VII Lezione
VII Lezione
VII lezione
«Nello stesso anno [357 a.C.] Gaio Licinio Stolone fu condannato a diecimila assi di multa
da Marco Popilio Lenate, in applicazione della legge da lui stesso proposta, perché insieme
col figlio possedeva mille iugeri di terreno, ed aveva frodato la legge dichiarando il figlio
indipendente dalla patria potestà».
(Tito Livio 7.16.9)
«In quell’anno [298 a.C.] molti cittadini furono citati in giudizio dagli edili perché
possedevano più terreno di quanto fosse consentito dalla legge: quasi nessuno fu ritenuto
giustificato, e così fu posto un forte freno alla smoderata cupidigia».
La crisi del II secolo a.C.
«I Romani, man mano che sottomettevano con le armi le regioni dell’Italia, si impadronivano di parte del territorio
e vi fondavano delle città oppure nelle città già esistenti deducevano propri coloni: essi consideravano queste
colonie come dei presidi. Del terreno volta a volta da loro conquistato dividevano subito la parte coltivata fra
i coloni dedotti, o la vendevano, oppure l’affittavano; la parte che in seguito alla guerra era allora incolta, ed
era la maggior parte, non avendo tempo di assegnarla in lotti, permettevano con un editto che la coltivasse
nel frattempo chi voleva, dietro pagamento di un canone sui prodotti annui, un decimo per le seminagioni e un
quinto per le colture arboree. Veniva stabilito un canone anche per gli allevatori tanto del bestiame grosso
quanto del minuto. Essi agivano in questo modo perché crescesse la popolazione italica, da loro considerata
resistentissima alle fatiche, per avere così alleati in casa. Ma accadde il contrario delle loro speranze. Difatti, i
ricchi, occupata la maggior parte della terra indivisa e resi sicuri col passar del tempo che nessuno più
l’avrebbe loro tolta, quante altre piccole proprietà di poveri erano loro vicini o le compravano con la
persuasione o le prendevano con la forza, sì da coltivare estesi latifondi al posto di semplici poderi. Essi vi
impiegavano, nei lavori dei campi e nel pascolo, degli schiavi, dato che i liberi sarebbero stati distolti per il
servizio militare dalle fatiche della terra. D’altro canto il capitale rappresentato da questa mano d’opera arrecava
loro molto guadagno per la prolificità degli schiavi, che si moltiplicavano senza pericoli, stante la loro esclusione
dalla milizia. In tal modo i ricchi continuavano a diventarlo sempre di più e gli schiavi aumentavano per le
campagne, mentre la scarsità e la mancanza di popolazione affliggevano gli Italici, rovinati dalla povertà,
dalle imposte e dal servizio militare. Se per caso avevano un po’ di respiro dalla milizia, si trovavano disoccupati,
poiché la terra era posseduta dai ricchi, che impiegavano a coltivarla lavoratori schiavi anziché liberi».
(Appiano Le guerre civili 1.7.26-31)
La crisi agraria:
l’inchiesta di L. Postumio Albino (173 a.C.)
«Prima che i magistrati partissero alla volta delle province il senato
decise che il console L. Postumio andasse in Campania a delimitare
con cippi il terreno demaniale da quello privato, in quanto risultava
che i privati ne erano entrati in possesso abusivo per ampio tratto a
furia di spostare in avanti i confini delle loro proprietà».
(Tito Livio 42.1.6)
La crisi agraria:
la legge di Appiano
«Ad un certo momento, su proposta dei tribuni, fu stabilito che
nessuno potesse occupare più di 500 iugeri di agro pubblico, né
pascolare più di 100 capi di bestiame grosso e 500 di minuto. Si fece
obbligo ai possessori di impiegare per queste mansioni un certo
numero di liberi, che sorvegliassero quel che avveniva e riferissero».
(Appiano Le guerre civili 1.8.33)
La crisi agraria:
la proposta di Gaio Lelio (140 a.C.)
