Tesi Definitiva-Convertito
Tesi Definitiva-Convertito
Correlatore
Alfonso Botti
1. Il folklore: definizione 3
2. Il canto di tradizione orale 4
3. La melodia del canto popolare 5
4. Le forme di un canto popolare 7
5. I temi dei canti popolari 11
6. Quando, dove e come si cantava al fronte durante la Grande Guerra 30
7. Canta che ti passa! La funzione sociale del canto 32
5. Conclusione 104
6. Sul ponte di Bassano, bandiera nera: un canto emblematico della 106
Grande guerra
6.1. Sul ponte di Perati: la versione fascista di Sul ponte di Bassano, 107
bandiera nera.
6.2. La variante della Repubblica di Salò di Sul ponte di Perati, 109
bandiera nera
6.3. Le varianti partigiane 110
6.3.1 Banditi della Acqui 111
6.3.2. Sul ponte San Felice 112
6.3.3. Val Seriana 114
6.3.4. L’inverno in Carnia 116
6.3.5. Sui monti di Val Trebbia 118
6.3.6. Sul ponte Fiume Sangro, bandiera nera 120
6.3.7. Pietà l’è morta 121
7. Conclusione 124
8. Il mondo delle mondine 126
8.1. La risaia: un’introduzione al lavoro delle mondine 126
8.2. Come e perché si cantava nelle risaie 127
8.3. La risaia: naia delle mondine 128
8.4. Alla mattina buonora 129
8.4.1. Alla mattina a buon’ora: la giornata delle mondine 132
8.5. Il fazzolettino: il collegamento tra le mondine e la Resistenza 134
8.5.1. Me lo doni quel fazzolettino 134
8.5.2. Me lo doni quel fazzolettino: la versione della Resistenza 135
9. Conclusioni 137
Conclusioni 202
Bibliografia 203
Si ringrazia l’Associazione Centro Studi Musica e Grande Guerra di Reggio Emilia per
la consultazione dei materiali presenti in archivio, e in particolare il suo socio
fondatore e attuale vicepresidente, il prof. Carlo Perucchetti, per il suo contributo alla
stesura di questa tesi in qualità di esterno esperto nel rapporto tra musica e Grande
guerra.
Introduzione
Questa tesi prende in esame alcuni canti di tradizione orale e intende dimostrare quanto
il contesto storico, politico e sociale abbia influenzato la trasformazione dei testi di questi
canti, pur mantenendo intatta la melodia.
Per questa ricerca sono state utilizzate come fonti monografie e articoli di riviste per
quanto riguarda la parte storica, politica e sociale, mentre per la parte relativa ai testi e
alle loro trasformazioni sono stati utilizzati alcuni canzonieri. Il periodo storico preso in
considerazione va dall’Ottocento alla fine della seconda guerra mondiale.
Infine, tutti i testi selezionati e riportati nei capitoli sono di autore anonimo/ignoto perché
riescono a restituire meglio i sentimenti provati da parte degli italiani tra l’Ottocento e il
1945 e dimostrano come sono cambiati negli anni.
Il canto di tradizione orale è anonimo, così come le sue trasformazioni. Nell’ambito della
seconda guerra mondiale, a volte alcuni testi anonimi venivano riutilizzati anche da autori
noti. Nel terzo capitolo, ad esempio, si troveranno varianti anonime, ma anche d’autore,
di un canto.
Un capitolo intero, riguarda “La leggenda del Piave”: la fortuna di questo canto fu tale
che venne riutilizzata più volte durante il ventennio fascista e riferita ad eventi anche
molto diversi tra loro, ma non per questo meno importanti. Addirittura, la Leggenda verrà
usata tre volte per spiegare lo scenario politico al di fuori dell’Italia: in pratica, l’aria della
melodia venne usata per narrare la Rivoluzione d’Ottobre, la guerra civile spagnola e la
guerra tra Russia e Germania dal punto di vista degli italiani.
Il canto di tradizione orale appartiene al campo di studi del folclore ed è, come viene
sottolineato più volte da chi si è occupato di questo tema, la manifestazione più sincera
dei sentimenti di una popolazione perché è spontaneo. La genuinità del canto, tuttavia, è
solo una delle caratteristiche che lo contraddistinguono. Un altro elemento, non meno
importante, da sottolineare è la dimensione prevalentemente orale: anche se oggi i testi
sono riportati nei canzonieri, i canti venivano creati oralmente, senza il supporto di
materiale di scrittura. Inoltre, e questo vale soprattutto per l’Ottocento quando ancora la
ricerca nel campo delle tradizioni collettive era solo all’inizio, il canto veniva trasmesso
di generazione in generazione e questo garantiva la sopravvivenza dei testi nella memoria
collettiva.
1
La tesi è suddivisa in quattro capitoli. Nel primo viene introdotto il tema del canto di
tradizione orale. Dopo averne dato una definizione e aver accennato ad una questione
puramente tecnica che riguarda la melodia, vengono prese in considerazione le forme e i
temi di un canto. Infine, il capitolo cerca di spiegare come, quando e perché si cantava,
tanto al fronte quanto nelle campagne.
Il secondo capitolo analizza alcuni canti di origine ottocentesca (uno, in realtà, risale
addirittura alla prima metà del Cinquecento, ma la prima testimonianza scritta del canto
risale al XIX secolo), e si occupa di introdurre alcuni elementi che influenzano la
trasformazione dei testi. Un primo fattore da tenere in considerazione è quello economico:
i rapporti commerciali e i trasferimenti dei contadini nelle campagne da una regione
all’altra permettono di spiegare come mai lo stesso termine si ritrovi in aree geografiche
confinanti. Sempre rimanendo nell’ambito geografico, alcune varianti di un canto
cambiano di regione in regione e questo è in grado di dimostrare quanto il canto sia un
fattore di coesione sociale e sia in grado di accumunare l’Italia dalla Sicilia al Piemonte.
Ancora, sempre nel secondo capitolo verrà approfondita meglio la dimensione collettiva
di un canto analizzando il rituale della Merla. Infine, attraverso due canti (e successive
varianti), verrà dimostrato come un testo possa essere modificato non solo a seconda di
chi lo canta, ma anche a seconda del contesto politico in cui viene creato.
Il terzo capitolo intende mostrare attraverso due canti l’influenza del contesto sociale e
storico compreso tra le due guerre nella trasformazione dei testi. Inoltre, viene accennata
la relazione tra mondo militare, mondo delle mondine e mondo della Resistenza: un altro
modo per testimoniare l’importanza della dimensione generazionale del canto.
Nell’ultimo capitolo, infine, si intende dimostrare l’importanza della Leggenda del Piave;
viene introdotto l’autore del canto e analizzato, in breve, il rapporto tra l’uomo e il fiume
dall’antico Egitto fino ad arrivare alla nascita dell’idea di nazionalismo. Dopo un’analisi
della “Leggenda”, vengono commentate e interpretate tutte le successive varianti,
collocate nel tempo e nello spazio.
2
Capitolo 1. Introduzione al canto popolare
1. Il folklore: definizione
Il canto popolare rientra sotto la categoria del folklore. Questa parola venne proposta per
la prima volta nel 1846 da un archeologo inglese, W. Thoms ed è la fusione di due parole:
folk (popolo) e lore (sapere).
Il termine è oggi universalmente accettato, anche se in Italia si parla più che altro di studi
di tradizioni popolari.
I primi due studiosi italiani che si sono occupati di studi folklorici sono Gianbattista Vico,
ne La scienza nuova (1725), e Ludovico Antonio Muratori.1
Nelle varie edizioni de La scienza nuova, lo studioso italiano si interessò non solo ai
popoli primitivi, ma anche alle tradizioni dei popoli civili, chiamati dallo stesso Vico
“volgo”. Il metodo di lavoro dello studioso italiano si basò principalmente su tre mezzi
di indagine, che riteneva fondamentali per comprendere l’animo del popolo studiato: la
comparazione, il mito e la religione. Il metodo comparativo veniva usato da Vico per
dimostrare come una certa credenza su un avvenimento fosse già diffusa in altre parti del
mondo e in maniera non del tutto dissimile. Ad esempio, per spiegare il motivo per cui il
cielo suggeriva agli uomini “primitivi” l’idea di dio, lo scrittore richiamava alla mente gli
indigeni d’America e la loro convinzione che gli spagnoli fossero dei a causa del rumore
delle armi da fuoco.
Il mito, invece, era strettamente connesso alla poesia e, più in generale, alla
rappresentazione del mondo primitivo, ossia di fantasia. Per questo, la “poesia” era il
linguaggio tramite il quale si esprimeva il popolo primitivo, indice di un animo commosso
che riversava, tanto nel componimento poetico quanto nelle fiabe, la sua ingenuità.
Il terzo mezzo di indagine usato da Vico è la religione. La sua origine, secondo lui,
rispondeva a due bisogni dell’uomo: da un lato, la necessità di dare serenità all’anima e
di comprendere gli accadimenti della natura e del mondo. Dall’altro, l’origine andava
cercata anche nel fatto che rispondeva al timore dell’uomo nei confronti di una potenza
superiore da cui si sentiva minacciato; in altre parole, una figura divina.
1
Michele Luciano Straniero, Manuale di musica popolare, Milano, Rizzoli, 1991, pp. 9-11.
3
Rimanendo nell’ambito degli studi sulla religione, anche il Muratori diede il suo
contributo. Pur essendo ecclesiastico, lo studioso ebbe il vantaggio di non scrivere storia
da monaco ma «da laico abbastanza illuminato», consentendogli di distinguere sempre
tra le credenze religiosi e le superstizioni di carattere religioso. Ad esempio, nell’accenno
sulla formazione del culto dei santi (nelle Dissertazioni del 1751) ammonì di considerare
sempre i santi non come dei ma come servi di Dio.2
Una volta circoscritto l’ambito di studio del canto popolare, ossia il folklore, è necessario
ora darne una definizione. Cosa si intende con canto popolare? Questa domanda venne
posta già a partire dall’Ottocento, un periodo estremamente florido per la raccolta di canti
popolari sul territorio italiano e anche estero.
Già nel 1830 Pietro Ercole Visconti scrisse che i canti popolari erano strettamente
collegati all’indole nazionale, ai luoghi, ai costumi, alle civiltà: in generale, tutto ciò che
oggi chiameremmo cultura. Ai canti popolari l’autore conferisce un carattere spontaneo
e capace di esprimere in modo profondo i sentimenti del cuore, specialmente due: l’amore
e l’odio.3
Quarant’anni dopo, il siciliano Giuseppe Pitré scrisse, nell’introduzione allo studio sui
canti siciliani, che la poesia popolare era la manifestazione sia dei sentimenti di un singolo
individuo sia del grado di civilizzazione di un intero popolo. Inoltre, citando Herder,
affermò che il canto popolare era l’archivio dei suoi costumi, usi, credenze e l’espressione
dei suoi sentimenti, ancora una volta polarizzati principalmente in due categoria, gioia e
pianto.4
Secondo il musicologo Michele Straniero, la musica popolare appartiene al gruppo
sociale che la crea e la custodisce attraverso la memoria viva delle persone ed è sempre
legata ad una determinata funzione sociale.5
Ciò che si può dedurre dagli studi citati è che il canto popolare è la manifestazione
collettiva dei sentimenti di un popolo (per questo motivo è spesso anonimo); in esso sono
2 Giuseppe Cocchiara, Storia del folklore in Italia, Palermo, Sellerio editore, 1981, pp. 27-33.
3
Pietro Ercole Visconti, Saggio de’ canti popolari della provincia di Marittima e Campagna, Roma,
Tipografia Salviucci, 1830, p. 7.
4
Giuseppe Pitré, Studio critico sui canti popolari siciliani, Palermo, Lauriel Editore, 1870, p. 6.
5
Straniero, Manuale di musica popolare, pp. 58-59.
4
narrati anche la storia e la cultura di una determinata popolazione. Infine, il canto ha un
carattere spontaneo e sempre soggetto a modifiche e varianti.
Un canto, sia esso d’autore o di anonimo, prevede sempre un dialogo tra musica e parole
ed è per questo che, prima di analizzare le forme e le tematiche del canto popolare, è
necessario inquadrare brevemente la componente musicale.
Lo studio della musica popolare rientra nell’ambito dell’etnomusicologia, disciplina che
si occupa di studiare le forme e i comportamenti musicali di tradizione orale. Secondo
Francesco Giannattasio, le società in cui generalmente il sapere si trasferisce tramite la
parola e non per mezzo della scrittura presentano alcune caratteristiche comuni: per prima
cosa, la trasmissione del sapere avviene “da bocca ad orecchio”, e adotta un approccio
basato sull’esperienza diretta e questo vale anche per i prodotti musicali. Proprio perché
ogni produzione musicale è gestita dalla memoria, che è libera dai vincoli rigidi a cui è
sottoposta la trascrizione di un brano musicale su carta, secondo l’autore l’esecuzione
musicale di un determinato brano non sarà mai identica a se stessa, e presenterà sempre
delle varianti.6
L’approccio tassonomico di Charles Boilés riguardo al musical endeavour (letteralmente,
sforzo musicale) conduce alla divisione del comportamento musicale in quattro grandi
categorie: determinata, programmatica, immediata e probabilistica.
Il comportamento musicale determinato riguarda quei brani che sono fissi e immutabili7:
in generale, tutti gli artefatti che vengono fissati nello spazio e nel tempo attraverso
tecnologie uditive (registratore, radio, ecc.) e visive (cinema, scrittura, ecc.).8
La categoria programmatica prevede una forma musicale prestabilita e pone l’accento
sulla sua interpretazione9. Prendendo a prestito le parole di Giannattasio, più chiare ed
esplicative, il comportamento musicale programmatico comprende tutte quelle forme
6
Francesco Giannattasio, Concetto di musica. Contributi e prospettive della ricerca etnumusicologica,
Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1992, pp. 18-19.
7
Charles Boilés, Universals of Musical Behaviour: A Taxonomic Approach, in «The World of Music»,
26(2), 1984, p. 52.
8
Giannattasio, Concetto di musica, p. 165.
9
Boilés, Universals of Musical Behaviour, p. 50.
5
musicali già fissate da una partitura scritta o da una lunga trasmissione di tradizione
orale.10
Il comportamento musicale immediato riguarda quei brani in cui le improvvisazioni
musicali seguono schemi che, per quanto non fissi (potrebbero essere infatti stati
trasmessi da un musicista all’altro o trovarsi in alcuni trattati), rendono musicalmente
accettabili le variazioni.
La differenza tra quest’ultima categoria e quella probabilistica consiste, appunto, nella
probabilità che una determinata variazione venga ripetuta nel tempo: dal momento in cui
viene seguito uno schema, una musica può essere variata più volte, mentre la variazione
probabilistica non segue uno schema e questo, oltre a conferirle un carattere aleatorio,
rende assai improbabile una sua seconda esecuzione.11
Le prime due categorie sono le più rilevanti ai fini di questa tesi perché consentono di
spiegare, in parte, come mai in molti casi di un canto viene variato solo il testo e non la
melodia. La risposta potrebbe essere proprio questa: all’inizio, la tradizione della
trasmissione di un canto per via orale ha “fissato” la musica nella memoria
dell’ascoltatore. Dalla metà dell’Ottocento in poi (periodo in cui i poeti e cantori italiani
cominciavano un po’ ad interessarsi della trascrizione musicale, oltre che testuale, dei
canti di tradizione orale), ma soprattutto nel Novecento, la musica viene trascritta su
pentagramma e fissata su carta, dando la possibilità al testo di variare a seconda dello
stato d’animo del cantante e, più in generale, del periodo storico.
Si veda come esempio il canto de “Il testamento del marchese di Saluzzo”12, citato per la
prima volta da Costantino Nigra nella sua raccolta di canti popolari piemontesi: anni (in
questo caso secoli) dopo la sua creazione e trasmissione di generazione in generazione,
la sua melodia viene trascritta nei canzonieri pubblicati durante la Grande guerra e quelli
successivi, con variazioni del testo che si modellano in base al contesto in cui il canto
viene cantato.
Ad esempio, nel canzoniere di Piero Jahier e Vittorio Gui, a dire la verità uno dei pochi
che presenta le melodie e le armonizzazioni dei canti (e, per questo, estremamente
prezioso), il testo raccolto dal Nigra viene completamente cambiato: il significato di base
è immutato (un ufficiale sta per morire e chiama a raccolta i suoi soldati, ordinando loro
10
Giannattasio, Concetto di musica, p. 165.
11
Boilés, Universals of Musical Behaviour, cit., pp. 52-53.
12
Costantino Nigra, Canti popolari del Piemonte, Torino, Loescher, 1888, p. 506.
6
di dividere il suo cadavere in più parti e dicendo loro a chi/dove portarle), così come la
melodia, ma le parole e il titolo sono diversi.13
La melodia, in questo caso, è molto facile da ricordare, una volta appresa, perché ripetitiva
e sempre identica ed è possibile che la semplicità della linea melodica rendesse più facile
la memorizzazione musicale di un canto e riducesse la possibilità di variazione.
Secondo Costantino Nigra, autore della raccolta di canti piemontesi pubblicata nel 1888,
la canzone, pur essendo assai variegata all’interno, dal punto di vista formale presenta
alcune caratteristiche comuni; l’unica eccezione è composta da strambotti e stornelli. I
caratteri presenti in ogni canzone, a detta del Nigra, sono: la pluralità delle strofe; l’uso
prevalente di versi diversi dall’endecasillabo, la diversità delle rime (a volte alternate,
sonanti o dissonanti), la mancanza di una consonanza atona.
L’autore suddivide i canti in due macro-categorie: canti narrativi (o canzoni) e canti lirici.
Il primo gruppo comprende al suo interno le canzoni storiche, quelle romanzesche, quelle
domestiche e quelle religiose. La seconda categoria, invece, introduce gli strambotti e gli
stornelli, distinzioni a cui il Nigra dedicherà buona parte dell’introduzione.
Riguardo a quest’ultima categoria, l’autore rivela che il termine strambotto è quasi
universale e prende in considerazione solamente due varianti linguistiche, puramente
formali e non contenutistiche: in Toscana si presenta sotto il nome di “rispetto”, mentre
in Sicilia può anche essere chiamato “canzone” o “cantu”. Inoltre, in certe zone (ad
esempio, le Marche), se lo strambotto è cantato di sera assume il nome di serenata; diverso
è il termine se il canto viene eseguito di mattina (in quel caso, appunto, si parla di
“mattinata”). Infine, se lo strambotto è eseguito in barca viene chiamato “barcarola”, più
precisamente in Sicilia e nel Veneto.
Per quel che riguarda lo schema metrico dello strambotto, il Nigra fornisce un’analisi
accurata della sua struttura: esso è a strofa unica di quattro, sei, otto, dieci o più versi, in
versi endecasillabi, a rima costante in ogni verso (si trova anche a rima alterne).14
13
Piero Jahier, Vittorio Gui, Canti di soldati, Trento, Sezione “P” della I. Armata, 1919, pp. 10-11.
14
Nigra, Canti popolari del Piemonte, pp. XI-XII.
7
Alla fine del libro, il Nigra cita vari esempi di strambotti, di cui riporterò soltanto una
minima parte:
[…]
«E io de li stornelli ne so tanti!
Ce n’ho da caricar sei bastimenti:
Chi ne vuol profittar si faccia avanti.17
Rimanendo in tema di stornelli (e andando avanti nel tempo di qualche anno, per arrivare
al XX secolo), gli autori del libro Al rombo del cannon individuano almeno altri tre tipi
15
Ivi, p. 574.
16
Pitré, Canti popolari siciliani, cit., p. 32.
17
Giuseppe Tigri, Canti popolari toscani raccolti e annotati da Giuseppe Tigri, Firenze, Barbera Bianchi
e Co, 1856, p. XVIII.
8
di stornelli, che essi dividono per stile e metrica. Il primo tipo è lo stornello cosiddetto
“aria del Sor Capanna” e si riferisce a un tipo di stornello cantato da un cantastorie romano
ambulante di nome Pietro Capanna (in arte, Sor Capanna). La struttura del Sor Capanna
era così concepita: quartina di endecasillabi a rime alterne, due ottonari a rima baciata,
un verso breve di cinque e un endecasillabo con rima abbinata al quinario precedente; lo
schema rimico era ABABCCDD.
Il Sor Capanna era il portavoce degli umori del popolo e l’adesione dell’Italia alla Grande
guerra gli diede una grande occasione per dare sfogo alla sua vena satirica. Il suo obiettivo
era quello di far ridere la gente per far dimenticare i lutti e la fame. Ecco un esempio di
aria del Sor Capanna:
Il secondo tipo di stornello è detto maltusiano, creato dal comico Ettore Petrolini (1884-
1936). La struttura metrica della strofetta prevede una quartina di ottonari ed è
caratterizzata dall’assenza della vocale finale nell’ultima parola del quarto verso.
L’intento della strofetta era marcatamente ironico e parodistico19: un esempio è possibile
ritrovarlo nel saggio di psicologia militare di Agostino Gemelli. Il cappellano militare,
infatti, in un capitolo del libro riporta proprio alcuni esempi di stornelli maltusiani:
[…]
18
Franco Castelli, Emilio Jona, Alberto Lovatto, Al rombo del cannon. Grande guerra e canto popolare,
Vicenza, Neri Pozza, 2018, pp. 61-63.
19
Ivi, pp. 64-65.
9
perché in zona son mandati
ma dal fuoco sono lontan!!!!20
Origine risorgimentale o no, certo è che il contesto della guerra contribuì alla fioritura di
queste strofette. A ben vedere, esse possono essere considerate come giornali di
controinformazioni che, grazie al sarcasmo, alla beffa e ad un linguaggio politicamente
scorretto, riescono ad aggirare la censura e a commentare via via gli eventi bellici.21
Secondo il Nigra, l’Italia poteva essere distinta in due grandi zone in base al tipo di canto
popolare: esisteva un’Italia settentrionale, caratterizzata dalla canzone, e un’Italia
meridionale, caratterizzata dallo strambotto; era esclusa dalla lista la Sardegna perché
sprovvista di dati sufficienti.
Questa divisione poteva eventualmente essere accettabile all’epoca della stesura del testo,
ma oggi questo non sembra più possibile; nonostante ciò, la divisione semplicistica fatta
dallo scrittore piemontese ha offerto la base per le successive ricerche. Secondo
l’etnomusicologo Roberto Leydi, è possibile suddividere il paese in quattro zone:
mediterranea, centrale, settentrionale e sarda.
20
Agostino Gemelli, Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare, Milano, Fratelli Treves, 1917, p. 199.
21
Castelli, Jona, Lovatto, Al rombo del cannon, pp. 66-71.
10
Nella zona mediterranea, che comprende l’area che va dal Golfo Persico allo Stretto di
Gibilterra e include anche l’Africa settentrionale e buona parte dell’Europa mediterranea,
sembra prevalere il canto lirico e una prevalenza dell’endecasillabo.
Nell’area settentrionale, invece, che comprende la Liguria, il Piemonte, la Lombardia,
l’Emilia occidentale e il Veneto, prevale il canto narrativo e un metro che, dopo un
iniziale uso dell’endecasillabo (su modello del canto epico-lirico) si scioglie in versi
settenari, ottonari e nonari.
La zona centrale è composta da Toscana, una parte del Lazio, Romagna, Marche, Umbria
e Abruzzo settentrionale. In quest’area il metro prevalente è l’endecasillabo e il repertorio
è vario: prevalentemente lirico, ma anche narrativo.
Infine, l’area sarda si presenta come una zona a sé stante, dotata di proprie specificità. Il
fondamento del canto sardo è il mutu, lirico modulare, nel senso che si sviluppa con
regole abbastanza precise dagli elementi/moduli contenuti nei versi della prima strofa; il
metro di riferimento è il settenario.22
I canti popolari raccolti nei vari canzonieri sono moltissimi ed è possibile individuare
alcuni temi che li accomunano, anche se prodotti in diversi periodi storici.
Una prima categoria è quella della canzone storica e prevede due percorsi. Uno è quello
in cui il canto, generalmente coevo all’avvenimento, affronta un periodo di incubazione
durante il quale comincia a formarsi, per poi essere cantato e modificato fino a quando
non subisce il triste destino dell’oblio, a meno che non sia fissato dalla scrittura; spesso
di un canto si ricorda solo la parte musicale, ma non quella testuale.
L’altro percorso possibile è quello per cui un canto si riferisce ad eventi di epoca passata
e generalmente avviene modificando il testo di una canzone precedente. Un esempio
deriva dalla canzone che narra il matrimonio tra Carolina di Savoia e Antonio Clemente
di Sassonia, avvenuto nel 1781:23
22
Roberto Leydi, I canti popolari italiani. 120 musiche e testi scelti e annotati con la collaborazione di
Sandra Mantovani e Cristina Pederiva, Milano, Mondadori, 1973, pp. 14-23.
23
Nigra, I canti popolari del Piemonte, pp. XXVI-XVII.
