
ta dell’arcosolio di Celerina, Catacomba di Pretestato, Roma (Wp. 03, t. 251;
Nestori, Pre5). Seconda metà IV secolo. L’immagine è un particolare di Peliz-
zari, Vedere la Parola, 78, figura 27. La lunetta dell’arcosolio ricupera la figura
dell’agnello, proiettandola ora su uno sfondo differente: esso non è più minac-
ciato dai lupi, ma pascola in uno spazio paradisiaco in mezzo ad altre pecore;
esso non è più correlato a Susanna – o al credente –, ma è associato a Cristo
stesso, come testimoniano tanto il monogramma che lo sovrasta tanto il busto
clipeato del Cristo che troneggia all’apice del sottarco.
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 353
Figura 67: schema riassuntivo dell’arcosolio di Celerina (Wp. 03, t. 251; Ne-
stori, Pre5; in grigio le due aree riportate supra, nelle figure 65-66). Si osservi
come questo progetto iconografico proceda seguendo la profondità dei piani
pittorici, dal più esterno (quello della parete) al più interno (quello della lunet-
ta). Se prima la tipologia Susanna - Chiesa presenta all’osservatore l’“autorap-
presentazione ideale” della comunità dei discepoli del Signore nella storia, suc-
cessivamente la tipologia agnello - Cristo definisce l’orizzonte escatologico (e
paradisiaco!) al quale si orientano le speranze della Chiesa (e, si noti: una tipo-
logia cristologica femminile!). Com’è ovvio, non si tratta di generici “paradigmi
di salvezza”, ma di un’autentica, pur breve, teologia della storia: il tempo del
presente reca già in sé i caratteri della salvezza futura, che dunque si presenterà
come una trasfigurazione della storia. La stessa figura, quella dell’agnello, rias-
sume in sé il nucleo profetico della vicenda di Susanna, la posizione della Chie-
sa nella storia e il fondamento cristologico delle attese di salvezza (sul meccani-
smo ermeneutico che sorregge il progetto di questo documento, cfr. anche
Pelizzari, Vedere la Parola, 79-80).
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354 Il lessico tipologico
d. Daniele e il drago
Assai più contenuto è il discorso relativo all’impiego figurativo dell’ul-
timo capitolo del libro di Daniele della Vulgata, dal quale la prima cul-
tura visuale cristiana trasse soltanto la scena del confronto tra il profeta
e il drago (Dn 14Vulgata [= Bel e il DragoLXX],23-42)32.
Prima di considerare l’impiego iconografico di questo racconto, è ne-
cessario sottolineare l’evidente intento anti-idolatrico che esso dichiara
sia negli estremi della sua struttura narrativa, il cui apice è ovviamente la
soppressione del culto fasullo, sia negli snodi attraverso i quali si dipana
il suo intreccio:
La scena centrale attesta un diffuso motivo popolare, spesso di tenore umo-
ristico, in cui un eroe nutre un drago con materiali ardenti, fusi, combustibili o
semplicemente glutinosi che “combattono il fuoco con il fuoco”, causandone la
32 Si tratta di un soggetto che riscosse una fortuna assai più contenuta di quella degli
altri temi tratti dal Dn. Styger, Die altchristliche Grabeskunst, 6, conta di questo tema sol-
tanto sei raffigurazioni (ma, come sempre, è una cifra da rivedere; in questo caso in modo
ancor più significativo: il solo Rep. 3, ne cataloga quattordici esempi); altri esemplari sono
menzionati da R. Sörries, s.v. «Daniel », in EEECA, 1, 396-397, qui 396. Per una prima in-
troduzione all’ermeneutica del drago nelle origini cristiane, cfr. M.P. Ciccarese, Animali
simbolici. Alle origini del bestiario cristiano, 1: Agnello Gufo, EDB, Bologna 2002 (Bibliote-
ca Patristica 39), 379-392.
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 355
33 Maza, “torta”, è il termine che la LXX, al v. 27, impiega per indicare la focaccia che
Oxford University Press, Oxford 2013, 384. È opinione diffusa che il racconto, pervenutoci
soltanto nelle versioni greche della LXX e di Teodozione, possa risalire a prima del II secolo
a.e.v. e che dunque possa essere sorto e circolato originariamente in un primo canovaccio ebrai-
co. «L’idea che motiva la scelta della pece è evidentemente quella di dispiegare il fuoco stesso
del drago contro di esso: mentre il drago accende la pece con il suo ardore, si surriscalda dall’in-
terno ed esplode»: Id., Dragons, Serpents, and Slayers in the Classical and Early Christian Worlds.
A Sourcebook, Oxford University Press, Oxford - New York (NY) 2013, 190. Per l’uso di of-
frire torte d’orzo e miele agli idoli serpentiformi, cfr. Pausania, Periegesi della Grecia 6,20,2-
6; 9,39,l; Claudio Eliano, La natura degli animali 11,16. È ragionevole opinione dell’autore
che il racconto di Dn 14Vulgata [= Bel e il DragoLXX],23-42, abbia avuto un ruolo consistente,
anche dal punto di vista agiografico, nella genesi di tutti quei santi “uccisori del drago (o del ser-
pente)” (Filippo, Teodoro, Giorgio, Patrizio ecc.). J.R. Trotter, Another Stage in the Redactional
History of the Bel Story (Dan 14:1-22): The Evidence of Polemic against Foreign Priests and the
Focus on Daniel in the Old Greek, in Journal for the Study of Judaism in the Persian, Hellenistic
and Roman Period 44 (2013) 481-496, ritiene che la prima versione greca enfatizzi questo ca-
rattere anti-idolatrico ancor più della versione di Teodozione.
35 Cfr. Ogden, Drakōn, 364-367. Per la sola tradizione latina, cfr. ancora Id., The Dragon in
the West: From Ancient Myth to Modern Legend, Oxford University Press, Oxford 2021, 42-58.
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356 Il lessico tipologico
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 357
Figura 70: Daniele avvelena il drago; Mosè riceve le tavole della Legge; ta-
bula inscriptionis tra personaggi alati (angeli? eroti?); Daniele nella fossa dei
leoni; Pietro e il cane di Simon Mago (Atti di Pietro e Simone 9-12). Alzata
del “sarcofago dei santi Simone e Giuda Taddeo”, San Giovanni in Valle, Ve-
rona (Wp. 29, t. 150,2; Rep. 2, 152). Seconda metà del IV secolo. L’immagi-
ne è un particolare di Garr. 5, t. 333. Parlando di questo sarcofago, giusta-
mente S. Maffei, Verona illustrata, 3, Jacopo Vallarsi e Pierantonio Berno, in
Verona 1732, 107, ebbe ad affermare: «Quel monumento parla più d’un libro».
Pur non essendo possibile in questa sede affrontarne integralmente il proget-
to iconografico, il giudizio di Maffei si prova adeguato anche considerando
la sola alzata. Si osserva qui, enfatizzato dalla vistosa simmetria degli edifici,
l’abbinamento tra la scena dell’avvelenamento del drago e quella del prodigio
compiuto da Pietro sul cane di Simon Mago (per questo episodio, cfr. G. Lut-
tikhuizen, Simon Magus as a Narrative Figure in the Acts of Peter, in J.N.
Bremmer [ed.], The Apocryphal Acts of Peter: Magic, Miracles and Gnosticism,
Peeters, Leuven 1998 [Studies on the Apocryphal Acts of the Apostles 3], 39-
51, qui 45-48). L’abbinamento è interessante perché associa una tipologia an-
ti-idolatrica (Daniele) a un racconto antiereticale (Simon Mago era ritenuto
il capostipite della gnosi e, per questa ragione, era considerato il leggendario
iniziatore dell’“eresia”). Altrettanto interessante pare l’abbinamento tra la
consegna delle tavole e il Daniele nella fossa dei leoni, qui, io credo, evocato
quale tipologia cristologica (cfr. Origene, Contro Celso 7,57; Pseudo-Tertul-
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358 Il lessico tipologico
liano, Carme contro Marcione 3,201; Ohm, Daniel und die Löwen, 203-206):
ne emerge in tal modo il nesso tra la Prima e la Nuova Alleanza, l’una carat-
terizzata dalla Legge, l’altra dal sacrificio perfetto elevato da Cristo in modo
decisivo e tuttavia perpetuato nel martirio della Chiesa. Si sviluppa dunque,
su questa alzata, un’argomentazione per antitesi: se al centro si riconoscono i
momenti decisivi e positivi delle Alleanze, nella Legge e nella Pasqua (con i
corollari della fedeltà a quel nomos divino e dell’integrazione a quella Pasqua
sino alla disponibilità al martirio), ai lati vengono presentati i due grandi
sconfitti: l’idolatria e l’eresia.
Figura 72: Abramo compie il sacrificio gradito a YHWH; Mosè con la Legge;
un Apostolo porge a Gesù i pani per la moltiplicazione; Gesù; un Apostolo por-
ge a Gesù i pesci per la moltiplicazione; Pietro; Daniele di fronte al drago mor-
to. Fronte di sarcofago, Château de Grozon, Ardèche (Wp. 29, t. 38,1; Rep. 3,
61). Seconda metà del IV secolo. L’immagine riporta la tavola di Wp. 29. An-
cora una volta, come già visto accadere, il progetto iconografico del documen-
to prevale sulla restituzione dei singoli temi, come qui succede per due volte.
Oltre alla settima scena – caratterizzata dalla raffigurazione del drago morto ai
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 359
piedi di Daniele –, infatti, anche la scena del sacrificio di Abramo, nella prima
nicchia, presenta caratteri di atipicità. Il Patriarca, infatti, sta di fronte all’alta-
re senza Isacco approntato per l’immolazione, tiene il pugnale abbassato e, ac-
canto a lui, alla sua destra, vi è solo il montone. Anche in questo caso, con
un’apprezzabile modifica dell’abituale definizione iconografica della scena,
viene colto l’epilogo del celebre episodio genesiaco, il momento del sacrificio
che produce la benedizione di YHWH (Gen 22,16-18). Il tertium comparationis
dell’altare – acceso e pronto all’immolazione dell’offerta nella prima nicchia,
oramai profanato nell’ultima – determina naturalmente la correlazione tra le
due figure (apparentate anche dall’identica postura dei due personaggi). Simil-
mente, il nesso tra Mosè, riconoscibile per i lunghi capelli (si tratta di un carat-
tere talora impiegato per la figura del Patriarca: cfr. il cubicolo C della Cata-
comba di Via Latina [Dino Compagni]: A. Ferrua, Le pitture della nuova
catacomba di Via Latina, PIAC, Città del Vaticano 1960 [Monumenti di Anti-
chità Cristiana. II Serie 8], t. 33,1; 34-35; Nestori, Din3), e Pietro, identificato
dal gesto del ter negabis (l’indice puntato verso il proprio volto), non fa che ri-
lanciare la tipologia di Pietro “nuovo Mosè” che tanta fortuna ebbe nella lette-
ratura cristiana delle origini, pur essendo stata introdotta proprio dalla tradi-
zione visuale (cfr. Sotomayor, S. Pedro, 147-152; Pelizzari, Dal battesimo al regno,
56-61). Va detto che la critica spesso preferisce prudentemente limitarsi a rico-
noscere nella seconda e sesta nicchia di questo sarcofago genericamente due
figure di apostolo, da ricongiungere al gruppo centrale con la moltiplicazione
dei pani (cfr. P.-A. Février, Sarcophages d’Arles, in Id., La Méditerranée de
Paul-Albert Février, recueil d’articles, École française de Rome, Roma 1996 [Col-
lection de l’École française de Rome 225], 2, 1091-1149, qui 1124; Rep. 3, pa-
gina 45). A mio giudizio tale cautela è eccessiva, perché sottostima l’importan-
za dei due elementi connotanti già richiamati – la capigliatura (personaggio
della seconda nicchia) e, soprattutto, la postura (personaggio della sesta nicchia)
– che mi sembra riscattino queste due figure da quelle di personaggi generici.
Se dapprima l’altare era il nesso visibile tra le due scene più esterne di questo
fronte, ora il tertium comparationis è rappresentato dal rotolo dissigillato che
entrambi i personaggi esibiscono: se spingere questo particolare sino a illustra-
re la dialettica tra i due Testamenti potrà sembrare forse pretesa eccessiva, limi-
tarsi a osservare in questa dialettica l’ideale dialogo tra Israele e la Chiesa mi
pare accettabile. Da ultimo, il gruppo centrale illustra il miracolo della molti-
plicazione dei pani e dei pesci (Mc 6,30-44 || Mt 14,13-21 || Lc 9,12-17 || Gv
6,1-13; Mc 8,1-9 || Mt 15,32-39). Anche limitandosi al solo ductus figurativo,
dunque, è possibile affermare che i marcatori iconografici delle scene di questo
sarcofago stabiliscono tre gruppi figurativi: quello più esterno, contraddistinto
dalla presenza dell’altare; quello intermedio, segnalato dalla ripetizione del ro-
tolo dissigillato; quello interno, contrassegnato dai pesci presentati a Gesù per
la moltiplicazione.
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360 Il lessico tipologico
Figura 73: schema riassuntivo del progetto iconografico del sarcofago del
Château de Grozon, Ardèche (Wp. 29, t. 38,1; Rep. 3, 61). Come mostra lo sche-
ma, la struttura ermeneutica di questo documento visuale è tanto semplice quan-
to significativa. Il sistema tipologico che organizza il fronte del sarcofago offre le
tre coordinate fondamentali dell’appartenenza alla comunità: al centro, il dato
sacramentale, la cena – che è anche celebrazione pasquale (dunque professione
kerygmatica: cfr. 1Cor 11,26-29) e prefigurazione escatologica –; in posizione
intermedia, il dato etnico, nel senso dell’appartenenza al “popolo eletto”, ed eccle-
siologico; all’esterno, il dato religioso, con l’antitesi tra il vero culto, reso al vero Dio,
e il falso culto, esigito dagli idoli, destinato a essere smascherato.
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 361
spettiva è già stato condotto da Valenti, “Similes Ananiae, Azariae et Michaeli extiterunt”,
a cui, ancora una volta, ben volentieri rinvio.
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362 Il lessico tipologico
che è, come visto, sensibile né – il che forse restituisce un dato ancor più
rilevante – i risultati sin qui raccolti tramite il ricorso pressoché esclusivo
alla documentazione letteraria sembrano in grado di offrire un campione
realmente rappresentativo della cultura biblica delle origini cristiane. Nel
caso qui assunto a campione, i realia raccolti dalla produzione visuale,
infatti, sovvertono già a partire dalla base statistica i parametri che la do-
cumentazione letteraria sembrava aver solidamente stabilito.
Il secondo argomento, più interno alla critica della prima cultura vi-
suale cristiana, ha importanti ricadute metodologiche. La diversa valoriz-
zazione di Daniele (in letteratura impiegato prioritariamente per i suoi
materiali visionari, in iconografia per quelli narrativi) rende infatti im-
praticabile quel principio proiettivo, non infrequentemente abbracciato
dalla letteratura critica, che presuppone che il documento visuale non
possa che rilanciare principi e contenuti già attestati in sede letteraria. In
altri termini, l’iconografia può aver illustrato solo ciò che i “Padri” han-
no stabilito – o anche solo intuito. Tale principio di subalternità della
fonte visuale è spesso divenuto un bias ordinario della critica di questa
monumentale produzione: anziché promuovere un’indagine comparativa,
i dati raccolti in sede critico-letteraria vengono impiegati per perimetra-
re lo “spazio di possibilità” dei significati dell’immagine.
Il caso del libro di Daniele dimostra l’inapplicabilità di questo approc-
cio – che è dannoso non solo in questo caso – e suggerisce, a mio avviso,
di classificarlo ormai definitivamente nell’archivio dei principi metodo-
logici ormai riconosciuti bisognosi di una profonda revisione.
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 363
37
M. Perraymond, s.v. «Visioni», in Bisconti (cur.), Temi, 302-304, qui 303 (cfr. anche
Ead., Sogni, visioni e profezie nell’antico cristianesimo: Abramo, Giacobbe, Ezechiele, Pastore
d’Erma, Felicita e Perpetua, in Augusinianum 29 [1989] [= Sogni, visioni e profezie nell’anti-
co cristianesimo: XVII Incontro di studiosi dell’Antichità Cristiana, Roma, 5-7 maggio 1987]
549-563), ne conta undici esemplari: Rep. 1, 5 (Wp. 32, t. 219,1; Lateranense 121,1; vedi
infra, pp. 364-365); 7 (Wp. 29, t. 123,3; Lateranense 116); 12 (Wp. 29, t. 103,4; Latera-
nense 191; vedi infra, pp. 376-379); 14 (Wp. 32, t. 215,7; Lateranense 180; vedi infra, pp.
380-382); 23 (Wp. 32, t. 206,5-7; Lateranense 135; vedi infra, pp. 457-459); 176 (presso il
Cimitero di San Sebastiano, a Roma); 693 (Wp. 32, tt. 194,4.7; presso San Lorenzo fuori
le mura, a Roma); 807 (presso i Musei Capitolini, a Roma); Rep. 2, 11 (Wp. 29, t. 9,2; pres-
so la chiesa di San Marcello, a Capua); Rep. 4, 55 (cfr. Sotomayor, Sarcófagos romano-cri-
stianos de España, 29-39; presso la chiesa di San Feliu a Girona, Spagna); e il frammento di
coperchio rinvenuto al Coemeterium Maius di Roma (cfr. F. Bisconti, Un coperchio di sarco-
fago paleocristiano nel Cimitero Maggiore, in Quaeritur inventus colitur. Miscellanea in ono-
re di Padre Umberto Maria Fasola, B, PIAC, Città del Vaticano 1989 [Studi di antichità cri-
stiana 40], 21-49, figura 19). A questi va aggiunto per lo meno il Lateranense 186 (Rep. 1,
21; Wp. 32, t. 235,7). Nel complesso, si tratta di documenti riconducibili a una cronologia
di primo quarto del IV secolo, eccezion fatta per il frammento di coperchio del Coemete-
rium Maius, datato tra il regno del solo Gallieno (260-268) e l’avvio della tetrarchia (293).
38 Le ricerche iconografiche sono inclini a distinguere tra le raffigurazioni del Gesù
“agente storico” rispetto a quelle della maestà del “Cristo-Logos”, a seconda che il personag-
gio venga presentato come un giovinetto imberbe oppure come un adulto con la barba (le
due facce maggiori del c.d. “sarcofago di Stilicone” di Milano [Wp. 32, tt. 188,1-2; Rep. 2,
150; cfr. anche O. Steen, The Iconography of the Sarcophagus in S. Ambrogio. Hope for Salva-
tion through the Word of Christ, in Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia 15
{2001} 283-294, in part. 286-290] alternano proprio queste due iconografie: su un lato si
osserva il Gesù assiso, mentre commenta un testo che tiene aperto, in posa docente, accer-
chiato dai Dodici; specularmente, sull’altra faccia lunga del sarcofago, si trova invece il Cri-
sto glorificato, stante, tra Pietro che reca la croce glorificata, e Paolo, colto nel gesto dell’ac-
clamatio, e gli altri dieci apostoli [forse un riferimento al fatto che sia il Cristo risorto, dopo
la morte di Giuda?]). Naturalmente tale distinzione non può essere assunta in modo mec-
canico, né si può dimenticare che questa differenziazione non sia immediata (da principio,
l’immaginario cristiano impiegava solo il primo schema figurativo) né che essa emerga pa-
rallelamente al definirsi di una cristologia “trionfale” nel dibattito teologico post-costanti-
niano (cfr. F. Bœspflug, Dieu et ses images. Une histoire de l’Éternel dans l’art, Bayard, Mont-
rouge 2008, 73-86; Bernardi, I colori di Dio, 37-39, riconosce invece nel Cristo con la bar-
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364 Il lessico tipologico
Figura 74: la risurrezione delle ossa aride; i Magi giungono al cospetto di Maria e
di Gesù bambino. Fronte di sarcofago di infante (Lateranense 121,1), Musei Vati-
cani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t. 219,1; Rep. 1, 5; cfr. anche W.
Neuss, Das Buch Ezechiel in Theologie und Kunst bis zum Ende des 12. Jahrhunder-
ts, mit besonderer Berücksichtigung der Gemälde in der Kirche zu Schwarzrheindorf;
ein Beitrag zur Entwicklungsgeschichte der Typologie der christlichen Kunst, vornehm-
lich in den Benediktinerklöstern, Aschendorf, Münster 1912 [Beiträge zur Geschichte
des alten Mönchtums und des Benediktinerordens 1-2], 2, 144-145). Primo quarto
del IV secolo. L’immagine si basa su Pelizzari, Vedere la Parola, 95, figura 32. Que-
sto documento offre una delle più dettagliate raffigurazioni cristiane del miracolo
delle ossa aride: Gesù tocca con una virga un cadavere che giace tra altre parti ana-
tomiche umane – un teschio stilizzato e una testa “ricomposta” –; due personaggi
nudi, stanti, simbolizzano due corpi risuscitati; alle spalle di Gesù, infine, fa capo-
lino un secondo personaggio (il profeta Ezechiele? un Apostolo?), che osserva atten-
tamente l’accaduto. Come prova anche la seconda scena raffigurata sul fronte di
questo piccolo sarcofago – allestito evidentemente per raccogliere le spoglie di un
bambino (è complessivamente lungo solo ottantacinque centimetri) –, gli artigiani
che scolpirono queste figure vollero arricchire quanto più possibile di dettagli figu-
rativi entrambe le immagini che qui ritornano: i Magi procedono accompagnati dai
ba innanzi tutto un esperimento di realismo ritrattistico [un modo di avvicinarsi al tipo so-
matico mediorientale]).
39 Su questo attributo iconico, cfr. ancora M. Dulaey, Le symbole de la baguette dans l’art
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366 Il lessico tipologico
The Resurrection in Ezechiel XXXVII and in the Dura Europos Paintings, Akademiska
Bokhandeln, Uppsala 1948 (Uppsala Universitets Arsskrift 11); J. Grassi, Ezekiel XXXVII.
1-14 and the New Testament, in New Testament Studies 11 (1965) 162-164.
41 Cfr. Neuss, Das Buch Ezechiel, 1, 23-106; G. Otranto, Ezechiele 37,1-14 nell’esegesi
patristica del secondo secolo, in Vetera Christianorum 9 (1972) 55-76; N. Bossu, Une prophétie
au fil de la tradition. L’oracle des ossements desséchés (Ez 37,1-14) et ses relectures chrétiennes,
entre herméneutique et théologie, Gabalda, Pendé 2015 (Études Bibliques. Nouvelle série 69).
42 Oltre a Riesenfeld, The Resurrection, e Grassi, Ezekiel XXXVII. 1-14, cfr. anche R. Aguir-
re Monasterio, Exegesis de Mateo: 27,51 b-53: para una teología de la muerte de Jesús en el Evan-
gelio de Mateo, Editorial Eset, Vitoria 1980 (Biblica Victoriensia 4), 241-272; D. Senior, Mat-
thew’s Special Material in the Passion Story. Implications for the Evangelist’s Redactional
Technique and Theological Perspective, in Ephemerides Theologicae Lovanienses 63 (1987) 272-
294, in part. 282, e ora A. Pessina, Analisi filologica e storico-teologica di un inno pasquale pri-
migenio. Il caso di Mt 27,51b-53, Ph.D. Diss., Milano a.a. 2017-2018, 26-37.
43 La pagina di Ez 37,1-14, ricavata probabilmente sotto l’influsso del Proto-Zaccaria
(> Zc 14), aveva per l’appunto la funzione di raffigurare il “giorno del Signore” (cfr. M. No-
bile, Ez 37,1-14 come costitutivo di uno schema cultuale, in Biblica 65 [1984] 476-489, in par-
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noti: il primo ricorso ermeneutico della visione delle ossa inaridite ha una
duplice funzione.
1. Per un verso esso mira ad affermare che Gesù è colui che adempie
la gloriosa profezia escatologica di Ezechiele: lui quello che ha il
potere di ricostituire l’Israele antico, lui quello che lo predispone
per lo scontro finale contro l’avversario e le sue schiere; lui, dunque,
quello che sta al vertice dell’intero arco della storia della salvezza.
E tutto questo nel momento dell’immolazione della vittima per-
fetta, del sacrificio che ricapitola tutti i sacrifici e, perciò, soddisfa
tutte le antiche Alleanze 44.
2. Per altro verso, però, questa stessa tipologia qualifica anche quello
della Chiesa come tempo escatologico: dall’immolazione di Cristo
prende avvio la stagione del compimento, il tempo in cui la signo-
ria di YHWH finalmente si manifesta, il tempo in cui il Regno si
predispone.
Il movimento biunivoco di questa esegesi, che mentre attesta la veri-
dicità dell’affermazione kerygmatica “Gesù è il Cristo” qualifica (i tempi
de) la Chiesa, accerta sia il Vangelo cristiano del compimento sia l’antica
profezia del Regno, in una dialettica che spesso propende più per quest’ul-
tima qualifica escatologica che per la funzione cristologica.