«I Romani, quando avevano conquistato un territorio ai popoli confinanti, ne vendevano una parte
e ne rendevano l’altra proprietà pubblica, dandola da coltivare ai cittadini non abbienti e privi di
mezzi, dietro pagamento di un modesto canone all’erario. Ma, poiché i ricchi avevano cominciato
ad offrire canoni maggiori e schiacciavano i poveri, fu fatta una legge che vietava di possedere più
di cinquecento iugeri di terra. Per breve tempo questa legge mise un freno all’avidità e recò aiuto
ai poveri, che poterono restare sulle loro terre pagando l’affitto stabilito e coltivare il lotto che
ciascuno aveva avuto dall’inizio. Ma più tardi i vicini ricchi, servendosi di prestanome,
trasferirono a sé stessi gli affitti e infine possedettero apertamente, a proprio nome, la maggior
parte della terra. I poveri, scacciati dalle loro proprietà, non si prestavano più di buon animo
al servizio militare e trascuravano l’educazione dei figli, sicché ben presto l’Italia intera si
accorse della scarsità di popolazione libera e fu piena di schiavi barbari, che i ricchi
adoperavano per coltivare le terre, dopo averne scacciato i cittadini. Gaio Lelio, l’amico di
Scipione, cercò di raddrizzare tale situazione, ma, dinanzi all’opposizione dei potenti,
temette il tumulto e desistette, ciò che lo fece soprannominare ‘Saggio’ o ‘Prudente’».
(Plutarco Vita di Tiberio Gracco 8.1-4)
Tiberio Sempronio Gracco
«Tiberio, eletto tribuno della plebe, subito si accinse a tale impresa, per incitamento, a
quanto dicono i più, del retore Diofane e del filosofo Blossio. Diofane era un esule di Mitilene;
Blossio era nato in Italia, a Cuma, ed era stato, in città, intimo di Antipatro di Tarso, che gli aveva
fatto l’onore di dedicargli alcuni scritti filosofici. Alcuni attribuiscono una parte della
responsabilità anche alla madre Cornelia, la quale rimproverava spesso ai figli che i
Romani la chiamassero ancora suocera di Scipione, e non già madre dei Gracchi. Altri
ancora dicono che la causa fu un certo Spurio Postumio, coetaneo di Tiberio e suo rivale in
reputazione nel campo dell’eloquenza giudiziaria: accortosi, al ritorno dalla campagna
militare, che quello l’aveva notevolmente superato in fama e influenza ed era ammirato, Tiberio
volle, a quanto pare, scavalcarlo dedicandosi a un’azione politica audace e che suscitava
grande aspettativa. Il fratello Gaio scrisse in un libro che Tiberio, attraversando l’Etruria
diretto a Numanzia e vedendo l’abbandono della regione, in cui l’agricoltura e la pastorizia
erano affidate a schiavi importati e barbari, concepì allora per la prima volta il progetto
dell’azione politica da cui nacquero per loro infiniti mali. Ma il popolo stesso infiammò
soprattutto il suo ardore e la sua ambizione, sollecitandolo, con scritte tracciate sui portici,
sui muri e sulle tombe, a far restituire ai poveri la terra pubblica».
(Plutarco Vita di Tiberio Gracco 8.6-10)
La lex Sempronia agraria (133 a.C.)
«Tiberio Sempronio Gracco, uomo nobile e ambiziosissimo, di grande potenza nel
parlare, e per questi motivi a tutti notissimo, divenuto tribuno della plebe...rinnovò
la legge che nessuno potesse occupare più di 500 iugeri di agro pubblico;
aggiunse però, alla vecchia legge la clausola che i figli degli occupanti potessero
possedere altri 250 iugeri: quello che sarebbe sopravanzato tre persone elette
all’uopo l’avrebbero diviso fra i poveri, alternandosi nella direzione ogni anno.
Ciò che principalmente urtò i ricchi fu proprio questo, che non potevano più come
prima trascurare la legge, a causa della commissione distributrice, né ricomprare
dagli assegnatari le parcelle assegnate, giacché Gracco, prevedendo anche questa
possibilità, aveva proibito l’alienazione dei lotti [ogni possessore avrebbe avuto il
possesso, esclusivo, senza alcun pagamento e per sempre irrevocabile, di 500 iugeri e
per i figli, chi ne avesse, altri 250 ciascuno]».
(Appiano Le guerre civili 1.9.37-10.38)
Le finalità della legge agraria
«Senza insistere più a lungo nel confronto, perché ingiurioso, nuovamente passava ad esporre le
speranze e i timori per la patria: i Romani, che avevano conquistato con la forza delle armi la maggior
parte della terra e che speravano di occuparne anche il rimanente, si trovavano allora in una situazione
veramente assai pericolosa: o si sarebbero impadroniti del resto della terra con l’aver una
numerosa popolazione, o avrebbero perso quello che possedevano per la propria debolezza e per
l’odio dei nemici».