11
La bela Carolina la võlo maidè, (ter)
2Lo dūca de Sassònia a i völo fe spuzè
⎯ O s’è m’è bin pi car ūn pòver paizan
4 Che ‘l dūca de Sassònia ch’a l’è tan luntan.
⎯ Ün pòver paizan l’è pa del vost onur;
6 Lo dūca de Sassònia ch’a l’è ūn gran signur.
⎯ O s’a m’è bin pi car ūn cavajer dla curt,
8 Che ‘l dūca de Sassònia ch’a l’è un gran signur.
⎯ Ün cavajer dla curt l’è pa dël vost onur;
10 Lo düca de Sassònja ch’a l’è ün gran sigunr.
⎯ Da già ch’a l’è così, da già ch’a l’è destin
12 Faruma la girada tüt aturn d’Türin.
Bundì, me car papà, bundì, cara maman,
14 Che mi vad an Sassònia ch’a l’è tan luntan.
⎯ Cara la mia cügnà, përchè na piuri tan?
16 Mi sun venüa da ‘n Fransa ch’a l’è tan luntan.
⎯ Cara la mia cügnà, vui sì venüa a Türin,
18 A Caza di Savojia ch’a l’è ün bel giardin !
Cara la mia cügnà, tuchè-me ‘n po’ la man,
20 Cula che v’arcomando s’a l’è la mia maman ⎯
Quand a n’in sun rivà sül punt di là d’Versei,
22 N’a fa la dispartia cun i so fratei.
⎯ Fratei dei me fratei, tuchè-me ‘n po’ la man,
24 Che mi vad an Sassònia ch’a l’è tan luntan.
Tuchè-me ‘n po’ la man, amis, me car amis,
26 L’è cun la fiur del liri a’ rvëd-se an paradis. ⎯ 24
Il 29 settembre 1781, nella cappella del castello reale di Moncalieri, alle quattro di
pomeriggio si celebrò il matrimonio appunto tra Maria Carolina Antonietta di Savoia e
24
Nigra, Canti popolari del Piemonte, p. 531. Traduzione: La bella Carolina la vogliono maritare, il duca
di Sassonia vogliono farle sposare. ⎯ Oh! m’è ben più caro un povero contadino che il duca di Sassonia
che è tanto lontano. ⎯ Un povero contadino non è del vostro onore; il duca di Sassonia gli è un gran
signore. ⎯ Oh! M’è ben più caro un cavaliere della corte, che il duca di Sassonia che è un gran signore. ⎯
Un cavaliere della corte non è del vostro onore; il duca di Sassonia gli è un gran signore. ⎯ Quand’è così,
quand’egli è destino, faremo il giro tutt’intorno a Torino. Buondì, mio caro padre, buondì, cara madre, ch’io
vado in Sassonia che è tanto lontano. ⎯ Cara la mia cognata, perché piangete tanto? Io son venuta di
Francia che è tanto lontano. ⎯ Cara la mia cognata, voi siete venuta a Torino, a Casa di Savoia che è un
bel giardino. Cara la mia cognata, stringetemi la mano, quella che vi raccomando si è la madre mia. ⎯
Quando giunsero sul ponte di là da Vercelli, ne fa la dipartita dai suoi fratelli. ⎯ Fratelli, miei fratelli,
stringetemi la mano, ch’io vado in Sassonia che è tanto lontano. Stringetemi la mano, amici, miei cari amici,
col fior del giglio a rivederci in paradiso! ⎯.
12
Carlo Emanuele, principe del Piemonte e incaricato di sposare sua sorella per conto del
principe Antonio Clemente duca di Sassonia.
Il giorno dopo le nozze la neo-duchessa di Sassonia si apprestò a compiere il viaggio per
raggiungere lo sposo e, fino a Vercelli, fu scortata dai genitori, dal fratello e dalla sorella.
Prima di partire, però, attraversò Torino, dando la soddisfazione al re e alla regina di
vedere per l’ultima volta nella città la loro amata figlia.
Una volta raggiunta la Sassonia, il 24 ottobre il principe Antonio in persona condusse la
duchessa all’altare a Dresda, sancendo definitivamente l’accordo matrimoniale. La
principessa morì il 28 dicembre dell’anno seguente, nel fiore degli anni.25
Nel periodo della Prima guerra mondiale, un canto che potrebbe essere definito come
storico (e che, per usare il pensiero del Nigra, si sottrae all’oblio attraverso la scrittura nei
canzonieri) è quello del Monte Nero. L’assalto fu compiuto da parte del 3° Reggimento
degli Alpini tra il 15 e il 16 giugno 1916, il quale fu premiato con una medaglia d’argento
al valor militare.
Il monte fu tenuto dalle truppe italiane fino al 24 ottobre 1917, ossia fino a quando le
truppe austro-tedesche, guidate dal generale von Below, attaccarono le posizioni italiane
di Plezzo e Tolmino, sfondandole facilmente. Ecco il testo:
1. A
Spunta l’alba del sedici giugno
Comincia il fuoco l’artiglieria
Il Terzo Alpini è sulla via
Monte Nero a conquistà.
2. B
Monte Nero, Monte Nero,
traditor della vita mia,
ho lasciato la casa mia
per venirti a conquistà!
3.
25
Ivi, pp. 530-534.
13
Per venirti a conquistare
Abbiamo perduto tanti compagni
Tutti giovani sui vent’anni:
la loro vita non torna più.
4.
Il colonnello che piangeva
A veder tanto macello:
fatti coraggio Alpino bello,
che l’onore sarà per te!»
5.
Arrivati a trenta metri
Dal costone trincerato,
con assalto disperato
il nemico fu prigionier.
6.
Ma Francesco l’imperatore
Sugli Alpini mise la taglia,
egli premia con la medaglia
e trecento corone d’or …
7.
A chi porta un prigioniero
Di quest’arma valorosa
Che con forza baldanzosa
Fa sgomenti i sui soldà
8.
Ma l’Alpino non è vile
Tal da darsi prigioniero:
preferisce di morire
che di darsi allo straniero!
9,
O Italia, vai gloriosa
Di quest’arma gloriosa
Che combatte senza posa
14
Per la gloria e la libertà.
10.
Bell’Italia, devi esser fiera
Dei tuoi baldi e fieri Alpini
Che ti danno i tuoi confini
Ricacciando lo stranier.26
26
Antonio Virgilio Savona, Michele Luciano Straniero, Canti della Grande Guerra, vol. 1, Milano,
Garzanti, 1981, pp. 124-129.
15
Spunta l’alba del sedici giugno
Comincia il fuoco l’artiglieria
Il terzo Alpini è per la via
Monte Nero a conquistar
27
Ivi, p. 128.
28
Ivi, p. 129.
16
Come ulteriore prova della tesi secondo cui la versione originale del canto era diversa da
quella che è possibile leggere nei canzonieri pubblicati tra gli anni Venti e gli anni
Quaranta, generalmente più corta e priva di sentimentalismo patriottico, è opportuno
citare anche la versione raccolta da Jahier nel suo canzoniere del 1918:
29
Jahier, Gui, Canti di soldati, p. 12.
17
colonnello che incoraggia i soldati ad andare avanti. È possibile ritenere che la versione
proposta da Jahier sia l’anello di congiunzione tra quella originale, composta subito dopo
gli attacchi, e quella raccolta presente su tutti i canzonieri dagli anni Venti in poi.
Il canto politico, come si intuisce dal nome, narra di avvenimenti politici abbastanza coevi
alla sua creazione in cui è chiara la visione di chi canta. L’esempio più emblematico è il
canto chiamato “Dongo”, che narra della fucilazione di Benito Mussolini e Claretta
Petacci; l’evento riuscì ad impressionare molto la fantasia popolare. Il 25 aprile 1945 un
gruppo di fascisti in fuga sostò a Como e, una volta raggiunta Menaggio, si divise:
Graziani e due generali tornarono indietro, mentre Mussolini, camuffandosi con un
cappotto tedesco e un passamontagna, tentò di raggiungere la Valtellina.
La colonna, tuttavia, venne bloccata a Dongo (da qui il nome del canto) la mattina del 27
aprile. I tedeschi chiesero di parlamentare e consegnarono senza difficoltà gli italiani
presenti nella colonna, tra cui, appunto, il dittatore fascista e la sua amante. Mussolini
venne giustiziato a Giulino di Mezzegra (Como) la mattina del 28 aprile 1945 su ordine
del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia. Ecco il testo:
18
per goder tutto quel che voleva
dall’Italia il fratel suo carnal.
30
Antonio Virgilio Savona, Michele Luciano Straniero, Canti della Resistenza Italiana, Milano, Rizzoli,
1985, pp. 156-158.
19
Le prime due strofe sono prive di sentimenti e si limitano a narrare che cosa avvenne in
seguito alla cattura del Duce. Nella terza strofa, invece, si comincia a intravedere più
chiaramente il pensiero tipicamente resistenziale: il partigiano viene dipinto come un
uomo che ha tra le mani una grossa responsabilità, ovvero la sorte di Mussolini.
Il duce e la sua amante vennero imprigionati. La quinta strofa è tra le più emblematiche
del canto perché descrive l’atteggiamento di Mussolini nelle sue ultime ore di vita: il
dittatore non si comporta più come un uomo privo di sentimenti ma, al contrario, come
una persona terrorizzata, con gli occhi fuori dalle orbite; atteggiamento tipico di chi sa
che sta per morire e si rifiuta di crederci.
Il canto è pieno di particolari, tanto che nella sesta strofa viene descritto addirittura
l’abbigliamento del politico nelle sue ultime ore. La settima strofa sembra narrare la fine
di Mussolini come una specie di contrappasso: il duce conquistò con la forza e la violenza
il popolo italiano e ora, quasi fosse un effetto boomerang, la sua arma si ritorce contro di
lui.
Emblematica è anche la risposta del partigiano alla domanda del dittatore su cosa siano
venuti a fare: non usa il termine giustiziare, ma liberare, un termine che simbolicamente
rispecchia la Resistenza (basta pensare anche al canto di Bella Ciao, in cui il partigiano
afferma di essere morto per la libertà).
Nella penultima strofa, Mussolini viene dipinto come un “cavaliere codardo”: cavaliere
perché, secondo il galateo, un uomo deve sempre cedere il passo alla donna; codardo
perché il vero motivo per cui vuole mandare avanti la sua amante è che ha paura di morire,
non vuole essere ucciso e tenta di rimandare il più possibile quel momento. Nell’ultima
strofa, il partigiano, al contrario dei due amanti, non ha alcun problema di indecisione e
li giustizia entrambi. Il canto si chiude con una frase emblematica: la vendetta sui tiranni
sarà sempre crudele.
Il canto del lavoro serve a descrivere le dure condizioni di lavoro a cui sono sottoposti
uomini e donne, specialmente tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Spesso
e volentieri questi canti celano una protesta nei confronti dei padroni, elemento che
emerge sempre più a mano a mano che passano gli anni.
Un canto popolare anonimo, composto probabilmente all’incirca nel 1880 e cantato nella
zona costiera emiliano-romagnola, intitolato “gli scariolanti”, racconta di questi poveri
20
lavoratori che avevano come unico mezzo di sostentamento la carriola e che, al suono di
un corno che li chiama a raccolta, aspettano di essere chiamati per bonificare il terreno.
Ecco il testo:
A mezzanotte in punto
Si sente un gran rumor:
sono gli scariolanti lerì lerà
che vengono al lavor.
Volta, rivolta
E torna a rivoltar;
noi siam gli scariolanti lerì lerà
che vanno a lavorar.
A mezzanotte in punto
Si sente una tromba suonar:
sono gli scariolanti lerì lerà
che vanno a lavorar.
Volta, rivolta
e torna a rivoltar;
noi siam gli scariolanti lerì lerà
che vanno a lavorar.
Volta, rivolta
E torna a rivoltar;
noi siam gli scariolanti lerì lerà
che vanno a lavorar.
Questo testo, più che protestare per le condizioni di lavoro, sembra limitarsi a descrivere
il lavoro degli scariolanti: uomini che si radunano al suono della tromba e che, quando
passano, si fanno sentire.
21
Un canto di protesta legato al lavoro, invece, è quello intitolato “Per la strada” e si
riferisce agli scioperi agrari del 1908:
Le prime quattro strofe vedono come protagonisti i due schieramenti: da una parte ci sono
i contadini, coloro che protestano e che si rifiutano di morire come carcerati nelle stalle;
dall’altra ci sono i padroni o, per meglio dire, aguzzini.
31
Stefano Pivato, Bella Ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 61-64.
22
Le due parti si fronteggiano: i padroni, armati, arrivano davanti ai contadini seguiti dai
soldati e i sottoposti, aderenti pienamente alla loro causa, sembrano non voler
indietreggiare; addirittura, questi ultimi si dichiarano figli del lavoro pronti a morire.
Tuttavia, nelle ultime strofe è evidente che il pensiero cambia: i contadini tornano sui loro
passi ma continuano a sostenere che un giorno la loro idea trionferà.
Ci sono, naturalmente, i canti d’amore. La formula più ricorrente è quella del soldato che
deve partire per la guerra e saluta l’amata promettendole di tornare presto.
Ad esempio, ecco il canto che parla di un bersagliere che saluta la morosa prima di partire
per la guerra:
32
Castelli, Jona, Lovatto, Al rombo del cannon, p. 274.
23
La bargara larga i munton
Al lung de la riviera
2 El sul levà l’era tant càud
La s’è setà a l’umbreta.
A j’è sortì ‘l gran luv dal bosc
Cun la buca ambajeja.
4 A j’à pià ‘l pi bel barbin
Ch’a j’era ant la trupeja.
La bargera s’buta a criar:
⎯ Ai-mi, povra fieta!
6 Se qualcadün a m’ajutèis,
saria sua muruseta.
Passa da lì gentil galant
Cun la sua bela speja.
8 A j’à dà-je trei culp al lüv,
‘l barbin l’è sautà ‘n terra.
⎯ Mi v’ringrassio, gentil galant,
v’ringrassio d’vostra pena.
10 Quand ël barbin sarà tundü,
ve dunarò la lena.
⎯ mi n’a sun pa marcant de pann,
gnianca marcant da lena.
12 ⎯ Ün sul bazin dël vost buchin
mi pagherà la pena.
14 S’a lo savéis ël me marì saria bastoneja ⎯.33
33
Traduzione in Nigra, Canti popolari del Piemonte, pp. 360-361. ⎯ La pastorella pascola i montoni lungo
la riviera. Il sole levato era tanto caldo, la si assise all’ombretta. Gli è uscito il gran lupo del bosco, colla
bocca aperta. Si pigliò il più bell’agnello che c’era nella greggia. La pastorella si butta a gridare: ⎯ Oimè,
povera figliula! Se qualcuno m’aiutasse, sarei la sua morosetta. ⎯ passa di lì gentil galante colla sua bella
spada. Egli diede tre colpi al lupo, l’agnello saltò in terra. ⎯ Io vi ringrazio, gentil galante, vi ringrazio
della vostra pena. Quando l’agnello sarà tosato, vi donerò la lana. ⎯ io non sono mercante di panno, e
neanche mercante di lana, Un solo baciuzzo della vostra bocchina mi pagherà la pena. ⎯ Un solo baciuzzo
non ve lo posso dare; sono donna maritata. Se lo sapesse il mio marito, sarei bastonata. ⎯.
24
l’aiuterà, di diventare la sua morosa; un uomo, casualmente di passaggio, ammazza il
lupo e salva l’agnello. A questo punto, il baldo cavaliere si aspetta una ricompensa, ma
la sua idea non coincide con quella della ragazza: l’uomo infatti si aspetta un bacio, come
promesso; la ragazza, invece, cambia versione e gli promette la lana dell’agnello salvato.
Alla fine del canto, si viene a sapere che la giovane non può diventare la fidanzata del
suo salvatore perché è già sposata e, se il marito venisse a conoscenza del tradimento,
sicuramente verrebbe bastonata.
Una curiosità: nella raccolta di canti popolari romagnoli del 1894, il canto della pastorella
appare ridotto e leggermente modificato. Innanzitutto, la ragazza non promette a nessuno
di diventare la sua fidanzata, anzi: non chiede nemmeno aiuto! Quindi è possibile intuire
che il ragazzo che uccide il lupo l’abbia fatto di sua spontanea volontà. Alla fine, il
giovane pretende il bacino d’amore ma non è dato sapere se, come nella versione riportata
nel canzoniere piemontese, la ragazza si rifiuta di darlo perché già sposata o se decide di
accontentare il suo eroe.34
Ad avere voce nel canto, però, non sono solo gli uomini: anche, e soprattutto, le donne
esprimono i loro sentimenti e il loro punto di vista. Ad esempio, è stato raccolto
nell’Ottocento un canto che parla di una fanciulla che si arruola nell’esercito per stare
accanto al suo amato.
Ecco il testo:
34
Bendetto Pergoli, Saggio di canti popolari romagnoli, Bologna, Forni, 1894, p. 24.
25
Dal governo son stai richiama
26
ed ho fatto sett’anni a la guerra
sempre al fianco del mio primo amor.35
In questo canto la protagonista si veste da soldato per stare di fianco all’amato. Tuttavia,
un tenente crede di riconoscerla e la sottopone a tre prove, che supera brillantemente. La
prima è quella del fiore: se lei è veramente una donna, raccoglierà i migliori; la risposta
arguta della fanciulla è che i soldati in guerra non raccolgono fiori ma baionette con le
quali vanno all’assalto. La seconda prova è quella dell’acqua: se è veramente una donna,
si laverà le mani; la ragazza risponde che i soldati si lavano le mani solo qualche volta e
con il sangue dei nemici. L’ultima prova, che non lascia spazio all’interpretazione, è
quella del letto: ovviamente, se la fanciulla è dignitosa, sicuramente non accetta di seguire
il tenente. Anche in questo caso la risposta della giovane è intelligente: i soldati non
dormono, non hanno tempo perché devono vigilare sui potenziali attacchi.
Il tenente alla fine si arrende e, nell’ultima strofa, parla la ragazza: afferma con dignità
che in questi anni non ha mai perduto la verginità e che, da bravo soldato, è rimasta
sempre a fianco del suo primo amore.
Molto frequente, e probabilmente anche veritiera, è la situazione in cui la donna si sente
tradita perché ha visto l’amante insieme ad un’altra e decide di lasciarsi morire per il
dolore:
35
Antonio Virgilio Savona, Michele Luciano Straniero, Canti della grande guerra, vol. 2, Milano,
Garzanti, 1981, pp. 528-535.
27
Mai più nisun
Cara mamma serè la porta
Che qua no entra mai più nisun
Il testo è già abbastanza eloquente: la giovane innamorata vede il tradimento con i propri
occhi e questo le provoca tanto dolore da portarla alla morte, nonostante i tentativi della
madre di consolarla e di farla stare allegra.
36
Jahier, Gui, Canti di soldati, pp. 15-16.
28
In alcuni canti, infine, è il ragazzo a morire in guerra e la fidanzata, una volta appresa la
triste notizia, giura solennemente che il suo cuore apparterrà sempre al suo innamorato e
che non cercherà mai un altro fidanzato.
Ecco il testo:
Venü el cinquantanöv
che guera desperada!
E mi per sta cuntrada
l’hu pü vedù a pasà
e mi per sta cuntrada
l’hu pü vedù a pasà.
Scriveva la surela
del pover Luisin
che l’era mort in guera
de fianc al Castelin
che l’era mort in guera
de fianc al Castelin
29
Hin già pasà tri an,
l’è mort, el vedi pü
epür stu pover cör
l’è chi ancamò per lü
epur stu pover cör
l’è chi ancamò per lü.37
Il canto, pieno di amore e dolore, narra la storia di questa povera ragazza che non si
rassegna all’idea che il proprio fidanzato sia morto in guerra e afferma che, nonostante
siano già passati tre anni, il suo cuore appartiene ancora al “pover Luisin”.
I luoghi di incubazione dei canti di trincea erano diversi e Cesare Caravaglios, nel suo
libro del 1930, dedica un capitolo proprio a questo argomento. L’autore, prima di
affrontare i luoghi veri e propri in cui avveniva la formazione dei canti, fornisce
un’indicazione anche su quando venivano cantati: durante la marcia, per affrontare
meglio il lungo viaggio e per alleviare le sofferenze del soldato.
I canti sorgevano in trincea, durante le ore di attesa: a volte ne venivano creati di nuovi,
ma spesso e volentieri erano canti noti il cui testo rimandava agli affetti lasciati a casa.
Caravaglios riporta, a tal proposito, l’episodio della conquista del Monte San Michele ad
opera del 39simo reggimento fanteria: ad un certo punto, un fante intonò un canto
napoletano di scherno nei confronti del nemico austriaco, chiamato per l’occasione “zio
Salvatore”.38
Un altro tipo di marcia in cui si sentiva spesso cantare era quello che prevedeva lunghe
file di soldati e muli: anche in questo caso, venivano ripresi canti già noti e, quando
37
Pivato, Bella Ciao, pp. 37-38. Traduzione: Un giorno per questa contrada / passava un bel ragazzo /e un
mazzolino di rose / ha gettato sul mio balcone / e un mazzolino di rose / ha gettato sul mio balcone. / E per
tre mesi di seguito / e quasi tutti i giorni / passeggiava sempre / soltanto per vedermi / passeggiava sempre
/ soltanto per vedermi. /Venuto il cinquantanove / che guerra disperata! / e per questa contrada / non l’ho
più visto passare / e per questa contrada / non l’ho più visto passare. / Un giorno pioveva, verso sera /
scoppiavo col magone / quando m’è arrivata una lettera / bordata di nero a lutto / quando m’è arrivata una
lettera / bordata di nero a lutto. / Scriveva la sorella / del povero Luigino / che era morto in guerra / di fianco
al Castellino / che era morto in guerra / di fianco al Castellino. / Son già passati tre anni / è morto, non lo
vedo più / eppure questo povero cuore / è ancora qui per lui / eppure questo povero cuore / è ancora qui per
lui.
38
Cesare Caravaglios, I Canti delle trincee. Contributo al folklore di guerra, Roma, Leonardo Da Vinci,
1930, pp. 26-27.
30
sembravano arrugginiti, se ne creavano di nuovi. In questo caso, l’autore è attento anche
alle povere bestie, sottolineando la loro importanza nella guerra e chiedendosi se
qualcuno canterà mai le loro imprese.39
Ancora, i canti venivano cantati nelle baracche: soprattutto di notte era frequente sentire
il suono di un mandolino e una voce; era un modo per affrontare le notti interminabili, al
freddo e al gelo. I soldati cantavano anche durante il giorno, e affrontavano le ore di
riposo scherzando e burlandosi di tra di loro (sempre in musica). Altri luoghi in cui si
cantava erano la retrovia e la tenda.40
Particolare attenzione viene invece dedicata alle tradotte, lunghi treni che trasportavano i
soldati dal fronte a casa e viceversa. Caravaglios fa notare come il viaggio verso casa
fosse chiassoso, festoso, in cui aleggiava un clima allegro e gli uomini imbracciavano
frequentemente chitarre e mandolini e cantavano canzonette. Ben diverso, invece, era il
viaggio di ritorno verso la trincea: triste e caratterizzato dal silenzio.
Soldati e affetti a casa avevano una cosa in comune al momento della partenza: le lacrime
sul volto. Tuttavia, mentre i primi cercavano di trattenerle, spesso e volentieri i secondi
le lasciavano scorrere, senza vergognarsi.41
I soldati cantavano prevalentemente in forma corale: spesso il capo coro intonava una
strofa e gli altri gli rispondevano. Un esempio è riportato da Jahier a proposito del canto
“Quel mazzolin di fiori”: il primo verso di ogni strofa veniva cantato da uno solo, il
secondo all’unisono da un gruppo di cantori e il terzo prevedeva la partecipazione
dell’intero coro.42
Per quanto riguarda gli strumenti che accompagnavano la voce al fronte, è necessario fare
una precisazione. Esistevano ovviamente musicisti e direttori di banda, ma svolgevano la
loro funzione nelle bande militari e nelle fanfare, che sfilavano durante le parate, le
cerimonie e le sfilate. Il canto spontaneo dei soldati, invece, era accompagnato spesso da
tre strumenti: chitarra, mandolino e fisarmonica. A volte, però, il bisogno di fare musica
era così impellente che non di rado i soldati costruivano strumenti con i materiali che
avevano sottomano, ad esempio scatole di sigari o bidoni.
39
Ivi, p. 36, 38.
40
Ivi, pp. 40-42, 46.
41 Ivi, pp. 47-50.
42
Jahier, Gui, Canti di soldati, p. 7.
31
Alcune fotografie, infine, mostrano come gli uomini si fossero specializzati nel costruire
uno strumento cordofono primordiale, che veniva usato soprattutto al nord dai cantastorie,
chiamato torototella: si trattava di uno strumento monocorde che veniva suonato con un
archetto e che aveva come cassa di risonanza scatole, bidoni, una vescica gonfia d’aria e
altre cose simili.43
“Canta che ti passa” è un motto che venne coniato durante la Grande Guerra e che
sintetizza la risposta alla domanda: perché i soldati cantavano? Agostino Gemelli (1878-
1959), un cappellano militare al fronte durante la prima guerra mondiale, in un suo scritto
del 1917 sulla psicologia del soldato si interrogò proprio sulla funzione del canto in
trincea.