I profeti hanno annunciato due sue ‹del Cristo› parusie. Una, compiuta,
‹quando è giunto› come uomo disprezzato e sofferente; la successiva, quando
verrà dai cieli con la gloria, con le schiere dei suoi angeli, com’è stato predetto:
ticolare 481-487). Non a caso la menzione dell’«esercito grande, sterminato» con cui l’esten-
sore del racconto qualifica, in Ez 37,10, l’Israele antico fatto risorgere dalle ossa inaridite,
ravvivate dal passaggio dello spirito di YHWH, ha una chiara connotazione apocalittica, rive-
lata proprio dalla costituzione militare di questo popolo risuscitato: «Gli eserciti nemici, co-
me le acque primordiali dell’abisso, si sollevano per ricoprire la terra, al pari di un uragano
(kaššó’ â) o di una nube gigantesca (kecānān) (Ez 38,9). È una sfida troppo grande per Israele
[…] per pensare ad un normale avvenimento storico; inoltre, l’evocazione di caratteri cosmi-
ci connotanti gli eserciti invasori […] richiama necessariamente l’intervento del Dio creatore,
che solo può abbattere le forze avverse. L’azione di Dio consisterà […] in un abbattimento sto-
rico-cosmico di eserciti nemici, minacciosi come le acque primordiali del caos» (ivi, 485).
44 Per questo più antico paradigma pasquale, cfr. ancora Cantalamessa, La Pasqua del-
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368 Il lessico tipologico
allora farà destare i corpi di tutti gli uomini nati, rivestirà di incorruttibilità
quelli che ne sono degni, mentre quelli degli iniqui, ‹resi› eternamente capaci
di provare sensazioni fisiche, li destinerà al fuoco eterno con i demoni malvagi.
Chiariremo ora come siano stati predetti anche questi eventi futuri. In tal mo-
do è stato annunciato per mezzo del profeta Ezechiele: «Si congiungerà giun-
tura a giuntura e osso a osso e le carni si desteranno di nuovo. E ogni ginocchio
si piegherà dinanzi al Signore, e ogni lingua lo professerà» 45.
45 Giustino, Apologia (I) 52,3-6 (cfr. anche Id., Dialogo con Trifone 80 [cfr. Otranto, Ezechie-
le 37,1-14]; Tertulliano, La risurrezione 29-30). Si noti come, nel testo del martire romano, la
profezia di Ezechiele venga significativamente intrecciata al testimonium di Fil 2,10-11: Is 45,23.
46 Origene, Commento al Vangelo di Giovanni 10,233; su questa stessa linea ermeneuti-
ca, cfr. anche Cirillo di Gerusalemme, Catechesi 18,1. Una panoramica più ampia si può
avere in Bossu, Une prophétie au fil de la tradition.
47 Si noti che la definizione figurativa di questo testimonium visuale è avvenuta sceglien-
do di inserire la figura del Cristo, in controtendenza con ciò che accadde nella progettazio-
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 369
ne della maggior parte dei soggetti prototestamentari accolti nella primigenia tradizione
iconografica cristiana. In altri termini, nella presenza eccentrica – dal punto di vista lette-
rario – del Cristo nella valle delle ossa aride non si deve riconoscere né una “necessità figu-
rativa” (si potevano percorrere altre soluzioni) né il riflesso di un’abitudine, dal momento
che solo in questo caso e nella «consegna dei simboli del lavoro» ad Adamo ed Eva il Cristo
si sostituisce agli attori prototestamentari.
48 M. Sotomayor, Una posible “ ley” de la iconografía paleocristiana: la “ ley de la subroga-
ción”, in Archivo Español de Arqueología 45-47 (1972-1974) 205-212, qui 205. Il riferimen-
to interno alla citazione è ovviamente ai due contributi di Lucien de Bruyne: Les «lois» de
l’art paléochrétien comme instrument hermeneutique, pubblicati rispettivamente in Rivista di
Archeologia Cristiana 35 (1959) 105-186; e 39 (1963) 7-92.
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370 Il lessico tipologico
Figura 75: la «consegna dei simboli del lavoro»; la guarigione del paralitico; il
miracolo delle nozze di Cana; l’ingresso in Gerusalemme; la guarigione del
cieco nato; la ricomposizione delle ossa aride; la risurrezione di Lazzaro. Fronte
di sarcofago (Lateranense 186), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vati-
cano (Wp. 32, t. 235,7; Rep. 1, 21; cfr. anche Neuss, Das Buch Ezechiel, 2, 148;
E. Dinkler, Der Einzug in Jerusalem. Ikonographische Untersuchungen im An-
schluss an ein bisher unbekanntes Sarkophagfragment, Westdeutscher, Opladen
1970 [Arbeitsgemeinschaft für Forschung des Landes Nordrhein-Westfalen.
Geisteswissenschaften 167], 19). Primo terzo del IV secolo. L’immagine è trat-
ta da Garr. 5, t. 313,4. Su questo fronte di sarcofago a ciclo continuo è possibi-
le osservare entrambi i soggetti per i quali Manuel Sotomayor aveva isolato la
«legge della subrogazione»: la «consegna dei simboli del lavoro» e la risurrezio-
ne delle ossa aride, qui presentata in una delle configurazioni più sintetiche che
presenta soltanto un corpo ricomposto accanto a Gesù. Il fronte di sarcofago
riportato in figura non presenta difetti di leggibilità né per cadute di porzioni
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 371
Figura 76: schema riassuntivo del progetto iconografico del sarcofago Latera-
nense 186 (Wp. 32, t. 235,7; Rep. 1, 21). Come mostra lo schema, per cogliere
la struttura del progetto iconografico di questo fronte di sarcofago è necessario
raggruppare in tre gruppi le scene che ne compongono il fregio. Seguendo la
ripartizione presentata in figura, si osserva nel gruppo di sinistra l’accostamen-
to dell’episodio che stabiliva la sanzione della colpa originale di Adamo ed Eva
(la «consegna dei simboli del lavoro») a quel miracolo che, nella redazione si-
nottica (Mc 2,1-12 || Mt 9,1-8 || Lc 5,17-26), esplicitamente attribuiva a Gesù
il potere di «rimettere i peccati» (Mc 2,5.9-10 || Mt 9,2.5-6 || Lc 5,20-21.23-24:
cfr. M. Dulaey, Les paralytiques des Évangiles dans l’ interprétation patristique.
Du texte à l’ image, in Revue d’Études Augustiniennes et Patristiques 53 [2006]
287-323, in part. 288-295). Si noti la “subrogazione” (per usare ancora il lessi-
co di Sotomayor, Una posible “ ley”) di Gesù nella prima scena, che produce
l’esito di attribuire al Logos anche la sanzione originale della colpa – dunque il
giudizio del peccato nella sua interezza: dalla condanna iniziale alla misericor-
dia finale –, in un accrescimento teologico probabilmente volto a escludere la
possibilità di interpretare la remissione dei peccati annunciata da Gesù come
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372 Il lessico tipologico
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 373
ta all’azione del toccare gli occhi (questo è l’elemento distintivo della scena che,
caso raro nelle figure di miracolo, non implica l’uso della bacchetta: Gesù toc-
ca con la sua mano gli occhi spenti del cieco): la matrice di questa figura può
dunque essere soltanto Mc 8,22-26 o Gv 9,1-41. Oltre al ruolo del contatto
nell’attuazione del miracolo, un secondo elemento accomuna questi racconti:
entrambi finalizzano l’azione miracolosa alla precisazione del significato esca-
tologico della venuta del Cristo. Il racconto di Marco è preludio al celebre scam-
bio di battute sull’identità cristologica di Gesù, che ha evidenti ricadute tanto
pasquali quanto escatologiche («Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i vil-
laggi intorno a Cesarea di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo:
“Chi dice la gente che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista, altri
poi Elia e altri uno dei profeti”. Ma egli replicò: “E voi chi dite che io sia?”. Pie-
tro gli rispose: “Tu sei il Cristo”»: Mc 8,27-29; cfr. R. von Bendemann, Vedere
e comprendere (La guarigione in due fasi del cieco senza nome) Mc 8,22-26, in R.
Zimmermann [cur.], Compendio dei miracoli di Gesù, Queriniana, Brescia 2018,
480-491, in part. 488-490). In modo ancor più esplicito, nel dialogo risolutivo
del racconto di Giovanni, Gesù si presenta come «il figlio dell’uomo» (Gv 9,35),
viene riconosciuto come «Signore» e riceve la proskynēsis (9,38), afferma: «Io
sono venuto in questo mondo per giudicare» (9,39): « Al fatto raccontato si ag-
giungono così aspetti cristologici […], ampliamenti simbolici […] e conseguen-
ze escatologiche (giudizio/salvezza nei vv. 39-41)» (J. Frey, Vedere o non vedere?
(La guarigione del cieco nato) Gv 9,1-41, in Zimmermann [cur.], Compendio dei
miracoli, 1002-1024, qui 1013). Se questa lettura è corretta, l’ingresso regale di
Gesù in Gerusalemme viene “predicato”, spiegato, da due altri testimonia: il
vino della fine delle nozze, quello del compimento, e il miracolo che dischiude
la natura escatologica del Regno in vista del quale Gesù è consacrato, unto,
Cristo. Naturalmente, questa ermeneutica poggia su una solida filigrana pa-
squale: tanto le nozze di Cana sono un’anticipazione dell’«ora» di Cristo – che
in Giovanni è il momento della glorificazione sulla croce –, tanto l’ingresso in
Gerusalemme è l’avvio tragico della vicenda pasquale di Gesù, tanto Mc 8,31 e
Gv 10,11 (nel discorso successivo al miracolo del cieco nato) anticipano il tema
della passione di Cristo. L’ultimo gruppo di questo fronte è il più semplice da
descrivere: sono qui associati due paradigmi di risurrezione, l’uno apertamente
apocalittico (la ricomposizione delle schiere escatologiche, dell’Israele, «esercito
grande, smisurato» di Ez 37,1-14, qui v. 10) l’altro evidentemente soteriologico
(la risurrezione individuale di Lazzaro, colui che “Gesù amava”: Gv 11 [per l’al-
lusione, cfr. v. 3]). Quest’ultimo gruppo figurativo, dunque, mentre conferma
l’aspettativa cristiana della risurrezione, ne precisa l’orizzonte: nella più antica
teologia dei credenti in Gesù, il Cristo, quella cristiana non è mai solo una vi-
cenda individuale. Nel suo insieme, il progetto iconografico del Lateranense 186
affronta tre temi: una teleologia o storia della colpa, dalla sua introduzione alla
sua remissione, una cristologia escatologica e, infine, una soteriologia, anch’essa,
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374 Il lessico tipologico
escatologica. Nei due gruppi più esterni il tema della colpa e del compimento
riceve una declinazione universale (Adamo ed Eva e la ricomposizione dell’Israe-
le escatologico) e individuale (la remissione dei peccati del paralitico e la risur-
rezione di Lazzaro), in un ideale contrappunto che ribadisce il carattere insieme
universale e particolare della professione di fede in Gesù, il Cristo, re escatolo-
gico (gruppo centrale).
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 375
Girolamo, Commento a Ezechiele 11,37,1-14; cfr. Neuss, Das Buch Ezechiel, 1, 65-75.
50
ra nella religiosità del mondo romano, dal “rigore filologico” del rito; al contrario essa si
commisurava alla vivacità – anche carismatica – dell’azione dello Spirito sulla comunità ce-
lebrante. Anche la liturgia della Parola era, in questo “spazio storico”, un’occasione creativa
– non passiva –, di ri-elaborazione dei testi; in questo contesto si deve cogliere il Sitz im Le-
ben e la matrice della primigenia tradizione visuale cristiana e, nello specifico di queste pa-
gine, l’officina dell’ermeneutica di Ez 37,1-14. «La liturgia da una parte, con la sua prero-
gativa di riprodurre e rappresentare “sacramentalmente” l’evento – e renderlo nuovamente
evento, qui e ora – e l’iconografia dall’altra, con la sua peculiarità di cogliere la struttura
simbolica del reale e di esprimerlo attraverso un codice suo proprio, non sono semplici sur-
fettazioni di una Parola sigillata in forma scritta ma sono le componenti imprescindibili di
una “ermeneutica codificata” nella quale l’azione liturgica funge da catalizzatore tra Paro-
la e Immagine. In questo intreccio – e non in uno sforzo intellettuale di decodificare un te-
sto scritto – si esplica l’esegesi della Scrittura come esegesi viva e professata »: G. Visonà,
Prefazione, in Pelizzari, Vedere la Parola, 7-12, qui 8.
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376 Il lessico tipologico
Figura 77: il sacrificio di Isacco; la guarigione del cieco nato; la guarigione del
paralitico; la moltiplicazione dei pani; Pietro guarisce l’emorroissa; la colpa di
Adamo ed Eva; la ricomposizione delle ossa aride. Fronte di sarcofago (Latera-
nense 191), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t. 184,1;
Rep. 1, 12; cfr. anche Neuss, Das Buch Ezechiel, 2, 147). Primo terzo del IV
secolo. L’immagine è tratta da Garr. 5, t. 312,1. Il frammento raffigurato da
Garrucci è stato in seguito ricomposto, permettendo la restituzione dell’intero
fronte.
Figura 78: fronte: il sacrificio di Isacco; la guarigione del cieco nato; la guari-
gione del paralitico; la moltiplicazione dei pani; Pietro guarisce l’emorroissa; la
colpa di Adamo ed Eva; la ricomposizione delle ossa aride. Fianco sinistro: i tre
giovani ebrei nella fornace. Fianco destro: Daniele nella fossa dei leoni; Pietro
fa scaturire l’acqua dalla roccia. Sarcofago (Lateranense 191), Musei Vaticani,
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 377
Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, tt. 184,1; 190,9-10 [= Wp. 29, 103,4];
Rep. 1, 12). Primo terzo del IV secolo. Le immagini sono tratte da Wp. 32, tt.
184,1; 190,9-10. Le tavole di Joseph Wilpert permettono di riconoscere l’intero
ciclo figurativo di questo sarcofago. Volendo prendere le mosse dai due fianchi,
è facile constatare come essi si impegnino in un dialogo di tema martirologico.
Se, infatti, sul fianco sinistro sono ritratti i tre ebrei mentre sciolgono il loro
cantico nel mezzo della fornace ardente (vedi supra, pp. 315-329), su quello de-
stro l’alternanza tra Daniele nella fossa dei leoni e la subrogatio di Pietro che fa
scaturire miracolosamente acqua dalla roccia per Processo e Martiniano (acqui-
sizione tipologica del miracolo di Es 17,1-7; vedi infra, pp. 440-443) ricalca il
sistema teologico dei “due battesimi”, di sangue e d’acqua. Dunque il progetto
del fronte di questo sarcofago dev’essere situato entro questo “orizzonte teolo-
gico”: la predicazione del martirio cristiano.
Figura 79: schema riassuntivo del progetto iconografico del fronte del sarcofa-
go Lateranense 191 (Wp. 32, t. 184,1; Rep. 1, 12). Ancora una volta, come già
visto per il fronte del sarcofago Lateranense 186, per descrivere il progetto di
questo fregio è necessario suddividere le immagini che qui si susseguono in tre
gruppi, secondo lo schema proposto. Il gruppo di sinistra associa due temi ico-
nografici: il sacrificio di Isacco (Gen 22) e il miracolo della guarigione del cie-
co nato (Mc 8,22-26; Gv 9,1-41). Quale nesso si può stabilire tra questi due
testimonia? Per comprenderlo è necessario ricuperare la funzione tipologica che
il racconto del sacrificio di Isacco esplica nell’immaginario figurativo cristiano
delle origini (per la fortuna di questo racconto nell’esegesi cristiana, cfr. Da-
niélou, Sacramentum futuri, 97-111; M. Dulaey, La grâce faite à Isaac. Gn 22,1-
19 à l’ époque paléochrétienne, in Recherches Augustiniennes et Patristiques 27
[1994] 3-40; più generalmente, per la circolazione in antico di questo brano
biblico, cfr. L. Kundert, Die Opferung, Bindung Isaaks, 1: Gen 22,1-19 im Alten
Testament, im Frühjudentum und im Neuen Testament, Neukirchener, Neukir-
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378 Il lessico tipologico
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 379
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380 Il lessico tipologico
Figura 81: Pietro fa scaturire l’acqua dalla roccia; l’arresto di Pietro; la ricom-
posizione delle ossa aride; una figura femminile; la guarigione del cieco nato; la
moltiplicazione dei pani; l’ingresso in Gerusalemme. Fronte di sarcofago (Late-
ranense 180), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t. 215,7;
Rep. 1, 14; cfr. anche Neuss, Das Buch Ezechiel, 2, 148; Dinkler, Der Einzug in
Jerusalem, 19). Primo terzo del IV secolo. L’immagine è tratta da Garr. 5, t. 312,1.
La struttura di questo fronte di sarcofago è di più semplice lettura: anch’essa
tripartita in altrettanti gruppi, dispone le diverse figure più ordinatamente, ac-
costando rispettivamente le scene petrine (gruppo di sinistra), quelle taumatur-
giche (gruppo centrale) e quelle pasquali (moltiplicazione dei pani à cena e
ingresso in Gerusalemme).
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 381
Figura 82: schema riassuntivo del progetto iconografico del fronte del sarcofago
Lateranense 180 (Wp. 32, t. 215,7; Rep. 1, 14). Il gruppo di sinistra e quello di de-
stra sono senza dubbio i più semplici da leggere, per evidenti ragioni: 1. aggregano
materiali agiograficamente coerenti (due episodi petrini e due episodi gesuani); 2.
introducono una chiara traiettoria narrativa (prima l’arresto di Pietro e poi il segno
operato per i suoi carcerieri; prima la moltiplicazione dei pani e poi l’avvio del ciclo
pasquale: cfr. Dinkler, Der Einzug in Jerusalem, 55-59); 3. associano episodi ricon-
ducibili a rubriche teologiche coerenti: la Chiesa, per Pietro; la Pasqua, per le due
scene gesuane (per il valore eucaristico della moltiplicazione dei pani, già affermato
in Gv 6 [in part. vv. 30-58], cfr. anche J.-M. van Cangh, La multiplications des pains
et l’eucharistie, Cerf, Paris 1975, in part. 19-38; M. Dulaey, Symbole des Évangiles
(Ier-VIe siècles). Le Christ médecin et thaumaturge, Librairie Générale Française, Paris
2007 [Le livre de poche. Histoire 613], 223-252). Più interessante mi pare il gruppo
centrale, composto da due soggetti scritturistici (la ricomposizione delle ossa aride
e la guarigione del cieco nato) accostati a un personaggio femminile. Prima di cer-
care di identificare la matrona che occupa il centro di questo fregio, vale la pena di
prestare attenzione alle due scene “bibliche” che la accompagnano. Va innanzi tut-
to osservato che esse offrono una sorta di “chiave di lettura” per i due gruppi accan-
to ai quali sono situate. La ricomposizione dell’Israele escatologico (“miracolo”
delle ossa aride) ha un’evidente ricaduta ecclesiologica, qualificando la comunità dei
credenti come realtà e insieme ricapitolazione di quell’«esercito grande, sterminato»
(Ez 37,10) che avrebbe manifestato alle genti la signoria di YHWH. Allo stesso modo,
come già si è potuto riscontrare per i sarcofagi Lateranense 191 e 186, il miracolo
della guarigione del cieco nato – soprattutto nelle versioni di Mc 8,22-26 e Gv 9,1-
41, le probabili matrici del testimonium visuale – era strutturalmente rivolto a de-
scrivere la fede nel Cristo pasquale. Posta dunque questa funzione rispetto ai grup-
pi sinistro e destro, è anche possibile correlare tra loro queste scene? Io credo che un
nesso si possa rintracciare prestando attenzione allo scambio conclusivo del raccon-
to di Gv 9: «Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: “Tu
credi nel Figlio dell’uomo (eis ton uion tou anthrōpou )?”. Egli rispose: “E chi è, Si-
gnore (kyrie), perché io creda in lui?”. Gli disse Gesù: “Tu l’hai visto: colui che par-
la con te è proprio lui”. Ed egli disse: “Io credo, Signore!”. E gli si prostrò innanzi»
(vv. 35-38; cfr. M. Müller, «Have You Faith in the Son of Man?» (John 9,35), in New
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 383
notano, infatti, non solo non vincolò l’una (quella visuale) a un ruolo
subalterno all’altra (quella letteraria), ma offrì quella strumentazione ri-
velatasi fondamentale per un’elaborazione autenticamente originale di
contenuti teologici.
Dal punto di vista critico, poi, tale condiviso approccio ermeneutico
si rivela fondamentale per impostare un confronto, criticamente fondato,
tra documenti eterogenei quanto a tipologia, ma consimili quanto a strut-
tura logica.
«Dalla donna ha avuto origine il peccato e per causa sua tutti moria-
mo» (Sir 25,33). In questa sintesi del Siracide si può riconoscere il più
comune esito interpretativo del racconto della caduta dei progenitori53:
«Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli
occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne
mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne man-
53 Tale lettura non fu tuttavia univoca. Anche in ambito cristiano sone note interessan-
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384 Il lessico tipologico
giò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi»
(Gen 3,6-7)54.
Il mito genesiaco dell’originale allontanamento dei protoparenti, Adamo
ed Eva, dal paradiso terrestre stabilì anche nella tradizione cristiana delle
origini i capisaldi di un’antropologia per lo meno androcentrica, se non
esplicitamente misogina55. Neppure la tipologia antitetica Eva - Maria, as-
sai cara alla c.d. “tradizione patristica” 56, di fatto sanerà del tutto il vulnus
introdotto dall’ermeneutica “di genere” dell’episodio genesiaco: Maria, in-
fatti, fattasi mediatrice di salvezza, riscatta la colpa di Eva, ma solo al prez-
zo della consacrazione della sua sessualità. Mentre il femminile viene re-
dento nella verginità, il maschile non subisce analoga richiesta né la
condanna delle prerogative virili di Adamo.
Il racconto genesiaco, per altro, presenta due narrazioni della creazio-
ne dell’essere umano: la più antica, “jahvista”, riporta il celebre episodio
del sonno di Adamo, durante il quale YHWH «gli tolse una delle costole
54 Una buona analisi del tema di genere, in relazione a Gen 1 - 3 nel contesto delle tra-
che, quella giudaica ed ebraica, quella cristiana e quella dell’Islam (cfr. K.E. Kvam - L.S.
Schearing - V.H. Ziegler [eds.], Eve and Adam: Jewish, Christian, and Muslim Readings on
Genesis and Gender, Indiana University Press, Bloomington [IN] - Indianapolis [IN] 1999,
in part. 128-155; C. Böttrich - B. Ego - F. Eißler, Adam und Eva in Judentum, Christentum
und Islam, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2011, in part. C. Böttrich, Adam und Eva
im Christentum, ivi, 79-137, qui 100-103; M. Caspi, Eve in Three Traditions and Literatu-
res: Judaism, Christianity, and Islam, Edwin Mellen, Lewiston [NY] 2004 [Studies in reli-
gion and society 66]). Per il primo uso cristiano di Gen 1 - 3, cfr. ancora Daniélou, Sacra-
mentum futuri, 3-54. Di struttura «irrimediabilmente androcentrica » di questo racconto
ha parlato D.J.A. Clines, What Does Eve Do to Help? and Other Readerly Question to the Old
Testament, Sheffield Academic Press, Sheffield 1990 (Journal for the Study of the Old Te-
stament. Supplement 94), 25-48. Di recente sul tema è intervenuta incisivamente C. Simo-
nelli, Eva, la prima donna. Storia e storie, Mulino, Bologna 2021 (Intersezioni 561).
56 Si tratta di una tradizione di lunga durata: cfr. Odi di Salomone 19,6-11; Giustino, Dia-
logo con Trifone 100,5-6 ecc.; cfr. H. Koch, Virgo Eva - virgo Maria. Neue Untersuchungen über
die Lehre von der Jungfrauschaft und der Ehe Mariens in der ältesten Kirche, De Gruyter, Berlin
1937 (Arbeiten zur Kirchengeschichte 25); L. Cignelli, Maria nuova Eva nella patristica greca
(sec. II-V), Studio teologico Porziuncola, Assisi 1966 (Collectio Assisiensis 3); R. Murray, Mary,
the Second Eve in the Early Syriac Fathers, in Eastern Churches Review 3 (1971) 372-384.
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 385
e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che
aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo» (Gen 2,21-22);
la più recente, “sacerdotale”, si limita alla più poetica formula «maschile
e femminile li creò» (Gen 1,27). Come è ovvio, il riconoscimento nella
donna di una creatura creata da creatura (racconto “jahvista”) offrì un
ulteriore argomento alla svalutazione del genere femminile57. Non è sco-
po della presente ricerca né ripercorrere la storia di questa ermeneutica né
definire le antropologie che in essa affondarono le proprie radici58; d’altra
parte, come si vedrà, attraverso l’escussione della documentazione icono-
grafica sarà possibile ricostruire le tracce di una reazione a questa, pur
prevalente, teoria del genere.
Il caso di studio ora preso in considerazione credo possa dimostrare
l’originalità di questa argomentazione ermeneutica: denotando ancora
una volta una Grundlogik tipologica (in questo caso si intervenne diret-
tamente sul tipo per valorizzarne il significato reputato autentico), alcuni
documenti visuali affrontarono una tematica, quella dello statuto antro-
pologico del femminile, la cui discussione non solo non rientrava nell’a-
genda teologica dei primi secoli cristiani, ma era anzi da questa presup-
posta nell’univoca svalutazione della donna quale «ianua diaboli»59.
attribuito a Eva dalle tradizioni gnostiche. Essendosi questa progenitrice dell’umanità ri-
bellata, con la sua trasgressione, alle disposizioni del Demiurgo (nella teologia gnostica il
Dio creatore è colui che scinde la primigenia unità del pleroma, dando così avvio a quel fe-
nomeno di frammentazione del perfetto che conduce alla dispersione e alla contaminazio-
ne con la materia), ne ha ottenuto al genere umano l’accesso alla conoscenza (cfr. Gen 3,6-
7), unica possibilità per l’anima di fare ritorno nel pleroma.