(Appiano Le guerre civili 1.11.45)
«Quando si presentava alla tribuna circondato dal popolo parlava ai poveri dicendo: “Gli animali
selvaggi che vivono in Italia hanno ciascuno una tana, un covo, un rifugio, mentre coloro che
combattono e muoiono per l’Italia non hanno nient’altro che l’aria e la luce e vagano con i figli e
con le mogli, senza casa e senza fissa dimora; i generali mentono quando, nelle battaglie, esortano i
soldati a combattere i nemici in difesa delle tombe e dei santuari, poiché, fra tanti Romani, nessuno ha
un altare familiare né un sepolcro degli antenati, ma combattono e muoiono per il lusso e la ricchezza
altrui e, mentre sono chiamati padroni del mondo, non hanno una sola zolla di terra che sia di
loro proprietà”».
(Plutarco Vita di Tiberio Gracco 9.5-6)
La deposizione di M. Ottavio
«Essi si volsero verso Marco Ottavio, uno dei tribuni della plebe, giovane di carattere serio e modesto,
ottimo amico di Tiberio...dietro le insistenti preghiere di molti potenti, quasi forzato, si oppose a Tiberio e
impedì l’approvazione della legge. Vedendo che Ottavio era colpito dalla legge, perché possedeva molta terra
pubblica, Tiberio lo pregò di desistere dall’opposizione, impegnandosi a pagargli l’indennizzo dai propri averi,
che pure non erano considerevoli. Poiché Ottavio non accettò, egli sospese con un editto l’attività di tutte le
altre magistrature fino a quando si fosse votato sulla legge: mise i propri sigilli al tempio di Saturno, affinché
i questori non prendessero e non depositassero niente, e fece proclamare che i pretori che avessero disobbedito
sarebbero stati multati, sicché tutti i magistrati, intimoriti, cessarono l’esercizio delle rispettive funzioni. Poiché
il Senato, riunitosi, non giunse ad alcuna conclusione a causa dell’influenza che in esso avevano i ricchi, Tiberio
si risolse ad un’azione illegale e violenta, consistente nella destituzione di Ottavio dalla carica, dal
momento che non aveva altro mezzo di far mettere ai voti la legge. Poiché Ottavio era irremovibile, Tiberio
presentò una legge che lo privava del tribunato e chiamò subito i cittadini a votare. Dicono che Ottavio non
rimase del tutto inflessibile e impassibile dinanzi a queste preghiere, ma che anzi i suoi occhi si riempirono di
lacrime e tacque a lungo. Ma, quando volse lo sguardo verso i ricchi e i possidenti che stavano riuniti, sembra
che, provando vergogna e timore della loro disistima, abbia affrontato generosamente ogni rischio, dicendo a
Tiberio di fare ciò che voleva. La legge fu così ratificata e Tiberio ordinò a uno dei suoi liberti di trascinare via
Ottavio dalla tribuna».
(Plutarco Vita di Tiberio Gracco 10.1-12.5)
La deposizione di M. Ottavio
«Tito Annio, uomo né giusto né saggio, ma che passava per imbattibile nelle discussioni a domanda e
risposta, sfidò Tiberio a una scommessa, a dimostrare che aveva agito legalmente deponendo il collega,
che era sacro e inviolabile. Tiberio uscì di corsa e convocò il popolo. Annio fece ricorso alla propria
abilità e chiese a Tiberio di rispondere a qualche piccola domanda. Tiberio gli concesse di interrogarlo
e, fattosi silenzio, Annio disse: “Se tu volessi privarmi dei miei diritti di cittadino e disonorarmi, ed io
facessi appello ad uno dei tuoi colleghi, e questi salisse sulla tribuna per difendermi e tu ti adirassi, lo
priveresti della sua carica?”. A tale domanda dicono che Tiberio si trovò in tale imbarazzo che restò in
silenzio. Ma, accorgendosi che la deposizione di Ottavio era sgradita anche al popolo, fece ad esso un
lungo discorso. Egli disse che il tribuno è sacro e inviolabile in quanto è consacrato al popolo e lo
protegge. Se dunque, cambiando condotta, danneggia il popolo, ne diminuisce la potenza e gli
impedisce di votare, si priva da sé della sua carica, poiché non fa ciò per cui l’ha ottenuta. Perché,
anche se distruggesse il Campidoglio e incendiasse l’arsenale, bisognerà lasciarlo tribuno: se agisce