Nel testo si intuisce innanzitutto che il canto era un bisogno primario, un istinto, che
spesso il soldato non riusciva a controllare nemmeno quando gli si veniva ordinato di
stare zitto. Gemelli riporta l’episodio di un giovane rimproverato dal suo superiore perché
sorpreso a cantare e, quando quest’ultimo gli chiese come mai non stesse zitto, il ragazzo
rispose che non ci aveva minimamente pensato.
Al di là dell’episodio, il canto era un mezzo per i combattenti per esprimere i loro
sentimenti e contribuiva a tenere alto il loro morale. Il tema più frequentemente affrontato
era quello dell’amore e dell’affetto nei confronti delle madri e delle spose che attendevano
i soldati a casa e non è un caso se venivano cantati più gli affetti nostalgici che non lodi
nei confronti della patria. Il canto era anche un modo per rappresentare le dure condizioni
di vita dei soldati.44
È particolare l’interpretazione che diede Mario Griffini nella sua raccolta di canti:
Erano ricordi d’una vita passata, d’una vita che altri facevano mentre noi soffrivamo: anzi il nostro
pensare era appunto giustificato dal desiderio che gli altri godessero. Non ci battevamo noi per la
pace altrui? La Patria non era forse data dalle nostre famiglie, dalle nostre donne? 45
43
Castelli, Jona, Lovatto, Al rombo del cannon, pp. 133-134.
44
Gemelli, Il nostro soldato, pp. 191-192.
45
Mario Griffini, I canti del fante, Roma, Alfieri & Lacroix, 1922, p. 1.
32
Il riferimento a una vita passata permette di comprendere come il mondo di trincea fosse,
effettivamente, decisamente diverso da quello che si viveva a casa. Ovviamente, chi era
rimasto in città o in paese affrontava quotidianamente le sue difficoltà, ma il soldato
viveva ora costantemente sotto attacco e l’accenno alla vita passata sembra far capire sia
che fosse cosciente del fatto che la sua vita, una volta tornato a casa non sarebbe stata più
la stessa. L’effetto psicologico della nuova e devastante guerra di logoramento avrebbe
influenzato la psiche del soldato.
Questo è ben evidente nel canto “La sentinella”:
33
E invece ero con la mia bella
Sotto le piante a fare l’amor.46
La sentinella protagonista del testo è talmente abituata al suo lavoro che, quando dorme
al fronte, sogna la sua bella e, quando ritorna a casa, è convinto di essere di guardia al
fronte. È come se la vita che il soldato conduce prevalesse anche nei momenti di licenza.
Il canto aveva anche il potere di convincere il soldato a gettarsi nella mischia o, più in
generale, faceva da colonna sonora agli attacchi,47 e spesso serviva ad alleviare la fatica
e la stanchezza durante le lunghe marce.48
Un altro elemento significativo, e che il testo scritto da Luciano Viazzi e Augusto
Giovannini sottolinea, è che il canto aveva il potere di accumunare tutti: dal fante
all’imboscato, dall’alpino al bersagliere, dal montanaro al marinaio (probabilmente), non
c’era persona in guerra che non cantasse.49
In conclusione, ecco un canto raccolto da Costantino Nigra intitolato proprio “Il potere
del canto”:
46
Luciano Viazzi, Augusto Giovannini, Cantanaja. Antologia di canti dei soldati italiani ed austriaci nella
Grande Guerra 1915/1918, Bologna, Tamari, 1868, p. 100.
47
Cesare Caravaglios, i canti delle trincee. Contributo al folklore di guerra, Roma, 1934, p. 12.
48
Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, Torino, Einaudi, 1945, p. 10.
49
Viazzi, Giovannini, Cantanaja, p. 12.
34
8 Sapadur ch’a n’a sapavo
S’a n’i’n chito de sapè;
La serena ch’a cantava
S’a n’i’n chita de cantè.
10 Re di Fransa l’era a tàula,
s’a n’i’n chita de diznè;
S’a n’a i dis a le sue serve:
⎯ Chi saran cui përzunè?
12 Ün e ‘l voi ant le mie guárdie,
l’áut me page e lo vôi fè;
L’áut e ‘l vôi an scüdaria
Për sentì-je tant bin cantè. ⎯50
Il canto è uno strumento così potente che, secondo il testo, riesce addirittura a cambiare
le sorti di tre poveri fratelli prigionieri: la loro voce ammaliante ha stregato il re ed è
grazie a quella che riescono ad uscire di prigione e ad incominciare una nuova vita,
sempre accompagnati dalla musica.
Finora è stato trattato il tema del canto in trincea, ma non bisogna dimenticare che si
cantava anche fuori dal fronte. Ad accompagnare il lavoro con i canti erano soprattutto le
mondine e le filande: questa pratica sembra che fosse addirittura incoraggiata dal padrone
grazie alla figura di una donna addetta a controllare le operaie, la quale incitava le sue
lavoratrici perché, occupate com’erano a cantare, non avrebbero perso tempo in
chiacchiere e avrebbero reso molto di più. Che fosse questo il motivo o che ce ne fossero
altri, resta il fatto che il canto delle donne principalmente scandiva i tempi della fabbrica
e i ritmi di lavoro; allo stesso tempo, serviva a denunciare le condizioni di lavoro e quella
femminile in generale.51
Durante il fascismo la dimensione del canto popolare scomparve quasi completamente
per lasciare il posto agli inni ufficiali, pieni di retorica, e alle canzonette, grazie alle quali
50
Nigra, Canti popolari del Piemonte, p. 284. Traduzione: ⎯ Ci sono tre fratelli in Francia, tutti tre in una
prigione. Essi non hanno che una sorellina, sette anni non ha ancora. La sorella va a trovarli alla porta della
prigione. ⎯ O fratelli, miei cari fratelli, oh! cantate una canzone ⎯ Il più piccolo l’ha cominciata, gli altri
due l’hanno cantata. Marinai che navigano cessano di navigare; falciatori che falciavano cessano di falciare;
zappatori che zappavano cessano di zappare; la serena che cantava cessa di cantare. Il re di Francia era a
tavola, ei cessa di desinare; egli dice alle sue serve: ⎯ Chi saranno quei prigionieri? Uno lo voglio nelle
mie guardie, l’altro voglio farlo mio paggio, l’altro io lo voglio in scuderia, per sentirli sì ben cantare.
51
Pivato, Bella Ciao, pp. 65-66.
35
si cercò di ottenere il consenso della popolazione usando il mito dell’ordine, della
famiglia e del benessere.52 Fondamentale fu l’introduzione della radio nelle case degli
italiani, o meglio, di chi poteva permettersi l’apparecchio radiofonico, dal momento che
era molto costoso. Sebbene l’intenzione originale, al momento della costituzione della
EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) fosse quella di avere una copertura
radiofonica in tutte le case, nell’arco di una decina d’anni la radio cominciò sempre di più
ad entrare nelle vite della piccola e media borghesia, più «sensibili al fascino della
modernità».53
La radio giocò un ruolo non indifferente anche all’indomani dell’entrata in guerra del
paese: diffuse infatti le canzoni d’autore che si ispiravano alla conclusione del discorso
di Mussolini riguardo alla proclamazione dello stato di guerra dell’Italia e che
auspicavano una vittoria «In Terra in Cielo in Mare».54
Le canzoni prodotte in epoca fascista, tutte di autore e finalizzate ad indottrinare il popolo
e ad ottenere consensi, sono in grado di fornire a chi legge/ascolta un’immagine
deformata della realtà dell’epoca: per poter avere la visione corretta e completa della
società italiana è necessario prendere in considerazione anche il repertorio di canti della
Resistenza.55 Erano due i motivi principali per cui i partigiani cantavano, di sera, stretti
gli uni gli altri attorno al fuoco e “protetti” dalle loro montagne (di sicuro correvano meno
rischi che in città): grazie al canto si sentivano uniti e, insieme alla stampa clandestina,
potevano diffondere fatti di cronaca e far filtrare i loro ideali.56
Riepilogando, il canto in trincea era, prima di tutto, una necessità, un bisogno
insopprimibile, e aveva diverse funzioni.
Cantare serviva a manifestare i sentimenti dei soldati, in particolare quelli di affetto nei
confronti delle madri e delle spose lasciate a casa e di sofferenza per la lontananza da
esse, ma anche la speranza di ottenere presto una licenza e di ritornare dalle persone care.
52
Antonio Virgilio Savona, Michele Luciano Straniero, Canti dell’Italia fascista, Milano, Garzanti, 1979,
p. 10.
53
Gioacchino Lanotte, Mussolini e la sua “orchestra”. Radio e musica nell’Italia fascista, Roma,
Prospettiva, 2016, pp. 36-37.
54
Ivi, pp. 146-147.
55
Savona, Straniero, Canti dell’Italia fascista, p. 12.
56
Gioacchino Lanotte, Cantalo forte. La Resistenza raccontata dalle canzoni, Viterbo, Stampa Alternativa,
2006, pp. 6-7.
36
Il canto, quindi, serviva a ricordare una vita passata, quella che avevano vissuto i soldati
prima di partire per la guerra, ma anche a dimenticare, seppur momentaneamente, gli
orrori e le indicibili angosce e sofferenze a cui la vita di trincea li sottoponeva.
Cantare serviva ad alleviare le sofferenze e la stanchezza durante le marce, a tenere alto
il morale degli uomini. Non di rado venivano cantate strofette satiriche nei confronti
della guerra; la risata come arma di difesa contro il pianto era un altro modo per
sopravvivere. A volte si cantava per incoraggiare i soldati a fare un attacco, specialmente
quando erano stanchi o sfiduciati.
Durante il lavoro, specialmente in quello delle filande e delle mondine, il canto aveva una
doppia funzione: da una parte, serviva a scandire i ritmi e gli orari di lavoro; dall’altra
denunciava le condizioni di lavoro disumane a cui le donne erano sottoposte e, più in
generale, l’ingiustizia connessa allo status sociale della donna nella scala gerarchica della
società, ossia relegata a ruolo di sottoposta.
Il canto serviva, infine, a far sentire unito un gruppo composto da persone provenienti
dalle regioni più diverse. Durante l’epoca fascista le canzoni servivano ad indottrinare il
popolo, grazie a testi intrisi di retorica, ed erano tutte d’autore; i partigiani, invece,
cantavano per sentirsi uniti, per denunciare avvenimenti politici e storici a loro
contemporanei e per diffondere le loro idee.
37
Capitolo 2: la trasformazione di alcuni canti dell’Ottocento
“Donna Lombarda” è uno dei canti popolari ottocenteschi più noti in Italia, che si diffuse
soprattutto nella parte centro-settentrionale della nostra penisola.
Uno degli autori che si occupò di fornire un’analisi dettagliata del canto è Costantino
Nigra: egli, oltre ad individuare l’avvenimento storico/leggendario a cui si è ispirato il
testo della canzone, è uno dei pochi che si è preoccupato di raccogliere le varianti
dialettali non solo all’interno della sua regione, il Piemonte, ma anche quelle di altre
regioni. Ecco il testo:
A
⎯ Amei-me mi, donna Lombarda, amei-me mi, amei-me mi.
2 ⎯ O cume mai volì che fassa, che j’ò ‘l marì, che j’ò ‘l marì?
⎯ Vostro marì, donna Lombarda, fë-lo múrì, fë-lo múrì.
4⎯ O cume mai volì che fassa, fë-lo múrì, fë-lo múrì?
⎯ Mi v’mustrerò d’üna manera d’fë-lo mürì, fë-lo mürì.
6 Ant ël fiardin darè la caza j’è ün serpentin, j’è ün serpentin.
Piè-je la testa e pôi pistei-la, pistei-la bin, pistei-la bin;
8 E pôi bütei-la ant ël vin néiero, dè-je da bei, dè-je da bei;
Che’l vossa marì ven da la cassa cun tanta sei, cun tanta sei.
10 ⎯ Déi-me dël vin, dona Lombarda, j’ò tanta sei, j’ò tanta sei.
Coz’ j’éi fäit, dona Lombarda? L’è anturbidì, l’è anturbidì.
12 ⎯ Ël véint marin de l’áutra séira l’a anturbidì, l’à anturbidì.
⎯ Bëivi-lo ti, dona Lombarda, bëivi-lo ti, bëivi-lo ti,
14 ⎯ O cume mai volì che fassa, che j’ò nin sei, che j’ò nin sei?
⎯ L’è për la punta de la mia speja t’lo beverei, t’lo beverei. ⎯
16 ⎯ La prima gussa ch’a n’à beivü-ne, dona Lombarda cámbia colur.
La sgunda gussa ch’a n’à beivü-ne, dona Lombarda ciama ‘l consur.
18 La terza gussa ch’a n’à beivü-ne, dona Lomabarda ciama ‘l sotrur.
1
1
Nigra, Canti popolari del Piemonte, p. 1. Traduzione (pp. 1-2): ⎯ Amatemi me, donna Lombarda,
amatemi me (bis). ⎯ Oh come mai volete che faccia, che ho il marito? ⎯ Vostro marito, donna Lombarda,
fatelo morire. ⎯ Oh come mai volete che faccia (per) farlo morire? ⎯ Io vi mostrerò una maniera di farlo
morire. Nel giardino dietro la casa c’è un serpentello. Pigliategli la testa e poi pestatela, pestatela bene; e
38
Prima di analizzare le varianti dialettali accennate dal Nigra, è necessario capire chi sia
effettivamente la protagonista del canto e come abbia fatto, quest’ultimo, a diffondersi
fino al Lazio.
Chi era, dunque, donna Lombarda? Secondo Nigra, l’unica figura femminile che poteva
essere conosciuta più o meno da tutti ed essere chiamata così da tutte le versioni era la
regina dei Longobardi, Rosmunda, odiata dal suo popolo perché «due volte adultera e due
volte omicida».2
Come spiegato meglio (e in modo più sintetico) nell’introduzione alla raccolta dai canti
popolari veronesi, il canto probabilmente narra la tragedia avvenuta a Ravenna nel 573
che aveva visto come protagonista Rosmunda, figlia del re dei Gepidi e vedova del re dei
Longobardi. Secondo la leggenda, la donna avrebbe convinto il suo amante (Elmegiso o
Almachilde, non c’è un’interpretazione certa) ad assassinare il marito. Di fronte alla
resistenza del popolo di non acclamarla regina, si rifugiò a Ravenna dall’«esarca
Longino»: qui avrebbe tentato nuovamente di commettere omicidio, stavolta nei confronti
del novello marito; tuttavia quest’ultimo, accortosi dell’inganno, aveva costretto la
consorte a bere a sua volta la bevanda avvelenata, per cui erano morti entrambi.3
Nigra riporta che nella canzone sono presenti alcuni dettagli di cui non si ha riscontro
nelle cronache locali: ad esempio, in quasi tutte le versioni è presente la figura di un
bambino piccolo o di una ragazza che avvertono il padre di non bere il vino perché è
avvelenato. L’altra divergenza significativa rispetto alle cronache è la mancanza della
morte del marito4: nel canto, infatti, si insiste più che altro sulla punizione che “meritano”
le donne che tentano di assassinare gli uomini. Questa insistenza sull’avvelenamento da
parte della donna, secondo Nigra, rispondeva a due esigenze: in primo luogo, la punizione
andava sottolineata perché «se non è detta, non può presumersi».
poi buttatela nel vino nero, dategli da bere; che il vostro marito vien dalla caccia con tanta sete. ⎯ Datemi
del vino, donna Lombarda, ho tanta sete. Che ci avete fatto, donna Lombarda? Gli è intorbidato. ⎯ il vento
marino dell’altra sera lo ha intorbidato. ⎯ Bevilo tu, donna Lombarda, bevilo tu. ⎯ Oh come mai volete
che faccia, che non ho sete? ⎯ Per la punta della mia spada, tu li beverai. ⎯ La prima goccia che n’ha
bevuto, donna Lombarda cambia colore. La seconda goccia che n’ha bevuto, donna Lombarda chiama il
confessore. La terza goccia che n’ha bevuto, donna Lombarda chiama il sotterratore.
2
Ivi, p. 25.
3
Ettore Scipione Righi, Saggio di canti popolari veronesi, Verona, Tipografia di Pier-Maria Zanchi, 1865,
p. XXVII.
4
In realtà, è presente una sola versione in cui muoiono sia il marito che la moglie. Il testo è riportato in
Nigra, Canti popolari del Piemonte, p. 12.
39
La vicenda della donna omicida e avvelenata rispondeva inoltre ad un sentimento di
giustizia a cui il popolo obbediva e che si trasmetteva di generazione in generazione, pur
modificando (qui, ma anche in altri casi che verranno analizzati in seguito) la forma, il
linguaggio ma anche il contenuto.5
Una volta fornita un’identità alla donna Lombarda, resta da chiedersi come abbia fatto un
canto come questo a diffondersi in tutta l’Italia settentrionale e anche in quella centrale.
Giuseppe Tigri, nella sua introduzione ai canti popolari toscani, affronta un discorso che,
seppur riferito alla Toscana, è possibile applicare anche a questo caso.
L’autore riporta la notizia di alcuni canti che venivano cantati anche in altre province
d’Italia, mantenendo più o meno lo stesso stile e contenuto ma modificando il linguaggio
a seconda del dialetto, a tal punto che diventava difficile stabilire quale fosse la “patria”
di origine.
Come esempio pratico Tigri analizza in sintesi i collegamenti che c’erano, alla sua epoca,
sia tra Toscana e Liguria, sia tra Toscana e Romagna, Piceno e Umbria.
Per quanto riguarda i rapporti tra Toscana e Liguria, il Tigri ricorda che tra le due regioni
vi erano relazioni commerciali sia per mare (Livorno era lo sbocco commerciale favorito)
che per terra (le due terre, infatti, erano separate dal fiume Magra).
Inoltre, l’autore afferma che in Umbria, in Romagna e nel Piceno si sentivano canti
popolari toscani sia a causa delle relazioni commerciali, sia a causa dei continui
trasferimenti dei contadini toscani nelle terre soggette al Papato «per aiutare quelle genti
in opere rurali d’ogni maniera».6
La tesi del Tigri sembra essere confermata anche da altri due curatori di raccolte di canti
popolari, ossia Giuseppe Pitrè (autore della raccolta dei canti siciliani) e Oreste Marcoaldi
(autore della raccolta dei canti nelle zone della Liguria, dell’Umbria, delle Marche, del
Piemonte e del Lazio).
Nell’introduzione al suo volume Marcoaldi mette in rilievo come il ciclico trasferimento
dei contadini nelle campagne di regioni differenti per aiutare gli agricoltori di quelle terre
abbia contribuito alla diffusione dei canti di tradizione orale.
5
Ivi, p. 23.
6
Tigri, Canti popolari toscani, p. VIII.
40
L’autore sottolinea più che altro la “migrazione” degli agricoltori delle Marche in
Umbria; a loro volta, i contadini umbri, come già confermato dal Tigri, si trasferivano
nelle campagne e nelle maremme romane e a volte persino nel Napoletano, soprattutto
durante il periodo della semina e della mietitura.
Non era solo l’agricoltura a far muovere i contadini, ma anche la lavorazione delle fibre
tessili: dalle campagne di Fossombrone alcune persone si recavano in Toscana, nelle isole
Ionie e persino in Grecia, per insegnare agli abitanti a filare la seta. Marcoaldi ricorda
anche che la Liguria aveva rapporti stretti con Piemonte, Lombardia, Toscana, Corsica e
Sardegna perché durante la stagione invernale i contadini delle campagne liguri
producevano, per ordine del governo sardo e francese, legname per costruire le navi, a
suo dire eccellente e unico, e lo vendevano nelle altre regioni.7
Giuseppe Pitré sintetizza ciò che i due autori sopra citati hanno sostenuto a proposito della
diffusione di un canto popolare:
Non tutto però devesi a questo bisogno istintivo: il commercio, le comunicazioni hanno parte non
esigua nella diffusione di un nuovo canto, che ragion d’opportunità e circostanze di luogo e di tempo
fanno nascere in un punto solo e poi variare. […].
Essi di contrada in contrada sono accolti, adottati, abbelliti, modificati secondo le abitudini e il
carattere del popolo; non cangiano di natura, ma spesso assumono altre forme e divengono a poco a
poco napoletani, toscani, lombardi, veneti, come francesi, inglesi, alemanni, senza perdere lo stampo
loro primitivo. […].
Così la canzone che i popoli settentrionali d’Italia cantano ed intendono sotto il titolo della Donna
lombarda, la quale narra la tragedia seguita a Ravenna l’anno 573 dell’era volgare per opera di
Rosmunda regina de’ Longobardi, passando di paese in paese è già divenuta monferrina nel
Monferrato, comasca in Lombardia, veronese in Verona, ecc. 8
7
Oreste Marcoaldi, Canti popolari inediti umbri, liguri, piceni, piemontesi, latini raccolti e illustrati da
Oreste Marcoaldi, Genova, Tipografia De’ Sordo-Muti, 1855, pp. 23-24.
8
Pitrè, Canti popolari siciliani, pp. 20-21.
41
come punto di riferimento la prima versione raccolta dal Nigra: Piemonte, Lombardia,
Friuli Venezia-Giulia, Istria, Veneto, Emilia-Romagna, Marche, Umbria e Lazio.
La versione raccolta nel Monferrato da Giuseppe Ferraro presenta alcuni dettagli assenti
in quella dell’autore della raccolta dei canti piemontesi. Innanzitutto, l’amante che cerca
di sedurre la donna viene definito “cavaliere” e propone addirittura il matrimonio.
Il giardino in cui si trova la testa del serpente è quello del padre dell’amante (e re), e
quest’ultimo fornisce istruzioni ben precise riguardo al veleno: la donna, dopo aver preso
la testa, deve pestarla per bene in un mortaio di marmo fino e poi mettere il veleno al
fresco e nel buon vino.
Il marito, come nella versione del Nigra, si accorge che la bevanda ha qualcosa strano e,
in questo caso, la donna fornisce due giustificazioni: dice che sarà stato il vento marino
della sera precedente o (ed è questo il particolare inedito) il vento tramontano di quella
mattina.
Anche il finale è leggermente diverso. Alla «seconda goccia» che beve, donna Lombarda
non chiama il confessore, come nella versione del Nigra, ma raccomanda al marito i suoi
figli.
Il commento del consorte è durissimo: come ultimo consiglio alla donna dà quello di
pensare per sé e conclude dicendo che pensava di ingannare gli altri, quando è avvenuto
esattamente il contrario.9 Nella versione raccolta in Lombardia, la donna, all’inizio della
ballata, respinge le proposte dell’amante dicendo che ha un marito che le vuol bene: è
come se le dispiacesse di tradirlo perché, in fondo, gli è affezionata; questa velata
tenerezza nei confronti del consorte è presente solo in questa regione.
Il marito torna a casa assetato e, dopo tre versi di indecisione da parte dell’uomo su quale
vino bere, alla fine opta per quello nero: naturalmente, è proprio quello che contiene il
veleno.
È presente la figura del bambino che avverte il padre dell’inganno, ma si mantiene sul
vago per quanto riguarda l’età: si parla, infatti, di un fanciullo di pochi anni. Nel finale
scompare quel vago sentimento di affetto che sembrava esserci nella prima strofa: muore
per amore del re di Francia, ma ad ogni goccia avvelenata che beve saluta il marito.
9
Giuseppe Ferraro, Canti popolari monferrini, Torino-Firenze, Loescher, 1870, pp. 1-2.
42
La morale nei confronti delle donne “tiranne” è sempre la stessa: chi crede di ingannare
gli altri, alla fine si inganna da solo.10 La versione raccolta nel Friuli-Venezia Giulia non
presenta molti dati interessanti, tanto che ne viene riportata solo un pezzo, quello in cui
marito e moglie cominciano a dialogare: sembra essere assente l’introduzione, in cui
l’amante propone alla donna di uccidere il marito e le insegna come farlo.11
Prima di parlare della versione raccolta a Rovigno, è necessario spendere due parole sulla
storia della città. Pur essendo attualmente sotto la Croazia, e pur essendo già passata in
mano all’impero austro-ungarico al momento della pubblicazione della raccolta dei canti
popolari, l’Istria è sempre stata italiana, tanto da essere considerata la decima regione
d’Italia da parte di Ottaviano Augusto, aver avuto la cittadinanza romana ed essere stata
“unita” alla città di Venezia, distinguendo le due zone dal punto di vista geografico in
Venezia superiore e inferiore.12
Per quanto riguarda il testo, sono due i particolari che lo distinguono dalle altre versioni.
Una volta appurato che l’unico modo per ammazzare il marito è quello di mescolare il
serpente velenoso nel vino, alla donna viene suggerito il “procedimento” da usare per
estrarre il veleno: deve prendere la testa del rettile e pestarla per bene in mezzo a due
massi; in seguito deve mischiare il liquido con il vino bianco.
Inoltre, il marito in questo caso non viene servito dalla moglie, ma viene invitato da
quest’ultima ad aprirsi la credenza con la chiave. Il resto del testo è simile: anche se
manca la figura del bambino, l’uomo si accorge lo stesso che c’è qualcosa che non va nel
vino e costringe la moglie a berlo, uccidendola.
La versione raccolta a Verona è molto simile a quella piemontese, però presenta anch’essa
alcune differenze: la prima è che, una volta tornato a casa, il marito si accorge che c’è
qualcosa che non va nella bevanda e secondo donna Lombarda sono stati i tuoni della
sera precedente a intorbidire il vino.