59 Tertulliano, L’eleganza delle donne 1,1.
60 Styger, Die altchristliche Grabeskunst, 6, ne conta diciannove raffigurazioni pittoriche e
cinquanta sculture; Dresken-Weiland, Immagine e parola, 19, ne conta ventisei pitture e settan-
tatré sculture (di diverso avviso, nonostante le quantità cospicue, Dulaey, I simboli cristiani,
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386 Il lessico tipologico
172). Cfr. Già A. Breymann, Adam und Eva in der Kunst des christlichen Alterthums, Otto
Wollermann, Wolfenbüttel 1891; J. Flemming, Die Ikonographie von Adam und Eva in der
Kunst vom 3. bis zum 13. Jahrhundert, Ph.D. Diss., Jena a.a. 1953-1954. Questa scena,
peraltro, ritorna anche sul c.d. “sarcofago di Prometeo”, uno straordinario monumento di of-
ficina romana, del principio del IV secolo (conservato nei Musei Capitolini di Roma: cfr. Koch
- Sichtermann, Römische Sarkophage, figura 215), che descrive, attraverso un fregio quanto mai
ricco, il mito della creazione dei primi uomini da parte di Prometeo e di Atena: «L’interesse
del sarcofago è poi ancora accresciuto dal fatto che dietro la scena della fucina, proprio sul
bordo, sono raffigurati Adamo ed Eva. Si tratta dunque, evidentemente, di un sarcofago uti-
lizzato e forse addirittura ordinato da cristiani o da ebrei. La loro intenzione era dunque quel-
la di contrapporre al mito greco della creazione la storia della prima coppia umana secondo il
racconto della Genesi. Ma questo viene fatto in una forma discreta e appartata, come se si
volesse dirlo e nasconderlo al tempo stesso. Abbiamo qui a che fare con uno degli esempi più
interessanti dell’epoca di transizione dai sarcofagi “pagani” a quelli cristiani»: Zanker - Ewald,
Vivere con i miti, 60. La fortuna dell’associazione tra il mito di Prometeo e il racconto gene-
siaco è provata anche da un secondo “sarcofago di Prometeo” (Koch - Sichtermann, Römische
Sarkophage, figura 214), questa volta conservato al Louvre di Parigi, dove sul fronte si vedono
i due progenitori ricevere il frutto dal serpente in una formulazione figurativa insolita (cfr. H.
Kaiser-Minn, s.v. « Adam and Eve », in EEECA, 1, 10-12, qui 10).
61 Cfr. Calcagnini, s.v. « Adamo ed Eva», 96; Dresken-Weiland, Immagine e parola, 218-219.
62 Si tratta, in ogni caso, di un’operazione di non semplice finalizzazione soprattutto in ra-
gione del fatto che questa pretesa ricerca di “fedeltà illustrativa” tradisce però la scansione nar-
rativa del testo genesiaco, come ammette anche Calcagnini, s.v. « Adamo ed Eva», 97-98: «Si può
constatare che nell’immagine il diverso atteggiamento ‹dei progenitori›, pur corrispondendo a
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 387
Figura 83: la caduta dei progenitori. Fianco sinistro di sarcofago, Musée Saint-Ray-
mond, Toulouse (Wp. 32, t. 182,1; Rep. 3, 514). Fine IV secolo. L’immagine è trat-
ta da Garr. 5, t. 312,4. Il fregio del fianco di questo sarcofago (a cui corrisponde,
sul lato destro, il tema di Daniele nella fossa dei leoni) testimonia la persistenza del
modello compositivo classico della scena della trasgressione di Adamo ed Eva. La
raffigurazione, sintetizzata alle sue parti fondamentali, vuole rappresentare insieme
il momento della seduzione (il serpente che si rivolge a Eva – o, come vedremo, ad
Adamo), quello della colpa (il cogliere il frutto, l’averlo colto o anche il mangiarlo)
e quello dei suoi esiti (la percezione della nudità e l’approntamento di costumi in-
trecciati da foglie, secondo Gen 3,7).
precisi momenti che nel racconto della Genesi si succedono l’uno all’altro, non rispetta il rap-
porto temporale della fonte». Cfr. anche L. Pani Ermini, Una mensa paleocristiana con bordo isto-
riato, in Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte 1 (1978) 89-117.
63 Vedi supra, pp. 185-189.
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388 Il lessico tipologico
Figura 85: la trasgressione dei progenitori; ritratto della defunta davanti al parape-
tasma sorretto da Pietro e Paolo; tabula inscriptionis tra personaggi alati (angeli?
eroti?); il ciclo di Giona (il profeta gettato in mare e il riposo di Giona sotto la zuc-
ca); Gesù preannuncia a Pietro il triplice tradimento. Fronte di sarcofago con alza-
ta (Lateranense 154), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 29, t.
120,2; Rep. 1, 77; cfr. anche Sotomayor, S. Pedro, 52, nota 73). Primo terzo del IV
secolo. L’immagine è tratta da Garr. 5, t. 316,4. Il semplice progetto iconografico
di questo fronte di sarcofago sottolinea esplicitamente la valenza paradigmatica
della colpa assunta dal tema della trasgressione di Adamo ed Eva: è in particolare il
contrappunto stabilito dai due pannelli dell’alzata a favorire questa deduzione in-
terpretativa. Se, infatti, sul pannello di sinistra si osservano, da una parte, il ricordo
della caduta che pregiudicò al genere umano la permanenza nel giardino edenico e,
dall’altra, il ritratto della defunta orante, glorificata nella nuova dimora ultramon-
dana (questo significa il parapetasma) “dischiusa” da Pietro e Paolo, sul pannello di
destra è stato raffigurato il presupposto di quella salvezza: la Pasqua di Cristo (se-
condo il tema, già giudaico, del “prezzo di sangue”, della funzione espiatrice dell’im-
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 389
molazione pasquale: cfr. Füglister, Il valore salvifico della Pasqua, 87-121; 327-330).
Al centro del fronte, la scena dell’annuncio della triplice negazione di Pietro si pone
come una sorta di sintesi tra confessione della colpa e ottenimento della misericor-
dia: «Il contenuto delle scene ‹che replicano la triplice negazione di Pietro› evidenzia
una relazione con il perdono e la grazia, che si riscontra anche in altri numerosi
testimoni […]: in essi Pietro è “il prototipo dell’uomo caduto e di nuovo risollevato
dalla misericordia divina”» (Dresken-Weiland, Immagine e parola, 129; la citazione
interna è da G. Stuhlfauth, Die apokryphen Petrusgeschichten in der altchristlichen
Kunst, de Gruyter, Berlin - Leipzig 1925).
il significato in termini di storia di genere anche S.M. Salvadori, Sin and Redemption, Sexua-
lity and Gender. Adam and Eve in the Funerary Art of Late Antique Rome, in J.D. Alchermes
- H.C. Evans - T.K. Thomas (eds.), αναγηματα εορτδεα. Studies in Honor of Thomas F. Ma-
thews, Philipp von Zabern, Mainz am Rhein 2009, 271-282.
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390 Il lessico tipologico
Figura 86: la risurrezione di Lazzaro; Daniele nella fossa dei leoni; gruppo centrale
(due matrone e una ragazza attorno al Buon Pastore); la trasgressione dei progenitori;
il battesimo di Gesù. Fronte di sarcofago, Saint-Pierre (Sainte-Quitterie), Aire-sur-L’A-
dour (Landes), Francia (Wp. 29, t. 65,5; 32, tt. 175,3-4; Rep. 3, 18). Fine IV secolo.
L’immagine è tratta da Garr. 5, t. 301,3. Non è possibile esaminare per intero questo
sarcofago che viene giustamente considerato uno dei più importanti della tradizione
paleocristiana (cfr. F. van der Meer, À propos du sarcophage du Mas d’Aire, in G.B.
Pighi [éd.], Mélanges offerts à mademoiselle Christine Mohrmann, Spectrum, Utrecht
- Anvers 1963, 169-176) e uno dei più significativi della c.d. “tradizione gallica” del-
la scultura cristiana antica (cfr. M. Immerzel, Les ateliers de sarcophages paléochrétiens
en Gaule: la Provence et les Pyrénées, in Antiquité Tardive 2 [1994] 233-249, qui 239).
Oltre al fronte che qui si esamina, sui fianchi esso presenta due scene del ciclo di Gio-
na (il profeta gettato in mare [lato sinistro] e il suo riposo sotto il pergolato di zucche
[lato destro]) mentre sui due pannelli dell’alzata, ai lati della tabula inscriptionis non
compilata, stanno il sacrificio di Isacco e la guarigione del paralitico (pannello di si-
nistra), Giona rigettato dalla pistrice e Tobia e il pesce.
65 Oltre agli esempi qui considerati, cfr. anche Nestori, Dom77, il fianco sinistro del sar-
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 391
Figura 87: schema riassuntivo del progetto iconografico del fronte del sarcofa-
go di Saint-Pierre (Sainte-Quitterie), Aire-sur-L’Adour (Landes), Francia (Wp.
29, t. 65,5; 32, tt. 175,3-4; Rep. 3, 18). Fine IV secolo. Lo schema evidenzia i
due gruppi principali del sarcofago, posti ai lati di quell’ensemble centrale com-
posto dal Buon Pastore e da quel particolare consesso tutto femminile che gli
si stringe attorno, caso unico di tutta la più antica tradizione figurativa cristia-
na. Il gruppo di sinistra presenta per la verità una seconda raffigurazione carat-
teristica di questo fregio: l’immagine di Daniele in dalmatica («una tipologia
specifica di tunica lunga tardo-antica, indossata senza cintura, importata
nell’Impero dalla Dalmazia nel II secolo d.C. Era considerata particolarmente
effeminata, tanto da suscitare scandalo quando indossata da uomini; presto,
però, divenne anche veste di prestigio ed entrò a far parte delle vesti utilizzate
dall’aristocrazia e all’interno della corte imperiale. Venne adottata nell’abbiglia-
mento dei diaconi solo a partire dal IV secolo […] mentre in precedenza essa
era parte dell’abbigliamento proprio del pontefice e abito proprio e distintivo
del vescovo»: S. Piccolo Paci, Storia delle vesti liturgiche. Forma, immagine e
funzione, Ancora, Milano 2008, 322; forse, però, è possibile risalire sino al tar-
do III secolo: cfr. già Liber Pontificalis, Eutichiano 2; Questioni sull’Antico e
Nuovo Testamento 46 [PL 35, 2246]; cfr. anche H. Leclercq, s.v. «Dalmatique »,
in DACL 4,1, 111-119) di fronte a un solo leone, assopito ai suoi piedi. Mi pare
che questa soluzione iconografica presupponga un intervento ermeneutico assai
forte che, ancora una volta, emerge con chiarezza solo presupponendo il signi-
ficato tipologico che l’episodio di Dn 6,17-24 e 14Vulgata (= Bel e il Dra-
goLXX),31-42 doveva avere agli occhi di coloro che scelsero questo tema per ar-
ticolare il progetto di questo fregio. Se, infatti, Daniele nella fossa dei leoni
raffigurava il (proto)tipo del martire cristiano esposto ad bestias (e, di conse-
guenza, connotava anche l’ideale di Ecclesia martyrum al quale si rifaceva la
comunità di coloro che di questa storia si consideravano espressione ed eredi),
raffigurare il profeta al sicuro, in abiti liturgici, poteva rappresentare la soluzio-
ne visuale per enfatizzare proprio quest’orizzonte teologico del martirio cristia-
no, inteso qui come predicato ecclesiologico di quella comunità sacerdotale che
celebrava, nella sua storia, gli eventi della salvezza. Risulta in tal modo chiara
l’associazione con la risurrezione di Lazzaro, prefigurazione della risurrezione
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392 Il lessico tipologico
dei credenti in Gesù, il Cristo. Il pannello di destra è di ancor più semplice let-
tura perché abbina il manifesto della trasgressione protologica – la cui respon-
sabilità è qui chiaramente condivisa dai due personaggi che simultaneamente
protendono il braccio verso l’albero proibito per coglierne i frutti (per il signi-
ficato del “tendere il braccio”, cfr. Pseudo-Ippolito, Sulla Pasqua 50; Agostino,
Sulla Genesi, contro i manichei 2,22,34; Esichio di Gerusalemme, Omelia pa-
squale 1,3; Efrem, Sul Diatessaron 20,23-24 ecc.; cfr. Dulaey, I simboli cristiani,
180-181) – a quel battesimo per la remissione dei peccati che fu considerato, sin
dalla predicazione paolina, l’“atto di nascita” del credente e lo strumento ine-
ludibile per l’ottenimento della salvezza (la bibliografia sul tema è ovviamente
sterminata: reputo tuttavia che G. Barth, Il battesimo in epoca protocristiana,
Paideia, Brescia 1987 [Studi Biblici 79], 116-140, restituisca ancora una delle
propettive più intelligenti su questo argomento). Ciò che colpisce è che questa
riscrittura di Gen 3 avvenga su un sarcofago sviluppato attorno al ritratto di tre
donne disposte attorno al Buon Pastore: in questa professione di fede martiro-
logica, la salvezza e la risurrezione che vengono attese sono esplicitamente cor-
relate a una storia il cui prologo tragico non può che essere pienamente proprio
di ogni essere umano, non delle donne specialmente.
Figura 88: ritratto della defunta tra personaggi alati (angeli? eroti?); la creazio-
ne della donna; la trasgressione dei progenitori; i tre Magi (?). Frammento di
alzata di sarcofago, Museo Archeologico Nazionale, Napoli (Wp. 32, t. 185,9;
Rep. 2, 180). Fine III - inizi del IV secolo. L’immagine è tratta da Wp. 32, t.
185,9. Questo frammento di soli cinquantasette centimetri restituisce uno tra
i documenti visuali a mio avviso più significativi delle origini cristiane. La co-
stituzione solo frammentaria del pezzo ne rende impraticabile la descrizione del
progetto iconografico; d’altra parte, anche limitandosi a ciò che ne è sopravvis-
suto, è possibile ricavare alcune informazioni di fondamentale rilevanza per la
contestualizzazione delle due scene genesiache che qui si osservano:
1. Il sarcofago era destinato a una o due donne: lo provano sia il frammento
di ritratto sia la porzione di inscrizione che menziona « MATER FILIAE ».
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 393
2. Tutte le scene di questo pannello hanno a che fare con il genere femminile:
un sarcofago, si potrebbe forse affermare, di donne, per le donne e relativo
alle donne (il che già implica un’autodeterminazione femminile del tutto
inedita nelle fonti letterarie cristiane che, tra fine III e inizi IV secolo, sono
scritti di uomini, per lo più per uomini e quasi sempre riguardo a uomini).
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394 Il lessico tipologico
chiarire l’infondatezza dei due presupposti teologici che venivano impiegati per
affermare la subalternità – se non proprio l’inferiorità – della donna all’uomo: né
Eva è “creatura di creatura” né il genere ha avuto nulla a che fare con la trasgres-
sione che portò alla separazione tra Creatore e creature. Al contrario: anche Eva
è, nella pienezza del suo femminile, «immagine e somiglianza» di Dio e l’uomo
non può attribuire ad altri la sua condizione storica. A conclusione di questa (pro-
to)teologia femminista elaborata a partire dalla proposta di un’ermeneutica auto-
noma di Gen 1 - 3, dopo aver riscattato Eva, viene offerto il paradigma di Maria,
la donna che ha reso possibile la salvezza di tutto il genere umano. Non paghe di
aver escluso che sia stata colpa femminile la caduta del genere umano, le commit-
tenti di questo sarcofago ci tengono a ricordare agli spettatori di questo manifesto
teologico che fu però una donna – né poteva essere altrimenti – ad aver offerto la
propria maternità perché potesse aver luogo l’incarnazione del Logos divino.
66 Oltre agli esempi riportati, cfr. anche la scena sul fianco destro del sarcofago di San-
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396 Il lessico tipologico
Figura 91: lastra di Vittorina. Cimitero dei Giordani, Roma (ICUR 9, 24521;
cfr. D. Calcagnini, Minima Biblica. Immagini scritturistiche nell’epigrafia fune-
raria di Roma, PIAC, Città del Vaticano 2006 [Studi di Antichità Cristiana 61],
62). Prima metà del IV secolo. Foto dell’autore. « Abramo ed ed Eva». Partico-
lare della c.d. “coppa di Podgorica”, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo (cfr.
P. Levi, The Podgoritza-Cup. Notes and Comments, in Heythrop Journal 4 [1963]
55-60; S. Nagel, Die Schale von Podgorica. Bemerkungen zu einem außer-
gewöhnlichen christlichen Glas der Spätantike, in Bonner Jahrbücher 213 [2013]
165-198). Metà del IV secolo. L’immagine è un particolare della tavola Garr. 6,
463,3. La trasgressione di Adamo. Particolare del fronte di sarcofago della Real
Academia de la Historia, Madrid (Wp. 29, t. 111,1; Rep. 4, 81; cfr. anche Soto-
mayor, Sarcófagos romano-cristianos de España, 59-66). Prima metà del IV se-
colo. L’immagine è un dettaglio della tavola Wp. 29, t. 111,1. La parentela tra
le tre figure mi pare, da un punto di vista strettamente iconografico, evidente.
Nel caso della lastra di Vittorina e della c.d. “coppa di Podgorica”, la presenza
del serpente rivolto verso Adamo non fa che enfatizzare l’intervento sul raccon-
to dell’episodio genesiaco. I commentatori, per altro, non hanno difficoltà a
osservare la tipicità di queste scene. Meno semplice è la descrizione della lastra
di Vittorina per via dell’incertezza del tratto e della povertà stilistica del risul-
tato. Alcuni commentatori (cfr. Calcagnini, Minima Biblica, pagina 89) rico-
noscono un frutto nella mano destra Eva, ma non si può escludere che si tratti
semplicemente del tentativo di raffigurare una mano aperta, come la destra di
Adamo. Di certo c’è solo che Adamo è prossimo all’albero e verso di lui è rivol-
to il serpente, Eva invece è lontano e «sembra allontanarsi dall’albero (poggia
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 397
sulla gamba destra, mentre ha la sinistra flessa)» (ibidem). Più semplice è l’ana-
lisi della scena che si ritrova nella decorazione della “coppa di Podgorica”: «La
rappresentazione della caduta contiene anche una caratteristica singolare. Seb-
bene i progenitori si trovino nella consueta disposizione, ai lati dell’albero del
paradiso, il serpente che lì si snoda non si rivolge, come d’abitudine, a Eva, ma
ad Adamo: un’eccezione nella realizzazione artistica» (Nagel, Die Schale von
Podgorica, 175). Si potrà obiettare che l’iscrizione associata a questa scena, vi-
sibilmente erronea, rende impossibile attribuire all’iconografia della coppa una
particolare valenza ermeneutica: «“Abram et et Evam” è l’iscrizione che descrive
l’immagine del peccato dei progenitori […]. La confusione è innegabile. […] Si
può presumere che l’incisore, come la maggior parte degli artigiani dell’epoca,
non sapesse leggere e scrivere autonomamente, il che non sorprende a un tasso
medio di alfabetizzazione di circa il 5-10% nelle province occidentali dell’Im-
pero Romano» (ivi, 185). In altri termini: come si può attribuire a un analfa-
beta (almeno funzionale) – incapace persino di scrivere “Adamo ed Eva” – le
competenze necessarie per elaborare un’ermeneutica così complessa qual è quel-
la che qui si sta proponendo? Come già ricordato più supra (pp. 155-157), men-
tre l’attitudine al linguaggio figurativo poteva affinarsi nella prassi quotidiana
della cultura romano-imperiale, le competenze ermeneutiche necessarie per
impostare questi interventi esegetici sul testo venivano affinate nella prassi cul-
tuale delle comunità cristiane dove la “liturgia della Parola” costituiva una sor-
ta di “formazione permanente” dei discepoli di Gesù, il Cristo. I documenti
riportati in figura credo attestino solidamente l’esistenza di questa “variante”
all’iconografia della trasgressione dei progenitori.
Figura 92: schema riassuntivo del progetto iconografico del fronte del sarcofago
della Real Academia de la Historia, Madrid (Wp. 29, t. 111,1; Rep. 4, 81). Prima
metà del IV secolo. L’organizzazione ermeneutica di questo documento mi pare
solidamente costruita per abbinamenti speculari che si sviluppano avendo nel grup-
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398 Il lessico tipologico
po centrale il loro asse. Le due figure che stanno nel mezzo di questo fregio, la
guarigione del paralitico e la matrona in posa di orante, mi pare vogliano formu-
lare un augurio di salvezza per la donna lì ritratta (se, come credo, questo personag-
gio femminile raffigurasse la defunta, si tratterebbe ancora una volta del sarco-
fago di una donna, né un simile augurio avrebbe senso altrimenti): il miracolo di
Mc 2,1-12 || Mt 9,1-8 || Lc 5,17-26, su cui già molto si è riflettuto, qui è riprodotto
come prototipo della remissione dei peccati accordata dal Cristo e riguardata come
la premessa dell’accesso al Regno. «Il creatore dell’universo, il Verbo di Dio che
all’inizio plasmò l’uomo, avendo visto che la sua creatura era stata contaminata dal
male, la guarì in ogni modo, ora rinnovando‹ne› le diverse membra – riportandole
ad essere come erano state plasmate all’inizio – ora rendendo in un solo istante sa-
no e integro un individuo umano, rendendolo perfetto in vista della risurrezione»
(Ireneo di Lione, Contro le eresie 5,12,6). Il primo “luogo teologico” chiamato a
restituire le ragioni della speranza nutrita dalla defunta (cfr. 1Pt 3,15) è espresso da
una sintetica teologia della storia – analoga ad altre già osservate in precedenza –:
a conclusione della storia umana (avviata con la trasgressione dei progenitori), Cri-
sto è giunto per inaugurare i tempi ultimi (come indica il «primo segno» delle noz-
ze di Cana), avviando la vigilia di quel Regno nel quale la defunta sperava di esse-
re ammessa. Il fulcro di questa teologia della storia, ciò che ha fatto scoccare l’ora
della vigilia del Regno, è stato quel sacrificio perfetto che Cristo ha elevato sulla
croce (qui effigiata dalla tipologia del sacrificio di Isacco) e al quale si indirizzava
anche il segno della guarigione del cieco nato (vedi supra, pp. 377-378). Infine,
tramite l’accostamento tra il prodigio dell’acqua miracolosa e la risurrezione di
Lazzaro, viene espressa la garanzia del fatto che quel Vangelo universale – l’avven-
to del Regno e il compimento della storia secolare – rappresenti anche una “notizia
buona” individuale – rivolta, cioè, alla salvezza personale dei singoli credenti. Si
noti ancora che, nella successione delle tre immagini alla destra del gruppo centra-
le, si può riconoscere anche una “storia nuova”: l’Incarnazione di Cristo (il suo av-
vento alla festa nuziale), la Pasqua e il tempo della Chiesa, connotato dall’ammini-
strazione del battesimo: « Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni,
battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19).
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 399
Si è già potuto osservare, in relazione al ciclo dei tre fanciulli ebrei 69,
un fenomeno particolare: l’introduzione di dettagli figurativi presi
dall’attualità delle comunità cristiane in parziale riscrittura dell’episodio
prototestamentario70. Questo dato è stato valutato alla luce della Grund-
Tutti i documenti analizzati in queste pagine dei quali si potesse identificare la com-
67
mittenza hanno dimostrato di essere legati a donne: il Lateranense 154 (Rep. 1, 77; supra,
figura 85) recava il ritratto di una matrona davanti al parapetasma; il sarcofago di Saint-Pier-
re (Sainte-Quitterie) di Aire-sur-L’Adour (Landes; Rep. 3, 18; supra, figura 86) pone attor-
no al Buon Pastore un gruppo di tre donne, due matrone e una ragazza; il frammento del
Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Rep. 2, 180; supra, figura 88) oltre a ritrarre una
donna, reca il lacerto epigrafico « MATER FILIAE »; il sarcofago della Real Academia de la Hi-
storia di Madrid (Rep. 4, 81; supra, figura 90) riporta al centro del fregio il ritratto di una
matrona in posa d’orante; la lastra di Vittorina (ICUR 9, 24521; supra, figura 91) la com-
memora nel breve testo epigrafico graffito la «ίενεμερεντε ίδετπρδνα».
68 Nella compilazione di questo capitolo ho potuto giovarmi del confronto critico con
gurati a presidio dell’erma alla cui venerazione i tre ebrei si sottraggono: il palmare paralle-
lo con le insegne militari romano-imperiali introduce un’evidente distopia rispetto al con-
testo storico del racconto prototestamentario, ovviamente altro (perché antico, perché
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400 Il lessico tipologico
logik tipologica di questa primigenia cultura visuale nel senso che, essen-
do il testimonium raffigurato un tipo del Cristo e della Chiesa – secondo
la prassi ermeneutica “latina” 71 –, allora la sua dimensione di piena veri-
tà si doveva ricercare nel presente, in quell’antitipologia – cristologica ma
anche ecclesiologica – che comprendeva sia l’ideale della Chiesa sia anche
la sua storia.