così, è un cattivo tribuno, ma, se distrugge l’autorità del popolo, non è più tribuno. Come non sarebbe
strano, dunque, che il tribuno possa arrestare il console e che il popolo non possa togliere il potere al
tribuno, quando questi se ne serva contro chi glielo ha concesso? Infatti, è il popolo che elegge sia il
console, sia il tribuno. La dignità regale, senza dubbio, concentrava in sé tutti i poteri ed era consacrata
alla divinità dalle più solenni cerimonie; tuttavia, la città cacciò Tarquinio per le sue colpe e, per la
tracotanza di un solo uomo, fu abolito il potere tradizionale, a cui si doveva la fondazione di Roma…
La deposizione di M. Ottavio
…Che cosa vi è di più sacro e venerabile a Roma delle vergini che curano e custodiscono
il fuoco eterno? Eppure, se una di esse commette una colpa, viene sepolta viva, perché, se
offendono gli dèi, perdono l’inviolabilità che posseggono a causa degli dèi. Pertanto, non
è neppure giusto che il tribuno che danneggia il popolo conservi l’inviolabilità che
spetta in virtù del popolo, dal momento che cerca di distruggere quel potere da cui
deriva la sua forza. Inoltre, se ha ottenuto giustamente il tribunato con i voti della
maggioranza delle tribù, come non ne sarebbe privato più giustamente
dall’unanimità dei loro voti? Non vi è niente di così sacro e inviolabile quanto i doni
votii offerti agli dèi ma nessuno ha impedito al popolo di usarli, rimuoverli e trasferirli a
suo piacimento; gli è dunque lecito anche trasferire il tribunato ad un’altra persona, come
un dono votivo. Che poi la carica non sia inviolabile né inalienabile è dimostrato dal fatto
che spesso alcuni che la detenevano vi hanno rinunziato, pregando spontaneamente di
esserne dispensati».
(Plutarco Vita di Tiberio Gracco 14.5-15.9)
Il testamento di Attalo III
«Dopo la morte di Attalo Filometore, Eudemo di Pergamo portò un
testamento che istituiva il popolo romano erede del re. Subito Tiberio
propose una legge a favore del popolo, in base alla quale le ricchezze
regali, trasportate a Roma, sarebbero state distribuite ai cittadini che
avevano ottenuto in sorte la terra, affinché potessero procurarsi gli
attrezzi necessari alla coltivazione; quanto alle città che facevano parte del
regno di Attalo, disse che non spettava al Senato deliberare, ma egli stesso
avrebbe presentato al popolo una proposta. In tal modo, egli provocò la
massima indignazione nel Senato e Pompeo Rufo si alzò per dire che, essendo
vicino di Tiberio, sapeva che Eudemo di Pergamo gli aveva fatto dono di un
diadema e di una porpora regali, come se stesse per regnare a Roma».
(Plutarco Vita di Tiberio Gracco 14.1)
Il tentativo di rielezione
«Era, ormai, l’estate e imminente la presentazione delle candidature al tribunato, ed era ben
chiaro che, avvicinandosi la votazione, i ricchi si stavano adoperando in favore
dell’elezione di coloro che erano in primo luogo nemici di Gracco. Questi, di fronte al
pericolo che si avvicinava, nel timore di non essere eletto tribuno anche per l’anno
seguente, chiamava per la votazione i suoi seguaci dai campi. Ma essendo questi intenti ai
lavori propri dell’estate, era costretto, dalla brevità del tempo rimasto prima del giorno
stabilito per la votazione, a chiedere aiuto alla plebe urbana, e andando in giro per ogni
parte pregava ciascuno che rieleggessero tribuno per l’anno successivo lui, che correva
pericolo per loro. Iniziata la votazione, le due prime tribù elessero subito Gracco. Mentre
i ricchi opponevano che era illegale che la stessa persona rivestisse due volte senza
interruzione una carica, e il tribuno Rubrio, scelto a sorte a presiedere quell’assemblea,
era per questo motivo incerto, Mummio, colui che era stato eletto tribuno al posto di
Ottavio, lo invitò a rimettere a lui la direzione dell’assemblea...sorta a questo proposito
una grave lite, Gracco, che aveva la peggio, rimandò la votazione al giorno seguente».