10
Nanni Svampa (a cura di), La mia morosa cara. Canti popolari milanesi e lombardi a cura di Nanni
Svampa, Milano, Lampi di Stampa, 2001, pp. 219-221.
11
Giuseppe D’Arona, Dodici canti popolari raccolti in provincia di Udine: inchiesta effettuata sotto gli
auspici della Società filologica friulana e del provveditorato agli studi di Udine, Udine, Società filologica
friulana, 1952, pp. 25-27.
12
Arcangelo Ghisleri, L’Istria italiana e la tradizione perenne del nostro confine orientale riassunta dal
Prof. Arcangelo Ghisleri, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1918, pp. 6-7.
43
Inoltre, per la prima volta fa la comparsa nel testo il bambino piccolo, il quale avverte il
padre di non bere perché altrimenti muore: un avvenimento “miracoloso”, dal momento
che il fanciullo ha solo tre mesi.
L’uomo dà retta al figlio e costringe la moglie a bere: quest’ultima dice che berrà (e
morirà) per amore di un re di Francia.
Non manca qui, come nella versione monferrina, il commento finale: la fine di donna
Lombarda è quella che “si merita” la donna tiranna nei confronti del proprio marito.13
In Emilia-Romagna le versioni che si avvicinano maggiormente a quella veronese sono
quella che è stata raccolta nel canzoniere popolare della Romagna da Benedetto Pergoli
e quella raccolta a Pontelagoscuro.
Per quanto riguarda quest’ultima, prima di analizzarla è necessaria qualche dettaglio
sull’autore per il suo chiarimento relativamente al dialetto ferrarese.
Nell’introduzione, Giuseppe Ferraro espone i motivi per cui il dialetto, in quella zona, è
sempre stato poco stabile: storicamente la città ha subito l’influenza linguistica di altre
zone con le quali era in contatto dal punto di vista politico. Dalla fondazione della città
fino ai tempi di Ariosto le leggi e le gride dei duchi erano piene di parole latine e venete
a causa delle relazioni che la dinastia d’Este intratteneva con Venezia. Dal 1598 le
influenze venete avevano ceduto il posto a quelle romagnole, dal momento che Ferrara
era passata sotto il dominio dei Pontefici e, come ricorda ironicamente l’autore, «Venezia
non fu mai accetta ai Papi».
Ferraro aggiunge, infine, che nel corso del tempo il dialetto ha subito molte
trasformazioni e quello parlato a Pontelagoscuro è diverso rispetto a quello parlato a
Ferrara, pur trovandosi a sole quattro miglia da quest’ultima. Inoltre, l’autore sottolinea
che nella città di Ferrara sono presenti influenze venete, mentre a Cento sono presenti
quelle bolognesi.14
La versione raccolta a Pontelagoscuro è un po’ più corta, e meno specifica, rispetto a
quella veronese. La strofa in cui si parla dell’orto è molto interessante dal punto di vista
linguistico perché sembrerebbe confermare la teoria di Ferraro riguardo alle influenze
venete nel dialetto ferrarese.
13
Righi, Saggio di canti popolari veronesi, pp. 37-38.
14
Giuseppe Ferraro, Canti popolari di Ferrara e Pontelagoscuro, Ferrara, Taddei e figli, 1877, pp. 8-10.
44
Il contenitore in cui mescolare vino e veleno è chiamato «caratelo»: lo stesso termine
compare anche nella versione raccolta, appunto, in Veneto. Nella versione di
Pontelagoscuro non vi è menzione del fatto che il marito si accorge che il vino è
intorbidito, e di conseguenza non è presente nemmeno la risposta menzognera della
donna; in questo caso l’uomo viene avvertito direttamente dal bambino (sette mesi).
La conclusione è leggermente diversa rispetto a quella veronese: l’uomo dice che lei
morirà “per amore” della spada, mentre lei sostiene che morirà per il re di Francia.15
Nella versione romagnola, fin dal primo verso viene chiarito che l’amante è un re («sacra
curona») e, come nella canzone veronese, l’orto in cui si trova il serpente è quello del
padre. Gli unici elementi di novità in questo caso sono la causa dell’intorbidimento del
vino (tromba d’aria) e la presenza di un bambino di nove mesi.
Quando il marito la costringe a bere, donna Lombarda dice che farà «un bel fiore» al Re
di Francia e poi berrà e, nel verso successivo, si insiste nuovamente sul fare un fiore alla
corona francese e poi morire. Il commento finale è lo stesso della versione veronese: è
quello il modo in cui “finiscono”, quindi muoiono, le donne che sono tiranne nei confronti
dei loro mariti.16
La versione raccolta nelle Marche si mantiene più o meno sempre sullo stile delle versioni
analizzate precedentemente e l’unica aggiunta degna di nota è che la donna fa scegliere
al marito quale vino bere e l’uomo sceglie quello bianco.
Il finale del canto raccolto nella zona delle Marche si conclude in modo quasi identico
alla versione raccolta in Romagna, con una sola differenza: qui non vi è alcun cenno al re
di Francia.17
La versione umbra è molto simile alle precedenti. Dal punto di vista linguistico, è
interessante notare come il termine usato per indicare la caraffa sia “caraffina”, lo stesso
che viene usato nella versione della Romagna.
Il finale contiene un elemento di originalità che finora non è mai comparso negli altri
canti: cosciente della sua imminente fine, la donna chiede solo di poter pregare Dio, come
se, ormai in fin di vita, volesse redimersi dai suoi peccati. Il marito, però, non sembra
aver pazienza: la volontà di ammazzare la “moglie tiranna” è troppo forte.18
15
Ivi, pp. 82-83.
16
Pergoli, Saggio sui canti popolari romagnoli, pp. 3-4.
17
Antonio Gianandrea, Canti popolari marchigiani, Torino, E. Loescher, 1875, pp. 273-274.
18
Mario Chini (a cura di), Canti popolari umbri. Raccolti nella città e nel contado di Spoleto, Todi, Atanor,
1917, pp. 222-223.
45
Ecco, infine, la versione romana raccolta da Zanazzo: sembra essere una sintesi di tutte
quelle analizzate precedentemente. Anche in questo caso il contenitore del vino è
chiamato «caraffina», lo stesso termine usato nella versione romagnola e umbra.
Dalla versione marchigiana riprende la scelta del vino: anche in questo caso viene data al
marito la possibilità di scegliere la bevanda, tuttavia qui la risposta precisa non è data a
sapere, visto che risponde solo “quello più buono”. Alla domanda “Come mai il vino è
intorbidito?”, donna Lombarda risponde dicendo che la causa sono i tuoni della sera
precedente (come nella versione veronese e marchigiana). Il bambino che avverte il padre
di non bere è di nove mesi, un elemento comune a partire dalla Romagna.
Il canto si conclude, come nelle versioni raccolte dal Nigra e da Ferraro, descrivendo cosa
succede ad ogni sorso che beve. Al primo sorso cambia colore, al secondo cade in terra e
muore: quest’ultimo passaggio è in linea sia con la versione monferrina, dal momento
che anche nel Monferrato vengono citate «due gocce», sia con quella del Nigra, poiché
alla fine muore, proprio come la protagonista dopo il terzo sorso.19
È interessante notare che la figura del confessore compare solamente nella versione
raccolta dal Nigra, mentre nelle altre non è mai presente questo particolare.
Nel capitolo precedente è stato detto che un testo non può prescindere dalla melodia ed è
stato altresì sottolineato che sono rare le pubblicazioni di canti popolari che presentano
una trascrizione musicale.
Anche Giuseppe Ferraro lamenta, nella sua introduzione ai canti raccolti nel ferrarese,
questa mancanza, lodando invece gli sforzi delle raccolte francesi, che sono
abbondantemente fornite delle arie musicali.20
Tra i canzonieri finora qui presi in considerazione, solo due presentano la trascrizione
musicale di Donna Lombarda: quello piemontese21 e quello romano.22 Tuttavia, le due
melodie sono diverse tra loro, a tal punto da sembrare quasi due canti diversi.
Secondo Edith Sowell, autrice della raccolta di canti popolari della Corsica, la difficoltà
di trascrivere la musica di un canto orale è un problema che affronta tutta la storia della
musica.
19
Giggi Zanazzo, Canti Popolari Romani, Bologna, A. Forni, 1910, pp. 72-73.
20
Ferraro, Canti popolari di Ferrara e pontelagoscuro, p. 6.
21
Nigra, Canti popolari piemontesi, p. 569.
22
Zanazzo, Canti popolari romani, p. 367.
46
A detta dell’autrice, dall’antica Grecia all’Ottocento sono esistiti tre generi di esecuzione
musicale: enarmonico, cromatico e diatonico. Il metodo enarmonico, che prevedeva la
frammentazione dei semitoni, era quello più usato per il canto. Con l’introduzione della
notazione musicale, le melodie cominciarono ad essere trascritte usando il sistema
cromatico e, successivamente, quello diatonico, che invece non prevedevano la
suddivisione dei semitoni.
Dal momento che il sistema enarmonico continuava ad essere usato ancora dai cantori, la
trascrizione musicale non poteva essere precisa, quindi l’unico modo per restituire a chi
ascolta la vera anima della musica popolare era la registrazione sul campo.
Sowell mette in luce anche un altro limite della ricerca etnografica (ed etnomusicologica):
quello della memoria.
La memoria di un paese, in ambito folcloristico, è resistente soprattutto perché le
improvvisazioni di cantori anonimi diventano in breve tempo di pubblico dominio grazie
alla ripetizione orale. Le loro melodie, così come le loro strofe, sono inevitabilmente
variate da ogni esecutore. Secondo l’autrice, è importante stabilire se le melodie sono
quelle originali oppure le variazioni23.
23
Edith Southwell Colucci, Canti popolari corsi raccolti da Edith Southwell Colucci, Livorno, R. Giusti,
1933, pp. XVIII-XX.
24
Tigri, Canti popolari toscani, pp. XXV-XXVI.
47
Dal momento che lo strambotto è nato in Sicilia, è doveroso cominciare il percorso
geografico-musicale da quest’isola, per poi risalire e arrivare fino in Piemonte, in questo
caso capolinea.
Nella versione raccolta a Caltavuturo, il giovane si confessa con il Papa dicendo di essere
innamorato. La risposta del Santo Padre è che amare la donna altrui non è un peccato
(anche se lo assolve comunque), e, con fare canzonatorio, sottolinea che, se non fosse
Papa, riuscirebbe ad amare meglio di lui.25
In Calabria viene presentata questa versione. Il giovane si presenta dal Papa perché vuole
confidargli il suo peccato: ha intenzione di fare l’amore con una ragazza. Il santo padre
(e Dio) lo assolvono e, come già nella versione siciliana, il papa confessa che, se non
fosse vincolato da certi voti, riuscirebbe ad amare più di lui.26
In Puglia, a Lecce e a Caballino, sono presentati canti sulla confessione. Nel primo la
ragazza ha un nome, Rosa, e quando si confessa il confessore insinua che lei sia
innamorata, visto che la accusa di stare tutto il giorno alla finestra.
La giovane si indigna e risponde dicendo che certe domande non le dovrebbe fare e
minaccia di accusarlo davanti al padre provinciale.
Il secondo canto, invece, è un po’ più triste. Il ragazzo viene interrotto a metà confessione
dal prete, che gli chiede quale sia il suo peccato.
Il giovane gli narra la sua disavventura: lui ha amato per tanto tempo una donna, ma lei
all’ultimo momento lo ha tradito. Al consiglio di reagire e farsi trovare contento, più che
altro per far ingelosire la donna, il ragazzo risponde sempre più affranto: qualunque
tentativo di dimenticarla è inutile, continua a tenerle gli occhi addosso e a piangere.
In Basilicata si trova lo stesso pensiero che in Calabria: il Papa assolve dal peccato il
giovane perché non viene neanche considerato come tale e confessa che, se non vestisse
quegli abiti, sarebbe lui stesso innamorato.27
25
Pitrè, Canti popolari siciliani, cit., pp. 224-225.
26
Mario Mandalari, Canti del popolo reggino. Raccolti ed annotati da Mario Mandalari. Con prefazione
di Alessandro d’Ancona, lessico delle parole più notevoli del dialetto e scritti del Caix, Morosi, Imbriani,
Pellegrini e Arone, Napoli, Morano, 1881, p. 152.
27
Vittorio Imbriani, Canti popolari delle provincie meridionali raccolti da A. Casetti e V. Imbriani, Torino,
Loescher, 1871, pp. 385-387.
48
In Campania sono state raccolte due versioni per certi versi simile a quella della
Basilicata. Nel primo caso, la ragazza dice di voler baciare il piede del Papa e implorare
perdono perché è innamorata, e la figura religiosa le risponde che, se non fosse il santo
padre, sarebbe innamorato pure lui.28
Nel secondo caso, alla domanda del confessore con chi abbia rapporti, la ragazza risponde
che si confesserà con lui, ma dirà solo al priore con chi è fidanzata. Il prete sembra voler
tranquillizzare la giovane ammettendo che, una volta svestito degli abiti religiosi, anche
lui è un uomo fidanzato, quindi può confessarsi con lui.29
Nel Lazio il testo è un po’ più lungo del normale. Una ragazza riceve una proposta da un
ragazzo e, chiedendosi se il fatto sia morale o meno, chiede consiglio alla madre, la quale
però si svincola dalla domanda, preferendo indirizzare la figlia dal curato.
La giovane chiede dunque se amare sia un peccato: per tutta risposta, il religioso la
incoraggia ad andare avanti su quella strada perché l’amore non è un peccato.30
Nella vicina Umbria la ragazza si reca a Roma per confessarsi con un prete. Alla domanda
inopportuna per sapere se ha rapporti con qualcuno, la giovane lascia intendere che
praticherebbe questa attività se solo avesse un luogo in cui poterlo fare. Il prete la assolve
in nome di Dio e dei santi, poiché l’amore lo fa pure lui e tutti quanti.31
La versione raccolta nelle Marche è quasi identica a quella umbra, l’unica differenza è
che il prete prima le dice che se non smette di amare sarà disgraziata, poi la congeda con
la benedizione sopra citata.32
28
Luigi Molinaro del Chiaro, Canti popolari raccolti in Napoli con varianti e confronti nei varii dialetti,
Napoli, Tipografia F. Lubrano- S. San Pietro, 1916, pp. 257.
29
Ivi, pp. 259-260.
30
Zanazzo, Canti popolari romani, pp. 96-97.
31
Chini (a cura di), Canti popolari umbri, p. 150.
32
Gianandrea, Canti popolari marchigiani, p. 156.
33
Niccolò Tommaseo, Canti popolari toscani, corsi, illirici, greci, vol. 1, Venezia, Stabilimento tipografico
G. Tasso, 1841, p. 382.
49
Percorrendo la costa toscana verso Nord si approda in Liguria, dove il prete in questione
fornisce un dettaglio assente in tutte le altre versioni. Non solo non è un peccato fare
l’amore: se proprio uno deve farlo, basta che lo faccia con una bella ragazza.34
Anche la versione raccolta in Veneto è particolare. Il frate pone la consueta domanda alla
ragazza se ha mai avuto rapporti e la giovane, perplessa (e forse indignata), risponde che
le sue domande dovrebbero concentrarsi sui peccati e non sull’amore.
La risposta del religioso non lascia spazio all’immaginazione: le risponde che sì, non è
un peccato, e gli abiti da frate non gli impediscono di essere innamorato (da quel che si
può supporre, di lei).36
Dalla Sicilia al Piemonte, dal Sud al Nord, il tema dell’amore sembra essere
predominante. Sulla base delle versioni raccolte, si potrebbe rispondere alla domanda se
amare sia un peccato: lo è se si ama la donna o l’uomo di qualcun altro, e su questo l’Italia
dell’epoca sembra essere abbastanza concorde.
34
Marcoaldi, Canti popolari inediti, p. 90.
35
Ferraro, Canti popolari di Ferrara, p. 42.
36
Domenico Giuseppe Bernoni, Canti popolari veneziani, Venezia, Tipografia Fontana-Ottolini, 1872, p.
4.
37
Nigra, Canti popolari del Piemonte, p. 577.
50
Un canto popolare veniva trasmesso di generazione in generazione, sicuramente
all’interno della famiglia, ma aveva anche una dimensione collettiva.
Una dimostrazione è data dal rituale dei tre giorni della Merla: le testimonianze di alcune
contadine, nel territorio di Cremona, consentono di comprendere sia l’importanza di
questo rituale, sia lo stretto collegamento tra quest’ultimo e i diversi canti che fungevano
da colonna sonora all’evento.
38
Roberto Leydi, Guido Bertolotti (a cura di), Mondo popolare in Lombardia. Cremona e il suo territorio,
Milano, Silvana editoriale, 1979, pp. 479-480.
51
Il rituale della merla era un momento collettivo che serviva ad auspicare un buon
andamento dell’annata agraria, in particolare (stando ad alcune testimonianze) il primo
prodotto dell’anno: il baco da seta.
Per i contadini il baco era importante per due motivi: la vendita dei bozzoli costituiva il
primo rendimento economico dell’anno; in secondo luogo, la produzione era gestita
solitamente in modo diretto dalle famiglie, anche se era usanza dividere il ricavato con il
padrone che affittava loro la terra e i mezzi per coltivarla.
Il canto era fondamentale per la riuscita del rituale: se le voci dei due gruppi si fossero
sentite in modo chiaro e distinto, allora la produzione di baco da seta sarebbe stata
abbondante; in caso contrario si sarebbero fatti auspici per allontanare la sventura.39
La preparazione del rituale avveniva già qualche sera prima del 30 gennaio. Di solito, le
donne si riunivano nelle stalle e preparavano delle pezzuole che sarebbero servite ad
avvolgere le larve. Gli uomini, invece, preparavano la «fasinera» dove la merla avrebbe
cantato.
Nei giorni del rito, invece, i partecipanti si riunivano intorno alle fasinere: “la merla è
arrivata e tutti la cantano”, questa è la traduzione e la parafrasi dei primi versi del canto.
I giovani e gli uomini percuotevano con dei bastoni dei carri agricoli e, in generale, tutto
ciò che, con le percosse di uno strumento, poteva fare un forte rumore.
Due significati possono essere attribuiti a questa parte del rituale: secondo le
testimonianze la confusione serviva ad avvertire l’altro gruppo dell’inizio del rito. Per gli
autori, invece, il frastuono era legato più che altro alla credenza popolare secondo la quale
il frastuono serviva a spaventare, e quindi a mettere in fuga, gli spiriti malefici.
Più volte, dalle testimoni, viene ripetuta l’importanza della dimensione collettiva del
canto: non poteva essere eseguito singolarmente, era sempre necessaria una prima voce,
altre che facevano la seconda voce e altre ancora che facevano il basso; era un
avvenimento che coinvolgeva tutto il paese.
La donna che faceva la prima voce era, di solito, quella con l’estensione vocale più bella
e potente: il suo canto, dopotutto, doveva essere udito dall’altro gruppo canoro, che a
volte si trovava anche a cinque o sei chilometri di distanza.
39
Ivi, p. 479.
52
Dal momento che nel corso delle interviste l’elemento della voce limpida e potente
emerse più volte, secondo i curatori questo aspetto era legato, oltre che a un problema
logistico, anche alla dimensione rituale: più forte era il canto, maggiore era il grado di
elevazione rituale.
Il testo del canto si articola in tre parti: la prima strofa è l’unica che si ricollega in modo
evidente alla leggenda. Si annuncia, infatti, che se c’è nuvolo arriverà il sereno, e si
invitano le donne a filare.
Le successive strofe descrivono, in apparenza, l’evolversi delle stagioni: in realtà, si gioca
sul doppio significato di «brugna» (prugna), inteso sia come albero che come organo
genitale femminile e, in questa seconda accezione, vengono descritte le stagioni della vita
di una donna.
Le ultime sei strofe alludono al bucato primaverile, uno dei due momenti dell’anno in cui
questa attività si svolgeva in modo collettivo (l’altro era durante l’autunno). Per scaldare
l’acqua si usava la fascina su cui aveva cantato la merla.40
Ecco il testo:
40
Ivi, pp. 481-483.
53
‘nde ‘na funtana ciara
‘ndarum a slargala
‘nde ‘n bel giardén di fiori
‘ndarum a ripiegala
All’ombra dell’amore
‘ndarum a sarala
Cu’na ciaveta d’oro.41
Durante la fase centrale del rito venivano cantati sicuramente tre canti, di cui si riscontra
una grande diffusione in tutto il territorio lombardo, e nell’ordine sono: “La colombina
bianca”, “Bel uselin del bosch” e “Quel uselin che canta in torosela”.
Il canto della colombina bianca allude alle varie fasi del corteggiamento amoroso. Ecco
il testo:
41
Ivi, pp. 487-488. Traduzione: Butta la rocca in mezzo all’aia / se c’è nuvolo si rasserenerà / volilela volilà
/ volì vola / volì e volì e volela / La prugna è fiorita / e tutti la rimirano / la prugna fa il fiore / e tutti fanno
l’amore / la prugna è vigile / e tutti si riposano / la prugna è cascata / e tutti l’hanno aiutata / Camicia
ricamata / la metterò nel bucato. / Faremo una liscivata / ma ben insaponata / andremo a risciacquarla / in
una fontana chiara / andremo a stenderla / in un bel giardino di fiori / andremo a ripiegarla / all’ombra
dell’amore / andremo a serrarla / con una chiavetta d’oro.
42
Ivi, p. 489. Traduzione: La colombina bianca sa ben volare / Vola su un ramo si dondolerà / Vola in
mezzo al prato beccherà / Vola in mezzo al mare annegherà.
54
quel’uselin del bosco rataplàn
plàn plàn plàn plàn
Il terzo canto, infine, era chiaramente a sfondo sessuale e insisteva molto sul desiderio
della donna. Il momento più significativo del testo è quando dice «Me car amur tra ‘n p
na sciupetada»: su queste parole venivano sparate scariche di fucile rivolte al cielo.
L’ultimo canto della seconda parte del rituale recita così:
43
Ivi, p. 490. Traduzione: Quell’uccellino del bosco / dove sarà volato / In braccio alla mia bella / Cosa le
avrà portato / Una lettera sigillata / Ma cosa c’era scritto / Di sposar la bella / Mi sono sposata ieri / Ed oggi
son pentita.
44
Ivi, p. 491. Traduzione: Quell’uccellino che casca sulla terra / Vien giù da quella torre casca in terra /
Mio caro amore tira una fucilata / La vostra polvere sarà pagata.
55
Verso la fine di questa seconda parte, le donne correvano al riparo nelle stalle, lasciando
gli uomini al freddo. Dopodiché veniva eseguito, tra le proteste e i lamenti degli uomini,
il canto conosciuto come “Contrasto tra Martino e Marianna”.
Seguendo lo schema tipico della domanda e della risposta, il battibecco tra marito e
moglie, chiara imitazione dei dialoghi che avvenivano all’interno delle mura domestiche,
continuava fino a quando le donne non aprivano le porte delle stalle e gli uomini potevano
entrare.45
Ed ecco il canto finale di Martino e Marianna:
Un capelin Mariana
Corpo de biss, un capelin
Sango de biss, un capelin
Un capelin Mariana
45
Ivi, pp. 485-486.
56
Sa l’et pagà Martino
Corpo de biss, sa l’et pagà
Sango de biss, sa l’et pagà
Sa l’et pagà Martino
Me tè ‘n do du Mariana
Corpo de biss, me te ‘n do du
Sango de biss, me te ‘n do du
Me te ‘n do du Marianna
46
Ivi, pp. 492-493. Traduzione: Son tre giorni che piove e fiocca / e il mio Martino non è ancora tornato /
o che ha preso la sbronza / o che si è dimenticato / aprite l’uscio Marianna / dove sei stato Martino / sono
stato al mercato Marianna / che cosa hai comprato Martino / un cappellino Marianna / cosa l’hai pagato
57
4. Il testamento: un filo rosso attraverso i secoli e le guerre
Una volta che una musica viene acquisita nella tradizione collettiva, il testo di un canto
può subire due processi: essere ripetuto in modo uguale o essere adattato a seconda del
periodo storico o del contesto sociale e politico.
Un canto, di cui abbiamo la prima testimonianza scritta nell’Ottocento e che si è
trasformato nel corso delle due guerre e anche dopo il 1945, è “Il testamento del
Capitano”, già accennato nel primo capitolo.
La versione riportata dal Nigra è questa:
A
Sur capitani di Salüsse l’à tanta mal ch’a mürirà.
2 Manca ciamè sur capitani, manda ciamè li so soldà;
Quand ch’a l’avran muntà la guárdia o ch’a l’andéisso ün po’ a vedè.
4 I so soldà j’àn fáit risposta ch’a l’àn l’arvista de passè.
Quand ch’a l’avran passà l’arvista, sur capitani andrio vedè.
6
⎯ Coza comand-lo, capitani, coza comand-lo ai so soldà?
⎯ V’aricomand la vita mia che di quat part na débie fa.
8
L’è d’üna part mandè-la an Fransa e d’üna part sül Munferà.
Mandè la testa a la mia mama ch’a s’aricorda d’so primo fiöl.