Nelle ultime pagine di questo capitolo, vorrei provare a documentare
come il caso ora menzionato non rappresenti un’eccezione alla normale
prassi figurativa cristiana, ma un suo tratto caratteristico che pure con-
corre ad attestarne la fondamentale struttura ermeneutica: ancor prima
di essere inseriti nell’organizzazione progettuale dei singoli documenti, i
testimonia “artistici” erano già stati oggetto di un primo intervento erme-
neutico che ne aveva orientato la selezione e la configurazione iconogra-
fica, per esaltarne non tanto l’originale narrazione quanto il valore erme-
neutico. Già in questa fase “ideativa”, il significato antitipologico era
considerato prevalente sul nucleo tipologico; per questo, l’“intrusione”
del presente in vicende antiche dovette essere considerato come una coe-
rente valorizzazione dei diversi testimonia.
Il caso della risurrezione di Lazzaro mi sembra uno dei più efficaci per
documentare questo processo.
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 401
questa scena; Dresken-Weiland, Immagine e parola, 21, molte di più: sessantasei pitture e cen-
touno rilievi; «L’iconografia della resurrezione di Lazzaro è il tema neotestamentario più raf-
figurato nelle catacombe; a parte il miracolo della fonte, è il tema più popolare tra tutti i te-
mi vetero- e neotestamentari» (ivi, 176). Su questo tema iconografico, cfr. R. Darmstädter,
Die Auferweckung des Lazarus in der altchristlichen und byzantinischen Kunst, Druck, Bern
1955; J.S. Partyka, La résurrection de Lazare dans les monuments funéraires des nécropoles chré-
tiennes à Rome. (Peintures, mosaïques et décors des épitaphes). Étude archéologique, iconographique
et iconologique, Zakład Archeologii Śródziemnomorskiej PAN, Warszawa 1993 (Travaux du
Centre d’Archéologie Méditerranéenne de l’Académie Polonaise des Sciences 33).
73 Tertulliano, La risurrezione 53,3.
74 Cfr. Dassmann, Sündenvergebung, 283-289; Partyka, La résurrection de Lazare, 71-
74; 91-94; Dresken-Weiland, Immagine e parola, 178. Attingendo ancora una volta ai dati
forniti dalla studiosa tedesca, e limitandoci al caso del “miracolo” della fonte, si contano
trentadue progetti iconografici pittorici che associano tale prodigio alla risurrezione di Laz-
zaro e trentaquattro che fanno altrettanto su sarcofagi.
75 Damaso, Epitaffio per sé; presso il Cimitero di Marco e Marcelliano (ICUR, 4, 12418).
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402 Il lessico tipologico
76 L. Morris, The Gospel according to John, Eerdmans, Gran Rapids (MI) 1971 (The New
International Commentary on the New Testament), 559, richiama giustamente l’uso del me-
desimo lessico in Mc 11,17 e in Eb 11,38. Era in ogni caso un tipo di sepoltura comune nella
Giudea dei tempi di Gesù, per lo più riservata alle persone più benestanti (cfr. E.M. Meyers -
J.F. Strange, Archaeology, the Rabbis, and Early Christianity, Abingdon, Nashville [TN] 1981,
97-98). Più di recente, cfr. R. Zimmermann, Modello nel vivere e nel morire (Il risuscitamento
di Lazzaro) Gv 11,1-12,11, in Id. (cur.), Compendio dei miracoli, 1025-1054, qui 1037-1039.
77 M. Guj, s.v. «Lazzaro», in Bisconti (cur.), Temi, 201-203, qui 202. A un’ampia disa-
mina della tipologia «a tempio» della tomba di Lazzaro è dedicato l’ottavo capitolo di Par-
tyka, La résurrection de Lazare, 60-69 («L’edicola funeraria di Lazzaro»).
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 403
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404 Il lessico tipologico
78 Wp. 29, tt. 139,1-4, non seguito dalla critica contemporanea (cfr. Partyka, La résur-
rection de Lazare, 53; era d’accordo con lo studioso tedesco Stuiber, Refrigerium interim,
185), segnala quattro casi in cui – a mio avviso persuasivamente – egli riconosce su altret-
tanti sarcofagi figure di Lazzaro dai tratti somatici femminili. Ove l’osservazione dello stu-
dioso tedesco fosse ricevuta, si tratterebbe di un’evidente sostituzione (subrogatio extrabibli-
ca, se si volesse rilanciare la categoria introdotta da Sotomayor, Una posible “ ley”), un caso
in cui l’attualità interviene forse bruscamente nel racconto biblico. È chiaro che questo ti-
po di rivendicazione (il credente sta di fronte a Cristo come Lazzaro, nutrendo la stessa aspet-
tativa di amicizia e di vita) non è pensabile fuori da una cultura esegetica fortemente tipolo-
gica: il presente della Chiesa – e, dunque, dei cristiani committenti di questi monumenti – è
l’interlocutore di quei testi e, nella coscienza di questi cristiani, ne è anche la realizzazione;
“confondere i piani”, come forse si direbbe oggi, o forse addirittura intersecarli del tutto, in
realtà non è una forzatura delle Scritture, ma un loro coerente utilizzo.
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 405
Figura 95: il Buon Pastore; Giona gettato nelle fauci della pistrice; Giuliana,
nell’arca, riceve la colomba; tabula inscriptionis (cfr. ICUR 1, 1658); il paradiso;
il ritratto di Giuliana di fronte al parapetasma, il panneggio alle spalle della
defunta che ne significa abitualmente la dimora ultraterrena. Fronte di sarco-
fago, (Lateranense 236), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp.
29, t. 57,5; Rep. 1, 46; cfr. anche Pelizzari, Vedere la Parola, 114-116). Fine III
secolo-inizi IV. L’immagine è tratta da Garr. 5, t. 301,2. Ciascuna delle due
figure monumentali che stanno nei pannelli laterali di questo fronte – il Buon
Pastore e Giuliana – richiama la porzione del monumentale fregio centrale che
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406 Il lessico tipologico
Figura 96: schema riassuntivo del progetto iconografico del fronte di sarcofago,
(Lateranense 236), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 29,
t. 57,5; Rep. 1, 46). Nel progetto di questo sarcofago, la vicenda umana, che
pure naturalmente si rispecchia nell’immagine del navigare in acque non sem-
pre pacifiche, diventa intarsio di temi biblici. Se, infatti, la colomba che annun-
cia la salvezza attesa sembra giungere a Giuliana – che l’aspetta nell’arca della
sua esistenza – proprio da quegli alberi che stanno dov’è il Buon Pastore, d’altra
parte anche lo stesso mare grosso in cui lei ha navigato è qui “redento” dall’im-
mersione del profeta Giona e dal suo sacrificio, quasi a dire che la vita – nella
quale si è vegliata la salvezza – è già stata consacrata dalla croce, che l’ha resa
pegno di risurrezione. Se Giuliana può ora prendere il posto di Noè è perché
questa antica cristiana rivendica di essere anche lei, con la sua vicenda umana
complessa, un frammento di profezia e, perciò, un frammento del compimento.
Opera qui forse anche la visione ultima di Ap 21,1, che, mentre mostra l’avven-
to della Gerusalemme celeste, annuncia che «il mare non c’era più». Anche nel
progetto iconografico di questo sarcofago, infatti, il giardino in cui il gregge
pascola sereno (si noti la postura della pecora che osserva Giuliana, forse anti-
cipatoria del Buon Pastore del Mausoleo di Galla Placida; vedi infra, figura 140)
ferma le acque del mare ai cui flutti impetuosi sostituisce lo scorrere dolce di
un ruscello, al quale alcune pecore si stanno abbeverando sicure.
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 407
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408 Il lessico tipologico
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 409
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410 Il lessico tipologico
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Le caratteristiche della “tipologia visuale” 411
L’originalità di questa documentazione risulterà con ancor maggiore efficacia nel ca-
81
pitolo dedicato all’analisi di alcuni progetti iconografici (nella prossima Sezione). Se infat-
ti già ora, avendo concentrato l’attenzione sui caratteri generali dell’ermeneutica visuale pa-
leocristiana (sia ideali, rispetto alla sua Grundlogik, sia attuali, rispetto al suo Grundgesetz),
si è potuto avere un saggio dell’autonomia di questa produzione figurativa, d’altra parte sarà
con l’analisi di singoli documenti, considerati nella loro integrale costituzione progettuale,
che l’originalità dell’eleborazione teologica di questa fonte potrà emergere ancor più distin-
tamente. Quanto appena asserito equivale, in ambito letterario, ad affermare, per esempio,
che altro è descrivere introduttivamente i principi che nel complesso connotarono l’esegesi
alessandrina, altro è osservarne concretamente l’applicazione in un certo commentario di
Origene, o la loro sopravvivenza nell’opera di Eusebio ecc.
82 Mi limito a rinviare ancora a due mie ricerche dove la questione è più ampiamente
considerata: Dal battesimo al regno, e Vedere la Parola, 62-72, dove alcuni casi di studio so-
no descritti e dove più ampi riferimenti bibliografici sono riportati.
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I MODELLI COMPOSITIVI
DELLA PIÙ ANTICA DOCUMENTAZIONE VISUALE
CRISTIANA
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I.
Questo approccio di fatto porta a considerare “descritto” il documento visuale del qua-
1
le si siano riconosciuti i diversi soggetti raffigurati. La domanda circa le ragioni che avreb-
bero orientato tanto la scelta dei temi (su questo specifico argomento, cfr. però J.
Dresken-Weiland, Société et iconographie. Le choix des images des sarcophages paléochrétiens
au IVe siècle, in M. Galinier - F. Baratte [éds.], Iconographie funéraire romaine et société: Cor-
pus antique, approches nouvelles?, Presses universitaires del Perpignan, Perpignan 2013 [Hi-
stoire del l’art 3], 247-257) quanto la loro concreta disposizione su ciascun monumento vie-
ne considerata, quando posta, sostanzialmente fuorviante. Poiché al documento viene
attribuita una funzione semplice – formulare per il defunto il generico auspicio di avere ac-
cesso alla salvezza promessa dal Cristo ai suoi discepoli –, il presupposto di una ragione spe-
cifica per la scelta dei costituenti iconografici di ciascun monumento e per la loro configu-
razione complessiva viene reputato un sovraccarico interpretativo arbitrariamente imposto
a questi prodotti visuali.
2 Vedi supra, pp. 147-148.
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416 I modelli compositivi
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Excursus
L’Ordo commendationis animae
3 Cfr. Le Blant, Étude sur les sarcophages chrétiens antiques, XXVI-XXXIX. Queste pagine
verranno riedite in Id., Les bas-reliefs des sarcophages chrétiens et les liturgies funéraires, in Re-
vue Archéologique 38 (1879) 223-241, qui 229-230, che, di fatto, ripubblica la sezione con-
clusiva dell’Introduzione della sua più nota ricerca sui sarcofagi paleocristiani di Arles.
4 Nella sua costituzione finale, l’Ordo propone, dopo introito breve e aspersione, una
lunga litania dei santi – aperta e chiusa da Kyrie e Christe eleēson – a cui seguono sette ora-
zioni e le preghiere «in expiratione ». In generale cfr. L. Gougaud, Étude sur les Ordines Com-
mendationis Animae, in Ephemerides Liturgicae 49 (1935) 3-27.
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L’ importanza del “progetto iconografico” 417
Davis, The Cult of Saint Thecla: A Tradition of Women’s Piety in Late Antiquity, Oxford Uni-
versity Press, Oxford - New York [NY] 2001 [The Oxford Early Christian Studies]; A. van
den Hoek - J.J. Hermann, Thecla the Beast Fighter: A Female Emblem of Deliverance in Ear-
ly Christian Art, in Iid., Pottery, Pavements and Paradise. Iconographic and Textual Studies
on Late Antiquity, Brill, Leiden - Boston [MA] 2013 [Vigiliae Christianae, Supplements
122], 65-106; G. Pelizzari, La discepola ribelle. Tecla di Iconio nel ciclo agiografico degli Atti
di Paolo, Paoline, Milano 2017 [Saggistica Paoline 79]); d’altra parte la sua vicenda non co-
stituì mai un tema – o un ciclo definito – iconografico di particolare successo; per questa
ragione, nell’elenco dei paradigmi dell’Ordo l’ultimo non è stato segnalato in corsivo.
6 Per i materiali epigrafici cfr. ancora Le Blant, Étude sur les sarcophages chrétiens antiques,
XXI-XXVI (= Id., Les bas-reliefs, 223-228). Per il resto, cfr. Prigent, L’arte dei primi cristiani,
223-236, che richiama, per esempio, due controverse Orazioni pseudo-ciprianee (cfr. ivi,
225-228; cfr. anche W. Hartel [ed.], Cyprianus [Pseudo-Cyprianus], Opera omnia, 3: Ope-
ra spuria, Österreichischen Akademie der Wissenschaften, Wien 1871 [Corpus Scriptorum
Ecclesiasticorum Latinorum 3,3], 144-151; cfr. anche J. Ntedika, L’ évocation de l’au-delà
dans la prière pour les morts: Étude de patristique et de liturgie latines (IVe-VIIIe siècle), Nau-
welaerts, Louvain - Paris 1971 [Recherches Africaines de Théologie 2]); alcuni testi marti-
rologici però tardivi (Martirio di Eusebio; Atti di Anania e Pietro 13; Passione di Filippo 12);
Costituzioni apostoliche 5,7,2 (ma qui il contesto è diverso: nel passo delle Costituzioni ven-
gono, infatti, enumerate tipologie della risurrezione); Gregorio di Nazianzo, Orazione 24
10, ecc.
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418 I modelli compositivi
Cfr. H. Leclercq, Manuel d’archéologie chrétienne depuis les origines jusqu’au VIIIe siècle,
7
Letouzey et Ané, Paris 1907, 1, 110-111. La discussione della matrice giudaica occupa ivi le
pagine 103-126.
8 Vedi infra, pp. 461-462. Vanno ovviamente citati anche i paralleli della “coppa di Co-
lonia” (Morey, The Gold-Glass Collection, 347) e della coppa di Homblières (ivi, 349), en-
trambe ora al British Museum di Londra (vedi infra, pp. 463-465). A queste si può associa-
re anche il fondo di piatto vitreo a figure d’oro conservato alla Pusey House di Oxford
(Morey, The Gold-Glass Collection, 366), tutte posteriori al IV secolo.
9 Lo rilevano lucidamente Le Blant, Étude sur les sarcophages chrétiens antiques, XXVII, Le-
clercq, Manuel d’archéologie chrétienne, che perciò tenta di risalire alla matrice giudaica, e anche
Prigent, L’arte dei primi cristiani, 223-224, ma lo denuncia apertamente solo Finney, The Invisible
God, 283-284: «La cronologia è ancora il principale problema critico. Nessuna delle preghiere
di petizione, funerarie o non funerarie, può essere datata prima del IV secolo, al più presto.
Perciò non può esserci alcuna prova positiva di una connessione storica tra l’iconografia funeraria
[…] e le preghiere di petizione basate su paradigmi biblici». Sulla genesi delle «tradizioni litur-
giche dell’assistenza ai malati», cfr. Metzger, L’Église dans l’Empire Romain, 2: Les célébrations,
608-619, che però purtroppo non prende in considerazione l’Ordo commendationis animae.
10 Cfr. M. Righetti, Manuale di storia liturgica, 3: L’eucarestia: sacrificio, messa e sacra-
mento, Ancora, Milano 1949, 170-174; cfr. anche A. Nocent, Storia della celebrazione dell’eu-
caristia, in S. Marsili et alii (cur.), Anàmnesis, 3,2: La liturgia, i sacramenti. Eucaristia: teo-
logia e storia della celebrazione, Marietti, Genova - Milano 19892, 179-270, in part. 203;
217-223; McGowan, Il culto cristiano dei primi secoli, 241-242.
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Vedi supra, p. 207, nota 22. Il Terzo libro dei Maccabei viene abitualmente datato al
12
I secolo a.e.v. (cfr., per il contesto storico di questo libro, S.R. Johnson, Historical Fictions
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420 I modelli compositivi
and Hellenistic Jewish Identity: Third Maccabees in Its Cultural Context, University of Cali-
fornia Press, Berkeley [CA] - Los Angeles [CA] - London 2004 [Hellenistic Culture and
Society 43], per la datazione 129-141). Le Costituzioni apostoliche sono un’antologia di ma-
teriali canonico-liturgici d’uso ecclesiastico raccolta al più tardi entro il 380, ma composta
di documenti riconducibili a epoche ben più risalenti. In particolare, il libro settimo ripor-
ta, tra i capitoli 33 e 45, materiali eucologici di cui è stata osservata l’affinità con preghiere
giudaiche ed ebraiche (si tratta dunque di una sezione plausibilmente ben più antica del IV
secolo; sul settimo libro, cfr. C.N. Jefford, Power and Tradition in Apostolic Constitutions 7,
in D.V. Meconi [ed.], Sacred Scripture and Secular Struggles, Brill, Leiden - Boston [MA]
2015 [The Bible in Ancient Christianity 9], 62-84; sulla struttura compositiva delle Costi-
tuzioni apostoliche, cfr. E.M. Synek, Die Apostolischen Konstitutionen: ein «christlicher Tal-
mud» aus dem 4. Jh., in Biblica 79 [1998] 27-56).
13 Tra i quali vi è sempre anche Giona.
14 Terzo libro dei Maccabei 6,2-3.9.
15 Costituzioni apostoliche 7,37.
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L’ importanza del “progetto iconografico” 421
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16 Lo specifico riferimento al progetto iconografico si motiva per via del fatto che l’ipote-
si stessa della sua esistenza risulta credibile solo nella misura in cui non si postuli né l’equiva-
lenza semantica dei diversi temi iconografici cristiani né l’univoca finalizzazione di questa pro-
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422 I modelli compositivi
Figura 98: l’agnello moltiplica i pani. Pittura della lunetta minore del c.d. “cu-
bicolo di Leone”, Catacomba di Commodilla, Roma (Nestori, Com5). 375-380.
L’immagine è tratta da Pelizzari, Vedere la Parola, 189, figura 83. Questa piccola
pittura, che decora la lunetta dell’intradosso del “cubicolo di Leone” di Commo-
dilla – una sorta di nicchia (cfr. J.G. Deckers - G. Mietke - A. Weiland, Die Ka-
takombe “Commodilla”. Repertorium der Malereien mit einem Beitrag zu Geschichte
und Topographie von Carlo Carletti, PIAC, Città del Vaticano 1994 [Roma Sot-
terranea Cristiana 10], 3, tavola RC Com. 5,3), forse predisposta per il culto mar-
tiriale –, replica un sintetico progetto iconografico che campisce già uno spazio
tra gli intercolunni del registro inferiore del c.d. “sarcofago di Giunio Basso”.
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L’ importanza del “progetto iconografico” 423
Figura 99: l’agnello moltiplica i pani. Particolare del c.d. “sarcofago di Giunio
Basso” del 359. Museo del Tesoro di San Pietro, Città del Vaticano (Wp. 29, t.
13; Rep. 1, 680). L’immagine è tratta da H. Leclercq, s.v. «Pain», in DACL 13,1,
436-461, qui 452, figura 9368. Si osserva in questo singolare gruppo l’associa-
zione – evidentemente di natura tipologica – tra la figura dell’agnello e il mira-
colo della moltiplicazione dei pani. Ovviamente il significato di questo proget-
to si determina prioritariamente attraverso la tipologia Cristo-agnello che ha un
chiaro significato escatologico, come la simbolica dell’Apocalisse giovannea
apertamente dichiara (cfr. M.R. Hoffmann, The Destroyer and the Lamb: The
Relationship between Angelomorphic and Lamb Christology in the Book of Reve-
lation, Mohr, Tübingen 2005 [Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen
Testament 203], 113-147). D’altra parte si tratta di un’immagine che ricorre già
nelle prime lettere dell’epistolario paolino autentico (cfr. 1Cor 5,6), che strut-
tura la cristologia del quarto canonico (cfr. Gv 1,29.36) e che, ovviamente, as-
sume un ruolo decisivo in vista della Pasqua sacrificale del Cristo (cfr. Gv 19,36;
1Pt 1,19). Dunque questo sintetico progetto iconografico attribuisce al Cristo
escatologico – raffigurato in quanto agnello sacrificale, compimento delle Scrit-
ture (cfr. Es 12; Is 53,7; Ger 11,19 ecc.) – l’azione del miracolo della moltipli-
cazione dei pani. Tale associazione, ovviamente significativa di per sé, moltipli-
ca il suo potenziale semantico se si riconosce la funzione liturgica (eucaristica
o legata al refrigerium) dell’intradosso sul quale si apre questa nicchia: quel
miracolo si ripete di nuovo per i credenti. Questo, d’altra parte, non è nemme-
no l’ultimo livello di lettura che questo progetto iconografico consente di per-
correre. Come esplicitamente annotato sin dalla prima documentazione lette-
raria cristiana, tanto il banchetto eucaristico (cfr. 1Cor 11,26; Lc 22,17)
quanto il luogo della sepoltura dei martiri (cfr. Ap 9,10) attribuiscono costitu-
tivamente alla prima ritualità cristiana evidenti caratteri escatologici. La lunet-
ta dell’intradosso del c.d. “cubicolo di Leone” esalta efficacemente tale conno-
tazione, evocando il miracolo che meglio di ogni altro rinvia alla cultualità
cristiana del banchetto sacro (cena eucaristica e refrigerium) tramite una raffi-
gurazione del Cristo-agnello, tipologia del suo sacrificio pasquale e del prossimo
trionfo apocalittico. Il caso esaminato può essere ridotto a un decoro inciden-
tale? La progettualità iconografica che si è ora evocata può essere considerata
una sovrastruttura estranea al documento e alla sua finalità? Ovviamente sì, ma
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L’ importanza del “progetto iconografico” 425
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426 I modelli compositivi
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L’ importanza del “progetto iconografico” 427
Figura 102: confronto fra la disposizione del ciclo di Giona sul fronte del sarco-
fago Lateranense 119 e del fronte del sarcofago della Ny Carlsberg Glyptotek. La
china superiore è tratta da Pelizzari, Dal battesimo al regno, 70, figura 19; quella
inferiore è ricavata dall’immagine pubblicata ivi, 46, figura 10 (le immagini sono
accostate nella stessa scala). Il confronto proposto in figura permette di cogliere
con immediatezza, grazie all’esempio della disposizione delle tre scene del ciclo
di Giona, l’identica scansione che accomuna il progetto iconografico dei due mo-
numenti ora presi in esame. Di fronte al caso di evidente dipendenza progettuale
del sarcofago della Ny Carlsberg Glyptotek, credo non ci si possa limitare a evo-
care il successo di un modello figurativo fortunato. Il nesso mi pare infatti di
ordine innanzi tutto contenutistico, per almeno due ragioni:
1. I diversi momenti dell’avventura del profeta Giona servono, nel Lateranense
119, a scandire i passaggi di una straordinaria teologia della storia che, dalla
vita pubblica di Gesù, si spinge sino alla contemplazione del gregge custodi-
to nell’ovile escatologico. Nel sarcofago della Ny Carlsberg Glyptotek questa
funzione non può essere svolta con altrettanta ampiezza – per via del ben
minore numero di scene dispiegabili su una superficie dimezzata rispetto a
quella del sarcofago vaticano. D’altra parte viene sperimentata un’interessan-
te sostituzione iconografica che, mi sembra, riformuli – pur se in modo assai
sintetico – lo stesso itinerario. Si osserva qui, infatti, l’inedita associazione tra
un pescatore (simbolo, per via di Mc 1,14-18 || Mt 4,12-20; Lc 5,4-11, del tem-
po della Chiesa) e una costruzione in mattoni e tegole – dunque un edificio
monumentale – che può rinviare sia alla dimora escatologica (la Gerusalem-
me celeste; ulteriore “citazione” del Lateranense 119) sia, per l’essere fondata
sulla stessa terra rocciosa dove sta il Giona che riposa (tipologia del Cristo
glorificato), alla «casa edificata sulla roccia» di Mt 7,24-27 || Lc 6,47-49, che,
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428 I modelli compositivi
1. LA CORRELAZIONE TIPOLOGICA
La prima caratteristica su cui vorrei attirare l’attenzione è già stata am-
piamente osservata nelle pagine precedenti. Ciò che qui ho pensato di
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L’ importanza del “progetto iconografico” 429
ne del nesso tra tipo e antitipo, in realtà la tipologia si caratterizza per un tratto fortemen-
te creativo: sta ad essa, infatti, di volta in volta stabilire i rapporti ermeneutici sui quali strut-
tura la sua interpretazione delle Scritture. In altri termini: pur definendosi come il
tentativo di riconoscere il “disegno provvidenziale” che misteriosamente, da sempre, preor-
dina e armonizza la storia della salvezza, di fatto l’approccio tipologico si concretizzò in una
ricerca di “prove” scritturistiche con le quali sostanziare il presupposto di quell’unitario “di-
segno provvidenziale”. L’esegesi tipologica, dunque, è un tentativo – non univoco – di spie-
gare le Scritture, il cui principio qualificante è di interpretare le Scritture con le Scritture
(e, in ambito latino, la storia della Chiesa con le Scritture). Dunque l’Antico fonda e moti-
va il Nuovo, ma anche il Nuovo, attraverso la ricapitolazione dell’Antico, ne fornisce final-
mente il significato pieno, talora anche al prezzo di stravolgerne il senso apparente. Si pen-
si al riposo di Giona: nel racconto prototestamentario, rappresenta la condizione di pace
illusoria che soddisfa le lamentele del profeta indignato e ha l’esplicita funzione di rendere
ancora più evidente il disseccamento del pergolato, quest’ultimo il momento decisivo dell’e-
pisodio che ha la funzione di fare emergere la giustizia di YHWH; sottoposto a ermeneutica
tipologica, però, il riposo sotto al qiqajon assume un valore integralmente e pienamente po-
sitivo, definito dal suo antitipo: la glorificazione del Cristo (vedi anche supra, pp. 333-334).