(Appiano Le guerre civili 1.14.58-62)
L’uccisione di Tiberio
«Mentre avvenivano questi fatti, il Senato si riunì nel tempio della Fede. Sembra a me cosa
molto strana che ad essi, che spesso in situazioni pericolose di tal genere erano stati
salvati dalla dittatura, non sia allora venuto in mente di nominare un dittatore...Presa la
decisione che stimarono di prendere, mossero verso il Campidoglio. Li precedeva, primo fra
di loro, il pontefice massimo, Cornelio Scipione Nasica: egli gridava a gran voce che lo
seguissero coloro che volevano salva la patria e si era tirato intorno al capo l’estremità
della toga, sia che volesse indurre a venire con lui il più possibile di gente ricordando con
quell’impiego della vesta la sua carica, sia per farne, quasi fosse un elmo, un segno di
lotta per chi lo scorgeva, sia per celare gli dei ciò che stava per compiere. Nasica salì al
tempio e assalì i Graccani, che retrocedettero dinanzi al personaggio insigne, quasi vinti dalla
sua dignità, e insieme scorgendo il Senato che lo seguiva. I senatori, strappati i legni agli stessi
Graccani e fatti a pezzi gli sgabelli e quanto altro materiale era stato portato per l’assemblea,
colpivano gli avversari, li inseguivano e li gettavano giù dai dirupi. In questo tumulto molti
Graccani perirono e lo stesso Gracco, incalzato intorno al tempio, fu ucciso dinanzi alle porte,
presso le statue dei re. Tutti costoro nottetempo furono gettati nella corrente del fiume».
(Appiano Le guerre civili 1.16.67-70)
L’uccisione di Tiberio
«Quelli che stavano più lontano, meravigliati, cercavano di sapere cosa stesse accadendo; allora
Tiberio si toccò la testa con mano, per indicare con il gesto il pericolo, poiché essi non
potevano sentire la sua voce. Gli avversari, vedendo ciò, corsero al Senato ad annunciare
che Tiberio chiedeva un diadema e che la prova di ciò era data dal fatto che si toccava la
testa. Tutti si misero dunque in agitazione; Nasica pregò il console di provvedere alla salvezza
dello Stato e di annientare il tiranno. Il console rispose pacatamente che avrebbe preso
l’iniziativa di nessuna violenza né messo a morte alcun cittadino senza processo. Nasica allora
balzò su e disse: “Poiché il primo magistrato tradisce la città, seguitemi voi che volete difendere
la legalità”. E dicendo ciò si coprì il capo con un lembo della toga e avanzò vero il
Campidoglio. Tutti quelli che lo seguivano con la toga avvolta intorno al braccio respingevano
chi si parava loro dinanzi; nessuno oppose resistenza a personaggi di tale dignità, ma tutti
fuggirono e si calpestarono l’un l’altro. I seguaci dei senatori avevano mazze bastoni portati da
casa; i senatori si armarono dei rottami e dei piedi dei sedili spezzati dalla folla in fuga.
Morirono più di trecento partigiani di Tiberio».
(Plutarco Vita di Tiberio Gracco 19.1-10)
Il lapis Pollae
«Non sono ancora passati centodieci anni, da quando L. Pisone propose la legge contro il
peculato (de pecuniis repetundis L. Pisone lata lex est), senza che prima se ne fosse mai fatta
alcuna; ma dopo tante furono le leggi e le più recenti anche più rigorose, tanti gli imputati, i
condannati, tanta fu la gravità della guerra italica attizzata dal timore dei processi, tante le
estorsioni ed i saccheggi a danno degli alleati, essendo state abrogate le leggi e soppressi i
procedimenti giudiziari, che la nostra salvezza è dovuta alla debolezza altrui, non certo alla
nostra virtù».
(Cicerone de Officiis 2.75)
La lex Calpurnia de pecuniis repetundis
(149 a.C.)
La lex Calpurnia de pecuniis repetundis
(149 a.C.)
«---] fuit fueritue ex lege quam L. Cal//purnius L.f. tr(ibunus) pl(ebis) rogauit, exue lege quam M.
Iunius D.f. tr(ibunus) pl(ebis) rogauit, quei (e)orum eo [ioudicio condemnatus est eritue, quo] magis
de ea re eius nomen vv hace lege de(fe)ratur{um), quoue mag{istratus}is de ea re quom [eo ex hace
lege agatur, eius hace lege nihilum rogatur. ?Rubric? queiquomque aduersus hance legem fecisse
deicentur, nisei h(ance) l(egem) populus plebesue iouserit, antequam ea res facta]».