10 Mandè ‘l corin a Margarita ch’a s’aricorda dël so amur ⎯
La Margarita in sü la porta l’eè cascà ‘n terra di dolur.47
L’origine del testo sembrerebbe risalire ad un fatto storico realmente avvenuto nel 1528
durante il corso della guerra di Napoli: la morte del marchese Michele Antonio di
Saluzzo.
Martino / cinque e tre otto Marianna / l’hai pagato troppo Martino / l’ho pagato con i miei Marianna / ti
arriva uno schiaffone Martino / io te ne do due Marianna / ma facciamo la pace Martino e Marianna.
47
Nigra, Canti popolari piemontesi, p. 506. Traduzione p. 507: ⎯ Signor capitano di Saluzzo ha tanto male
ch’ei morrà. Manda a chiamare signor capitano, manda a chiamare i suoi soldati; quando avranno montato
la guardia, ch’ei venissero un po’ a vederlo. I suoi soldati gli han fatto risposta, che hanno da passare in
rivista; quando saranno passati in rivista, signor capitano andrebbero a vedere. ⎯ Che comanda, capitano,
che comanda ai suoi soldati? ⎯ Vi raccomando il corpo mio, che quattro parti ne dobbiate fare. Una parte
mandatela in Francia, e una parte sul Monferrato. Mandate la testa alla mia madre, che si ricordi del suo
primo figliuolo. Mandate il cuore a Margherita, che si ricordi del suo amore. ⎯ La Margherita in sulla
porta cadde in terra dal dolore.
58
Nell’agosto di quell’anno il marchese era capitano generale dell’Armata di Francia e stava
combattendo con le sue truppe ad Aversa, bombardata dal principe d’Orange. Tuttavia,
l’uomo venne ferito da un colpo d’obice: venne trasportato a Napoli ed accolto nella casa
del Duca Tremoli, dove gli vennero somministrare le prime cure.
Le sue condizioni di salute, nonostante di sforzi per curarlo, peggiorarono rapidamente e,
compreso di essere ormai giunto alla fine della sua vita, il capitano fece chiamare i suoi
soldati: dettò loro il suo testamento, diventato leggendario nelle cronache popolari per
aver ordinato di dividere simbolicamente il suo corpo in tante parti quanti erano gli ideali
e gli affetti della sua vita.48
Nigra riporta che il canto veniva cantato anche in altri territori, come quello del
Monferrato, anche se con il titolo leggermente modificato.49 Già in questo caso è possibile
notare come il testo nella parte finale fosse a libera discrezione del cantore: infatti, la
versione raccolta da Ferraro nel monferrino riferisce che la donna giura di rinunciare
all’amore e, dopo quarantasei anni, è ancora disposta a piangere la morte del suo
capitano.50
Anche la versione raccolta a Pontelagoscuro è molto simile a quella raccolta a Torino da
Nigra. Le uniche differenze, in questo caso, sono: il titolo (il marchese si “trasforma” nel
capitano Beve L’Acqua) e il destinatario del secondo pezzo, che non è più il Monferrato
ma l’imperatore.51
La versione raccolta in Romagna è pressoché identica (cambia solo il nome dell’amante)
a quella torinese fino a quando la fanciulla casca in terra per il dolore. A quel punto,
qualche «lepido cantore» aggiunse un seguito alla storia: la donna, dopo nemmeno un
anno, pare aver sostituito il vecchio amante per un servitore.52
Durante la Grande guerra il testo veniva modificato a seconda del reparto che lo cantava,
e di conseguenza anche il titolo veniva cambiato.
Ad esempio, una prima versione rientra sotto il titolo de “Il testamento del Maresciallo”:
il capitano chiede di essere diviso in sei pezzi.
48
Viazzi, Giovannini, Cantanaja, p. 30.
49
Nigra, Canti popolari piemontesi, p. 508.
50
Ferraro, Canti popolari monferrini, p. 31.
51
Ferraro, Canti di Ferrara e pontelagoscuro, pp. 104-105.
52
Pergoli, Saggio sui canti popolari romagnoli, pp. 29-30.
59
Alla consueta richiesta di divisione del corpo in quattro pezzi da affidare al Re d’Italia,
al battaglione, alla madre e alla morosa, si aggiunge la richiesta di dare gli ultimi due
rispettivamente alle Tofane, affinché vi crescano fiori attorno, e alle frontiere perché si
ricordi del settimo alpino (probabilmente intendendo il settimo reggimento degli alpini).53
La versione riportata da Griffini presenta solo due differenze rispetto a quella riportata a
Jahier: le “Tofane” vengono sostituite dalle montagne, attorno a cui crescono comunque
fiori, e l’alpino viene sostituito dall’artigliere.54
Nella versione intitolata “Il comandante la compagnia” il moribondo ordina di essere
diviso in cinque pezzi, affidando il quarto pezzo alla sua compagnia, affinché si ricordi
del suo capitano, e ovviamente l’ultimo alle montagne. La caratteristica principale di
questa versione è che, negli ultimi due versi, l’uomo sembra sintetizzare tutto il testo:
rimarca il fatto che, una volta morto, il suo cadavere dev’essere diviso in cinque pezzi.55
Un’altra versione molto simile a quella descritta poco sopra è “Il capitano è ferito”: in
questo caso il primo pezzo viene affidato al Re d’Italia perché si ricordi dei suoi alpini
(negli altri casi, invece, si parlava di soldati) e, in ordine di importanza, al battaglione
affinché si ricordi del suo capitano. Il resto del testo si mantiene coerente con le altre
versioni: un pezzo alla mamma, un pezzo alla morosa e l’ultimo pezzo alle montagne.56
Il testo viene riportato, nella maggior parte dei canzonieri, sotto il titolo di “Il testamento
del capitano”: l’unica differenza è il «si» all’inizio del secondo verso, che non è presente
nelle due raccolte di Caravaglios.57
53
Jahier, Gui, Canti di soldati, pp. 10-11.
I canti degli italiani. I° fascicolo dal 1799 al 1918, Foligno, Editore Campi, 1942, p. 38.
54
Griffini, I canti del fante, p. 19.
Caravaglios, Canti popolari di guerra (1915-1918), pp. 8-9.
55
Alberto Colantuoni, Canti di trincea restituiti ai testi originari, o integrati, da Alberto Colantuoni,
Milano, Carisch & C., 1929, p. 26,
Federazione Bresciana dei Combattenti, Inni patriottici e canti della trincea, Brescia, Conti & C., 1931, p.
40.
Associazione nazionale del fante, Canta che ti passa. Raccolta di canti di trincea, Roma, Stabilimento
tipografico V. Ferri, 1933, p. 15.
56
Caravaglios, I canti delle trincee, pp. 194-195.
Caravaglios, I canti delle trincee (contributo al folklore di guerra), p. 71.
57
Associazione Nazionale Alpini sezione di Novara, Canti alpini, Novara, E. Cattaneo, 1930, p. 48.
Serafino Baj, Canti di guerra e patriottici, Milano, La Tipografica-Corso Garibaldi, 1933, p. 12.
Radiocanzoni Celebri, 3° fascicolo, Foligno, G. Campi, 1941, p. 17.
Ufficio Propaganda della Milizia (a cura di), Canti legionari, II edizione, Roma, Scali editore, 1942, p. 24.
Opera Nazionale Dopolavoro (a cura di), Ai soldati d’Italia (Canzoniere del soldato), Milano, 1943, p. 39.
Savona, Straniero, Canti della grande guerra, II volume, pp. 560-561.
60
La versione riportata da Salsa, Piccinelli e Bazzi è un po’ più lunga: in questo caso viene
rimarcato il colloquio tra i soldati e il capitano. La prima volta i soldati dicono di non
poter raggiungere il capitano perché non hanno scarpe, ma quest’ultimo non vuol sentire
ragioni: anche senza scarpe li vuole accanto a sé. Nella strofa successiva la scena si ripete
quasi identica, solo che i sottoposti fanno notare al loro capitano che non hanno corde per
arrampicarsi: la risposta del loro superiore è sempre la stessa. Il resto del testo è uguale a
quello riportato nella maggior parte dei canzonieri e rimarca, come nella versione titolata
“Il comandante la compagnia”, che il cadavere dev’essere diviso in cinque pezzi. 58
In due canzonieri, la cui data di pubblicazione è ignota, si rimarca che ad essere diviso in
cinque pezzi non è il corpo ma … il cuore!59
Esiste anche una versione breve del testamento: in questo caso, non vengono nominati né
il Re d’Italia né il battaglione; il cadavere dev’essere affidato solo agli affetti più cari,
ossia la mamma, la morosa e la montagna.60
Infine, esiste la versione in cui il capitano chiede di essere diviso in ben sette pezzi. Questa
è più ricca rispetto alle altre finora analizzate brevemente. Innanzitutto, quando il
moribondo chiede che i suoi alpini lo raggiungano, si viene a sapere che c’è il ghiaccio:
è per questo che, senza corda, i suoi sottoposti non lo possono raggiungere.
Il resto del testo sembra quasi sintetizzare tutte le versioni finora citate: il primo pezzo va
al Re, il secondo al reggimento, il terzo al battaglione, il quarto alla mamma, il quinto
all’innamorata, il sesto alla montagna e il settimo alle frontiere.61
Come già accennato, il canto veniva intonato non solo dagli alpini o dalla fanteria, ma
anche dagli altri corpi dell’esercito. È doveroso citare anche la versione del Testamento
ad opera del comando dell’artiglieria: al posto del corpo del capitano si trova la batteria.
58
Achille Martelli (presentazione di), Ta pum. Canzoni in grigioverde commentate, armonizzate, illustrate
da Salsa, Piccinelli, Bazzi e presentate dal Ten. Gen. Ecc. Achille Martelli medaglia d’oro, Roma,
Piccinelli, 1943, pp. 43-44.
59 a
1 Legione Milizia Universitaria “Principi di Piemonte”, Il Canzoniere della rampante, Torino, Ditta arti
grafiche f.lli. Pozzo, p. 21.
1a Legione Milizia Universitaria “Principi di Piemonte”, La rampante in colonia, Torino, Ditta arti grafiche
f.lli. Pozzo, p. 31.
60
Canti di guerra, 1944, p. 14.
61
Canzoniere del soldato, P.N.F. edizione, Milano, Domus, 1942, p. 25.
Canzoniere del soldato, Milano, Domus, 1943, p. 46.
61
I primi due pezzi vengono affidati rispettivamente al Re d’Italia e alla Nazione, affinché
si ricordino dei loro cannonieri; il terzo pezzo alla mamma perché si ricordi del figlio, il
quarto alla morosa, affinché si ricordi del suo primo amore.62
L’aria del “Testamento del Capitano” ebbe un successo tale che fu usata anche dopo il
1945 per commemorare fatti storico-politici avvenuti durante il periodo della RSI.
Il canto intitolato “I sette Cervi” venne composto probabilmente attorno al 1950
(sicuramente dopo la fine della guerra) e si serve della melodia del “Testamento” per
ricordare l’eccidio dei sette fratelli Cervi.
È doveroso accennare brevemente alla storia di questi sette fratelli, a cominciare dai loro
nomi: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore.
Figli di Alcide Cervi (a cui, tra l’altro, verrà dedicato un canto a parte), erano tutti
partigiani che furono arrestati per opera dei nazifascisti nel 1943 a Campegine; il 28
dicembre dello stesso anni vennero fucilati per rappresaglia al poligono di tiro di Reggio
Emilia.63
Ecco il testo:
62
Caravaglios, I canti delle trincee, p. 195.
63
Savona, Straniero, Canti della resistenza italiana, p. 127.
62
per la bandiera dei tre color
i sette Cervi l’hanno onorata
col loro sangue e col loro amor.
Il testo è commovente ed è emblematico perché non parla solo dei sette fratelli, ma dei
partigiani in generale.
La prima stella serve a rischiarare il cammino dell’Italia: una patria libera grazie al
sacrificio di giovani come i Cervi.
Nella terza strofa sembra esserci un doppio testamento: i morti da ricordare sono sia i
fratelli sia, più in generale, i partigiani che sono morti combattendo per la libertà; i primi
sono “responsabili” di evitare che il sacrificio dei secondi (e il loro) vada dimenticato.
Tra l’altro, in poche parole viene spiegato in che condizioni combatteva un partigiano: al
gelo, sotto la neve e senza cibo.
Dal momento che il testo è pieno di sentimenti partigiani, non poteva mancare un simbolo
fondamentale da associare alla terra per cui si combatte: la bandiera; i sette fratelli l’hanno
64
Ivi, pp. 382-383.
63
onorata con amore e con il sangue, un connubio che non è nuovo al mondo delle canzoni
e che si presta molto bene ad essere adattato e modificato a seconda di chi lo canta.
Nella strofa successiva viene citata Reggio Emilia: una delle città che si oppose alla
dittatura durante il periodo nazifascista, oltre che il luogo in cui vennero trucidati i sette
giovani.
Nelle versioni del “Testamento” raccolte tra le due guerre l’ultimo pezzo veniva dato alle
montagne, coperte di rose e fiori; in questo caso la montagna viene sostituita dalla terra,
sempre coperta di rose e fior ma “innaffiata” con il «sudore», anche se è meglio dire
sangue, dei Cervi.
Nella penultima strofa si invoca la pace e si afferma che, sulla terra, ci si impegnerà a non
far tornare la guerra; la settima stella, infine, serve come eterna guida per i giovani.
L’inno ad Oberdan venne composto subito dopo la morte di Guglielmo Oberdan, martire
dell’irredentismo, avvenuta nel dicembre del 1882, ed è una perfetta testimonianza di
come un canto ottocentesco venga rielaborato nel corso del tempo, adattandosi al contesto
storico-politico e rispecchiando, allo stesso tempo, i sentimenti del popolo italiano (o
almeno di una parte).
Per comprendere pienamente il significato dell’inno è necessario inquadrarlo
storicamente e accennare, per prima cosa, alla questione dell’irredentismo italiano
risorgimentale.
In un volume dedicato al tema del nazionalismo e uscito nel 1910, Scipio Sighele trattò
la questione dell’irredentismo, dandone innanzitutto una definizione.
Secondo l’autore esistevano due concezioni di irredentismo. La prima, da lui definita
storico-sentimentale, definiva l’irredentismo come un partito o una tendenza che aveva
come unico scopo quello di dichiarare guerra all’Austria per poter riavere le città di
Trento e Trieste.
La seconda corrente, che era poi quella che rispecchiava il suo pensiero, individuava
l’obiettivo primario dell’irredentismo nella difesa della nazionalità italiana nelle terre
irredente da chi voleva sopprimerla e assorbirla (ovvero l’impero austro-ungarico),
64
affinché la lingua e la cultura italiana rimanessero intatte almeno fino al giorno in cui
l’Italia sarebbe riuscita a riprenderle.65
Sighele concluse il trattato sottolineando che l’irredentismo non poteva essere dissociato
dal nazionalismo, da lui inteso come fede, dal momento che non vi era possibilità di
scegliere a quale nazione appartenere.
L’irredentismo, secondo lui, era «il fiore più puro del nazionalismo, perché non è
desiderio di conquista, ma affermazione di un diritto».66
La “data di nascita” della corrente irredentista risale al 1866 quando, alla conclusione
della terza guerra d’indipendenza, l’Italia liberò il Veneto e la provincia di Mantova
dall’oppressione austriaca, senza riuscire però ad ottenere il Trentino, Trieste, l’Istria e la
Dalmazia.
Gli sforzi per includere queste terre in territorio italiano non mancarono, ma né
l’intervento dell’inviato italiano Manabrea, né l’appoggio della Prussia riuscirono ad
evitare come condizione dell’armistizio lo sgombero dei militari e volontari italiani nel
Trentino (Riva del Garda, infatti, era stata occupata dalle camicie rosse garibaldine,
mentre Pergine, sopra Trento, dai bersaglieri regi).
Nel 1870 anche Roma venne annessa al Regno d’Italia (la famosa Breccia di Porta Pia),
segnando il compimento dell’unità italiana.
Da quel momento, visto che mancavano ancora i territori di Trento e Trieste,
l’irredentismo cominciò ad essere considerato come una nuova aspirazione politica.
Una protesta da parte del movimento irredentista ci fu quando, nel 1874, l’imperatore
Francesco Giuseppe si recò a Venezia per “restituire” la visita effettuata l’anno
precedente da parte di Vittorio Emanuele II a Vienna. In quell’occasione, gli irredentisti
fecero sentire la loro voce ricordando che mancavano da annettere le città di Trento e
Trieste.
Nel 1878, dopo la delusione dell’Italia di non aver ricevuto alcun territorio in seguito alla
firma del trattato di Berlino, si verificarono diverse manifestazioni violente, specie a
Venezia, contro il Consolato austriaco.
65
Scipio Sighele, Il nazionalismo e i partiti politici, Milano, F.lli Treves, 1911, pp. 234-235.
66
Ivi, pp. 250-253.
65
Nello stesso anno si costituì, nel territorio italiano, un comitato pro Italia irredenta, di
stampo garibaldino, guidato dal generale Avezzana e da M. R. Imbriani, ai quali Garibaldi
mandò loro l’augurio di poter «stringer loro la destra su nuovi campi di liberazione».67
Nel 1878 l’Austria invocò a gran voce l’aiuto degli italiani per sottomettere la Bosnia
Erzegovina.
Nonostante gli appelli di Garibaldi e del Comitato triestino per le Alpi giulie di contrastare
l’azione austriaca, andando ad occupare il «campo opposto a quello dove andrà ad
appollaiarsi il vorace mostro bicipite», il reggimento a cui venne affidato Oberdan, il 22°,
comandato dal maresciallo Giuseppe von Weber, si mobilitò parzialmente e questo
67
Gualtiero Castellini, Trento e Trieste: L’irredentismo e il problema adriatico, Milano, F.lli Treves, 1918,
pp. 4-8.
68
Francesco Salata, Guglielmo Oberdan secondo gli atti segreti del processo: carteggi diplomatici e altri
documenti inediti: con illustrazione e facsimili, Bologna, Zanichelli, 1924, pp. 1-2.
66
infranse l’illusione del giovane di veder ritardata la chiamata sotto le armi fino alla
conclusione del suo percorso di studi superiori (era uno studente di una scuola tecnica).
Pervaso com’era da sentimenti irredentisti, il ragazzo aderì solo formalmente alla
chiamata del reggimento, fuggendo da Trieste qualche mese dopo.
Tra le numerose versioni che testimoniano la fuga del giovane, quella più affidabile è
quella deposta dal padre adottivo, Francesco Ferencich, al Comando della Brigata di
Fanteria, il 13 settembre 1878, quando venne interrogato presso il Tribunale provinciale
di Trieste.
Stando alle dichiarazioni dell’uomo, Oberdan si trovava a Vienna per motivi di studio
quando furono chiamati i volontari del reggimento Weber e raggiunse Trieste qualche
giorno dopo aver ricevuto l’avviso.
Essendo volontario, gli venne concesso di dormire nella casa del patrigno, con il quale
non scambiò che poche parole.
Il 16 luglio Ferencich rincasò alle 11 di sera e, notando l’assenza del figliastro, chiese
spiegazioni alla moglie, la quale rispose che il ragazzo, rientrato alle sette, si era spogliato
degli abiti militari e aveva indossato quelli civili perché aveva promesso ad alcuni amici
di prendere parte ad un banchetto in una trattoria.
L’uomo pensò che il ragazzo sarebbe rientrato più tardi del solito e si sentì più tranquillo.
La mattina dopo, tuttavia, non ne trovò traccia nella stanza e, nonostante le numerose
operazioni di ricerche, confermò più volte di non sapere dove si trovasse.
In realtà, in una lettera Oberdan rivelò di aver confidato alla madre il suo proposito di
fuggire ed approdare ad Ancona dopo averle dimostrato «la necessità del sacrifizio che le
imponeva con il suo esilio».
La decisione non fu improvvisa, ma maturò nel tempo, e la giustificazione che diede ad
un suo amico nei giorni precedenti la fuga denota una piena consapevolezza della
situazione e una profonda convinzione delle idee di libertà territoriale che da sempre lo
accompagnavano: «Io non andrò mai a combattere contro un popolo che pugna per la sua
libertà: non potrò mai essere complice di siffatto assassinio».69
Per Oberdan l’occasione di manifestare pienamente i suoi sentimenti irredentisti arrivò
nel 1882, quando venne a conoscenza del progetto dell’Esposizione Nazionale di Trieste,
in occasione del 5° centenario dell’appartenenza del territorio triestino all’Austria.
69
Ivi, pp. 16-18.
67
In uno degli appelli rivolti ai compagni irredentisti nel luglio 1882, egli diceva:
La nostra condotta […] durante il periodo dell’esposizione dev’essere non solo negativa, ma passiva.
A quei forestieri che verranno in Trieste, dobbiamo far conoscere il nostro odio all’Impero
Austriaco, sia astenendoci da tutti quei pubblici e privati spettacoli, che si danno in tale circostanza,
sia anzi cooperando acciò non crescano o vengano almeno molestati.
«Popolo di Trieste! La Patria ha bisogno di te! L’insulto che l’Austria ti ha scagliato in faccia con
l’esposizione devi vendicarlo …. […].
Viva Trieste! Viva l’Italia!».70
Queste parole non erano che una delle tante avvisaglie dei sentimenti irredentisti che
erano sempre più diffusi in territorio triestino.
Tuttavia, nonostante questi avvertimenti l’esposizione generale venne inaugurata il 2
ottobre 1882.
Durante un corteo formato da veterani austriaci, che era in procinto di recarsi verso il
palazzo della Luogotenenza per rendere omaggio all’arciduca Carlo Lodovico, però,
esplose una bomba (probabilmente di tipo Orsini, a giudicare dal testo del canto): ci
furono due morti e una quindicina di feriti.71
Anche Oberdan si era recato clandestinamente all’inaugurazione e aveva preso parte ai
fatti del due agosto; d’altra parte, sopra viene ricordato come il proposito del giovane
fosse quello di evitare che Trieste manifestasse nuovamente la sua fedeltà agli Asburgo
e, per raggiungere tale scopo, gli irredentisti non avrebbero avuto alcuna esitazione a
provocare qualche manifestazione anche violenta.72
Il 16 settembre dello stesso anno Oberdan venne arrestato a Ronchi e, stando alle
testimonianze dell’epoca, il giovane ebbe una colluttazione con il capoposto di
gendarmeria Tommasini: questo gli costò due ferite da taglio. 73
Oberdan venne processato e condannato a morte con tre capi d’accusa: diserzione, tentato
omicidio contro il gendarme e alto tradimento.
Dopo la sua morte, il vero motivo per cui venne condannato suscitò diverse controversie
in Italia e in Austria:
70
Ivi, pp. 54-56.
71
Ivi, p. 59.
72
Ivi, p. 98.
73
Ivi, p. 117.
68
Si è commesso da parte austriaca in questa occasione un errore al quale si può attribuire non poca
parte dei tristi fenomeni che si sono manifestati in Italia. Si è trascurato di far sapere in modo chiaro
il perché veramente Oberdank sia stato giustiziato. […]. In Italia sembra essersi diffusa nelle classi
inferiori la credenza che Oberdank sia stato giustiziato perché egli, disertore del reggimento Weber,
avesse tentato di strappare violentemente Trieste e l’Istria dal dominio austriaco, ossia che sia stato
giustiziato a causa di un reato politico. Qui in Austria si è convinti del contrario. Si ritiene che se
Oberdank non avesse fatto che prendere parte ad una cospirazione di alto tradimento la sentenza di
morte sarebbe stata senza fallo commutata in una condanna di reclusione a vita od a tempo. La
partecipazione ad un reato politico non verrebbe certamente punita con la morte; [...]. Se ciò
nondimeno Oberdank cadde sotto il carnefice, ciò avvenne evidentemente solo perché il tribunale
militare e le competenti autorità superiori avevano acquisito la convinzione che egli fosse implicato
nell’attentato delle bombe del 2 agosto, attentato che costò la vita ad un fanciullo e membra e salute
a parecchie persone.74
Quale che fosse il motivo, resta il fatto che Oberdan venne considerato il primo martire
dell’irredentismo.
Trattandosi si un evento politico di un certo rilievo, fu quasi una conseguenza normale la
creazione di un canto, pochi anni dopo la morte del ragazzo, che allo stesso tempo
spiegasse cos’era successo e potesse esprimere i sentimenti irredentisti che infiammavano
almeno una parte degli italiani.
La versione creata alla fine dell’Ottocento è questa:
74
Ivi, pp. 256-257.
69
A morte Franz! Viva Oberdan!
A morte Franz! Viva Oberdan!
75
Giuseppe Maria Lombardo (a cura di), I canti della patria, II ed., Bergamo, Tipografia Giudici, 1936,
pp. 90-91.
Francesco Sapori (a cura di), Canti della patria, III ed., Bergamo, Tipografia Giudici, 1941, pp. 115-116.
70
La prima strofa parla di uno dei motivi per cui fu arrestato Oberdan: le bombe all’Orsini
e il pugnale sono i due strumenti che il ragazzo aveva con sé il giorno in cui venne
catturato.