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430 I modelli compositivi
19 Cfr. R. Papini, Pisa, 2, Libreria dello Stato, Roma 1931-1932 (Catalogo delle cose
d’arte e di antichità d’Italia 2,2), 79 (numero 119); P.E. Arias - E. Gabba - E. Cristiani,
Camposanto monumentale di Pisa, 1: Le antichità, Pacini, Pisa 1977, 168 (numero C 19). Cfr.
anche A. Soper, Latin Style on Christian Sarcophagi of the Fourth Century, in Art Bulletin 19
(1937) 148-202, qui 155- 156, figura 9.
20 Così Rep. 2, 12 (pagina 6).
21 La mia opinione è, viceversa, che il “sarcofago dell’Esodo” sia uno dei documenti più
rilevanti della più antica produzione “artistica” cristiana. Cfr. G. Pelizzari, «Dominus Legem
dat». Le origini cristiane tra Legge e leggi: la documentazione iconografica, in “Lex et Religio”:
Atti del XL Incontro di Studiosi dell’Antichità Cristiana. Roma, 10-12 maggio 2012, Institutum
Patristicum Augustinianum, Roma 2013 (Studia Ephemeridis Augustinianum 135), 729-769,
qui 753- 757; Id., Vedere la Parola, 212-215; Id., L’adozione critica, 28-30; Id., Manifestos of the
Kingdom. Early Christian Iconography and Biblical Hermeneutics. A New Methodological Ap-
proach, in A. Eusterschulte (hrsg.), Figurales Wissen, Harrassowitz, Wiesbaden c.d.s. (Episte-
me in Bewegung. Beiträge zu einer transdisziplinären Wissensgeschichte).
22 Si vedano i paralleli con: 1. il frammento di alzata di sarcofago, datato al primo terzo del
IV secolo, conservato al lapidarium annesso al Musée Calvet di Avignone (Wp. 32, t. 209,2; Rep.
3, 162); 2. Il fronte di sarcofago, della metà del IV secolo, ora presso il Musée des Beaux-Arts di
Carcassonne (Rep. 3, 203); 3. il frammento di sarcofago dell’ultimo terzo del IV secolo, conser-
vato presso il Quartier Trinquetaille di Arles (Rep. 3, 142); 5. il frammento di sarcofago, in onice
africano ma realizzato da un’officina dell’Italia settentrionale, dell’ultimo terzo del IV secolo, con-
servato presso il Museo Cristiano di Brescia (Rep. 2, 249); 5. il fianco destro del sarcofago, della
fine sel IV secolo, del Musée Granet ad Aix-en-Provence (Wp. 29, t. 97,2; Rep. 3, 21). Insieme al
frammento del lapidarium annesso al Musée Calvet di Avignone, la scena ha in questo sarcofago
la sua più antica attestazione nell’immaginario cristiano delle origini che ci sia pervenuta.
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L’ importanza del “progetto iconografico” 431
Figura 103: registro superiore: Myriam intona il suo canto (ritratto di matrona?);
il miracolo delle quaglie e della manna; Mosè riceve le tavole della Legge; ritratto
clipeato dei defunti; il passaggio del Mar Rosso. Registro inferiore: La risurrezio-
ne di Lazzaro; la moltiplicazione dei pani; il sacrificio di Isacco; Daniele nella
fossa dei leoni; Mosè si scioglie i calzari; l’arresto di Pietro; Pietro fa scaturire ac-
qua per i carcerieri Processo e Martiniano. Fronte del c.d. “sarcofago dell’Esodo”,
Camposanto monumentale, Pisa (Wp. 29, t. 157,2; Rep. 2, 12). 310-320. L’im-
magine riporta la tavola di Joseph Wilpert. «Secondo un’iscrizione del XIV seco-
lo incisa sul coperchio medievale, il sarcofago venne riutilizzato: “S(epulchrum)
Bonaiuta Gamelli”» (ivi, pagina 5). Si tratta plausibilmente di un sarcofago di
officina romana, anche se di ciò non si può avere certezza, dal momento che non
è possibile ricostruire la storia di questo monumento, oltre al reimpiego del XIV
secolo. Prima di entrare nel merito del progetto iconografico di questo documen-
to, vale la pena di ripercorrere la serie di testimonia visuali che qui sono stati raf-
figurati: in alcuni casi, infatti, è necessario discutere alcuni dettagli che, date le
numerose lacune del sarcofago, si possono prestare a opposte letture.
23 Si vedano i paralleli con: 1. il frammento di sarcofago, datato al secondo terzo del IV secolo,
ora conservato al Louvre di Parigi (Rep. 3, 425); 2. la scena del registro superiore del frammento di
sarcofago del SMPK Museum für Spätantike und Byzantinische Kunst di Berlino, datato all’ulti-
mo terzo del IV secolo (Wp. 32, t. 205,4; Rep. 2, 71). Il “sarcofago dell’Esodo” di Pisa, dunque, re-
stituisce la più antica attestazione figurativa di questo episodio prototestamentario sopravvissuta.
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L’ importanza del “progetto iconografico” 433
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L’ importanza del “progetto iconografico” 435
Figura 107: progetto iconografico del registro superiore del c.d. “sarcofago dell’E-
sodo” (Wp. 29, t. 157,2; Rep. 2, 12). Come si è già annotato più sopra, l’ordine del-
le figure che organizza il registro superiore di questo sarcofago esclude l’intento il-
lustrativo: che si recepisca o meno l’ipotesi di riconoscere nella matrona orante – che
inaugura, sulla sinistra, questa serie di testimonia – il ritratto di Myriam che intona
il canto dopo il passaggio del Mar Rosso (Es 15,20-21), l’ordine delle altre tre figu-
re di questo registro non rispetta la successione del libro prototestamentario (si ri-
trovano, infatti, Es 16 à 20 à 13,7 - 14,29). Se, però, si valorizza la soluzione di
continuità che il ritratto dei due defunti introduce, il quadro cambia. Nel pannello
di sinistra, infatti, si può ricuperare la corretta successione (Es 15 à) Es 16 à 20.
Allo stesso tempo, la grande scena del pannello di destra è chiaramente orientata
verso il clipeo centrale (l’Israele fuggitivo è infatti a ridosso del ritratto clipeato,
mentre gli Egiziani che inseguono sono prossimi al margine destro del sarcofago).
Nel complesso, dunque, sembra più corretto affermare che i due pannelli ricupera-
no ciascuno una porzione di Esodo, rispettivamente la stipula dell’Alleanza (Myriam
che rende grazie, il nutrimento miracoloso e la concessione della Legge) e la fuga
dall’Egitto. Il ritratto dei due defunti viene a trovarsi così al centro di questa “storia
sacra”, immerso tra i profili degli Israeliti pellegrini verso la Terra Promessa (alla
destra e alla sinistra del ritratto si trovano infatti personaggi di gruppi familiari, in
evidente allusione all’Israele in cammino). È interessante soffermarsi su questo pri-
mo elemento, che già implica di per sé una ricezione tipologica del testo di Esodo.
Anche limitandosi a questo solo registro, infatti, si può affermare che non sia il testo
biblico a organizzare questa serie di immagini (come osservato, esse non ne rispet-
tano la trama), ma il suo impiego in relazione – o anche solo rispetto – al ritratto
clipeato centrale, verso il quale procedono tanto il racconto dell’Alleanza quanto la
fuga di Israele. Torna qui, pur se per il momento in una declinazione ancora solo
individuale (ma si vedrà fra poco la ben più ampia portata teoretica del manifesto
teologico codificato dal progetto iconografico di questo sarcofago), la rivendicazio-
ne della pretesa cristiana di essere “Israele di Dio” (cfr. F. Manns, L’Israël de Dieu.
Essais sur le christianisme primitif, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1996 [Stu-
dium Biblicum Franciscanum – Analecta 42], in part. 75-101; il tema è però vastis-
simo, di recente ne ha sperimentato un originale approccio lessicografico G. Harvey,
The True Israel: Uses of the Names Jew, Hebrew and Israel in Ancient Jewish and
Early Christian Literature, Brill, Leiden 1996 [Arbeiten Zur Geschichte Des An-
tiken Judentums Und Des Urchristentums 35]). L’inclusione del clipeo entro questa
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436 I modelli compositivi
serie di testimonia e il fatto che questi procedano verso di esso sembrano voler affer-
mare l’appartenenza di questi cristiani al “vero Israele”, la Chiesa, che tale poteva
definirsi solo per via tipologica.
Figura 108: progetto iconografico del registro inferiore del c.d. “sarcofago
dell’Esodo” (Wp. 29, t. 157,2; Rep. 2, 12). Ancor più interessante è il progetto
iconografico del registro inferiore. Anche qui è necessario suddividere i testimo-
nia visuali che qui si ritrovano in due gruppi, rispettivamente riconducibili a
quello alla sinistra di Daniele nella fossa dei leoni e a quello posto alla sua de-
stra. Partendo dal pannello di sinistra, si osservano due scene neotestamentarie
(l’ultimo segno giovanneo – la risurrezione di Lazzaro – e la moltiplicazione dei
pani e dei pesci), gli unici due miracoli di Gesù raffigurati su questo sarcofago,
e un episodio prototestamentario (il sacrificio di Isacco). I due miracoli deter-
minano una breve narrazione, una sorta di “ciclo gesuano” che procede verso
l’esterno del sarcofago (in Giovanni, il miracolo della moltiplicazione dei pani
è narrato al capitolo 6, la risurrezione di Lazzaro all’11; in tutte le “armonie
evangeliche” la moltiplicazione dei pani precede il segno di Betania). Quale
relazione con il sacrificio di Isacco? Ovviamente tipologica: il tema genesiaco
offre il paradigma tipologico – di segno pasquale – per comprendere la vicenda
di Gesù. Analogo discorso si può fare per il pannello di destra. Qui il “ciclo
petrino” è rappresentato estensivamente, nei suoi tre momenti fondamentali
(cfr. Sotomayor, San Pedro), narrativamente disposti ancora una volta verso l’e-
sterno del sarcofago. Anche qui la vicenda di Pietro è preceduta dalla sua tipo-
logia, Mosè mentre riceve la chiamata (la tipologia Pietro-Mosè è antica; ap-
partiene già alla letteratura pseudo-clementina: cfr. K.J. Ruffatto, Moses
Typology for Peter in the Epistula Petri and the Contestatio, in Vigiliae Christia-
nae 69 [2015] 345-367; in generale, per la fortuna della tipologia mosaica già in
ambito cristologico, cfr. W.A. Meeks, The Prophet-King: Moses Traditions and
the Johannine Christology, Brill, Leiden 1967 [Novum Testamentum, Supple-
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L’ importanza del “progetto iconografico” 437
ments 14], in part. 286-319; D.C. Allison, The New Moses: A Matthean Typolo-
gy, Fortress Press, Minneapolis [MN] 1993). I due tipi prototestamentari – il
sacrificio di Isacco e la vocazione di Mosè a guidare Israele («Ora va’! Io ti man-
do dal faraone. Fai uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!»: Es 3,10) – ri-
cevono il compimento in «Cristo, nostra Pasqua, ‹che› è stato immolato» (1Cor
5,6) e in quel Pietro che riceve il triplice comando: «Pasci le mie pecore» (Gv
21,15-17). All’intersezione tra questi due piani, cristologico ed ecclesiologico,
la tipologia martiriale per eccellenza, quella di Daniele nella fossa dei leoni.
24 Si noti innanzi tutto la matrice tipologica di questa associazione: i due defunti cristia-
ni – in quanto parte della Chiesa – ricapitolano il pellegrinaggio degli antichi Israeliti. Più che
un’istanza dei due individui per i quali fu scolpito il sarcofago, opera qui la rivendicazione cri-
stiana di essere il “vero Israele”, secondo quella teologia della sostituzione che ricevette singo-
lare impulso con Giustino di Roma (cfr. G. Visonà [cur.], S. Giustino, Dialogo con Trifone, Pao-
line, Milano 1988 [Letture cristiane del primo millennio 5], 58-70; F. Manns, L’Israel de Dieu.
Essais sur le christianisme primitif, Franciscan Printing Press, Jerusalem 1996 [Studium Bibli-
cum Franciscanum, Analecta 42], 113-130). L’idea di far parte del “popolo di Dio pellegrino”
è un carattere fondamentale della più antica ecclesiologia cristiana: ritorna icasticamente
espresso sin dalla c.d. Prima lettera di Clemente Romano, dove la comunità di Roma si defini-
sce «Chiesa di Dio che vive da straniera (paroikousa) a Roma » e scrive «alla Chiesa di Dio che
vive da straniera a Corinto» (su questa formula, cfr. E. Peterson, Il prescritto della Prima let-
tera di Clemente, in Id., Chiesa antica, giudaismo e gnosi, Paideia, Brescia 2021 [Scritti scelti
di Erik Peterson 10], 301-313 [ed. or. Nijkerk 1950]) e strutturerà la splendida pagina di A
Diogneto 5 (in part. 5,5: « Abitano ciascuno la sua patria, ma come stranieri residenti; a tutto
partecipano attivamente come cittadini, e a tutto assistono passivamente come stranieri; ogni
terra straniera è per loro patria, e ogni patria terra straniera »: tr. it.: E. Norelli [cur.], A Dio-
gneto, Paoline, Milano 1991 [Letture cristiane del primo millennio 11], 89).
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157,2; Rep. 2, 12). Lo schema proposto mostra l’integrazione che sussiste tra i
due registri di questo straordinario documento visuale: la diretta correlazione
tipologica tra i testimonia del registro superiore e quelli del registro inferiore. E
così alla matrona in posizione orante (Myriam?) del registro superiore corri-
sponde la donna che si protende verso il Cristo nella scena della risurrezione di
Lazzaro del registro inferiore; alla «manna del deserto ‹che› i vostri padri man-
giarono e perirono» corrisponde «il pane vivo, disceso dal cielo ‹del quale› se
uno ne mangia vivrà in eterno», secondo la tipologia che i redattori di Giovan-
ni attribuiscono al Cristo stesso (cfr. Gv 6,48-51); alla ricezione della Legge sul
Sinai, momento decisivo dell’economia antica, corrisponde una tipologia della
Pasqua sacrificale di Cristo, momento decisivo dell’economia nuova; al ritratto
dei defunti corrisponde il prototipo del martire; all’Israele pellegrino corrispon-
de l’Israele Nuovo, guidato dal Nuovo Mosè. La correlazione tipologica che
organizza puntigliosamente la struttura del progetto iconografico di questo
sarcofago mi sembra meriti di essere adeguatamente sottolineata. Il “sarcofago
dell’Esodo” può essere a buon diritto definito “un manuale di esegesi tipologi-
ca” sia per la corrispondenza ubiqua di tipi e antitipi sia per le modalità di rice-
zione e impiego dei materiali scritturistici: il Primo Testamento fornisce la ma-
teria (qui i passi più pregnanti di Esodo), ma è il Nuovo a definirne il
significato. Il parallelo con l’uso liturgico cristiano delle Scritture – e con la
struttura dei lezionari – mi pare evidente.
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L’ importanza del “progetto iconografico” 439
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440 I modelli compositivi
2. LA TRASLAZIONE TIPOLOGICA
Quello della tipologia fu, come già si è osservato, un «sistema»25: er-
meneutico, innanzi tutto, ma non solo. Esso determinò infatti un approc-
cio teologico complesso, che non si limitava a una meccanica ricerca di
profezie – esplicite, cioè già presentate come tali nei libri prototestamen-
tari, o implicite, cioè riconosciute soltanto ex post, dagli esegeti cristiani,
retroproiettando la loro storia sacra sulle vicende di Israele – per legitti-
mare le convinzioni religiose e teologiche dei credenti in Gesù, il Cristo.
Fu piuttosto uno sguardo complesso sulla storia della salvezza – e sulle
Scritture solo di conseguenza –, un tentativo di affermarne la lineare coe-
renza anche nel mezzo di tutte le curve che essa viceversa aveva affrontato.
Divenne ben presto anche un criterio per comprendere il presente di co-
munità che vivevano nel convincimento di sperimentare i tempi della
grande vigilia del Regno: poiché quest’ultimo era l’argomento tanto delle
aspettative di Israele quanto del Vangelo cristiano (lo era già del magiste-
ro di Gesù!), la convinzione di essere il popolo della vigilia, che già radu-
nava i cittadini del Regno in attesa del suo avvento, portò all’estensione
del sistema tipologico anche alla discussione del presente delle Chiese 26.
25 Vedi supra, pp. 181-182. La definizione è presa da Korshin, Typologie als System.
Sull’attualità dell’approccio tipologico nel dibattito teologico corrente (per lo più nell’am-
bito dell’ermeneutica figurativa), cfr. B.J. Ribbens, Typology of Types: Typology in Dialogue,
in Journal of Theological Interpretation 5 (2011) 81-95, che distingue tra tipologie cristolo-
giche, tropologiche (o morali) e analogiche.
26 Pare interessante osservare come uno degli scritti protocristiani più apertamente vinco-
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L’ importanza del “progetto iconografico” 441
cui viene redatto il testo illumina proprio quell’intersezione, insieme cristologica, ecclesiolo-
gica ed escatologica, data dal presente di «una comunità alla fine della storia » (ricupero qui
l’efficace titolo della ricerca, dedicata alla tradizione di Qumran, di Ludwig Monti).
27 Riprendo ovviamente il lessico di Sotomayor, Una posible “ ley”.
28 Per questa definizione, vedi supra, pp. 344-345.
29 Nel caso specifico della subrogazione cristologica opera in modo visibile la teologia del
Logos che il Prologo di Gv 1,1-18 formalmente inaugura (sulla struttura già ermeneutica an-
che di questa prima formulazione, cfr. J.L. Ronning, The Jewish Targums and John’s Logos
Theology, Hendrickson, Peabody [MA] 2010). Il principio della preesistenza del Logos e del-
la sua funzione di mediazione dell’azione di YHWH, sin dalla creazione («Tutto è stato fatto
per mezzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste […]. Il mondo fu fat-
to per mezzo di lui»: Gv 1,3.10b), fissò ovviamente le coordinate fondamentali per travali-
care il semplice nesso profetico tra Primo Testamento e Nuovo, spingendosi sino al ricono-
scimento – misterioso ma reale – del Cristo-Logos sin dal principio (cfr. Gv 1,1-3).
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442 I modelli compositivi
Cfr. già P. Franchi de’ Cavalieri, Come i ss. Processo e Martiniano divennero i carcerie-
31
ri dei principi degli apostoli?, in Studi e Testi 22 (1909) 35-39; cfr. anche Pelizzari, Dal bat-
tesimo al regno, 56-61.
32 Fu Joseph Wilpert a sottolineare la peculiarità di alcune raffigurazioni femminili di Lazza-
ro: «Tutti ‹questi sarcofagi› mostrano il parallelo fra scene di Cristo e scene di Pietro; tutti ‹mostra-
no› la defunta orante fra santi; perciò la mummia di Lazzaro è quasi sempre femminile» (Wp. 29,
pagina 127). Si tratta, come facilmente osservava Wilpert, della trascrizione della defunta entro la
storia sacra di Gesù, entro le Scritture: «Il Giona pastore ‹il riferimento è al sarcofago che si vedrà
infra, figura 136› ha un analogon perfetto nella IVLIANAE, rappresentata nell’arca e al posto di Noè
‹vedi supra, pp. 405-406›, e nelle mummie femminili di Lazzaro sui sarcofagi che contenevano o
dovevano contenere il corpo d’una defunta» (ivi, pagina 153; i quattro migliori esemplari di questa
traslazione iconografica a giudizio dell’archeologo romano sono raccolti nella tavola Wp. 29, t. 139).
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L’ importanza del “progetto iconografico” 443
Figura 111: una pecora accovacciata; la nave diretta verso Tarsis e il mostro
marino; Giona rigettato dal mostro; il riposo di Giona. Fronte di sarcofago,
British Museum, Londra (Rep. 2, 243; cfr. anche E. Dinkler, Abbreviated Re-
presentations, in Weitzmann [ed.], Age of Spirituality. Late Antique, 396-448,
qui 397-399; Snyder, Ante pacem, 78). Fine del III secolo. Il pannello frontale
Cfr. S. Walker, Catalogue of Roman Sarcophagi in the British Museum, British Museum
33
Press, London 1990 (Corpus Signorum Imperii Romani. Great Britain), 59-60, numero 76.
34 A favore della datazione più alta si è espressa Walker, Catalogue, mentre assai mag-
giore consenso ha trovato una collocazione attorno alla fine del III secolo (cfr. H. Rosenau,
Problems of Jewish Iconography, Gazette des Beaux-Arts 56 [1960], 5-18, in part. 13-18; così
anche la scheda di Rep. 2, 243).
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446 I modelli compositivi
2.2. Il sarcofago di San Celso (Wp. 32, tt. 243,4-6; Rep. 2, 250)
Il secondo esempio di traslazione tipologica su cui vorrei attirare l’atten-
zione è fornito da un sarcofago conservato a Milano, in una cappella latera-
le della chiesa di Santa Maria presso San Celso. Delle origini del sarcofago
si sa poco; le prime notizie utili riguardano il suo impiego per l’allestimento
dell’altare maggiore della chiesa del monastero di San Celso che l’arcivesco-
vo Landolfo II da Carcano nel novembre 997 decise di far erigere.
L’iconografia del sarcofago lascia presumere che sia da considerare pro-
duzione di officina milanese 35, mentre la cronologia – a mio giudizio da
collocare al più tardi durante il principato di Costanzo II (350-361) – vie-
ne in genere stabilita in base a una valutazione stilistica del pezzo: «Le
nobili teste del Cristo e degli Apostoli, sulla fronte, e del S. Pietro, sul
fianco destro, sono ispirate certamente ai sarcofagi romani dell’età di Co-
stanzo, tra i quali emerge quello a due registri del Museo Pio Cristiano,
dal cimitero di Lucina, con in alto i ritratti di due fratelli entro clipeo
‹Wp. 29, tt. 91; 93,2; 153,1; Rep. 1, 45›»36.
35 Così Rep. 2, 250, pagina 88, motiva l’ipotesi della provenienza da un’officina mila-
nese: «È insolito che Pietro e Paolo indossino campagi ‹stivaletti› invece dei sandali. La raf-
figurazione della guarigione dell’emorroissa mostra una composizione che si discosta dal
modello abituale […]. Oltre a un’iconografia non nota dai sarcofagi della città di Roma, è
anche stilisticamente indipendente. È stata quindi accettata un’officina milanese». Concor-
da con questa ipotesi anche F. Rebecchi, n. 5a.2g: «Sarcofago con scene del Nuovo Testamen-
to», in Milano capitale dell’Impero, 333-334, qui 334.
36 Così Rebecchi, n. 5a.2g: «Sarcofago con scene del Nuovo Testamento», 334.
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L’ importanza del “progetto iconografico” 447
Figura 113: la capanna della natività con una figura angelica (?); i tre Magi se-
guono la stella; Cristo tra Pietro e Paolo; le donne al sepolcro ricevono la visione
dell’angelo; l’incredulità di Tommaso. Fronte di sarcofago, Santa Maria presso
San Celso, Milano (Wp. 32, tt. 243,4-6; Rep. 2, 250; cfr. anche D. Knipp, ‘Chri-
stus Medicus’ in der frühchristlichen Sarkophagskulptur. Ikonographische Studien
zur Sepulkralkunst des späten vierten Jahrhunderts, Brill, Leiden 1998 [Supplements
to Vigiliae Christianae 37], 90-139). Metà del IV secolo. L’immagine è tratta da
Garr. 5, t. 315,5 (Garrucci reputa tardive – e dunque non riporta – le tre piccole
croci greche incise sulla destra dei volti di Pietro, Gesù e Paolo). Rebecchi, n.