[Riguardante questioni giudicate secondo la lex Calpurnia e la lex Iunia. Riguardante chiunque abbia
subito un processo] che ha avuto luogo o dovrà avere luogo secondo la legge che L. Calpurnio,
figlio di Lucio, tribuno della plebe, propose, o secondo la legge che M. Giunio, figlio di Decimo,
tribuno della plebe, propose, chiunque di loro in quel [processo è stato o sarà condannato, e perciò]
dovrà essere perseguito per quel reato secondo questa legge, o se [dovesse essere intrapresa qualche
azione] riguardante quel reato contro [di lui secondo questa legge, niente di ciò sia proposto in questa
legge. ?Rubric? Chiunque dica o faccia qualcosa contro questa legge non sia perseguito secondo le
norme di questa legge fino a quando essa non sarà approvata dal popolo o dalla plebe].
(CIL I2 2.583)
La lex Sempronia iudiciaria
«Caio Gracco cercava di legare a sé anche i cavalieri, che sono per dignità fra
il Senato e il popolo, con quest’altro provvedimento. Trasferì dai senatori ai
cavalieri le corti giudicanti, screditate per la corruzione, rinfacciando loro,
soprattutto, i casi recenti di Aurelio Cotta, del Salinatore, e, terzo dopo questi, di
Manio Aquilio, il conquistatore dell’Asia, i quali, dopo aver notoriamente
corrotto i giudici, erano stati prosciolti, mentre i rappresentanti provinciali,
inviati ad accusarli, erano ancora presenti a Roma e andavano in giro, divulgando
con astio questi fatti. Il Senato, grandemente vergognandosi di tutto ciò,
acconsentì alla legge e il popolo la approvò. Così i tribunali furono trasferiti
dal Senato ai cavalieri. Dicono che appena dopo l’approvazione della legge
Gracco abbia esclamato di aver di un sol colpo abbattuto la potenza del Senato».
(Appiano Le guerre civili 1.22.91-93)
La lex Sempronia de civitate
«E chiamava i Latini a partecipare a tutti i diritti dei Romani, quasi
non potesse il Senato opporsi in maniera plausibile a dei
consanguinei. Inoltre, agli altri alleati, ai quali non era concesso
votare nelle assemblee romane, proponeva di concedere d’ora in poi
questo diritto, per avere anche costoro alleati nelle votazioni delle
leggi. Spaventato soprattutto da questa proposta, il Senato ordinò ai
consoli di emettere un editto che proibisse a chiunque non avesse diritto
di voto a dimorare in città, né di avvicinarsi a più di 40 stadi, durante le
votazioni intorno a queste proposte di legge».
(Appiano Le guerre civili 1.23.99-100)
L’opposizione di M. Livio Druso
«Il Senato convinse anche Livio Druso, un altro tribuno, ad opporre il
veto contro le leggi di Gracco, senza spiegarne al popolo i motivi:
giacché è consentito a chi oppone il veto di non motivare la propria
azione. Gli permise, inoltre, di attirarsi le simpatie del popolo con la
proposta di dodici colonie. Il popolo, rallegrato vivamente da questa
proposta, trascurò le leggi di Gracco».
(Appiano Le guerre civili 1.23.101)
Il senatus consultum ultimum
«Un decreto del senato affidò nei tempi andati al console Lucio Opimio l’incarico di assicurare l’assoluta
incolumità dello stato (decrevit quondam senatus, ut L. Opimius consul videret, ne quid res publica detrimenti
caperet): non passò nemmeno una notte e venne ucciso, semplicemente perché sospettato di intenzioni
sovversive, Gaio Gracco, che pure era figlio, nipote e discendente di illustri cittadini; la stessa sorte subì insieme
coi figli l’ex console Marco Fulvio».
(Cicerone Contro Catilina 1.2.4)
«Così, come suole accadere in gravissime circostanze, il senato stabilisce che “i consoli provvedano alla
salvezza dello Stato” (senatus decrevit darent operam consules ne quid res publica detrimenti caperet).
Questo, secondo la tradizione romana (more Romano), è il maggior potere (maxuma potestas) che possa
essere conferito dal senato a un magistrato e comprende i seguenti diritti: allestire l’esercito, condurre la
guerra, costringere con ogni mezzo alla sottomissione alleati e cittadini, esercitare un illimitato potere e
giudiziario, in città e al campo (exercitum parare, bellum gerere, coercere omnibus modis socios atque civis,
domi militiaeque imperium atque iudicium summum habere). Senza questo decreto del senato, il console non
può esercitare alcuno di questi diritti se non per una legge approvata dal popolo».
(Sallustio La congiura di Catilina 29.2-3)