Nella seconda e nella terza strofa sembra che venga giustificata l’azione di Oberdan:
liberarsi del giogo austriaco. La quarta e la quinta strofa sembrano cantare il “testamento”
dell’irredentista: in nome della sua morte i suoi compagni lo vendicheranno, eliminando
l’imperatore, e combatteranno per la libertà dei territori, allo scopo di riunirli tutti in un
unico spazio materno, quello italiano.
L’inno ebbe probabilmente una rapida diffusione e, stando a quello che riporta Griffini
nel suo canzoniere del 1922, durante il periodo della neutralità fu cantata con un ritornello
diverso (morte a Giolitti).76
La versione cantata durante la Grande guerra è molto più corta di quella scritta in epoca
risorgimentale e viene modificata solamente la terza strofa, che recita così:
Savona e Straniero fanno notare, nel loro canzoniere, che l’«austriaca gallina» è un chiaro
riferimento all’aquila bicipite austriaca, insegna che cambiò nel 1919 (l’immagine
76
Griffini, I canti del fante, p. 22.
77
Collezione di Pubblicazioni Patriottiche, I canti della patria, N. 1, Livorno, Tipografia G. Chiappini,
1915, p. 12.
Renato Caddeo (a cura di), Inni di Guerra e Canti patriottici del Popolo Italiano, Milano, Risorgimento,
III ed., 1915, p. 111.
Griffini, I canti del fante, p. 22.
Una Brigata di Fanti di ogni trincea e di tutte le guerre, Canta che ti passa. Canti di Trincea, Cremona,
Tipografia Centrale, 1926, p. 16.
Colantuoni, Canti di trincea, p. 11.
Federazione Bresciana dei Combattenti, Inni patriottici e canti della trincea, p. 8.
Savona, Straniero, Canti della Grande guerra, I vol., pp. 200-203.
Inno di Oberdan, foglio volante, Firenze. Il foglio riporta la II e la III strofa invertite rispetto alle altre
versioni.
71
dell’animale era provvista di una sola testa e aveva un aspetto molto più modesto) e venne
nuovamente dichiarata stemma statale nel 1934.
Sempre nel commento all’Inno ad Oberdan, i due autori affermano che il testo dell’Inno
venne cantato anche da alcuni reparti dei nostri soldati sui campi di battaglia.78 Questa
notizia sembra essere confermata da Griffini che, nel suo canzoniere, riporta due varianti
cantate sull’aria dell’inno a Oberdan.
Ecco i due testi:
Variante
Griffini non riporta in che occasioni furono composte queste due versioni, tuttavia è in
grado di fornirci due informazioni importanti: afferma, infatti, che vennero cantate nel
1916 e nel 1917 dai reparti della fanteria.
L’autore mette in luce il fatto che tra la fanteria e la cavalleria spesso non correva buon
sangue e la canzone diventava il mezzo, per il fante, per lanciare «i suoi strali» contro i
cavalieri.79
I fogli volanti editi negli anni della prima guerra mondiale presentano anch’essi varianti
diverse dal punto di vista del testo.
Una delle più interessanti è quella riportata dal musicista Paolo Ortura, autore della
riduzione della musica per mandolino. Le strofe che si mantengono all’incirca sullo stesso
78
Savona, Straniero, Canti della Grande Guerra, I vol., pp. 202-203.
79
Griffini, I canti del fante, p. 62.
72
stile della versione ottocentesca, mentre la seconda è un po’ diversa da quella riportata
dagli altri canzonieri del ’15-18 e ne viene aggiunta una, a conclusione del canto,
abbastanza singolare. Di seguito, le strofe “inedite”:
[…]
Trieste la terra irredenta
Unita vogliamo all’Italia
A morte l’austriaca canaglia
E noi vogliamo la Libertà.
A morte Franz, Viva Oberdan.
[…]
Dal testo è possibile intuire che il cantore fosse dichiaratamente irredentista e non avesse
timore ad ammetterlo, altrimenti non avrebbe avuto senso dichiarare Trieste «terra
irredenta».
L’ultima strofa attacca l’imperatore Francesco Giuseppe, chiamato tiranno, e gli si augura
di morire nello stesso modo e luogo in cui è stato ammazzato Oberdan: sulla stessa forca.
Il messaggio, neanche troppo velato, è che solo liberandosi fisicamente del “tiranno” le
terre irredenti torneranno al territorio italiano. Su un altro foglio volante, probabilmente
pubblicato sempre durante il periodo della prima guerra mondiale, alle tre canoniche
strofe ne vengono aggiunte altre due, diverse e a loro modo interessanti:
Vindici della tragica Lissa
Noi verremo nell’Adriatico mare
Barbaro, contro te a guerreggiare
E noi vogliamo la libertà
Morte a Franz,
Viva Oberdan!
80
Paolo Ortura, Inno Triestino a Oberdan, foglio volante, Napoli, A. Di Paolo, 1915.
73
Va, fuggi dalla bella Trieste
Croato … e al novello destino
La rendi al gentile latino
Chè noi vogliamo la libertà.
Morte a Franz,
Viva Oberdan!81
Questa versione, più che essere rivolta all’imperatore, sembra voler mettere in chiaro le
intenzioni degli irredentisti di riconquistare, tra i vari territori irredenti, sicuramente Lissa
(chiaro riferimento alla battaglia avvenuta nel 1866, con vittoria austriaca), e Trieste, da
sempre terra agognata dal movimento irredentista.
L’8 settembre del 1943 il maresciallo Badoglio annunciò alla radio l’armistizio firmato il
3 settembre a Cassabile dal generale Castellano.
A quel punto l’Italia si divise in due. Al Nord Mussolini creò a Salò un governo fantoccio,
la Repubblica Sociale Italiana, esprimendo la decisione di riprendere le armi a fianco di
Germania, Giappone e degli altri alleati, eliminare i nemici, riorganizzare le forze armate
e «annientare le plutocrazie e fare del lavoro finalmente il soggetto dell’economia e la
base infrangibile dello Stato».
Al Sud, invece, continuò ad esistere il vecchio Stato monarchico, guidato da Badoglio, e
dopo la svolta di Salerno si creò un governo di unità nazionale presieduto da Badoglio,
da sei partiti del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), con capitale Salerno.82
Fino ad allora la musica a livello popolare veniva trasmessa principalmente attraverso la
radio, i canzonieri dell’epoca e durante le manifestazioni del dopolavoro: non era di certo
simbolo del sentimento spontaneo dell’essere umano.
Tra il 1943 e il 1945 si assiste, invece, ad un recupero di quelle canzoni di tradizione orale
di origine risorgimentale e/o risalenti alla guerra precedente, modificandole nuovamente
sulla base delle idee e dei sentimenti di chi cantava.83
Se ciò è vero soprattutto per la resistenza armata, è possibile applicare lo stesso discorso
anche alle canzoni cantate in trincea durante il periodo della Rsi. Venendo a mancare le
81
Inno di Oberdan, foglio volante.
82
Lanotte, Cantalo forte, pp. 10-13.
83
Savona, Straniero, Canti della Resistenza italiana, p. 6.
74
infrastrutture diffusive, la necessità di cantare tra i soldati di trincea venne soddisfatto,
proprio come nella Grande guerra, riadattando i brani già noti.
Nel periodo della Rsi la melodia dell’Inno a Oberdan permise tanto al fascismo quanto
alla resistenza di esprimere il loro punto di vista e il loro disappunto nei confronti
dell’altro.
Ecco il testo della versione fascista:
1.
Vogliamo scolpire (scolpire) una lapide
incisa in cima ad uno scoglio,
a morte il vile (il marchese) Badoglio:
noi siam Fascisti repubblican!
2.
Vogliamo scolpire (scolpire) una lapide
Incisa sui muri di Troia (su pelle di troia)
a morte la Casa Savoia:
noi siam Fascisti repubblican!
3.
Vogliamo scolpire una lapide
scolpita con becchi d’uccelli;
basta col papa Pacelli
noi siam Fascisti repubblican!84
4.
Vogliamo scolpire una lapide
incisa su tutti i giardini
siamo squadristi di Mussolini
noi siam Fascisti repubblican
84
Riscossa Europea Circolo di Politica Cultura Tradizionale Onlus (a cura di), Le donne non ci vogliono
più bene. Il canzoniere della R.S.I., p. 15.
75
A morte il re, viva Grazian
evviva il Fascio repubblican.
5.
Vogliamo scolpire una lapide
incisa col nostro pugnale,
viva la Repubblica Sociale
noi siam Fascisti repubblican!
6.
Fuoco! Fuoco! Su banditi e ribelle
dinamite alle sinagoghe ed alle chiese,
pugnalate al vigliacco borghese,
noi siam Fascisti repubblican!
7.
Siamo belve assetate di sangue
Impiccheremo banditi e ribelli,
bruceremo le loro case,
noi siam Fascisti repubblican!
8.
Con le budella dell’ultimo giudeo
Impiccheremo Badoglio e il re,
con le barbacce dei loro rabbini
faremo scope per gli spazzini.
9.
A morte la casa Savoia
Lordata di fango e di sangue
A morte quei figli di troia
Noi siam Fascisti repubblican!
76
10.
Vogliamo scolpire una lapide
Incisa su pietra garibaldina
A morte la vacca regina,
noi siam Fascisti repubblican!
85
Giacomo de Marzi (a cura di), I canti di Salò. Il canzoniere della R.S.I, Genova, F.lli Frilli, 2005, p. 150.
77
A morte il fascio repubblican,
a morte il fascio, siam partigian.
A morte il fascio repubblichin,
a morte Hitler viva Stalin.
78
A morte il fascio repubblican
a morte il fascio, siam partigian.
A morte il fascio repubblichin
A morte Hitler viva Stalin.86
In questo caso a fare da protagonista è l’idea di libertà: a parte nei ritornelli, la parola
compare nell’ultimo verso di ogni strofa. Il canto sembra descrivere un’azione. Già
all’inizio si rende manifesta la volontà di combattere il fascismo in modo armato e, se da
una parte l’appellativo di “bandito” viene giustificato dal fine dell’azione (come a voler
sottolineare che essere un partigiano non è un’azione criminale), dall’altra si invocano i
caduti affinché aiutino i vivi a lottare in nome di ciò che è per loro sacro.
Gli autori del canto (generalmente questi testi venivano redatti in maniera collettiva)
accennano ad un giorno importante perché è quello in cui verrà conquistata la libertà.
Anche se non è possibile conoscere la data di creazione di questa parodia, tre elementi
sono però in grado di fornirci indicazioni sulla possibile paternità del testo. È abbastanza
probabile che gli autori appartenessero ad una delle brigate Garibaldi. Il ritornello esalta
Stalin, il rappresentante per eccellenza del comunismo, e il simbolo di «falce e martello»
è anch’esso l’emblema della corrente di pensiero comunista. Di conseguenza, è possibile
che la 2a brigata citata nella penultima strofa fosse proprio una di quelle appartenente alla
divisione Garibaldi, di stampo comunista.
86
Lanotte, Cantalo forte, p. 205.
Savona, Straniero, Canti della Resistenza, pp. 137-138.
79
Anche durante il 1915-1918 questi desideri erano molto sentiti, ma le versioni che sono
state raccolte negli anni immediatamente successivi la fine della guerra sono molto più
corte rispetto all’originale.
L’inno ebbe sicuramente una grande risonanza a livello popolare, tanto che venne
riutilizzato durante il periodo della Rsi da parte dei fascisti e da parte della Resistenza.
Come accennato prima, durante il periodo della Repubblica di Salò vennero a mancare i
mezzi di diffusione della musica tramite la radio, i canzonieri d’autore e i cori delle
organizzazioni del dopolavoro e si assistette ad un ritorno del canto popolare e spontaneo,
in grado di restituire, attraverso le parole (nuove) e melodie (preesistenti), sentimenti e
opinioni del popolo italiano.
I soldati della Rsi erano pervasi da animo squadrista e, se come punto di riferimento si
tengono le prime tre strofe del canto “Vogliamo scolpire una lapide”, le personalità che
speravano di eliminare erano Badoglio, il Papa e la casa Savoia.
Dal canto loro, i partigiani, probabilmente appartenenti alla Brigata Garibaldi visti gli
indizi che rimandano ad una formazione di stampo comunista, avevano come unico
obiettivo quello di combattere per liberare l’Italia dal regime nazi-fascista.
Il personaggio di Oberdan verrà ricordato anche nel canto La Leggenda del Piave, ma di
questo si parlerà meglio nel quarto capitolo.
.
80
Capitolo 3. La trasformazione di alcuni canti del Novecento
Un canto riesce, con poche parole, a fornire a chi ascolta elementi in grado di collocarsi
in modo abbastanza preciso sia nello spazio che nel tempo. Il Monte Canino a cui si
riferisce questa canzone è quello situato nelle Alpi Giulie, al confine tra Italia e Slovenia,
difficilmente accessibile e raggiungibile solamente attraverso sentieri di montagna. Prima
della guerra quelle zone erano governate dall’impero austro-ungarico ma, dopo l’inizio
delle ostilità, vennero conquistate dagli italiani, poiché gli austriaci preferirono spostarsi
in una zona più sicura ad est del monte.
Durante il conflitto i reparti che controllavano stabilmente la zona erano soprattutto il 1°
Reggimento degli Alpini, alcuni reparti di Artiglieria, di Bersaglieri e Minatori e
Zappatori del Genio; questi ultimi erano importanti perché si occupavano di edificare
81
opere viarie e di fortificazione. Dopo la disfatta di Caporetto, il Monte Canino tornò sotto
il controllo dell’impero austro-ungarico e vi rimase fino alla fine della guerra.1
Ecco il testo del canto nella versione più frequente (quattro strofe):
Alcune versioni sostituiscono la terza strofa con un’altra, in cui non c’è spazio per i
sentimenti ma solo per la battaglia:
1
Pierluigi Ridolfi (a cura di), Canti e poesie della Grande guerra. Per non dimenticare, Roma,
Associazione Amici dell’Accademia dei Lincei, 2014, pp. 100-101.
2
Savona, Straniero, Canti della grande guerra, vol. 2, pp. 579-580.
Giacomo Goldaniga, Così cantavano i camuni, Boario Terme (Bs), Lineagrafica, 1993, p. 75.
Ridolfi (a cura di), Canti e poesie della Grande guerra, pp. 100-101. Qui la terza e la quarta strofa sono
invertite.
Paolo Pietrobon, Sergio Piovesan, A cent’anni dalla prima guerra mondiale, Venezia, Associazione Coro
Marmolada, 2014, p. 34.
Brian, Zamboni, La Grande Guerra cantata, p. 79.
82
questa trincea passata non sarà.3
Probabilmente questa è la strofa più realistica di tutte: gli uomini vengono paragonati a
delle bestie, costrette a dormire sul nudo terreno come gli animali. Gli alpini vivevano in
condizioni talvolta disumane e tra le lotte quotidiane c’era anche quella per il cibo. I morsi
3
Gruppo di ricerca sul canto popolare (a cura di), Sei bella sei splendida. 207 canti popolari ritrovati nella
memoria degli abitanti di S. Ilario e Gattatico, Sant’Ilario d’Enza, Pubblicato in proprio, 1998, p. 142.
4
Paolo Vinati, Sotto l’ombra di un bel fior. Canti di tradizione orale a Brione, Brescia, Grafo, 2004, pp.
132-133.
83
della fame sicuramente dovevano farsi sentire e il consiglio, da quanto si può capire da
queste parole, è quello di non pensarci, altrimenti è peggio.
Il problema della sete, invece, poteva risolversi più facilmente: dal momento che sulle
montagne c’era quasi perennemente il ghiaccio, almeno in inverno la neve poteva essere
sciolta e bevuta. Nella strofa che compare solamente in alcune versioni, «E con l’aiuto
dei nostri ufficiali», si fa riferimento alla costruzione delle trincee, altro evento che
testimonia perfettamente la vita di un soldato al fronte. Una volta arrivati sul monte,
infatti, il primo obiettivo è quello di scavare le fosse in cui nascondersi per poter attaccare
e difendersi.
Il canto descrive poi il momento dell’attacco: la mattina designata all’assalto il tenente
prepara i suoi plotoni, li fa appostare sui burroni e, ad un cenno, comincia il “concerto”
di fucili e mitragliatrici.
In alcune raccolte viene documentata anche questa strofa:
Quello che passa al nemico non se ne ragiona. Lo sappiamo noialtri fanti che abbiam preso le granate
dopo poche ore che aveva disertato. […].
Prima traditore, eppoi assassino dei suoi fratelli. Non c’è rimedio.
Quello che diserta all’interno, anche quello è un traditore. È una brutta figura quanto l’altro.
5
Savona, Straniero, Canti della Grande guerra, vol. 2, p. 580.
Viazzi, Giovannini, Cantanaja, p. 89.
Cesare Bermani, Antonella De Palma, E non mai più la guerra. Canti e racconti del ’15-’18, Venezia,
Società di Mutuo Soccorso Ernesto de Martino, 2015, pp. 109-110.
84
Abbandonando il suo posto al momento del pericolo, lui scarica sui suoi compagni fedeli la sua parte
di sacrificio.6
Due tipi di traditori: quelli che passano al nemico sono disprezzabili perché rivelano
indicazioni sulla posizione delle proprie trincee (anche se costretti a farlo). Coloro che,
invece, fuggono davanti ai nemici sono ugualmente da condannare perché lasciano i
compagni a subire, al posto loro, la dose di granate.
La terza tipologia di disertore, invece, è ancora più grave:
Tu sai che sono pochissimi i disertori italiani che passano al nemico. Qualche povero pazzo e basta:
per birbo e incosciente che uno sia, il peggio non se lo va a cercare.
I disertori nostri sono ritardatari a rientrar di licenza che – una volta messi sulla brutta strada del
ritardo – finiscono disertori. […].
Viene poi il momento della partenza. Peggio che peggio. Le famiglie per consolare non san dir altro
che: poverino! e i conoscenti: poverino! e quasi quasi anche il Comando di stazione che vidima il
foglio di viaggio: poverino!
Ma ve lo mettete una buona volta in testa che chi va verso il maggior pericolo per il dovere non è
un poverino: È UN BRAVO, perdio! E ditegli una volta bravo se volete esaltarlo a patire ancora ber
il bene di tutti.
Invece lo mettete in un contrasto di sentimenti così pauroso che chi non può risolverlo ci mette sopra
una sbornia e dalla sbornia passa al ritardo e dal ritardo alla diserzione e alla rovina.7
In poche frasi Jahier illustra problema e soluzione dell’ultimo tipo di disertore, quello che
si congeda per la licenza e, una volta giunto il momento di ritornare al fronte, non arriva
mai a destinazione. La causa della diserzione è da ricercarsi nel fronte interno: amici,
parenti, persino quelli del convoglio, appena vedono che il congedato è pronto per tornare
al fronte, lo salutano dicendo: oh poverino! Secondo l’autore, quell’esclamazione è
sufficiente per innescare nel soldato una reazione a catena impossibile da fermare: l’uomo
infatti viene pervaso da un sentimento di paura, che cerca di combattere bevendoci sopra;
la sbornia, tuttavia, causa il ritardo (è possibile ipotizzare che non arrivi in tempo a
prendere la tradotta), che a sua volta causa la diserzione e quindi la rovina. A questo
punto, per Jahier l’unica soluzione è cambiare la frase di congedo: non più «poverino»
6
Piero Barba, Nemici in casa. Il disertore, in «L’Astico», n. 25, 25 luglio 1918.
7
Ibidem.
85
ma «bravo». Sì, perché se il primo termine causa sconforto, il secondo avrà sicuramente
l’effetto di esaltare il soldato e, anzi, di incitarlo a partire e patire per il bene della patria.
Al di là degli slanci patriottici di cui è intriso l’articolo di giornale sopra citato, il
problema della diserzione era un pericolo sopravvalutato dal Comando Supremo, dal
momento che la maggior parte dei disertori (come aveva detto bene Jahier) era composta
da soldati che avevano perso il senso dell’orientamento e che vagavano vicino alle zone
di confine in preda a paura. Al fronte, le forme di diserzione erano costituite più
dall’autolesionismo e dalla simulazione di malattia che non da una fuga vera e propria o
da un passaggio nelle file nemiche.
L’Italia considerava disertori anche coloro che venivano fatti prigionieri. Gli altri paesi
aiutarono, in qualche modo, i soldati che venivano catturati, mentre l’intento dello Stato
italiano era quello di impedire «che la prigionia potesse apparire come un miraggio di
salvezza dal fronte, spingendo i soldati italiani a consegnarsi agli austriaci». Ecco perché,
nell’ultima strofa, viene cantato «se ci rendiamo sarem prigionier»: un miraggio che
probabilmente aiutava gli italiani al fronte a sopravvivere.8
Nella versione riportata nel canzoniere di Vinati si sentiva mormorare che, se i soldati si
fossero arresi, si sarebbero consegnati agli austriaci, ma quest’opzione non era prevista
nella mente di chi la cantava.
La strofa finale, infatti, recita:
L’intento è fin troppo chiaro: in terra nemica non dev’esserci spazio per la diserzione
(anche se è un’opzione possibile), bisogna solo vincere, piantando come simbolo di
vittoria la bandiera.
Il canzoniere non riporta in che anni e da chi è stata raccolta questa versione, ma vista
l’esaltazione patriottica degli ultimi due versi, decisamente poco in linea con la semplicità
e la genuinità dei contenuti e dei sentimenti prima descritti, è possibile che l’informatore
8
Bermani, De Palma, E non mai più la guerra, pp. 109-110.
9
Vinati, Sotto l’ombra di un bel fior, p. 133.
86
abbia aggiunto le ultime due righe del canto di sua iniziativa e che non fosse un fante o
un alpino ma un generale/ufficiale: i soldati di trincea, di solito, cantavano d’amore e di
sofferenze, non esaltavano il loro grado né tantomeno osannavano la patria e la bandiera.
Finita la guerra del 1915-1918, cominciò ad emergere nella politica italiana Benito
Mussolini. Salito al potere con la violenza ed entrato a far parte a pieno titolo
nell’immaginario popolare grazie alla sua vasta opera di propaganda, nel 1935 il dittatore
italiano decise di dichiarare guerra all’Abissinia per recuperare quel “posto al sole”, una
delle tante frasi per cui è diventato famoso. Mussolini voleva conquistare un impero e
giustificò con “un posto al sole” l’Italia proletaria, mentre la motivazione ufficiale era
che le colonie italiane della Somalia e dell’Eritrea erano minacciate e si sentiva la
necessità di vendicare offese alla nostra bandiera da parte dell’esercito del Negus. Quale
che fosse la motivazione reale, già nel febbraio del 1935 Mussolini aveva cominciato e
completato l’opera di mobilitazione di settantacinquemila camicie nere, tutte pronte per
arruolarsi e andare a combattere in Africa Orientale.10
Ecco una parte del discorso pronunciato il 2 ottobre 1935 da palazzo Venezia da
Mussolini, e trasmesso in radio:
Camicie nere della rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia! Italiani sparsi nel mondo oltre i monti
e oltre i mari! Ascoltate!
Un’ora solenne sta per scoccare nella storia della patria. Venti milioni di uomini occupano in questo
momento le piazze di tutta Italia. […].
La loro manifestazione deve dimostrare e dimostra al mondo che Italia e fascismo costituiscono una
identità perfetta, assoluta, inalterabile. […].
Non è soltanto un esercito che tende verse i suoi obiettivi, ma è un popolo intero di quarantaquattro
milioni di anime, contro il quale si tenta di consumare la più nera delle ingiustizie: quella di toglierci
un posto al sole. […].
Abbiamo pazientato tredici anni, durante i quali si è ancora più stretto il cerchio degli egoismi che
soffocano la nostra vitalità. Con l’Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni! Ora basta!
Alla Lega delle nazioni, invece di riconoscere i nostri diritti, si parla di sanzioni. […].
10
Giacomo De Marzi, I canti del fascismo, Genova, Fratelli. Frilli, 2004, p. 103.
87
Alle sanzioni economiche opporremo la nostra disciplina, la nostra sobrietà, il nostro spirito di
sacrificio.
Alle sanzioni militari risponderemo con misure militari. Ad atti di guerra risponderemo con atti di
guerra.
Nessuno pensi di piegarci senza aver prima duramente combattuto. Un popolo geloso del suo onore
non può usare quel linguaggio né avere atteggiamento diverso! […].
Italia proletaria e fascista, Italia di Vittorio Veneto e della rivoluzione! In piedi! Fa’ che il grido
della tua decisione riempia il cielo e sia di conforto ai nemici in ogni parte del mondo: grido di
giustizia, grido di vittoria!11
Il testo è pieno di termini retorici e Mussolini fece leva sulla drammaticità del discorso,
sul senso di onore del paese e sull’ingiustizia delle sanzioni economiche e militari da
parte di altri paesi. A ben guardare, il discorso non si poneva proprio come dichiarazione
di guerra, visto che l’unica motivazione era quella di recuperare il posto al sole, ma ciò
non toglie che il 3 ottobre 1935 le truppe italiane varcarono i confini tra l’Eritrea e
l’Etiopia, penetrando in territorio nemico.12
I canti che nacquero durante la campagna di Etiopia furono vari e tutti d’autore, il più
famoso di tutti è sicuramente “Faccetta nera”. Pochi canti della tradizione orale, com’era
accaduto già durante la Grande guerra, vennero riadattati sulla melodie di musiche
precedenti.