5a.2g: «Sarcofago con scene del Nuovo Testamento», 333, offre una lettura narrati-
va del progetto iconografico di questo documento, ravvisandovi gli «episodi del-
la vita di Cristo, dalla nascita alla resurrezione». Tale lettura è a mio avviso diffi-
cilmente sostenibile, per due ragioni: innanzi tutto perché presupporrebbe un
incontro tra Gesù e Paolo, fatto difficilmente suffragabile a partire dalle fonti in
nostro possesso; secondariamente, perché il Cristo della scena centrale viene ca-
ratterizzato da una folta barba, mentre il risorto è presentato ancora con i carat-
teri del giovinetto imberbe. La scena centrale, dunque, deve essere valutata come
una manifestazione escatologica della regalità del Cristo, una figura più prossima
alle tematiche di Apocalisse che a quelle dei Sinottici (e difatti il Cristo che qui si
osserva è “più adulto” del Risorto, rinviando dunque a un tempo successivo). Se
si accetta l’autonomia di questa scena centrale, l’organizzazione complessiva del
fronte del sarcofago emerge assai facilmente: nelle due scene alla sinistra di questa
effigie centrale andrà riconosciuto un breve “ciclo della natività”; nelle altre due,
di destra, un altrettanto sintetico “ciclo della risurrezione”. Per prima cosa, va se-
gnalato il dato cronologico: assumendo la cronologia che qui è stata proposta,
questo sarcofago reca uno dei primi esempi della raffigurazione della natività a
noi noti. Solitamente la critica data alla metà del IV secolo l’avvio della produzio-
ne di questa scena, attribuita in genere a un’officina romana sulla via Appia, area
dalla quale sono stati recuperati diversi esemplari di questo soggetto. L’ipotesi di
un sostanziale parallelismo tra questa più antica produzione romana e l’esperi-
mento milanese permette di motivare la singolarità dello schema figurativo che
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L’ importanza del “progetto iconografico” 449
in una festa liturgica proprio negli anni in cui veniva realizzato questo sarcofago
(la festività del Natale inizia a essere celebrata attorno al 330-340, anche se si af-
ferma stabilmente solo con la fine del IV secolo: cfr. B. Botte, Les origines de la
Noël et de l’Épiphanie: étude historique, Abbaye du Mont César, Louvain 1932
[Textes et Études liturgiques]). Credo che il personaggio al di sopra della capanna,
con quell’enigmatico gesto della mano destra – che, nonostante le esitazioni del-
la critica, mi pare possa essere identificato con l’adlocutio e che dunque forse po-
trebbe rinviare all’angelo dell’epifania lucana ai pastori (Lc 2,8-20) –, voglia sot-
tolinare nel complesso proprio questo: la decisiva importanza del momento a cui
l’osservatore sta guardando, il momento dell’incarnazione del Logos. D’altra
parte, come anticipato, questa raffigurazione della natività assume un rilievo an-
cor più significativo allorchè viene calata nel progetto iconografico del sarcofago;
qui essa assolve a un compito diverso: sottolineare quanto più vistosamente pos-
sibile la stridente meta del cammino dei Magi. Senza sminuire l’importanza –
storico-salvifica e teologica – dell’incarnazione, dunque, il manifesto teologico di
questo sarcofago vuole enfatizzare un altro teologumeno, il momento al quale anche
il “farsi carne” del Logos (cfr. Gv 1,14a) era stato provvidenzialmente finalizzato:
il traguardo di tutta la storia della salvezza, il compimento dei tempi, l’avvento
del Regno, la manifestazione regale del Cristo. Il traguardo dell’intera storia del-
la salvezza, il Regno, viene qui non solo richiamato, ma anche efficacemente
correlato al resto dell’economia nuova. Il rigore teologico di questo progetto
iconografico si comprende considerando la gerarchia che articola qui i tre teo-
logumeni dell’incarnazione, della risurrezione e della glorificazione escatologi-
ca del Cristo. Non vi è dubbio che sia quest’ultimo tema a prevalere sugli altri
due (il viaggio dei Magi e la diversa resa del Cristo escatologico e del Risorto lo
dimostrano) e che in esso stia ciò che la committenza di questo sarcofago con-
siderava l’apice della propria professione di fede, l’argomento e la ragione pro-
fonda del suo sperare. Di grande interesse è anche il pannello di destra di questo
fronte, sul quale si osservano due paradigmi del racconto di risurrezione: la solle-
citudine delle donne che, pur spaventate, credettero all’inaudita notizia dell’an-
gelo (direi che la scena che qui si osserva armonizzi il resoconto di Mt 28,1-8
[dove l’angelo proviene dal cielo: cfr. v. 2] e quello di Lc 24,1-11 [dove lo spaven-
to porta «le donne» a «chinare il capo»: v. 5]) si contrappone qui all’esitazione dei
due discepoli che, pur avendo di fronte agli occhi il Risorto in persona, ancora
dubitano, sino a esigere la nota prova di Tommaso (si noti, però: in Gv 20,24-29
l’Apostolo si dimostra incredulo di fronte all’annuncio della risurrezione ma, ve-
dendo il Cristo, immediatamente lo confessa «mio Signore e mio Dio» [v. 28],
senza toccare, come avviene qui, le sue piaghe; tant’è che il risorto lo apostrofa
dicendo: «Poiché mi hai veduto…» [v. 29]; quella del sarcofago di San Celso po-
trebbe essere la più antica raffigurazione di questo episodio: cfr. P.R. Crowley,
Doubting Thomas and the Matter of Embodiment on Early Christian Sarcophagi,
in Art History, 41 [2018] 566-591 qui 567).
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450 I modelli compositivi
Figura 115: L’emorroissa sfiora il lembo della veste di Gesù; Pietro fa scaturire
miracolosamente l’acqua dalla roccia per i carcerieri Processo e Martiniano.
Fianchi sinistro e destro del sarcofago ora in Santa Maria presso San Celso,
Milano (Wp. 32, tt. 243,4-6; Rep. 2, 250). Metà del IV secolo. Le figure dei
due pannelli sono tratte da Garr. 5, tt. 315,4 e 3. L’elemento forse latamente “di
genere” a cui si è fatto cenno per il “ciclo della risurrezione” potrebbe essere
echeggiato dai due pannelli laterali del sarcofago che, in ogni caso, sono chia-
ramente organizzati come minima rubrica di testimonia relativa alla remissione
dell’impurità (risanamento dell’emorroissa) e del peccato (Pietro che provvede
l’acqua battesimale; quest’ultima scena implica una traslazione tipologica tra
Pietro e Mosè, come già segnalato).
Il sarcofago di Santa Maria presso San Celso documenta efficacemente la pos-
sibile ampiezza dell’impiego della traslazione tipologica: anche nel caso appena
considerato, il «sistema» tipologico venne applicato dal Nuovo Testamento al-
la Chiesa e all’escatologia e, ancora una volta, la scena narrata nel testo biblico
(Mt 2,1-12) venne direttamente traslata nel suo significato ermeneutico. In tal
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L’ importanza del “progetto iconografico” 451
modo il cammino dei Magi, tipo dell’aggregarsi, nella Chiesa, di ogni Nazione
per professare Gesù, il Cristo, il “consacrato” per il Regno, poté essere riscritto
esplicitamente in un itinerario attentamente indirizzato (si osservi la postura
delle mani dei tre Magi) verso il Cristo escatologico.
3. L’ARGOMENTAZIONE TIPOLOGICA:
LA SALVEZZA COME STORIA
3.1. L’alzata del sarcofago Lateranense 176 (Wp. 32, t. 177,3; Rep. 1, 145)
Il documento da cui vorrei iniziare è un’alzata di sarcofago rinvenuta
a Roma, nei pressi della basilica di San Lorenzo fuori le mura. Si tratta di
un pezzo facilmente databile alla prima metà del IV secolo che sviluppa,
su due pannelli separati da una tabula inscriptionis non compilata, una
sintetica storia della salvezza, dalla creazione sino ai tempi della Chiesa.
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452 I modelli compositivi
Figura 116: la trasgressione dei progenitori; Mosè riceve la Legge; i Magi pre-
sentano le loro offerte a Maria; tabula inscriptionis tra personaggi alati (angeli?
eroti?); Noè riceve la colomba nell’arca; Giona rigettato dal mostro giunge sot-
to il pergolato; Pietro fa scaturire l’acqua dalla roccia. Alzata di sarcofago (La-
teranense 176), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano (Wp. 32, t.
177,3; Rep. 1, 145). Prima metà del IV secolo. L’immagine è tratta da Garr. 5,
t. 384,6. Le scene che si susseguono lungo questa alzata ancora una volta pro-
vengono da una serie eterogenea di libri biblici (Genesi, Esodo, i Sinottici e le
tradizioni agiografiche petrine). La suddivisione della materia iconografica in
due pannelli, introdotta dalla tabula, organizza i testimonia visuali del progetto
iconografico in maniera chiara.
Figura 117: la trasgressione dei progenitori; Mosè riceve la Legge; i Magi pre-
sentano le loro offerte a Maria. Particolare di alzata di sarcofago (Lateranense
176), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano. L’immagine è ricavata
da Garr. 5, t. 384,6. Il pannello di sinistra ripercorre la prima parte della storia
della salvezza: quella che dall’allontanamento di Adamo ed Eva dal paradiso
terrestre giunse sino all’incarnazione. Si osserva qui l’economia antica, dram-
maticamente aperta ai piedi dell’albero genesiaco, trascorsa sotto la «maledizio-
ne della Legge» (Gal 3,6-14) e “sovvertita” dalla nuova Eva, Maria (per questa
fortunata ermeneutica mariana, cfr. Gila, Maria nelle origini cristiane, 46-48 e
passim). Sono qui radunati i passaggi salienti di questa storia, sufficienti a scan-
dirne non solo le stagioni, ma anche il significato: la separazione tra creature e
Creatore; l’elezione di un popolo tra le genti per mezzo del dono della Legge,
affinché «il timore ‹di YHWH› sia sempre presente ‹al suo popolo› e non pecchi»
(Es 20,20); l’avvento del Messia che «salverà il suo popolo da tutti i peccati»
(Mt 1,21). Il progetto di questo pannello rivela così il suo duplice significato:
storico-salvifico e relativo al teologumeno del peccato, di cui vengono rievoca-
ti l’origine, con l’avvio della storia umana, il rimedio e la remissione.
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L’ importanza del “progetto iconografico” 453
Figura 118: Noè riceve la colomba nell’arca; Giona rigettato dal mostro giunge
sotto il pergolato; Pietro fa scaturire l’acqua dalla roccia. Particolare di alzata di
sarcofago (Lateranense 176), Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano.
L’immagine è ricavata da Garr. 5, t. 384,6. Il pannello di destra completa la storia
della salvezza che prima si è iniziato a percorrere. La parte più rilevante di questo
gruppo è ovviamente rappresentata dal breve ciclo di Giona che qui, per altro,
viene singolarmente caratterizzato da un’inedita configurazione del riposo del
profeta. Non ancora del tutto libero dalle fauci della pistrice, egli già si protende,
abbracciandolo, verso l’arbusto del suo pergolato in una struggente quanto effica-
ce formulazione che sembra dar corpo a quell’“urgenza di salvezza” così frequente
nella più antica produzione cristiana, visuale e non. Ai lati di questo breve ciclo,
si trovano l’episodio di Noè che riceve la colomba e il prodigio delle acque mira-
colose. Il racconto del diluvio universale (Gen 6 - 7) è un “luogo comune” della
più antica letteratura cristiana, che vi ritrova stabilmente una tipologia della Pasqua
di Gesù e della Chiesa da essa nata (cfr. Daniélou, Sacramentum futuri, 55-94;
Rahner, Simboli della Chiesa, 865-938; H.S. Benjamins, Noah, the Ark, and the
Flood in Early Christian Theology: The Ship of the Church in the Making, in F.
García Martínez - G.P. Luttikhuizen [eds.], Interpretations of the Flood, Brill, Lei-
den - Boston [MA] 1999 [Themes in biblical narrative: Jewish and Christian tra-
ditions 1], 134-149). Il nesso tra la scena genesiaca e il ciclo di Giona è, dunque,
interamente pasquale. Da ultima, la scena battesimale dell’acqua miracolosa, sce-
na oggi interamente ricomposta e dunque non più frammentaria, il cui significato
è già stato più volte indicato nel corso di queste pagine. Se, dunque, si accetta
l’antitipologia pasquale per le scene del diluvio e del ciclo di Giona, diventa del
tutto chiara la narrazione sviluppata da questo pannello: dalla Pasqua di Cristo al
tempo della Chiesa; l’economia nuova della Nuova Alleanza. Vi sono due elemen-
ti che mi pare aggreghino questi tre soggetti (Noè, Giona e le acque miracolose):
1. tutti e tre rinviano alla salvezza predisposta da Dio per i suoi figli;
2. l’acqua è un dato che ritorna in ognuno di essi. Se prima la riflessione sul
peccato si svolgeva tra le piante del giardino, sul monte della Legge e lungo
la strada percorsa dai Magi, l’annuncio della salvezza “fluttua” sull’acqua.
Acque nocive quelle del diluvio e della tempesta di Giona ma destinate a essere
riscattate dalla Pasqua di Cristo, capace di trasformarle nell’acqua vivificante del
battesimo.
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454 I modelli compositivi
Figura 119: le offerte di Caino e Abele; la «consegna degli strumenti del la-
voro» (il braccio destro del Cristo reggeva una fascina di spighe che è stata
ripristinata nei moderni restauri ed è oggi visibile); la trasgressione dei proge-
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456 I modelli compositivi
Figura 120: schema riassuntivo del progetto iconografico del Lateranense 193
(Wp. 32, t. 186,2; Rep. 1, 25). Il progetto di questo fronte di sarcofago non si
limita, però, a giustapporre queste due riflessioni, sull’origine e sul compimento,
ma ne correla le diverse parti in un modo che a me pare del tutto straordinario.
Come mostra lo schema, infatti, è possibile abbinare specularmente i diversi mo-
menti che scandiscono la narrazione di entrambi i cicli figurativi:
1. alla raffigurazione della colpa originaria di Adamo ed Eva corrisponde il
miracolo che ha provato definitivamente la facoltà del Figlio di rimettere i
peccati;
2. alla scena intermedia che, mostrando la sanzione della colpa, indica anche
l’avvio del tempo della storia – il tempo della lontananza tra Creatore e cre-
ature – rispondono sul pannello destro i due segni della guarigione del cie-
co nato, che dichiara in potenza Gesù Figlio dell’uomo e che ne annuncia
la venuta «in questo mondo per giudicare» (Gv 9,39), e del miracolo di
Cana, quello del “vino ultimo”;
3. l’iniziale, scandaloso atto di morte che insanguinò la prima generazione
umana nata fuori dal giardino paradisiaco è sanato da quel prodigio di vita
che piegò la potenza del Logos divino al suo umano affetto per l’amico che
era morto.
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L’ importanza del “progetto iconografico” 457
3.3. Il sarcofago Lateranense 135 (Wp. 32, tt. 206,5-7; Rep. 1, 23)
Quest’ultimo sarcofago proviene dal Cimitero di Callisto ed è comu-
nemente datato al secondo terzo del IV secolo. Si tratta, a mio avviso, di
uno dei più bei sarcofagi a fregio continuo delle origini cristiane.
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458 I modelli compositivi
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L’ importanza del “progetto iconografico” 459
Figura 122: il ciclo genesiaco; l’avvento del tempo finale; la “vita pubblica di
Gesù”; la Pasqua; il tempo della Chiesa. Schema riassuntivo del progetto ico-
nografico del Lateranense 135 (Wp. 32, t. 206,5-7; Rep. 1, 23). L’immagine è
tratta da Pelizzari, Vedere la Parola, 151, figura 62. Lo schema riportato con-
clusivamente isola le diverse fasi in cui il progetto iconografico di questo fronte
suddivide la storia della salvezza: l’“antico” sembra scomparire, ormai soltanto
presupposto nello spazio qui solo evocato tra la creazione e l’avvio cristologico
dei tempi ultimi. Centrale è ora l’economia nuova, quella inaugurata da Cristo,
quella nella quale si sentiva immersa la committenza di questo documento: è
un tempo vigiliare, un tempo non ancora compiuto, un tempo della speranza
e dell’attesa.
37 Questo celebre documento, dopo essere stato rinvenuto fortunosamente nel 1870 (non
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460 I modelli compositivi
secolo che esso è abitualmente rievocato per suffragare l’ipotesi dei “pa-
radigmi di salvazione”, per via del fatto che su di esso si ritrovano una
serie di temi iconografici accompagnati da brevi testi epigrafici che pre-
sentano numerosi elementi di affinità con l’Ordo commendationis animae
a cui, dagli studi di Emile Le Blant in avanti, si guarda per trovare la
matrice di questa primigenia tradizione visuale 38.
L’elemento su cui ci si sofferma più spesso è l’iscrizione « DIUNAN DE
VENTRE QUETI LIBERATUS EST (Giona fu liberato dal ventre del kētos)»
che impiega la stessa costruzione “libera de” di cui si è vista la centralità
nell’Ordo, dove pure viene impiegata per strutturare la formula: «Libera,
Domine, … sicut liberasti … de …». Altre tre iscrizioni della coppa ven-
gono in genere richiamate per affermare la parentela tra l’Ordo e la coppa:
benché in esse manchi il predicato verbale, il costrutto con il “de” più
ablativo ha giustamente suggerito che la stessa costruzione possa essere
presupposta anche in quei casi 39. Reputo assolutamente corretto il paral-
lelo, ma non ne sovrastimerei la portata per due motivi:
1. Le difformità tra l’Ordo e la coppa. Non mi riferisco tanto alla
presenza qui di Giona – caso non contemplato nella lista del testo
eucologico –, poiché giustamente Pierre Prigent ha attirato l’atten-
zione sul Sacramentario di Rhinau, dove anche il caso del profeta
è contemplato 40; mi riferisco piuttosto al fatto che di otto imma-
gini riportate sulla coppa, per ben quattro non solo l’iscrizione –
ove presente (il sacrificio di Isacco ne è privo) – non correla al for-
NIEL DE LACO LEONIS »), quella relativa ai tre fanciulli ebrei (« TRIS PUERI DE ECNE CAMI »)
e quella di Susanna (« SUSANNA DE FALSO CRIMINE »). Cfr. ancora Nagel, Die Schale von Po-
dgorica, 184-188. Cfr. anche Prigent, L’arte dei primi cristiani, 224-225.
40 Cfr. Prigent, L’arte dei primi cristiani, 223.
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L’ importanza del “progetto iconografico” 461
Figura 123: al centro: il sacrificio di Isacco; lungo il bordo: la trasgressione dei pro-
genitori; la risurrezione di Lazzaro; Pietro fa scaturire miracolosamente l’acqua; Da-
niele nella fossa dei leoni; i tre fanciulli ebrei nella fornace; Susanna accusata del fal-
so crimine; il ciclo di Giona. “Coppa di Podgorica”, Museo dell’Hermitage, san
Pietroburgo (cfr. Levi, The Podgoritza-Cup; Nagel, Die Schale von Podgorica). Metà
del IV secolo. L’immagine è tratta da Garr. 6, 463,3 (la freccia tratteggiata indica il
punto di avvio e il verso della lettura delle scene qui proposta). Se si esclude la dipen-
denza dall’Ordo commendationis animae, cosa rimane del progetto iconografico di
questa coppa di vetro molata? A mio avviso il caso rappresentato da questa patera e
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462 I modelli compositivi
dai casi analoghi (si veda almeno il vetro dorato del British Museum, il cui schema è
riportato di seguito, in figura 124) si prestano ad almeno una duplice lettura. Non è
possibile negare che operi qui l’intento di documentare, attraverso testimonia autore-
voli, la speranza cristiana nella salvezza ultima ma, come già osservato più sopra, il
riferimento esclusivo a questo argomento rischia di non rendere del tutto ragione
della complessità di questo documento visuale: «Mi sembra che il progetto di questa
coppa sia d’una chiarezza esemplare: disposto attorno all’emblema tipologico della
Pasqua (ex passione) di Cristo ‹il tema del sacrificio di Isacco›, sul margine di questo
manufatto si svolge una sintesi della storia della salvezza di fortissima incisività teo-
logica. La storia di questo eone, inaugurata dal peccato di Adamo ed Eva, dopo l’Al-
leanza conclusa nella Pasqua di Cristo ‹risurrezione di Lazzaro: cfr. Gv 11,45-54›,
tramite il battesimo della Chiesa ‹“miracolo” della roccia› sconvolta dalla tribolazione
del martirio ‹i tre testimonia di Daniele›, presto si ricapitolerà nella piena realizzazione
dei tempi escatologici ‹ciclo di Giona›; si osservi come qui la Pasqua torni in tre di-
verse accezioni: al centro, è il prezzo sacrificale che “genera” il popolo “più numeroso
delle stelle del cielo” ‹Gen 26,3-4›; tra la figura dei progenitori dell’umanità e quella
di Pietro, è l’evento storico richiamato indirettamente dal prodigio della risurrezione
di Lazzaro (che anche in Giovanni ha questa valenza: segno profetico e introduzione
narrativa al ciclo pasquale); dopo la lunga parentesi martiriale, è il paradigma e il rit-
mo dei tempi escatologici» (Pelizzari, Vedere la Parola, 172). La “coppa di Podgorica”
non articola, a mio avviso, un messaggio individuale – legato, cioè, alla possibilità
della salvezza di un singolo cristiano – ma sviluppa una straordinaria riflessione
sulla storia, sulla sua vicenda universale e sulla sua traiettoria finale, sul suo traguar-
do. Il progetto iconografico di questo manufatto, così poco elegantemente realiz-
zato, con iscrizioni così incerte e non prive di errori marchiani (si è già prestata at-
tenzione al caso di « Abramo ed ed Eva»: vedi supra, pp. 396-397, figura 91), è
tuttavia così equilibrato e teologicamente meditato da porre di per sé la domanda
su come sia possibile far coesistere in un solo documento caratteristiche così diver-
genti e, in apparenza, contraddittorie, come lo sono una cultura biblica solida e
un’alfabetizzazione poco più che funzionale. Torna ancora una volta utile riflettere
sulla specifica modalità cristiana di accesso e conoscenza delle Scritture: la liturgia.
Ciò che oggi, nel contemporaneo “spazio letterario” in cui viviamo, esito di un’epo-
ca culturale “ipertestuale”, è considerato l’unico accesso alla documentazione lette-
raria – la lettura –, in Antico era valutato come una tra le diverse possibilità date in
vista di questo scopo. Soprattutto in ambito cristiano sussistette, sin da subito (cfr.
Ap 1,3-5), la prassi della proclamazione comunitaria delle Scritture, prassi che, an-
che se motivata da ragioni cultuali e celebrative, ebbe di fatto l’esito di spostare
dalla lettura all’audizione il luogo tipico dell’accesso ai contenuti di quei libri bibli-
ci. Com’è ovvio, e per tutto ciò che sin qui è stato detto, la “mediazione liturgica”
non si configurò come un passaggio neutro; al contrario, essa comportò una cono-
scenza frammentaria dei libri scritturistici e un loro impiego stabilmente tipologico.
Dunque tanto la conoscenza del contenuto di (parte di) questi libri quanto l’eserci-
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L’ importanza del “progetto iconografico” 463
zio della prassi ermeneutica tipologica sono competenze che, per le origini cristiane,
possono tranquillamente coesistere con una parziale – o anche nulla – alfabetizza-
zione. Tornando ora alla “coppa di Podgorica”, credo si possa abbandonare il pre-
supposto dell’incompatibilità tra iscrizioni così fragili dai punti di vista formale,
linguistico e contenutistico e un progetto iconografico così complesso, teologica-
mente coerente ed ermeneuticamente avveduto poiché questa coesistenza è un ca-
rattere desumibile proprio dal Sitz im Leben in cui questo documento visuale vide
la luce.
Figura 124: al centro: forse, il Buon Pastore (restano le zampe di una pecora); lungo
il bordo: Giona gettato nel ventre del mostro (con una colomba?); il profeta rigetta-
to dal mostro marino; Daniele nella fossa dei leoni; i tre fanciulli ebrei nella fornace;
la guarigione del cieco nato (?); Perpetua nell’arena (?); il paralitico guarito; il “mira-
colo” delle ossa aride. Coppa dorata “di Colonia”, British Museum, Londra (Morey,
The Gold-Glass Collection, numero 347). IV secolo. L’immagine è tratta da Garr. 3,
169 (la freccia tratteggiata indica il punto di avvio e il verso della lettura delle scene
qui proposta). Il parallelo del vetro dorato di Colonia credo mostri come la “coppa
di Podgorica” non possa essere sbrigativamente ridotta alla “trascrizione figurativa”
di un rito di affidamento e invocazione per un infermo prossimo alla morte ma deb-
ba essere considerato quale espressione di una tradizione figurativa più ampia (una
sorta di “genere” visuale). Essa apparteneva a un tipo di prodotti figurativi che, al
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464 I modelli compositivi
pari delle mense scolpite o di questi vetri dorati, era funzionale innanzi tutto a un
impiego liturgico e cultuale per il quale è ben difficile immaginare l’esclusiva fun-
zione di replicare l’immaginario funerario di un singolo ordinamento eucologico o
la correlazione all’augurio di salvezza per un singolo defunto. D’altra parte, la pre-
valente matrice martirologica di questa successione di testimonia dischiude, a me
sembra, un orizzonte ecclesiale, più vasto, nel quale l’esperienza della Chiesa è insie-
me compimento delle Scritture e perpetuazione della Pasqua di Criso. Il parallelo
con l’Ordo, dunque, pur consentendo l’accesso a un immaginario religioso verosi-
milmente condiviso dai committenti di queste opere, di certo non può sostituirsi al
riconoscimento della loro prioritaria funzione eucaristica, ben espressa da questo più
ampio tentativo di annunciare la storia alla quale i cristiani rivendicavano di appar-
tenere e nella quale veniva celebrata la Pasqua di Cristo.
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L’ importanza del “progetto iconografico” 465
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OSSERVAZIONI FINALI E PROSPETTIVE:
TRA IMMAGINE E PAROLA,
L’“ARTE” CRISTIANA DELLE ORIGINI
COME PATROLOGIA VISUALIS
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468 Osservazioni finali e prospettive
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L’“arte” delle origini come Patrologia visualis 469
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470 Osservazioni finali e prospettive
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L’“arte” delle origini come Patrologia visualis 471
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Appendice
IMMAGINARIO GENTILE
E IMMAGINARIO CRISTIANO
È un dato di fatto ampiamente vagliato dalla critica che una parte con-
sistente del primigenio lessico figurativo cristiano dichiari la propria paren-
tela formale con il coevo repertorio iconografico romano-imperiale (sia po-
litico sia religioso). Questo elemento, come già ricordato, è stato più volte
rilanciato in sede critica per affermare la matrice religiosamente incerta,
quando non apertamente para-idolatrica o ancora “pagana” della primigenia
tradizione visuale cristiana.
Per la verità, la ricerca che si è dedicata elettivamente all’estremo ideal-
mente più radicale di questa presunta incertezza religiosa dell’“arte paleo-
cristiana” – la “giustapposizione sincretistica” di soggetti cristiani e di mo-
tivi pagani – è pervenuta a risultati del tutto speculari:
Prendendo il dossier documentario nel suo insieme, sembra plausibile che solo
una minoranza di cristiani – forse, ma non necessariamente, una nutrita minoran-
za – fosse favorevolmente disposta «all’uso di immagini pagane, quasi esclusiva-
mente nell’ambito pubblico e domestico». D’altra parte, qualcosa sulla natura e
sull’origine di questa esitazione iconografica cristiana si può dedurre dalla rigida
separazione […] tra le due fonti dell’immaginario ‹iconografico›. Questa riluttanza
indica una competizione tra i discorsi visivi ‹cristiano e gentile› che, nel IV secolo
e all’inizio del V, era ancora irrisolta 1.
38 (2017) 18-54, qui 40. L’autore è per altro chiarissimo, sin dalle premesse metodologiche
della sua ricerca (ivi, 21-23), nella definizione concettuale del «sincretismo visuale», distin-
guendo tra il paradigma della neutralità (figure del mito come “simboli” valoriali e non co-
me illustrazioni di racconti religiosi), quello della «reinterpretatio christiana» (sui limiti del-
la categoria della «interpretatio christiana », da cui Couzin trae quella di «reinterpretatio»,
cfr. D. Kinney, Interpretatio Christiana, in P.B. Harvey jr. - C. Conybare [eds.], Maxima
Debetur Magistro Reverentia: Essays on Rome and the Roman Tradition in Honor of Russell
T. Scott, New Press, Como 2009 [Biblioteca di Athenaeum 54], 117-125) e quello dei siste-
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474 Appendice
Resta d’altra parte intatto il nucleo del problema posto, se non dall’ipo-
tesi di un sincretismo visuale tout court, almeno dalla constatazione delle
diverse prossimità iconografiche tra il lessico cristiano e quello, coevo, del
mito: per quali ragioni fu percorsa la strada – certo malagevole – di una
“contaminazione formale” con la tradizione visuale profana, caratteristica
così trionfalmente esibita da quel mondo romano-imperiale che con i miti
viveva, governava e si esprimeva? 2
1. APPROPRIAZIONE E RI-SEMANTIZZAZIONE
Volendo in questa sede considerare i casi di ricupero formale di modelli
iconografici gentili, impiegati in ambito cristiano per la definizione di sog-
getti proto- o neotestamentari, rispetto ai tre paradigmi proposti da Robert
Couzin, reputo utile soffermarsi solo sui primi due: l’impiego neutrale del
lessico iconico del mito e la «reinterpretatio christiana»3.
mi sincretistici veri e propri (intesi come «accumuli di credenze» eterogenee). A risultati del
tutto collimanti era pervenuta già J. Huskinson, Some Pagan Mythological Figures and Their
Significance in Early Christian Art, in Papers of the British School at Rome 42 (1974) 68-97,
qui 82-85, sottolineando per altro come anche la presenza di queste scene «deve avere rice-
vuto un’approvazione ufficiale […]: non poterono essere state semplicemente introdotte per
via dell’isolato capriccio di certi individui (siano pure stati pagani o cristiani) né attraverso
l’autonoma iniziativa o per via di fraintendimenti di alcuni artigiani né, per la stessa ragio-
ne, possono essere considerati come opere “di arte popolare”, come vorrebbe Klauser» (ivi,
85). A conclusioni diverse – che però presuppongono un’idea di “sincretismo” più neutra-
le, su basi culturali (come mescolanza di principi, ideali, prassi figurative ecc.) anziché re-
ligiose – sembra pervenire Y. Suzawa, The Genesis of Early Christian Art. Syncretic Juxtapo-
sition in the Roman World, BAR, Oxford 2008 (BAR International Series 1892), 150-151.
2 Rinvio qui, ovviamente, alle ricerche di Zanker - Ewald, Vivere con i miti; Zanker, Au-
mostrato che, anche in relazione ai casi – non molti per la verità – di accostamento di im-
magini gentili e cristiane, la categoria di “sincretismo” non è adeguata per descrivere que-
sti monumenti.
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 475
Per la diversa proposta qui avanzata (prima metà del II secolo), vedi supra, pp. 201-237.
4
Come afferma E. Russo, Dal punto di vista formale esiste un’arte cristiana?, in D. Gua-
5
stini (cur.), Genealogia dell’ immagine cristiana. Studi sul cristianesimo antico e le sue raffigu-
razioni, La casa di Usher, Firenze - Lucca 2014 (I libri di Omar 6), 99-107, qui 99, infatti:
«Dal punto di vista formale […] non esiste un’arte cristiana, esiste un’arte di contenuto cri-
stiano, nei primi secoli cristiani».
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476 Appendice
siasi altra arte religiosa del suo tempo o ambiente, deve essere riconosciuto nella sua
creatività. Perché è subito evidente che non c’è modo in cui l’arte cristiana possa
essere considerata originale 6.
6 Murrey, Rebirth and Afterlife, 5. La studiosa inglese recuperava qui la struttura fonda-
menteale del pensiero di Grabar, Christian Iconography, XLVIII: «È importante tenere pre-
sente che la creatività in questo settore consiste nell’appropriarsi di figurazioni esistenti, spo-
stando il significato di formule ripetute, riprendendo formule iconografiche note o
componendone altre simili, per analogia ».
7 Così già, nel confronto con la “visualità”, romana proponeva Jaś Elsner: vedi supra,
pp. 263-271.
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 477
cina alla nostra idea di artigiano che ai moderni ideali di indipendenza e originalità […].
L’artigiano/artista greco e romano doveva combinare una padronanza intellettuale dei prin-
cipi con cognizioni pratiche di abilità e di grazia […]. Ciò che è sorprendentemente assen-
te nella visione greca dell’artigiano/artista è la nostra moderna enfasi sull’immaginazione,
l’originalità e l’autonomia »: L.E. Shiner, The Invention of Art: A Cultural History, Universi-
ty of Chicago Press, Chicago (IL) 2001, 22-23.
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478 Appendice
Come è stato fatto notare, quelle di artisti e di pittori rientrano nella mi-
nima parte di professioni che la Tradizione apostolica non esclude immedia-
D.E.E. Kleiner, Roman Sculpture, Yale University Press, New Haven (CT) 1992, 4.
10
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 479
tamente: «‹Questi› tre […] casi differiscono dagli altri in quanto il conver-
tito non deve rinunciare (istantaneamente) alla sua occupazione, ma è
semplicemente sottoposto a condizioni speciali»12. Le spiegazioni di questa
eccezione possono essere due, non necessariamente alternative, entrambe
utili per la nostra analisi:
1. diversamente da altre professioni (quelle in qualsiasi modo com-
promesse con gli spettacoli, gladiatorii o teatrali; quelle che favori-
vano o praticavano la prostituzione; gli alti gradi militari, le magi-
strature e, in genere, le cariche togate di porpora), quella artigianale
non era percepita come un’attività di per sé compromettente: era una
semplice «technē », un mestiere, come il testo stesso induttivamente
permette di affermare (si consideri che ai maestri [«coloro che inse-
gnano ai fanciulli»] viene concesso di proseguire nel loro impegno «se
non dispongono di un’arte [si non habet artem {technē}»);
2. al principio del III secolo – epoca alla quale può essere assegnato il
catalogo di professioni del capitolo 16 della Tradizione apostolica 13 –,
i cristiani stanno accogliendo nella Chiesa (di Roma?) artigiani pe-
riti – scultori e pittori –, certamente per aggregare quanti profes-
sano “Gesù Cristo Signore”, ma forse anche senza disdegnare di
dotarsi di “mano d’opera artistica” loro propria.
Resta in ogni caso documentata la prossimità tra comunità cristiane e
questa specifica categoria professionale, vicinanza che può ben essere moti-
vata con una fruizione di queste botteghe da parte di committenti cristiani.
12 Lampe, From Paul to Valentinus, 133-134. I tre casi sono quelli del soldato subordi-
nato (cfr. ivi, 134-135), del pedagogo (o il grammatikos? entrambi?: cfr. ivi, 135-136) e del-
lo scultore / pittore (cfr. ivi, 136-137). Quest’ultima categoria è forse la più difficile da si-
tuare sociologicamente (cfr. Galeno, Protrettico 14,38-39 [volendo adottare questa
intitolazione per l’opera galenica: cfr. A. Barigazzi, Sul titolo del Protrettico di Galeno, in Ri-
vista di Storia dell’Educazione 2 {1979} 157-163]; cfr. Plinio, Storia naturale 35,77, di con-
tro a Giovenale, Satire 9,146; cfr. anche Petronio, Satiricon 2,9; 88,10,1). Sul (gran) nume-
ro di artigiani cristiani, cfr. Tertulliano, L’ idolatria 3 - 7, che si scaglia contro l’ammissione
nella Chiesa di quanti fabbricano idoli – attività, come visto, bandita anche da Tradizione
apostolica 16 – e che addirittura lamenta che «gli artefici di idoli (artifices idolorum) ven-
g‹a›no eletti alla gerarchia ecclesiastica (in ordinem ecclesiasticum)»: ivi, 7,3.
13 Così, persuasivamente, propongono P.F. Bradshow - M.E. Johnson - L.E. Phillips
(eds.), The Apostolic Tradition, Fortress Press, Minneapolis (MN) 2002 (Hermeneia), 93.
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480 Appendice
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Si può dunque affermare che se, per un verso, appare ragionevole mo-
tivare prioritariamente la prossimità formale tra il primo immaginario cri-
stiano e quello coevo della koinè imperiale con la necessità di ricorrere ad
artigiani concretamente in grado di realizzare le commesse cristiane, d’altra
parte questo dato di fatto, che presuppone un ruolo puramente esecutivo
– non ideativo – per gli artefici di questa prima produzione visuale, impli-
ca che il contenuto ideale di questi monumenti debba essere ricondotto
principalmente, se non esclusivamente, alle istruzioni della committenza
cristiana.
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 481
Si tratta della stessa prassi che sovrintese alla nascita del primo lessico
visuale cristiano. Giova ribadire che le osservazioni proposte da Tonio Höls-
cher per l’arte romana impongono di ri-valutare criticamente il significato
di questa “genesi per mutuazione” del primo lessico visuale cristiano: è an-
cora legittimo guardare a questa prima stagione dell’immagine cristiana,
interpretandone l’adozione in termini di assimilazione di prassi ed elementi
religiosamente e culturalmente eterogenei o non si dovrà piuttosto ricono-
scervi semplicemente l’impiego del medium visuale caratteristico dei tempi,
senza alcuna implicazione di per se stessa religiosa?
14 Cfr. Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, 14. Su questa linea di revisione critica
credo debba essere situata anche la chiave di lettura proposta da A. Marcone, Alla ricerca di
un’ identità. Tradizioni classiche nella prima iconografia cristiana, in S. Birk - T.M. Kristen-
sen - B. Poulsen (eds.), Using Images in Late Antiquity, Oxbow Books, Oxford - Philadel-
phia (PA) 2014, 253-267, qui 265, che, nel tentativo di motivare la persistenza di temi pro-
venienti dalla gentilità nel lessico figurativo cristiano, ha scritto: «In questo io vedo la
persistenza di quello che più che “paganesimo” chiamerei tradizionalismo culturale e la for-
za del suo tessuto connettivo anche in ambiente cristiano. Si deve accettare l’idea che ad al-
cuni aristocratici premeva che il cristianesimo apparisse il più “classico” possibile».
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482 Appendice
15 Cfr. Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, 18. Lo studioso sviluppa questa osserva-
zione in merito alla scelta dello stile, ma reputo che la sua constatazione debba ritenersi va-
lida anche per la condivisione dei modelli figurativi e iconografici.
16 P. Zanker, Il mondo delle immagini e la comunicazione, in Id., Un’arte per l’ impero,
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 483
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17 «Tutto ciò che è stato espresso correttamente da ognuno di essi [il riferimento è ai filo-
sofi], appartiene a noi cristiani»: così afferma Giustino nella sua Appendice all’Apologia indi-
rizzata al Senato (o II Apologia; § 13,4). Su questo processo di acquisizione, già richiamato su-
pra, pp. 238-244, con particolare riferimento agli apologisti, cfr. J. Daniélou, Le message
chrétien et la pensée grecque au IIe siècle, Institut Catholique de Paris, Paris s.d.; Id., Messaggio
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484 Appendice
l’identico rifiuto della chiusura che aveva segnato la vicenda di gran parte
delle comunità della Diaspora.
L’adozione del linguaggio figurativo romano-imperiale da parte delle
prime comunità cristiane deve dunque essere situato al di fuori del conte-
sto religioso: se l’immagine era una lingua del tempo in cui queste Chiese
vissero, anzi se all’immagine veniva affidato il compito di comunicare e
plasmare l’ideale del vivere individuale e della storia collettiva, allora pre-
disporre un lessico figurativo proprio, ma comprensibile anche ai fruitori
dell’arte romana, attraverso il quale “pubblicare” il proprio ideale della vi-
ta e della storia, non può essere descritto come un cedimento, ma semmai
come la riconferma dell’identità nella quale si riconoscevano quei gruppi
cristiani.
In questo “spazio visuale”, già attorno alla metà del II secolo, i cristiani
iniziarono a far propri alcuni simboli e temi dell’iconografia romano-im-
periale, stabilirono poi soggetti ex novo – ora assumendo schemi che si era-
no già consolidati nella tradizione “profana”, ora ideandone di nuovi e ca-
ratteristici –, codificarono tramite questo patrimonio iconografico un
proprio lessico figurativo e con esso sperimentarono soluzioni visibilmente
originali, potenziando le possibilità espressive di ciascun tema figurativo e
iniziando a organizzare progetti iconografici sempre più articolati, inno-
vando pur senza violare quel principio di prossimità alle tradizioni visuali
loro coeve.
Questa prospettiva sulla nascita della prima “arte cristiana” impone di
riconsiderare questo fenomeno, sottolineandone finalmente la strutturale
sinergia all’agenda di quella stagione della storia delle origini cristiane e di
ravvisare in questa primigenia cultura visuale non la prova dell’immaturità
religiosa di ampie porzioni delle comunità cristiane delle origini, ma l’esito
di un meditato intento strategico, un segno di maturazione di quei movi-
evangelico, 13-23; A.J. Malherbe, Apologetic and Philosophy in the Second Century, in Id., Light
from the Gentiles: Hellenistic Philosophy and Early Christianity. Collected Essays, 1959-2012 by
Abraham J. Malherbe, 1, Brill, Leiden - Boston (MA) 2014 (Supplements to Novum Testa-
mentum 150), 781-796 (ed. or. Restoration Quarterly 7 [1963]). Più di recente, su Giustino, cfr.
A.J. Droge, Justin Martyr and the Restoration of Philosophy, in Church History 56 (1987) 303-
319; R.M. Thorsteinsson, By Philosophy Alone: Reassessing Justin’s Christianity and His Turn
from Platonism, in Early Christianity 3 (2012) 492-517.
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 485
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486 Appendice
Figura 126: alcuni casi di mutuazione di iconografica dal lessico figurativo del
mondo antico. La tripartizione impiegata (simboli; temi e scene; strutture ico-
nografiche) è presa Dresken-Weiland, Immagine e parola. Ognuno dei debiti
contratti dal primo immaginario cristiano con quello coevo del mito è stato
accompagnato, com’è ovvio, da una profonda risemantizzazione del soggetto
acquisito. Talora la riconfigurazione semantica è stata accompagnata dall’in-
clusione di marcatori figurativi (per esempio la colomba nella scena di Noè, il
pergolato di zucche per Giona ecc.).
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 487
Figura 127: Orfeo crocifisso sotto sette stelle. “Amuleto dell’Orfeo crocifis-
so” (già nella collezione dei Musei di Berlino, proveniente dalla collezione di
E. Gerhard, andato perduto dopo la II guerra mondiale) Testimonium 150
degli Orphicorum fragmenta di O. Kern (Berlino 1922). Viene generalmente
datato entro la fine del III secolo. L’iscrizione recita: «Orfeo bacchico». L’im-
magine è tratta da A. Mastrocinque, Orpheos Bakchikos, in Zeitschrift für
Papyrologie und Epigraphik 97 (1993) 16-24, qui 16. Non è ovviamente que-
sta la sede per affrontare nel dettaglio la questione della matrice e del valore
– religioso o magico – di questo minuto oggetto graffito, vale però la pena
di sottolinearne la datazione assai precoce e, soprattutto, il meccanismo, pu-
ramente simbolico, che ha guidato la mutuazione: «Una delle molte caratte-
ristiche interessanti di questo amuleto è il fatto che contiene una delle prime
rappresentazioni della crocifissione, se non la prima, su una pietra preziosa.
R. Zahn sostiene che, secondo lo stile dell’iscrizione, questa gemma non può
essere datata oltre il III secolo e.v.». E ancora: «La gemma di Orfeo non vuo-
le essere una crocifissione storica o realistica, né di Cristo né di “Orfeo-Bac-
co”; la sua importanza risiede piuttosto nel regno della magia sincretistica »
(J.B. Friedman, The Figure of Orpheus in Antiquity and in the Middle Ages,
Ph.D. Diss., East Lansing [MI] a.a. 1965-1966, 146; 159). Ciò posto, va co-
munque sottolineato che questa figura anticipa di circa due secoli la cassetta
eburnea del British Museum e il portale ligneo di Santa Sabina a Roma, ge-
neralmente considerate le prime rappresentazioni cristiane della crocifissione,
mentre potrebbe essere contemporaneo al celebre graffito di Alessameno.
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488 Appendice
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 489
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490 Appendice
Figura 129: una coppia di coniugi accanto a un bambino che indossa la bulla; due
colombe. Rilievo funerario. Musei Vaticani, Museo Chiaramonti, Città del Vati-
cano (cfr. P. Zanker, Il mondo delle immagini e la comunicazione, in Id., Un’arte per
l’impero, 9-37, qui 27). Inizi II secolo. Foto dell’autore. Il bassorilievo raffigura un
gruppo familiare disposto attorno al ritratto del giovane figlio, defunto ancora
fanciullo – come dichiarano le fattezze di questo ritratto e il fatto che ancora in-
dossi la bulla (una specie di collana d’oro che i figli del patriziato indossavano sino
al compimento del quattordicesimo anno d’età) –: le colombe che si vedono so-
spese sullo sfondo dei tre ritratti adempiono qui alla duplice funzione descritta nel
testo: illustrare la nuova condizione dell’esistere del ragazzo e preconizzarne una
dimensione gioiosa. L’interazione – e l’iterazione – tra queste due cifre simboliche
della colomba – insieme ai gesti che i genitori compiono – permettono di precisa-
re il significato complessivo della scena. Il padre tiene, infatti, la mano sulla spal-
la del fanciullo (il termine latino manus indicava giuridicamente il potere del capo
famiglia «su sua moglie e sulla sua prole»: cfr. A. Berger, s.v. «Manus », in Id.,
Encyclopedic Dictionary of Roman Law, American Philosophical Society, Philadel-
phia [PA] 1953 [Transactions of the American Philosophical Society 43,2], 577),
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 491
Il vescovo milanese rinnova qui il debito con la figura poetica del «remigium alarum»
22
di Virgilio, Eneide 1,33; 6,18, al quale non di rado attiinse nella sua opera: cfr. Esamerone
1,7,25; 5,14,45; 5,16,55; 5,23,79; Esposizione del Salmo 118 14,38; La verginità 17,107;
18,116; In morte del fratello Saturo 2,128 (qui esplicitamente viene menzionato il parallelo
poetico tra anima e il volo degli uccelli); Lettere 4,11,17.
23 Vedi supra, pp. 216-217.
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492 Appendice
24 Anche nelle Scritture la colomba è spesso chiamata a raffigurare l’anima (cfr., per
esempio, Sal 68[67],14; Is 38,14; Ger 48,28; Os 7,11; cfr. anche Tertulliano, Il battesimo 8),
la persona (cfr. Mt 10,16) e, come già ricordato, l’amato.
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 493
a. Elementi di continuità
Nella cultura artistica del mondo antico la figura del pastore crioforo è
senza dubbio tra le più precoci e tra le più longeve: il caso della piccola sta-
tuetta bronzea nuragica, conservata presso l’Ashmolean Museum di Oxford,
datata all’VIII secolo a.e.v., o quello del bronzo cretese del VII secolo a.e.v.,
conservato presso l’Antikenmuseum di Berlino, illustrano efficacemente la
fissità dello schema compositivo di questo soggetto.
È opinione ragionevole che la genesi di questa figura possa però essere
rintracciata in opere anche molto più antiche, risalenti sino al X secolo a.e.v. 27.
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494 Appendice
Figura 131: il pastore crioforo. Statuetta bronzea proveniente da Creta, ora pres-
so l’Altes Museum di Berlino. VII secolo a.e.v. La china è tratta da S. Reinach,
Répertoire de la statuaire grecque et romaine, 2,2, Leroux, Paris 1909, 551,4. Pasto-
re crioforo (Aristea?), particolare da sarcofago strigilato con “buon pastore” e te-
ste di leone di provenienza ignota, già presso la collezione Borghese, ora presso il
Musée du Louvre. III secolo. La china è tratta da M. Clarac, Musée de sculpture
antique et moderne. Planches, Imprimerie Royale, Paris 1828-1830, 551,4. Buon
Pastore proveniente dal monastero di Stoudios, ora presso l’Arkeoloji Müzeleri di
Istanbul. V secolo. La china è tratta da J. Laurent, Statuette du Bon Pasteur au
musée de Tchinily-kiosk, in Bulletin de correspondance hellénique 23 (1899) 583-587,
qui 584, fig. 1.
In ambito cristiano, «il tipo più comune è quello classico del pastore
crioforo, ora giovane imberbe, ora barbato, vestito dell’esigua tunica da la-
voro a cui spesso si aggiungono l’alicula e le fasciae crurales ai piedi, con
l’ovino sulle spalle»28: si tratta, in altri termini, di un’acquisizione del mo-
dello classico, del tutto priva di qualsivoglia connotazione formalmente ca-
ratteristica.
Sono almeno tre le ragioni che definiscono la peculiarità dell’acquisizio-
ne di questo tema in ambito cristiano:
28 F. Bisconti, s.v. «Buon Pastore », in Id. [cur.], Temi, 138-139, qui 138.
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 495
29 M.A. Veyries, Les figures criophores dans l’art grec, l’art gréco-romain et l’art chrétien,
Thorin, Paris 1884 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome 39), 1.
30 Cfr. R. Grousset, Le Bon Pasteur et les scènes pastorales dans la sculpture funéraire des
chrétienne des IIIe-IVe siècles, Ph.D. Diss., Nantes a.a. 2007-2008, 71.
32 Caillaud, La figure du “Bon Pasteur”, 97.
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496 Appendice
b. Caratterizzazioni cristiane
L’interpretazione cristologica del soggetto iconografico del Buon Pastore,
ormai generalmente accolta tra gli studiosi, trova importante conferma in
alcuni caratteri tipici del suo impiego in ambito cristiano.
Si pensi, in primo luogo, alla frequente sovrapposizione con il tema del
riposo di Giona. Come visto, la vicenda del profeta inviato a Ninive fornì la
“materia visuale” e tipologica per le più antiche raffigurazioni del ciclo pa-
squale, nucleo sostanziale del kerygma cristiano: Gesù di Nazareth può es-
sere infatti proclamato Cristo – questo è il più antico kerygma cristiano:
«Chi è il bugiardo se non chi nega che Gesù è il Cristo?» (1Gv 2,22) – poi-
ché offrì la propria vita elevando un sacrificio perfetto la cui efficacia è sta-
33 B. Ramsey, A Note on the Disappearance of the Good Shepherd from Early Christian
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 497
Figura 132: personificazione del mare (qui non visibile); l’imbarcazione di-
retta a Tarsis; il riposo di Giona sotto il pergolato; ritratto della defunta (in-
compiuto) di fronte al maestro (incompiuto); il Buon Pastore; il battesimo di
Gesù; due pescatori riparano le reti. Sarcofago a vasca con fregio continuo “di
Santa Maria Antiqua”, Santa Maria Antiqua al Foro Romano, Roma (Wp. 29,
tt. 1,2; 3,1; Rep. 1, 747). Secondo terzo del III secolo. L’immagine è tratta da
Wp. 29, t. 1,2. Il progetto di questo sarcofago, scoperto solo nel 1901, ospita
una singolare raffigurazione della scena del “riposo di Giona”: è dibattuto se
l’imbarcazione che vi si trova accanto debba essere considerata parte del ciclo
iconografico dedicato alla storia del profeta recalcitrante o meno – non è chia-
ro, cioè, se essa debba essere intesa come la nave da cui Giona è stato gettato
in mare o più genericamente come un simbolo della Chiesa. Di fatto, la vi-
cenda di Giona è sinteticamente richiamata dalla scena di riposo che si sta
esaminando, nella quale trova posto anche la figura della pistrice che lambi-
sce le gambe del profeta. Perdute, ma ancora riconoscibili per via dei bloc-
chetti di raccordo al fondo, le sei (otto?) zucche che dovevano pendere dal
pergolato. L’elemento che qui pare di maggior valore, però, è la singolare rie-
laborazione di questo pergolato che, nella parte superiore, si trasforma, ospi-
tando un autentico paradiso dove tre pecore pascolano o quietamente ripo-
sano.