Tra l’ottobre e il novembre 1935, o in anni immediatamente successivi, sulla melodia del
“Monte Canino” venne adattato un testo che, per certi versi, si pone in continuità con
quello della versione originale del canto, ma è indice anche di un mutamento di valori.
Ecco il testo:
1.
Non ti ricordi quel cinque novembre
quel bastimento che scappa sul mare
che trasportava migliaia di camicie nere
su, su correte ch’è l’ora di partir!
11
Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano, Torino, Loescher, 1974, pp. 163-164.
12
Ivi, pp. 140-141.
88
2.
Quella mattina il tenente fa sveglia
tutto d’un tratto raduna il plotone
e sulla cima di un nero burrone
contro il nemico mitraglia sparerà.
3.
Addio letti cuscini e lenzuoli
non più l’ebbrezza dei caldi tuoi baci
ma là ci sono gli uccelli rapaci
e da lontano il rombo del cannon.
4.
E tu Abissinia che sei così lunga
e fatti avanti se hai del coraggio
che se la buffa ti lascia il passaggio
noi legionari fermarti ben saprem.
5.
E con l’industria dei battaglion d’assalto
abbiam formato una lunga trincea
se l’Inghilterra facesse la guerra
questa trincea sfondata non sarà.13
Questa canzone fu udita da Ennio Flaiano nel 1935, probabilmente poco dopo l’inizio
della guerra14: perlomeno, questo è quello che si può dedurre dal secondo verso, anche
perché la campagna vide impegnati i soldati dal 3 ottobre 1935 al 5 maggio 1936.
Al di là della data precisa o presunta dell’inizio del viaggio in Abissinia, ciò che va
nuovamente sottolineato è la straordinaria capacità di un testo di restituire un’immagine
quasi precisa di quello che doveva essere un trasferimento dei soldati nelle zone di guerra.
«Quel bastimento che scappa sul mare, che trasportava migliaia di camicie nere»: la frase
è verosimile. Se nella Grande guerra il mezzo di trasporto privilegiato per portare i soldati
dalle case al fronte era la tradotta, durante la guerra di Abissinia i militari potevano essere
trasportati solamente con le navi. Il numero di militari trasportati sul bastimento è
13
De Marzi, I canti del fascismo, p. 320.
14
Ennio Flaiano, Tempo di uccidere, Milano, Rizzoli, 2000, p. 275.
89
verosimile: come accennato, già a febbraio del 1935 erano 75mila coloro che avevano
chiesto di essere arruolati nei reparti dell’esercito destinati alle zone orientali.
L’esclamazione finale della prima strofa è identica alla versione di Monte Canino della
Grande guerra: l’esaltazione e l’incitamento a combattere sono due elementi che si sono
mantenuti costanti. Anche la seconda strofa è rimasta uguale a quella composta durante
la guerra precedente: che si trattasse di fronte italiano o di fronte eritreo, il tenente
continuava a svegliare i suoi uomini, a prepararli e ad appostarli sui burroni e, ad un
cenno, far partire il “concerto di mitragliatrici”, come se fosse un direttore d’orchestra.
Una traccia di sentimento umano è mantenuta anche durante la campagna di Etiopia. Una
vera rarità, considerando il fatto che in epoca fascista non c’era molto spazio per
l’umanità: basta considerare anche solo il fatto che il regime era più propenso ad usare la
musica del manganello.
In questo caso, invece, sembra esserci un’umanizzazione del soldato, che con nostalgia
ripensa agli affetti lasciati a casa, quasi gli dispiacesse andare a combattere.
L’umanità, tuttavia, nasce e muore nella terza strofa: gli ultimi versi del canto sono
dedicati esclusivamente a parlare dell’attacco. In particolare, vengono citati due paesi:
l’Abissinia e l’Inghilterra. Il primo luogo geografico è un altro indizio che permette di
collocare la “data di nascita” del canto nel periodo della guerra di Etiopia.
A proposito della quarta strofa è doveroso fare due precisazioni. La prima è spiegare cosa
significa “buffa”. Come riporta Giuseppe Prezzolini nel suo libro, il termine è associato
alla fanteria,15 probabilmente perché veniva considerata ridicola dagli altri reparti e,
soprattutto, poco utile al buon esito delle battaglie. Ecco spiegato il motivo dell’ultima
frase «noi legionari fermarti ben saprem»: da una parte si accusa la debolezza del reparto
regolare (e, per contro, si esalta il ruolo delle milizie), dall’altra sottolinea che la guerra
in Abissinia sarà in ogni caso vinta dalle truppe italiane.
Subito dopo l’inizio della guerra, la Società delle Nazioni applicò una serie di sanzioni
all’Italia perché accusata di aver fatto guerra ad un paese membro, tra cui il blocco del
commercio con tutti gli altri stati aderenti alla Società. L’Inghilterra, così come la Francia,
non ritenne particolarmente preoccupante l’attacco italiano in Etiopia, dal momento che
non aveva grande interesse per quelle colonie, e non ebbe problemi a lasciar attraccare le
15
Giuseppe Prezzolini, Tutta la guerra: antologia del popolo italiano sul fronte e nel paese, Firenze,
Bemporad & Figlio, 1918, p. 274.
90
navi italiane in Eritrea e in Somalia, né impedì il loro passaggio attraverso il canale di
Suez. Nonostante, però, questo tacito lasciapassare dello stato britannico, Mussolini si
sentì tradito.
Ecco perché viene detto «se l’Inghilterra facesse la guerra»: anche nel caso in cui la
potenza britannica avesse deciso di attaccare e di prendere posizione chiaramente,
l’esercito italiano sarebbe stato autosufficiente e sufficientemente potente da vincere
anche quella battaglia.
Un altro modo, insomma, per sottolineare (da parte di chi cantava, che ovviamente non
poteva essere un fante ma un legionario, come testimoniato dalla quarta strofa, e quindi
un fedelissimo del regime) che l’Italia era una nazione talmente potente che doveva essere
considerata invincibile non solo dalle altre potenze europee ma anche dagli italiani stessi.
Durante il periodo della Resistenza, l’aria di “Monte Canino” venne utilizzata per creare
sette parodie; di queste, due furono prodotte all’interno di due carceri diversi.
Un elemento da sottolineare è questo: sia durante la Grande guerra che durante l’epoca
fascista, i canti che si ispiravano a melodie precedenti erano, la maggior parte delle volte,
di autore anonimo. Durante il periodo della lotta partigiana, invece, gli autori erano
“collettivi”, nel senso che i testi venivano composti da piccoli gruppi di partigiani: per
questo, spesso, nei canzonieri della Resistenza viene chiarito da quale brigata veniva
modificato un canto.
Un elemento che sembra accomunare queste “parodie” è la presenza di un sentimento di
amore che, invece di essere rivolto alla mamma o alla morosa come nella versione della
Grande guerra, si indirizza più che altro verso la patria.
«Quanti ricordi quel venticinque maggio» è un canto breve che parla del destino dei
partigiani dopo il bando emanato il 18 aprile 1944. Definito anche Bando Graziani, era
diviso in sei articoli, di cui i più importanti erano i primi due.
91
Il primo, infatti, sanciva che tutti coloro che, dopo l’8 settembre dell’anno precedente,
avessero preso in mano le armi per unirsi alle file nemiche sarebbero stati uccisi mediante
fucilazione alla schiena, a meno che non avessero risposto entro i termini previsti alla
chiamata alle armi.
Il secondo prevedeva uno sconto di pena nel caso in cui il soldato avesse ritardato a
rientrare dalla licenza per motivi legati allo stato di salute di un congiunto.16
Ecco il testo:
Di fatto, i partigiani sapevano che, se si fossero presentati alle armi, sarebbero stati
mandati a lavorare in Germania. Ciò che viene descritto nella seconda e nella terza strofa
non è altro che il viaggio di qualsiasi partigiano che non aveva risposto alla chiamata del
governo: l’uomo lasciava la sua terra, la sua casa, i suoi affetti e, dopo alcuni giorni di
cammino raggiungeva i compagni, ossia altre persone con cui condivideva ideali, gioie e
sofferenze. L’obiettivo del partigiano e dei suoi fratelli era solo uno, liberare l’Italia dagli
oppressori, e per raggiungerlo sarebbe stato disposto persino a pagare con il proprio
sangue.
16
Decreto legislativo 18 aprile 1944 n. 145, in «Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia», 25 aprile 1944.
17
Savona, Straniero, Canti della resistenza italiana, p. 367.
92
3.2. Non ti ricordi, fanciulla mia cara
“Non ti ricordi, fanciulla mia cara” è un canto composto nei primi di giugno del 1944 ma
con chiaro riferimento all’8 settembre 1943, data d’inizio dell’attività resistenziale.
Ecco il testo:
93
la nostra terra riuscimmo a liberar.18
Il testo si apre con una formula abbastanza ricorrente nella musica, quella dell’addio alla
persona amata. In questo caso, è plausibile che il protagonista del canto sia il
rappresentante di tutti quei partigiani che, dopo l’8 settembre 1943, lasciarono le famiglie
per unirsi tra di loro e combattere il nazifascismo. L’unico altro riferimento storico
presente nel testo è quello relativo all’impresa di Cippo: era un grande campo partigiano
di Bosco Martese (Cippo), che si sciolse dopo il 25 settembre 1943. 19 Lasciata a casa la
morosa e stretta alleanza con i compagni, anche loro disposti a morire per la loro terra, il
protagonista decide di suggellare il patto con il sangue, altro lemma che entrerà a far parte
a pieno titolo del linguaggio resistenziale: ora resta solo da sconfiggere il nemico.
La quarta strofa è molto bella perché racconta, in poche parole, le difficoltà incontrate dai
partigiani durante le loro lotte. Il momento più duro era sicuramente l’inverno, quando
oltre alla fame si sentiva anche il freddo. Viene poi sottolineata la giovane età dei
partigiani: erano ragazzi giovani, alcuni non avevano nemmeno vent’anni, eppure si
dichiararono e dimostrarono pronti a sacrificare la loro vita e la loro gioventù in nome di
ciò in cui più credevano. A chi ascolta/legge viene presentata una visione eroica che,
spogliata dei suoi valori assolutisti, rispecchia in modo abbastanza fedele la realtà
resistenziale.
Ancora una volta emerge il tema del sacrificio non vano: chi è morto deve continuare a
guidare chi è rimasto in battaglia, in modo da raggiungere quanto prima l’obiettivo. Di
fatto, si potrebbe quasi dire che la guerra dei partigiani non si limita al mondo terreno ma
coinvolge anche quello dell’aldilà, come se anche da morti fosse un dovere morale degli
uomini caduti a terra continuare a combattere.
L’ultima strofa descrive in modo abbastanza realistico qualunque attacco con esito
favorevole da parte della resistenza: si impugnano le armi, si spara sul nemico e si libera
la terra.
18
Lamberto Marcuri, Carlo Tuzzi (a cura di), Canti politici italiani 1793-1945, Roma, Editori Riuniti, 1962,
vol. 2, pp. 42-43.
Savona, Straniero, Canti della resistenza italiana, p. 277.
19
Marcuri, Tuzzi (a cura di), Canti politici italiani, vol. 2, p. 42.
94
3.3. Non ti ricordi il 31 di dicembre
“Non ti ricordi il 31 di dicembre” è un canto che è stato scritto a cavallo tra il 1943 e il
1944 e rievoca l’attacco da parte dei tedeschi il 31 dicembre a Boves, in provincia di
Cuneo.
In seguito, la cittadina dovette subire una rappresaglia ad opera dei nazifascisti che costò
la vita a 132 cittadini e 741 abitazioni in fiamme. Ecco il testo:
Già nella prima strofa viene messa in rilievo la disparità numerica tra i partigiani e i
nazisti, scena frequente durante le rappresaglie. Probabilmente non erano proprio migliaia
20
Savona, Straniero, Canti della resistenza italiana, p. 279.
95
i tedeschi, ma anche ipotizzando che il combattimento sia avvenuto tra 1000 tedeschi e
100 partigiani non cambia il fatto che le forze della Resistenza fossero in netta minoranza.
La disparità di forze non mise in crisi la volontà dei partigiani, né impietosì gli avversari:
l’eccidio iniziò il 31 di dicembre e continuò fino al 3 gennaio 1944. San Giacomo,
Rivoira, Castellar e Madonna dei Boschi: sono tutti luoghi in cui si consumò la
rappresaglia nazifascista. Finalmente, il 3 gennaio 1944 le attività ostili si interruppero
ma il numero delle vittime, come ricordato prima, fu altissimo e la zona di Boves venne
distrutta.
La quarta strofa sottolinea prevalentemente la dimensione del dolore, associata a tre
categorie: la madre, la sposa, la città. La madre, infatti, è addolorata perché ha perso il
figlio in guerra; la sposa piange l’amato per lo stesso motivo. La città, infine, “piange”
perché è distrutta, nel vero senso della parola, a causa dell’azione nemica.
Il canto si chiude con la promessa, da parte dei partigiani, di vendicare questa sconfitta;
è come se la battaglia persa non avesse fatto altro che rafforzare lo spirito d’iniziativa dei
combattenti.
“Il 17 del triste novembre”, ovvero “Malga Lunga” fu composto subito dopo la
fucilazione, ad opera di un gruppo di nazisti, di alcuni partigiani appartenenti alla 53°
Brigata Garibaldi.
Di seguito il testo:
96
Tenente Giorgio, compagno Barbieri,
Rocco e Tormenta, di voi siamo fieri,
e gli altri cinque, seppur stranieri,
tutti caduti sono per la libertà.
Il canto inizia ricordando la data dell’eccidio: 17 novembre 1944, il giorno in cui iniziò
l’eccidio dei partigiani nella zona tra il lago d’Iseo e la val Seriana.
«Malga lunga […] dolore e gloria della Cinquantatrè»: sono queste parole a collocare
nello spazio la canzone. Malga lunga, infatti, era il rifugio dei partigiani della 53° Brigata
Garibaldi, che operava proprio in quella zona. Il fatto che, nel testo, vengano fatti i nomi
dei compagni uccisi indica anche che il canto è stato molto probabilmente composto
subito dopo l’eccidio, oltre che essere un modo per ricordare i combattenti scomparsi.
Quando il testo dice «Tenente Giorgio» si riferisce a Giorgio Paglia, comandante della
brigata e figlio di un ex medaglia d’oro durante la guerra in Africa. I fascisti gli proposero
di avere salva la vita in cambio di un’abiura delle sue idee; il tenente rifiutò e venne
fucilato. A seguire sono presenti i nomi di battaglia di alcuni dei componenti della brigata.
Ad esempio, «Barbieri» rispondeva al nome di Guido Galimberti, fucilato il 21 novembre
dello stesso anno. «Tormenta» era il nome di battaglia di un certo Mario Zudurri.
Infine, «Falce e Martello» erano due giovani fratelli, Renato e Florindo; sul secondo nome
non si ha certezza, ma si è sicuri del fatto che anche loro vennero fucilati il 20 novembre
1944. Stando alle testimonianze, si avviarono al luogo della fucilazione cantando
“Bandiera Rossa” ed entrambi avevano meno di vent’anni.
21
Ivi, p. 249.
97
Il fatto che vengano citati anche altri cinque compagni, definiti stranieri, permette di
supporre che, durante l’eccidio, ad essere destinati alla morte non furono solo i partigiani
della 53° ma anche altri provenienti da altre brigate e l’autore del testo ha voluto, in questo
modo, omaggiare anche loro: anche se non li conosceva, erano pur sempre morti in nome
di idee comuni. Come conclusione del canto, non poteva mancare l’invocazione ai
defunti: si auspica che coloro che sono morti guidino i vivi affinché raggiungano il loro
scopo.
98
Ma è un giorno cupo quel dieci d’aprile,
la lotta è dura e ha voluto i migliori,
il comandante la morte ha ghermito
e i partigiani piangono dal dolor.
Sono pochi i canti che, come questo, meglio mettono in rilievo le luci e le ombre della
partecipazione alle attività resistenziali. Nella prima strofa viene descritto l’arrivo della
brigata: si può dire che stanchezza e armi siano le due compagne di viaggio dei partigiani.
Il fatto che venga privilegiata una dimensione umana riflette probabilmente ancora
meglio la realtà di quell’epoca; inoltre, il canto è stato composto nel 1945, due settimane
prima della liberazione, ed è probabile che nemmeno i partigiani ne potessero più della
guerra. Nella seconda strofa viene presentata la brigata: si tratta della Gi Elle, comandata
da Mario Allegretti. L’iniziativa di Allegretti viene presentata quasi in termini
animaleschi: come un predatore va a scovare la sua preda nella tana, così il comandante
della brigata va ad attaccare il tedesco.
Nella terza strofa viene messa in evidenza la differente prospettiva linguistica, e di
conseguenza il diverso significato, che viene attribuito alla Resistenza; uno sfogo che
compare anche nella parodia all’Inno ad Oberdan “Cosa importa se ci chiaman banditi”.
Il primo punto di vista è quello del governo: per Mussolini e il direttivo al seguito, i
partigiani sono considerati “banditi”; i civili che hanno aderito (almeno formalmente) al
fascismo li chiamano “ribelli”. I combattenti nelle file della resistenza si presentano,
invece, come fratelli uniti e volontari che combattono per la libertà.
Dopo questa precisazione, che chiarisce in modo molto nitido la differenza di opinione
tra il partigiano e il fascista, il canto prosegue narrando in poche parole l’azione di
Allegretti. Il comandante imbraccia il mitra, a cui viene affidata una dimensione musicale
(viene definito, infatti, canto di morte), e spara sul nemico tedesco, inneggiando alla tanto
agognata libertà.
22
Mercuri, Tuzzi, Canti politici italiani, vol. 2, pp. 57-58.
Savona, Straniero, Canti della resistenza italiana, p. 163.
99
Ogni battaglia vinta, tuttavia, ha il suo rovescio di medaglia, anche perché non esiste
conquista senza sacrificio, ed è buona norma, oltre che umanamente auspicabile, che ogni
vittoria pianga i suoi morti.
La quinta e la sesta strofa sono dedicate ad un morto speciale: il comandante della brigata.
Mario Allegretti viene ricordato dai suoi compagni con grande affetto, come un uomo
valoroso e dal cuore grande.
I canti di questo paragrafo sono stati adattati all’aria di Monte Canino, come quelli citati
nel paragrafo precedente, e si distinguono rispetto agli altri perché sono stati composti in
carcere: sono in grado di restituire un’immagine non troppo deformata della violenza in
prigione.
“La canzone a Collotti” è stata “dedicata” a Gaetano Collotti, che era stato a capo
dell’Ispettorato speciale di Pubblica Sicurezza a Trieste tra il 1943 e il 1945.
L’uomo era colpevole di numerose atrocità commesse nei confronti degli antifascisti: fece
addirittura abortire giovani donne, e non era l’unico tipo di sevizia che praticava nei
confronti dei prigionieri. Dopo la tortura, Collotti e i suoi collaboratori affidavano i
prigionieri alle SS, determinando la modalità di esecuzione che, nella quasi totalità dei
casi, era l’impiccagione. Certo è che i tedeschi non avrebbero mai catturato e ucciso così
tante persone se il capo dell’Ispettorato non fosse stato tanto esperto dell’ambiente e non
avesse testimoniato sfavorevolmente per buona parte dei casi di cui si occupava.
Ecco il testo:
100
Là semo acolti coi massimi onori,
Tutta la squadra la se buta fora.
Tra pugni e piade e grandi dolori.
De la corente la cura el ne fa far.
23
Savona, Straniero, Canti della resistenza, pp. 486-487.
101
un quadro abbastanza verosimile: il condannato arriva in prigione, viene “accolto” da
Collotti e seguaci e, dopo essere stato picchiato ed aver subito sofferenze indicibili, deve
affrontare ancora un’ultima tortura, quella della corrente elettrica.
La terza strofa parla del trasferimento del prigioniero dal carcere di Bellosguardo a quello
detto dei Gesuiti, dopo che il capo dell’Ispettorato ha compilato “con affetto” il verbale,
ossia la sentenza di morte.
A questo punto viene descritta la cella: la padrona del luogo è la fame e i suoi abitanti
sono le cimici e i pidocchi. Gli animaletti, oltre a dare fastidio, infestano anche il bugliolo,
ossia il secchio che era solitamente destinato a raccogliere i bisogni corporali. Al
carcerato non resta che rassegnarsi a dividere la stanza con questi “coinquilini”. Dopo un
soggiorno dalla durata variabile, il prigioniero viene messo su un convoglio destinato alla
Germania, più precisamente a Berlino: inizia così un altro viaggio lungo ed estenuante.
Nella sesta strofa vengono citati in modo quasi uguale due versi dell’originale Monte
Canino perché si adattano bene a descrivere il viaggio del carcerato: un trasferimento
prima in treno e poi a piedi. La destinazione, però, è ovviamente diversa: in questo caso
il partigiano è arrivato a Berlino più morto che vivo ed è destinato ad andare a lavorare
in miniera. In realtà, quale sia questa miniera viene spiegato nell’ultima strofa: si tratta
delle foibe, dimostrando così di sapere a quale fine andrà incontro.
102
mantenere il silenzio, anche se questo le costò la vita: fu barbaramente trucidata e il suo
corpo lasciato esposto sulla pubblica strada per una giornata intera.
Ecco il canto, molto breve (solo tre strofe):
La prima strofa si apre con il ricordo alla notte dell’arresto: vengono quindi riportati alla
memoria la polizia, il loro veicolo, e il viaggio forzato dalla casa alla prigione. Nella
seconda strofa viene descritto ciò che succede una volta arrivati in carcere: il cancello
della prigione si apre e la prigioniera viene condotta in una cella spoglia, anche perché il
pagliericcio su cui dovrà dormire è molto duro e non c’è coperta.
L’ultimo verso sembra essere un’imprecazione nei confronti di chi ha fatto la spia: è
anche contro di loro che la Resistenza deve e vuole combattere.
La mattina del giorno dopo le SS vanno a chiamare la ragazza e la trascinano davanti al
giudice: quest’ultimo le ordina di svelare nomi e attività dei suoi compagni; l’epilogo
della vicenda, come scritto prima, è ben diverso e molto più tragico.
24
Ivi, pp. 508-509.
103
4. “Monte Canino” e “Addio padre e madre addio”: stesso testo per arie diverse
Prima di concludere questa prima parte del capitolo è doveroso segnalare una discrepanza
di arie tra il canzoniere curato da Savona e Straniero e quello a cura di G. Lanotte. Buona
parte delle versioni prima citate vengono poste da Lanotte sotto la melodia di un’altra aria
tipica di cantastorie, dall’origine ancora più antica di Monte Canino, ossia “Addio padre
e madre addio”.25
Bisogna innanzitutto ricordare che lo scopo principale di questo tipo di musica è quello
di fare controinformazione: di fatto, chi era testimone diretto degli eventi adottava spesso
questo tipo di arie per trasformarsi in una specie di cronista in diretta, pur correndo
numerosi rischi.26 In questo caso specifico, ciò che permette al testo di “Monte Canino”
e alle sue varianti di adattarsi facilmente al canto di “Addio padre” è la metrica.
Le arie da cantastorie prevedono di solito versi in endecasillabi e sia “Monte Canino” che
“Addio padre” presentano questa caratteristica.
Se si prova a cantare tutte le versioni della resistenza citate sopra sull’aria di “Addio
padre” ci si accorge che metrica e melodia riescono a dialogare di comune accordo.
5. Conclusione
In conclusione, Monte Canino è un’aria la cui origine risale alla Grande guerra e che ebbe
una notevole diffusione sia durante il fascismo che, soprattutto, durante la Resistenza.
Il canto è intriso di nostalgia e descrive il viaggio di un alpino dalla stazione ferroviaria
al luogo della battaglia. Durante il trasferimento dalla casa alla trincea l’alpino è
accompagnato da ricordi nostalgici che riguardano i baci della morosa e le lenzuola pulite:
una dimensione di calore umano e tranquillità che non sa quando potrà rivivere; forse
mai. In trincea il soldato deve cercare di sopravvivere, non solo evitando le bombe e le
granate dei cannoni, ma anche mangiando e bevendo il poco disponibile: il rancio non è
sufficiente a sfamarlo, ci sono spesso varie complicazioni, e l’unico modo per non pensare
ai morsi della fame è quello di guardare lontano e pensare ad altro. Per la necessità di
25
Le varianti di Monte Canino riportate in Lanotte, Cantalo forte, e poste sotto l’aria di “Addio padre e
madre addio” sono: È l’alba cupa del dieci d’aprile (pp. 177-178), Malga Lunga (p. 187), Non ti ricordi il
31 dicembre (pp. 188-189), Non ti ricordi fanciulla mia cara (p. 190), Quanti ricordi quel venticinque
maggio (p. 193).
26
Castelli, Jona, Lovatto, Al rombo del cannon, p. 85.
104
dissetarsi, invece, il problema era un po’ meno complicato (ma di sicuro non igienico):
siccome, almeno d’inverno, sulle montagne c’è una neve perenne, bastava scioglierne un
po’. Generalmente il canto è composto da quattro strofe, ma in alcune versioni ne
compaiono addirittura sei o sette.