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498 Appendice
Figura 134: la defunta in posa di orante; un pastore mentre vigila; il riposo di Gio-
na; un pastore nutre il suo cane; il Buon Pastore. Fronte di sarcofago, Bode-Mu-
seum, Berlino (Wp. 29, t. 54,3; Rep. 2, 241), ultimo terzo del III secolo. L’imma-
gine è tratta da Wp. 29, t. 54,3. Identica associazione ermeneutica si trova
raffigurata sul fronte di sacrofago del Bode-Museum. Si tratta di un esemplare
forse di minor pregio stilistico, ma di non minore raffinatezza ermeneutica. Entro
una più vasta raffigurazione bucolica (dove si contano tre pastori – uno stante, ap-
poggiato al suo pastorale, uno più anziano, seduto, che accarezza e forse nutre il suo
cane e un crioforo –, variamente disposti in uno spazio idilliaco, reso tramite una
vegetazione rigogliosa e varia, raffigurata con arbusti di foggia difforme, nella qua-
le pascola una numerosa mandria di armenti [si presti attenzione al fatto che non si
osserva qui un gregge “puro”, composto di sole pecore, ma un’autentica mandria
composita, nella quale sta anche un toro, esattamente come dichiara l’epigrafe di
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 499
Teodoro nel ciclo di Giona aquileiese: cfr. Pelizzari, Il Pastore ad Aquileia, 118-120]),
si vede la figura di Giona mentre riposa sotto un pergolato di zucche. Come si può
osservare, l’espediente già notato nel fregio del sarcofago di Santa Maria Antiqua è
qui richiamato dalla pecora che sta saltando al di sopra del pergolato e dalla sagoma,
purtroppo gravemente compromessa, delle altre tre pecore che riposano, accovac-
ciate, sopra la cucurbita di Giona, trascrizione iconografica della “corona” escatolo-
gica del Cristo.
Figura 135: una pecora salta sul pergolato di Giona e tre pecore accovacciate
vi riposano. Dettaglio dal sarcofago del Bode-Museum, Berlino (Wp. 29, t.
54,3; Rep. 2, 241), ultimo terzo del III secolo. L’immagine è tratta da una foto
dell’autore. Come si può osservare i “tre oggetti” raffigurati al di sopra del per-
golato di Giona sono compatibili con il corpo di altrettante pecore: della terza
in particolare (quella accovacciata in corrispondenza della testa del profeta) si
può riconoscere il profilo della zampa anteriore sinistra e probabilmente anche
delle due anteriori, una, la destra ripiegata, l’altra, la sinistra, distesa. Anche in
questo caso, dunque, il pergolato del riposo del profeta, tipologia della glorifi-
cazione regale del Cristo, diventa il “fondamento” della speranza di salvezza del
suo gregge, il paradiso di delizie in cui esso intende dimorare.
Figura 136: l’imbarcazione diretta a Tarsis (fianco sinistro); Giona - Buon Pa-
store riposa sotto il pergolato di Giona in un paradiso in cui pascola il gregge
(fianco destro). Fianchi di un sarcofago proveniente da Roma, ora presso il
Museo Nazionale di San Matteo di Pisa (Wp. 29, tt. 88,1,3.6-7; Rep. 2, 90).
Metà del III secolo. L’immagine è tratta da Wp. 29, tt. 88,6-7. Il sarcofago stri-
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500 Appendice
gilato conservato al Museo Nazionale e Civico di San Matteo presenta sul fron-
te tre raffigurazioni bucoliche: due pastori appoggiati al propro vincastro sui
lati – uno attempato e uno giovane – e, al centro, una sontuosa rappresentazio-
ne del pastore crioforo. Ciò che qui appare rilevante è però l’impianto icono-
grafico dei due fianchi: su uno, quello destro, si vede la raffigurazione di un’im-
barcazione sulla quale un marinaio, vestito in abiti pastorali, sta in posa orante;
sull’altro fianco, lo stesso personaggio ritorna, questa volta nella celebre postu-
ra del riposo, sotto il pergolato di zucche, al centro di un autentico paradiso.
Figura 138: il Buon Pastore custodisce le pecore in un ovile (di foggia templare? ba-
silicale?); il Buon Pastore. Dettagli dal c.d. “sarcofago di Giona” ([Lateranense 119],
Musei Vaticani, Pio Cristiano, Città del Vaticano [Wp. 29, t. 9,3; Rep. 1, 35], fine III
secolo) e del sarcofago d’infante ora presso la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen
([Wp. 29, t. 59,3; Rep. 2, 7], fine del III secolo). Le immagini sono tratte rispettiva-
mente da Pelizzari, Dal battesimo al regno, 64, figura 16; 46, figura 10. Come visto
supra, pp. 424-428, questi due sarcofagi si correlano reciprocamente in una sorta di
“tradizione iconografica” dando vita a un rapporto di interdipendenza molto forte.
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 501
Qui basti osservare come entrambi correlino l’immagine del riposo di Giona alla fi-
gura del pastore (buono: a guardia dell’ovile, nel caso del sarcofago romano; crioforo
– con anche la figura dell’ovile –, nel caso del sarcofago danese). Giova conclusiva-
mente osservare come, pur trattandosi qui di due sarcofagi che presentano progetti
iconografici sovrapponibili, le soluzioni figurative adottate dai due monumenti siano
difformi. L’osservazione pare rilevante perché impedisce di ricondurre la comune
presenza dell’abbinamento Giona-Buon Pastore alla dipendenza dallo stesso modello
artistico (l’equivalente di ciò che in pittura viene definito “cartone”): quella che si
osserva qui non è la replica di un modello grafico ma l’adesione alla stessa ermeneu-
tica, la comune professione dello stesso assioma teologico.
I casi osservati sin qui permettono di ribadire, anche sul piano della ge-
stione formale di queste figure, che l’adozione cristiana di simboli già affer-
mati nella cultura artistica e letteraria di età imperiale è avvenuta in moda-
lità del tutto peculiari, non tanto per via di una differenziazione formale (è
impossibile distinguere un Buon Pastore cristiano da un “pastore crioforo”
pagano) ma attraverso un uso caratteristico della materia visuale: un uso che
rispondeva ai costumi e alle esigenze proprie dell’ermeneutica biblica.
Un ultimo aspetto che, attraverso l’osservazione del caso del Buon Pastore,
è possibile documentare riguarda la versatilità con cui alcuni temi vennero ec-
cezionalmente rielaborati. In alcuni casi, infatti, soggetti già stabilmente codi-
ficati nel lessico visuale cristiano vennero parzialmente rettificati per puntua-
lizzare il significato con cui il tema iconografico veniva recepito nello specifico
documento visuale.
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502 Appendice
Aquileia a Venezia, una mediazione tra l’Europa e l’Oriente dal secolo II a.C. al VI
d.C., Credito Italiano, Milano 1980 [Antica Madre 3], 99-338, qui 204). Come
mostra la patente di “irrazionalità” attribuita da Luisa Bertacchi, si tratta di un det-
taglio abitualmente ricondotto a un un marcato errore prospettico, sintomo dell’i-
nadeguatezza dell’artista musivaro che fu chiamato a realizzare questo mosaico (così,
per esempio, già G. Brusin - P.L. Zovatto, Monumenti Paleocristiani di Aquileia e
Grado, Deputazione di storia patria per il Friuli, Udine 1957, 90). Abbandonando
questa soluzione a mio avviso elusiva, è possibile trasferire su un piano di significa-
to questo dettaglio formale, ricavandone in tal modo un’ipotesi ermeneutica più
uniforme dell’intero manto musivo. Se, infatti, come proposto da R. Iacumin, Le
porte della salvezza. Gnosticismo alessandrino e Grande Chiesa nei mosaici delle prime
comunità cristiane. Guida ai mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari, Udine 2000,
153, si assume come chiave ermeneutica la parabola della pecora smarrita (Mt 18,12-
14 || Lc 15,3-7; Vangelo di Tommaso 107), è possibile concludere che «il mosaico
fissi e trascriva due punti di questo racconto: ovviamente il primo è quello del Buon
Pastore che, trovata la centesima pecorella, “se la mette sulle spalle contento” (Lc
15,5); mentre il secondo – più pregnante – è il ritorno a casa. Cristo, recuperata
l’ultima pecora del suo gregge, sta, infatti, facendo ritorno a casa» (Pelizzari, Il Pa-
store ad Aquileia, 309; cfr. Lc 15,7 [Mt 18,14]).
Figura 140: il Buon Pastore nel paradiso. Dettaglio del mosaico del c.d. “Mausoleo
di Galla Placidia”, Ravenna. Secondo quarto del V secolo. L’immagine è tratta da
Wp. 16,3, t. 48. Un secondo esempio che può facilmente illustrare la caratteristica
capacità di adattamento che connotò la più antica arte cristiana si ritrova nel celebre
mosaico del Buon Pastore di Ravenna: qui, come si vede, il lessico bucolico in cui
è immersa la raffigurazione – chiaramente ispirato a un’idealizzata visione paradi-
siaca e non a un realistico quadro agreste – diviene la quinta scenica di un’epifania
regale del Cristo, nella quale abiti d’oro clavati e ammantati di porpora hanno so-
stituito la modesta paenula del pastore e dove la sontuosa croce astile, pure d’oro,
ha preso il posto del povero vincastro di legno. La sostituzione iconografica si può
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Immaginario gentile e immaginario cristiano 503
capire solo ricordando che questo mosaico viene steso quando ormai si è conclama-
ta la crisi dell’iconografia tradizionale del Buon Pastore: travolto dalla magniloquen-
za dell’“impero cristiano”, questo antico tema iconografico viene abbandonato per
far posto al Cristo-imperatore, mimesis ideologicamente rivendicata dagli impera-
tori – di Roma e di Bisanzio – quale pietra angolare di un nuovo potere, teorizzato
sapientemente da Eusebio di Cesarea: «Il Regno di Cristo, in virtù della potenza
dell’eikōn cristologica che plasma l’impero cristiano, è disceso nella Reggia di Co-
stantino» (R. Cacitti, “L’immagine del Regno di Cristo” , 194).
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* Questa Bibliografia non recepisce ogni titolo citato nel corso del volume né pretende
di essere esaustiva. Essa elenca piuttosto quei titoli, più o meno recenti, più o meno ampi,
sui quali si è fondato – o attraverso i quali si può più facilmente comprendere – l’«approc-
cio ermeneutico» che in questa ricerca si è descritto.
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506 Bibliografia
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514 Bibliografia
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Bibliografia 515
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INDICI
I rinvii si intendono alle pagine del volume. Eventuali numeri o segni dopo
la virgola si riferiscono alle note.
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INDICE SCRITTURISTICO
PRIMO TESTAMENTO
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520 Indici
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Indice scritturistico 521
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522 Indici
NUOVO TESTAMENTO
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Indice scritturistico 523
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524 Indici
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Indice scritturistico 525
1 Corinzi Ebrei
1,12: 240. 6,13-18: 220.
2,2: 378. 6,19-20: 220.
5,6: 321; 423; 437. 6,19: 221.
5,7: 352. 9,1-5a: 48,72.
10,6: 151. 11: 234,78.
10,11: 150; 151,12. 11,21: 47,69.
11,23-26: 232. 11,38: 402,76.
11,26-29: 360.
11,26: 348; 423. 1 Pietro
13,12: 327. 1,19: 352; 423.
14,27: 240,3. 2,20-21: 131.
3,15: 398.
Galati 3,18-21: 407.
2,8: 240. 3,20: 153,19.
3,6-14: 452. 3,21: 152.
3,13: 351.
3,28: 294; 297; 393. 2 Pietro
3,8: 332.
Efesini
6,5: 104,23. 1 Giovanni
6,10-17: 171,37. 2,22: 496.
Filippesi Apocalisse
2,6-11: 206. 6,9-10: 261.
2,10-11: 368,45. 7,14: 321.
9,10: 423.
1 Tessalonicesi 12 - 13: 248,25.
4,13-18: 243,13. 12: 348.
12,9: 347-348.
Tito 20,4-6: 338.
2,9: 104,23. 21,1: 406.
Filemone
10-19: 104,23.
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INDICE DELLE FONTI ANTICHE*
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Indice delle fonti antiche 527
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Indice delle fonti antiche 531
Protrettico Apologia II
14,38-39: 479,12. 13,4: 484,17.
Gregorio di Nissa
Giovanni Damasceno
La divinità del Figlio e dello Spi-
Discorsi apologetici (Orazioni sul-
rito: 47,69.
le immagini): 31,25.
Commento al Cantico: 47,69.
Discorso apologetico I (Orazione I
sulle immagini): 36,41. Gregorio Magno
Dialoghi
Giovenale 4,55: 135.
Satire Lettere
9,146: 479,12. 9,209,12: 183,5.
11,10,22.44: 183,5.
Girolamo di Gerusalemme Lettera a Sereno di Marsiglia:
Frammento: 47,69. 47,69.
Giustino Intagli**
Apologia I “Amuleto dell’Orfeo crocifisso”:
32,12: 129. 487.
52,3-6: 368,45. Dalla collezione Vallarsi: 222.
67,3-4: 156,27. Del British Museum: 221.
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Indice delle fonti antiche 535
Pitture** Plinio
Di Wadi Sarga: 322-323. Storia Naturale
Icona della porta Chalke: 27-29; 35,77: 479,12.
27,22; 57.
Nestori, Com5 (“Cubicolo di Leo- Prudenzio
ne”): 422. Contro Simmaco
Nestori, Din3: 359. 1: 83,29.
Nestori, Dom77: 390,65.
Nestori, Mar5: 318. Pseudo-Agostino
Nestori, Pri10 (“Nicchione della Libro sulle divine Scritture: 76,11.
Virgo lactans”): 127; 129.
Wp. 03, tt. 14,1-2; Nestori, Pri39 Pseudo-Barnaba
(“Cappella greca”): 126-128; Lettera: 174,43.
341. 15,8: 117,9.
Wp. 03, tt. 24,1-2; 25; 26,1; 27,1;
28,1-2; 29,1; Nestori, Cal1-2 Pseudo-Basilio di Cesarea
(“Cubicolo doppio X-Y”): Lettera a Giuliano l’Apostata: 47,69.
227-232; 227,66; 228,69;
229,71; 248-249. Pseudo-Cipriano
Nestori,Cal3-4; 14; 21-23: 230,73; Orazioni: 417,6.
249.
Wp. 03, tt. 45,1; 59,2; 60; 61; Ne- Pseudo-Dionigi l’Areopagita
stori, Lau69: 130-131. La gerarchia ecclesiastica
Wp. 03, t. 66,2; Nestori, Cal4: 249. 3,7: 115,6.
Wp. 03, t. 116,1; Nestori, Dom61: 4.1: 115,2.
132-133. Circa i nomi divini
Wp. 03, t. 251; Nestori, Pre5 4,7: 115,6.
(“Arcosolio di Celerina”):
351-353. Pseudo-Ippolito
Sulla Pasqua
Placca di Pheradi Maius**: 133-134. 50: 392.
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Wp. 32, tt. 194,4.7; Rep. 1, 693: Wp. 32, tt. 243,4-6; Rep. 2, 250
363,37. (“Sarcofago di San Celso”):
Wp. 32, t. 195,4; Rep. 3, 41 446-451; 446,35.
(“Sarcofago della casta Su- Wp. 32, t. 255,7; Rep. 1, 893:
sanna”): 318; 346. 407-408.
Wp. 32, t. 196,1; Rep. 4, 56
(“Sarcofago di Susanna”): Sculture al tutto tondo**
340-341; 346. Ambone della “basilica della roton-
Wp. 32, t. 197,1; Rep. 3, 251: da” di Tessalonica: 136-138.
356-357. Statua del “buon pastore”: 494.
Wp. 32, t. 197,4; Rep. 1, 146 (La- Statua del pastore crioforo: 494.
teranense 136): 343-349; 356. Statua di figura femminile assisa:
Wp. 32, t. 202,3; Rep. 3, 492: 267-268; 267,21.
325-326; 325,12. Statua “di sant’Ippolito”: 264-
Wp. 32, t. 205,4; Rep. 2, 71: 266; 264,16; 266,19.
431,23.
Wp. 32, tt. 206,5-7; Rep. 1, 23 Severiano di Gabala
Discorso sul sigillo: 47,69.
(Lateranense 135): 363,37;
Omelia per la lavanda dei piedi:
457-459.
47,69.
Wp. 32, t. 208,10; Rep. 2, 248:
331-332.
Stefano di Bosra
Wp. 32, t. 209,2; Rep. 3, 162:
Frammento: 47,69.
430,22.
Wp. 32, t. 215,7; Rep. 1, 14 (La- Sulpicio Severo
teranense 180): 363,37; 380- Vita di Martino
382. 22,5: 444.
Wp. 32, t. 219,1; Rep. 1, 5 (Latera-
nense 121,1): 363,37; 364-365. Tarasio
Wp. 32, t. 222,7; Rep. 1, 735: Synodica: 48.
129-130.
Wp. 32, t. 228,7; Rep. 1, 60 (La- Teodoro il Lettore
teranense 179): 356. Storia ecclesiastica: 133.
Wp. 32, t. 235,7; Rep. 1, 21 (La-
teranense 186): 363,37; 370- Teodosio di Gerusalemme
374; 377; 381. Synodica: 48,71.
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Indice delle fonti antiche 539
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INDICE ONOMASTICO
NOMI ANTICHI*
* Il presente Indice integra quello delle opere antiche; i riferimenti elencati di seguito non
enumerano, pertanto, le citazioni delle opere di questi personaggi.
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Indice onomastico 543
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Indice onomastico 545
405; 401,72; 402,77; 404,78; 424- Martiniano: 131; 250; 252-253; 377;
426; 431; 434; 436; 438; 442; 431; 434; 450; 457.
442,32; 455-456; 461-462; 469; Martino di Tours: 134.
486. Melchisedek: 148,5.
Leone: 422. Melitone di Sardi: 153; 174; 465.
Leone (fanciullo): 294. Mena: 322.
Leone III “Isaurico”: 27; 30; 30,24; Mesàch: 317.
31-34; 31,25; 32,26-27; 34,31; Metodio (monaco, poi patriarca di
49,77; 52; 57. Costantinopoli): 61,108; 67.
Leone IV: 42-44. Michele I Rangabe: 53-54.
Leone V: 54-58; 54; 90-91; 60-62; Michele II: 60-62; 62,110-111; 65-
64. 67.
Leone il Filosofo: 65,114. Michele III: 66.
Leonzio: 322. Mnemosyne: 267.
Libanio (personaggio plautino): 489. Montano: 219.
Licinio: 117,9. Mosè: 34,31; 81; 108,33; 154; 163;
Licomede: 212,34. 165; 207,22; 357-359; 409; 417;
Lonck Johannes: 92. 430-436; 438; 450; 452.
Lot: 416. Myriam: 431-433; 435; 438; 450;
Luca (evangelista, autore di icone): 452.
119,17.
Luciano di Samosata: 202. Nabucodonosor: 315; 316,9; 319;
Lucio Mussio Emiliano: 105,25. 329; 357; 441-442.
Ludovico il Pio: 62,111. Nelpia Hymnina: 260,6.
Niceforo (patriarca di Costantinopo-
Magi: 126-128; 130-132; 134-140; li): 53; 53,88; 56; 58-59; 61,108;
166; 324-328; 324,12; 325,12- 62; 67,119; 69.
13; 364-365; 392; 441-442; 447- Niceforo I Logoteta: 52-53; 61,108;
449; 451-453. 66.
Marcione: 195; 195,20; 255-256; Niceta (patriarca di Costantinopoli):
256,31. 35,34.
Marco Aurelio Prosene: 294. Nilo di Ancira: 49,75.
Maria: 126; 128-130; 132-141; 323- Noè: 131; 167,27; 320-321; 406-
324; 326; 364; 384; 394; 452. 408; 416; 425; 442; 442,32; 452-
Martin Lutero: 89-90. 453; 469; 486.
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NOMI MODERNI
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INDICE GENERALE
Una premessa » 11
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6. La “seconda restaurazione”
e la “vittoria dell’ortodossia” (843): Teodora pag. 66
7. L’eredità dell’ iconoclasmo » 68
L’APPROCCIO ERMENEUTICO.
L’“ARTE PALEOCRISTIANA” COME SVILUPPO STORICO
DELL’ESEGESI CRISTIANA ANTICA
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II. UN MODELLO METODOLOGICO:
LA PRIMA CULTURA VISUALE CRISTIANA
COME SINTASSI ERMENEUTICA pag. 159
1. «Arte tipologica» (P. Bloch) » 160
1.1. Le origini di una definizione » 160
1.2. Verso il progetto iconografico » 168
2. Il parallelo con le raccolte di testimonia » 173
3. “Paradigmi di salvazione” o “manifesti tipologici”? » 178
IL SITZ IM LEBEN
LE ORIGINI DELLA CULTURA VISUALE CRISTIANA
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b. Clemente di Alessandria, Pedagogo 3,59,1 - 60,1 pag. 213
c. Tertulliano, La pudicizia 7,1 » 222
2. La documentazione archeologica. La Regione di Lucina
della Catacomba di Callisto: il cubicolo X-Y » 224
3. Un parallelo contestuale.
La più antica documentazione della storia cristiana » 234
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IL LESSICO TIPOLOGICO
DELL’ICONOGRAFIA PALEOCRISTIANA
I MODELLI COMPOSITIVI
DELLA PIÙ ANTICA DOCUMENTAZIONE VISUALE CRISTIANA
Gabriele Pelizzari • L’ICONOGRAFIA CRISTIANA DELLE ORIGINI COME STORIA DELL’ESEGESI • Un’ermeneutica codificata
Contenuto digitale diffuso in Open Access con il contributo dell’Università degli Studi di Milano (Finanziamento ricerca “Seed” 2019 [Progetto: «IF - Immaginare la Fine»] e Fondi PSR2019)
Excursus: l’Ordo commendationis animae pag. 416
1. La correlazione tipologica » 428
1.1. Il “sarcofago dell’Esodo” (Wp. 29, t. 157,2; Rep. 2, 12):
un manuale di esegesi tipologica » 430
2. La traslazione tipologica » 440
2.1. Il sarcofago del British Museum (Rep. 2, 243) » 443
2.2. Il sarcofago di San Celso
(Wp. 32, tt. 243,4-6; Rep. 2, 250) » 446
3. L’argomentazione tipologica: la salvezza come storia » 451
3.1. L’alzata del sarcofago Lateranense 176
(Wp. 32, t. 177,3; Rep. 1, 145) » 451
3.2. Il sarcofago Lateranense 193
(Wp. 32, t. 186,2; Rep. 1, 25) » 454
3.3. Il sarcofago Lateranense 135
(Wp. 32, tt. 206,5-7; Rep. 1, 23) » 457
3.4. La coppa di Podgorica (Museo dell’Hermitage) » 459
Osservazioni finali e prospettive: tra immagine e parola,
l’“arte” cristiana delle origini come Patrologia visualis » 467
Appendice: Immaginario gentile e immaginario cristiano » 473
1. Appropriazione e ri-semantizzazione » 474
1.1. Perché mutuare dal lessico della gentilità? » 474
a. Le motivazioni contestuali:
i modelli delle botteghe » 476
b. Le motivazioni funzionali:
l’adozione di un codice pervasivo » 480
1.2. Un lessico formalmente condiviso,
semanticamente caratteristico » 485
2. Le matrici gentili del lessico iconografico paleocristiano
(l’apporto dell’“ immaginario gentile”) » 489
2.1. Il caso del Buon Pastore » 493
a. Elementi di continuità » 493
b. Caratterizzazioni cristiane » 496
Bibliografia » 505
Indici » 517
1. Indice scritturistico » 519
2. Indice delle fonti antiche » 526
3. Indice onomastico: nomi antichi / nomi moderni » 541
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Si trova in questo volume, a cura di Enrico Norelli, la più ricca e
documentata edizione esistente dei Frammenti superstiti dell’opera di
Papia, vescovo di Hierapolis in Frigia (Asia Minore). Benché pervenu-
taci solo in pochi lacerti, l’Esposizione degli oracoli del Signore è un do-
cumento di grande interesse, ancora capace di offrire al lettore la possi-
bilità di ispezionare una stagione precocissima della storia cristiana
(l’opera fu composta attorno al 115), documentandone la vicenda, le
pratiche e il patrimonio di idee e di credenze.
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I tredici Frammenti raccolti in questo volume, in una nuova edizio-
ne critica profondamente ripensata, offrono una testimonianza di straor-
dinaria importanza per la conoscenza della Gnosi antica e del pensiero
del suo più influente maestro: Valentino di Roma.
Gli Estratti da Teodoto che, insieme alla “Grande Notizia” di Ireneo,
sono le prime attestazioni della disputa che la “grande Chiesa” ingaggiò
con il pensiero di Valentino, conservano però anche una traccia indele-
bile della maestria, della finezza e della determinazione con cui Clemen-
te seppe reagire e controbattere a questo nuovo ideale di cristianesimo.
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Letture cristiane del primo millennio - Supplementi
Collana diretta da Gabriele Pelizzari
Comitato di redazione: Alberto Camplani, Emiliano Fiori,
Roberta Franchi, Elena Giannarelli, Claudio Gianotto,
Giuseppe Laiti, Enrico Norelli, Cristina Simonelli, Chiara
Somenzi, Giuseppe Visonà, Marco Zambon, Gianfranca
Zancanaro, Antonio Zani.
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229S 1
SU PPLE MEN T I
ISBN 978-88-315-5450-3
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