Durante l’epoca del fascismo esiste una sola versione adattata sull’aria di Monte Canino
ed è collocabile storicamente attorno al 1935, quando ebbe inizio la guerra di Etiopia.
Se la versione di Monte Canino originale è piena di emozioni (amore, nostalgia,
stanchezza, paura), quella di epoca fascista presenta un accenno di sentimento umano
soltanto nella terza strofa, ma lì nasce e muore. Il resto del canto, infatti, è un’esaltazione
all’azione eroica delle camicie nere e dei legionari che, a differenza della fanteria (da
sempre considerata la parte più ridicola e inutile dell’esercito), sarebbero in grado di
fermare l’avanzata nemica.
Nelle versioni della resistenza, con la sola eccezione di “È l’alba cupa del dieci d’aprile”,
questa umanità continua ad essere presente in misura minore rispetto alla versione della
Grande guerra e si rivolge più che altro alla patria, per la quale il partigiano è sempre
disposto a perdere la vita. Infine, tutte le parodie della resistenza possono essere cantate
anche sull’aria cantastorie di “Addio padre e madre addio”: il primo verso di ogni
versione è endecasillabo, che è anche il metro utilizzato solitamente da questo tipo di
musica. Dal 1915 al 1945 si è assistito ad un mutamento del rapporto tra il combattente
e la guerra: nella Grande guerra il soldato che andava a combattere partiva di malavoglia,
costretto a farlo altrimenti sarebbe stato considerato disertore; nella guerra di Etiopia il
soldato partecipava alla battaglia per esaltare la grandezza della patria (in pieno stile
fascista, bisogna ricordarlo); durante la resistenza il partigiano andava a morire per la
libertà.
6. Sul ponte di Bassano, bandiera nera: un canto emblematico della Grande guerra
105
Bassano è una città che è stata ricordata in ben due canti, e tra l’altro con lo stesso titolo,
ma con melodia e seguito del testo molto diversi. “Sul ponte di Bassano, là ci darem la
mano” è un canto d’amore che veniva cantato anche durante la Grande guerra.
Ecco il testo di “Sul ponte di Bassano, bandiera nera”:
1.
Sul ponte di Bassano
bandiera nera,
l’è el luto degli alpini
che fan la guera.
2.
L’è el luto degli alpini
che fan la guera,
la meio zoventù
che va soto tera.
3.
Nell’ultimo vagone
c’è l’amor mio,
col fazzoletto bianco
mi dà l’addio.
4.
Col fazzoletto bianco
mi salutava
e con la bocca i baci
la mi mandava.27
La canzone è chiaramente di origine alpina ed è uno dei canti più tristi che siano stati
composti durante la guerra. Già dalla prima strofa viene evidenziato il tema del lutto e
della perdita di uomini: il nero è il colore generalmente associato alla morte e si sa che a
perdere la vita, nella guerra del 1914-1918, sono stati prevalentemente i giovani.
27
Viazzi, Giovannini, Cantanaja, p. 183.
Savona, Straniero, Canti della grande guerra, vol. 2, pp. 517-518.
Ridolfi (a cura di), Canti e poesie della Grande guerra, p. 106.
106
Dopo un’introduzione del genere, si potrebbe dire che il ponte sia anch’esso una metafora
di morte: sembra segnare, infatti, un punto di non ritorno e un collegamento con un mondo
verso il quale la «meio zoventù» compirà un viaggio di sola andata.
Essendo citato il tema della partenza (definitiva), non poteva non essere inserito anche un
altro tema, quello del saluto all’innamorata. La povera fidanzata dell’alpino in questo
canto è consapevole (o forse lo immagina) che non vedrà mai più il moroso, per cui fa in
modo di salutarlo per l’ultima volta mandandogli baci e sventolando il fazzolettino
bianco.
6.1. “Sul ponte di Perati”: la versione fascista di “Sul ponte di Bassano, bandiera nera”
Durante la seconda guerra mondiale, “Sul ponte di Bassano” assunse più che altro la
funzione di un canto storico, dal momento che serviva a denunciare gli orrori di guerre o
avvenimenti storici precisi; a volte assumeva anche la funzione di “colonna sonora” di
una determinata brigata partigiana. “Sul ponte di Perati” è la versione dei soldati, in parte
alpini, comandati da Mussolini nella guerra di Albania e Grecia e, come l’originale “Sul
ponte di Bassano”, ebbe da subito un’immediata diffusione
Il canto si riferisce alla guerra affrontata combattuta sul fronte greco-albanese dalla
divisione alpina “Julia”, comandata dal generale U. Cavallero. Quel periodo fu davvero
duro per l’esercito italiano: stanchezza e sfiducia nei confronti del governo non aiutavano
certo a migliorare l’umore degli Alpini. Mussolini e altri comandi militari non
sembravano essere all’altezza del compito e, soprattutto, adottavano un senso di
rilassatezza misto a scetticismo e maldicenza (i cosiddetti “tradimenti”).
Inoltre, l’esercito italiano doveva evitare di rappresentare l’Italia come quel popolo
capace tanto di improvvisi entusiasmi quanto di immediate sconfitte; un popolo dalla
tempra volubile e non ben forgiata come quella dell’esercito tedesco, alla quale Mussolini
voleva che l’Italia assomigliasse.28 Ecco le strofe che furono aggiunte/modificate rispetto
alla versione originale di “Sul ponte di Bassano”:
1.
Sul ponte di Perati bandiera nera,
28
De Marzi, Canti del fascismo, pp. 40-41.
107
l’è il lutto della “Julia” che va a la guerra.
2.
L’è il lutto della “Julia” che va a la guerra
la meglio gioventù che va sottoterra.
5.
Quelli che son partiti non son tornati,
sui monti della Grecia sono restati.
6.
Sui monti della Grecia c’è la Vojussa
e l’acqua che vi scorre s’è fatta rossa.
7.
Alpini della Julia in alto il cuore,
sul ponte di Perati c’è il tricolore.
8.
Ma i dì della Vittoria ritorneranno
e tutti i nostri morti risorgeranno …29
È evidente che questo canto è molto più specifico rispetto all’originale: il contesto storico
è diverso, ci sono riferimenti precisi agli avvenimenti contemporanei.
Già nella prima strofa si individuano i protagonisti del canto e il luogo di battaglia: si
tratta della sezione alpina Julia e del ponte di Perati; anche gli alpini della Julia, come
quelli di Bassano, sono giovani e non torneranno più a casa.
La terza e la quarta strofa sono identiche a quelle del canto originale: l’alpino parte per il
suo ultimo viaggio accompagnato dal fazzoletto bianco e dai baci al vento della fidanzata.
È dalla quinta strofa alla fine che il canto cambia tono e registro rispetto alla canzone
della Grande guerra. Innanzitutto, si mette in chiaro che quelli che non sono tornati sono
rimasti sul luogo di combattimento, ossia sui monti della Grecia dove si è combattuta la
campagna tra il 1940 e il 1941.
29
Ivi, p. 414.
108
Quando il testo dice che l’acqua della Vojussa (nome italianizzato del fiume che scorre
al confine tra la Grecia e l’Albania e che sfocia nell’Adriatico) si è fatta rossa intende
mettere in rilievo il sacrificio degli italiani durante la sanguinosa battaglia. È importante
anche precisare che esiste una variante di questa strofa, composta ovviamente dagli alpini,
che dice: «del sangue degli alpini s’è fatta rossa».30 Questa breve frase, un po’ in
disaccordo con le direttive di Mussolini, intende esaltare ancora di più lo spargimento di
sangue della brigata Julia; d’altra parte, il canto è dedicato proprio agli alpini, quindi è
abbastanza comprensibile che gli autori del canto abbiano voluto ricordare i compagni
scomparsi.
Le ultime due strofe servono a ricordare i morti. In particolare, nella penultima gli alpini
caduti sul ponte di Perati vengono ricordati con un simbolo associato alla patria, ovvero
la bandiera tricolore. L’ultima strofa, invece, lascia presagire un futuro gioioso e glorioso
per l’Italia e, in quel caso, il sacrificio degli alpini non sarà avvenuto invano; sono parole
che, a ben pensare, rispecchiano perfettamente l’idea di patria sostenuta dal fascismo.
“Sul ponte di Perati” è, ancora una volta, testimonianza di un canto che, per dirla con le
parole di Verdi, “muta d’accento e di pensiero” a seconda del contesto storico. Nato come
canto spontaneo, seppur disfattista, nelle ultime strofe rispecchia l’ideale fascista
dell’epoca.
6.2. La variante della Repubblica di Salò di “Sul ponte di Perati, bandiera nera”
Dopo l’8 settembre del 1943 l’Italia si divise in due: al Nord fu costituita la Repubblica
Sociale di Salò, al Sud il nuovo governo di Badoglio e del re.
Anche in questa nuova Italia gli alpini al fronte continuavano a cantare “Sul ponte di
Perati”, ma le ultime tre strofe erano leggermente modificate:
6.
Da mille e mille tombe si alza un lamento,
sul sangue della Julia c’è il tradimento.
30
Ibidem.
109
7.
Un coro di fantasmi vien giù dai monti,
è il canto degli Alpini che son sepolti.
8.
E il dì della riscossa non più tristezza,
per il canto della vittoria c’è Giovinezza.31
Come molti dei canti che ebbero grande diffusione già subito dopo la loro creazione, nel
periodo della Grande guerra, anche “Sul ponte di Bassano, bandiera nera” non poteva non
essere stato utilizzato anche dalla Resistenza.
Sulla sua melodia, tra il 1943 e il 1945, furono create ben otto versioni, ognuna delle quali
si riferisce ad un avvenimento storico/una battaglia precisa; di queste, una sola è d’autore,
ma è un’eccezione che va presa in considerazione per la ricchezza di riferimenti militari.
31
Ibidem.
110
6.3.1. Banditi della Acqui
Come si evince facilmente dal nome, il canto è stato composto dalla divisione Acqui, o
meglio, da quei pochi superstiti che sopravvissero al massacro della stessa divisione
sull’isola di Cefalonia. Pochi giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, più
precisamente tra il 13 e il 28 settembre, la Divisione Acqui, composta da 11.500 unità e
comandata dai generali A. Gandin e Vecchiarelli, venne quasi completamente sterminata
dai nazisti: novemila i soldati italiani rimasti “sui monti della Grecia”, per citare la
versione composta durante l’epoca fascista.
La violenza attuata dai nazisti nei confronti della divisione fu atroce: basti ricordare che,
per nascondere le prove del massacro, i militari tedeschi bruciarono i corpi dei nemici e
le fiamme erano visibili, durante la notte, persino dall’isola di Itaca.32
I superstiti che riuscirono a sfuggire alla strage si rifugiarono sui monti di Cefalonia e,
per ricordare i compagni perduti, scrissero questi versi:
Soldati prigionieri
Già trucidati
Nel mare e nelle cisterne
Furon gettati.
32
Lanotte, Cantalo forte, cit., p. 29.
111
Vi narreranno.33
Essendo una canzone composta per ricordare i compagni scomparsi, anche in questo caso
si ritrova nella prima strofa il simbolo che è utilizzato generalmente da qualsiasi partito
politico e forma di governo per ricordare la patria, senza distinzioni di pensiero, ossia la
bandiera tricolore.
I morti, come nel testo della canzone “Sul ponte di Perati”, sono rimasti sui monti di
Cefalonia: da questo punto di vista, il massacro è ciò che accomuna gli alpini della Julia
e i partigiani della Divisione Acqui.
I lati in comune, però, si esauriscono qui. La versione fascista si concludeva ricordando i
morti con il tricolore e con la speranza di un futuro più glorioso per l’Italia, così che il
sacrificio degli alpini acquistasse un significato; questa, invece, intende denunciare senza
mezzi termini gli orrori subiti dai nazisti.
Nella terza strofa, infatti, viene spiegata chiaramente la fine che hanno fatto i cadaveri
rimasti sui monti: furono gettati in mare o bruciati, per nascondere i corpi.
Gli ignoti autori di questo canto reagiscono alla scomparsa con la “minaccia” di
raccontare quello che è successo una volta tornati in patria. Questa è, probabilmente, la
promessa migliore che i superstiti potessero fare ai loro compagni per ricordarli: come
nel canto, il modo migliore per fare sì che un certo evento non venga dimenticato è quello
di tramandarlo oralmente (oltre che per mezzo della scrittura, si intende, ma in questo
caso ciò che più conta è la dimensione orale).
“Sul ponte San Felice” è una canzone che si ispira ad una battaglia avvenuta nel giugno
1944. Il comandante della brigata “Giustizia e libertà” Aldo Praloran, insieme alla sua
squadra di partigiani, tentò di attraversare il ponte di San Felice sul Piave (Belluno), ma
venne sorpreso dai tedeschi, i quali conoscevano la loro posizione a causa di una spiata.
33
Tito Romano, Giorgio Solza, Canti della resistenza italiana, Milano, Edizioni Avanti!, 1960, p. 102.
Pier Paolo Pasolini, Canzoniere italiano, Milano, Garzanti, 1972, vol. 2, p. 476.
Savona, Straniero, Canti della resistenza, p. 67.
De Marzi, Canti del fascismo, pp. 417-418.
Lanotte, Cantalo forte, pp. 29-30.
112
Durante la battaglia rimasero a terra dieci persone, tra cui il comandante (nome di
battaglia è Nike, che in greco antico significa “Vittoria”), che si era eroicamente
sacrificato per tentare di far saltare il ponte.
Ecco il testo:
Come tutte le varianti adattate alla melodia “Sul ponte di Bassano”, nella prima strofa
compare il riferimento geografico, in questo caso il ponte di San Felice, nonché luogo in
cui è avvenuta la battaglia. Il posto, inoltre, è quasi sempre associato alla bandiera nera
per ricordare il lutto. Anche questo testo mette in evidenza il sacrificio dei partigiani, tutti
giovani a cui è stata tolta la vita.
La terza strofa serve a commemorare i compagni scomparsi e, soprattutto il comandante:
egli viene ricordato con il nome di battaglia, Nike (vittoria). È abbastanza indicativo che
lo stesso termine, però in italiano e usato in modo diverso, compaia anche nella strofa
successiva. Gli anonimi autori di questo canto sono convinti che i giorni della vittoria
sono vicini, e quindi i loro morti presto saranno vendicati. Queste parole sono state
pronunciate nel giugno/luglio 1944; a posteriori è possibile dire che la liberazione
34
Mercuri, Tuzzi, Canti politici italiani, vol. 2, p. 127.
Savona, Straniero, Canti della resistenza, p. 168.
De Marzi, Canti del fascismo, p. 416.
113
ufficiale avvenne quasi un anno dopo la creazione di questo testo, ma è probabile che chi
cantava credesse veramente in quello che diceva.
Il canto si chiude con la modalità più classica di commemorazione: il deposito della
bandiera tricolore sul luogo della battaglia.
1.
Sui monti Val Seriana c’è un patriota
che sogna la sua patria liberata
2.
Lo chiamano ribelle, ma è un eroe.
È forte e non teme sorella morte.
3.
Il 17 agosto in Val Seriana,
di sangue patriota fu riscattata.
4.
Si era in una ventina e lor cinquecento,
ma i prodi accettaron combattimento.
5.
Sette furono i caduti che pien d’ardire,
gridando mamma Italia sepper morire.35
35
Mercuri, Tuzzi, Canti politici italiani, vol. 2, pp. 77-78.
Savona, Straniero, Canti della resistenza italiana, pp. 463-464.
De Marzi, Canti del fascismo, p. 4
114
Il brano è pieno di sentimenti patriottici che rispecchiano perfettamente le idee di un
partigiano convinto e disposto a morire per la patria liberata.
Già nella prima strofa, infatti, viene sottolineato lo spirito di sacrificio: un patriota che
ama la sua terra e che è disposto a perdere la vita pur di vederla libera dai nemici.
Nella seconda strofa viene ripresa, ancora una volta, la differenza di prospettiva tra i
partigiani e fascisti: questi ultimi considerano i loro nemici come ribelli, mentre i primi
si riferiscono a se stessi anche (ma non solo) come degli eroi.
È molto indicativa l’espressione «sorella morte» perché è in grado di restituire la
relazione che c’era tra i partigiani e questa presenza costante. Già nella Grande guerra la
morte veniva considerata come un elemento sempre presente sul campo di battaglia;
addirittura, i corpi dei soldati caduti, ai quali non veniva concesso nemmeno l’onore di
essere sepolti, servivano ai compagni di trincea come punti di riferimento. In quel
periodo, la morte spesso e volentieri veniva invocata perché era l’unico modo per porre
fine alle difficoltà dei combattenti. Nel periodo della guerra della Resistenza, invece, la
morte continua ad essere una presenza costante e, più che essere invocata, veniva
affrontata: per i partigiani convinti era un prezzo da pagare necessario per raggiungere lo
scopo tanto ambito, ossia la liberazione della patria da parte del regime nazifascista. È
per questo, probabilmente, che viene considerata come una “sorella”: una figura di cui
non si ha paura e che si è disposti ad affrontare quando è necessario.
Nella terza strofa la battaglia viene collocata nel tempo e nello spazio: si tratta del 17
agosto (1944) in Val Seriana, come si intuisce facilmente anche dal titolo del canto.
Nel secondo verso viene citato anche un altro simbolo che ben si associa al sacrificio e
alla terra: il sangue, ovviamente quello partigiano.
In effetti, nella strofa successiva viene messa in risalto la disparità numerica: cinquecento
fascisti contro venti partigiani è un grande squilibrio. Ma i numeri, si sa, non hanno mai
impedito ai partigiani di combattere le loro battaglie e anche in questo caso essi si
predisposero all’attacco.
I compagni rimasti a terra furono sette, si sacrificarono per permettere agli altri una via
di fuga, e morirono gridando «mamma Italia».
115
Sull’attendibilità del grido di battaglia prima di morire non ci sono prove, probabilmente
è una metafora per sottolineare ancora una volta l’amore che i partigiani provavano nei
confronti della loro terra, chiamata “madre”.
Sulla parte storica di questo canto non si hanno molte informazioni; si sa solo che fu
composto nell’inverno 1944 sulle balze di Galiziis.
Ecco il testo:
1.
L’inverno è nero e duro sulla montagna
ma, pur tremante e nudo ei non si lagna.
2.
Quanti dei suoi compagni son perduti!
In mano al nemico sono caduti.
3.
Coraggio, Patriota, nella sventura
il tempo della prova sempre non dura.
4.
Quando la primavera verrà coi fiori
è il tempo, Patriota, dei tuoi allori!
5.
Patriota dell’Osoppo in alto il cuore:
sui monti della Carnia c’è il tricolore!36
Più che riferirsi a un avvenimento specifico, il canto sembra voler restituire a chi
legge/ascolta un quadro della vita di un partigiano nella sua casa naturale, il monte.
36
Mercuri, Tuzzi, Canti politici italiani, vol. 2, pp. 135-136.
Savona, Straniero, Canti della resistenza, pp. 223-224.
De Marzi, I canti del fascismo, p. 416.
116
Nella prima strofa, infatti, viene esaltata la forza d’animo del partigiano, chiamato (tra
l’altro) in tutto il canto “patriota”: anche se l’inverno è duro, freddo, impervio e l’uomo
soffre il freddo (e la fame), egli comunque non si lamenta mai.
I versi successivi ricordano brevemente tutti quei compagni scomparsi e uccisi dopo
essere caduti in mano al nemico.
La terza e la quarta strofa sono abbastanza emblematiche, in primo luogo perché sono
molto connesse tra di loro, e poi perché la penultima strofa contiene una metafora che
prende valore solo se associata alla terza e al titolo del testo.
Nella terza strofa, infatti, l’autore cerca di consolare il partigiano dicendo che il tempo
del dolore e della sofferenza non dura per sempre: anche per lui verranno i giorni felici,
in cui le difficoltà che ha affrontato fino ad allora verranno ripagate da soddisfazioni.
Il tempo in cui arriverà questa felicità sarà la primavera, ed è proprio su questo termine
che bisogna concentrarsi, soprattutto se lo si contrappone all’inverno citato nel titolo.
Mettendo fianco a fianco le due stagioni, è possibile comprendere come siano chiare
metafore rispettivamente della morte (inverno) e della vita/rinascita (primavera).
Durante l’inverno, infatti, gli alberi sono spogli e i fiori sono sopiti sottoterra, ma durante
la primavera il terreno e, più in generale, la natura rifiorisce.
È possibile che questa sia una metafora della battaglia partigiana: il patriota, al momento
del canto, sta ancora affrontando l’inverno (sia fisico che metaforico), ma è sicuro che,
un giorno, anche per lui arriverà la primavera, ossia il tempo in cui potrà essere felice e,
magari, vedere la sua patria liberata e se stesso coronato dagli allori.
Il penultimo verso si riferisce ad un monte specifico, l’Osoppo: dal momento che subito
dopo viene detto che sui monti della Carnia c’è la bandiera tricolore, è possibile che si
riferisca a qualche battaglia avvenuta lì, ma su questo purtroppo non si hanno notizie.
Osoppo, però, non è solo un luogo: il nome si riferisce anche alla brigata che operava in
quel territorio durante gli anni della guerra.
Nel Friuli Venezia-Giulia, infatti, le formazioni resistenziali che combattevano per
liberare questa regione erano sostanzialmente due e si ispiravano al Partito d’Azione e al
Partito Comunista: rispettivamente, erano le brigate “Giustizia e Libertà” e “Garibaldi”.
Nei primi mesi del 1944, tuttavia, ci fu un’altra brigata che cominciò a collaborare con i
movimenti di ispirazione comunista: la brigata “Osoppo-Friuli”.
117
Formalmente, la “Osoppo-Friuli” era una formazione di stampo cattolico che si ispirava
ai principi della Democrazia Cristiana. In realtà, la brigata aveva un solo obiettivo, ovvero
quello di liberare l’Italia dal fascismo.37 Tuttavia, lo scopo che la Osoppo si proponeva
di raggiungere non riuscì a superare le divergenze politiche delle altre due divisioni con
cui collaborava e le opinioni discordanti tra i vari schieramenti condussero ad una serie
di lotte sanguinose tra le varie brigate, culminate con l’episodio più famoso dell’eccidio
di Porzus. Il 7 febbraio 1945 alcuni componenti di una divisione garibaldina, tra cui un
certo Mario Toffanin, uccisero venti membri della brigata Osoppo; tra questi, c’era anche
Francesco de Gregori (Bolla), zio dell’omonimo cantante.
È interessante la conclusione a cui è arrivata la Corte d’Assise di Lucca nel 1952, a
seguito di un’indagine sulla situazione della Resistenza in Friuli. Secondo la Corte, infatti,
la causa dell’omicidio fu l’anticomunismo di Bolla.38
37
Fermo Solari, Le origini della resistenza friulana, in «MLI», 1935, n. 34-35, pp. 128-132.
38
Roberto Battaglia, Storia della Resistenza Italiana, Torino, Einaudi, 1964, p. 521.
39
Giampaolo Pansa, Uccidete il comandante bianco. Un mistero nella Resistenza, Milano, Rizzoli, 2018,
pp. 11-12.
118
Sui monti di val Trebbia
c’è il partigiano
che marcia alla riscossa
col suo Bisagno
Un giorno scenderemo
per la vittoria,
col sangue partigiano
farem la storia.
Compagni partigiani
in alto i cuori
che tutti i nostri morti
son vendicati. 40
40
Romano, Solza, Canti della resistenza italiana, p. 175.
Savona, Straniero, Canti della resistenza italiana, pp. 433-434.
De Marzi, I canti del fascismo, pp. 418-419.
119
Il canto si apre ricordando, come in altre occasioni, il/i protagonista/i dell’azione: in
questo caso si tratta di Bisagno e della sua schiera di partigiani che combattono sui monti
della Val Trebbia.
La seconda strofa sembra ricordare una battaglia andata bene: non si sa con esattezza a
quale luogo e periodo storico si riferisca, ma il fatto che l’agguato abbia decimato i fascisti
lascia intendere il buon esito dell’azione.
Nella terza strofa viene sottolineato che il motivo per cui partigiani combattono sui monti
è riassumibile nella parola libertà.
La quarta strofa è quella che, ad impatto, probabilmente colpisce di più per la veridicità
delle parole. Nonostante il testo sia stato composto dopo la liberazione, è possibile che le
parole «un giorno scenderemo per la vittoria» siano state pronunciate da Bisagno prima
della sua morte, quando ancora partigiani e fascisti combattevano tra di loro. In
quest’ottica ha senso anche la frase successiva, «col sangue partigiano farem la storia».
L’ignoto autore del testo ricorda i compagni caduti su uno dei monti della Val Trebbia,
Montebruno.
Nella penultima strofa viene evocata la dimensione del ricordo: in questo caso, però, non
c’è un tricolore a commemorare i morti, solo il cuore e la memoria di chi resta.
Il canto si conclude rassicurando i partigiani sul fatto che i morti sono vendicati:
cronologicamente parlando, il verbo al presente ha senso, dal momento che la data
ufficiale della liberazione è il 25 aprile del 1945 e questo testo è stato composto dopo il
21 maggio dello stesso anno.
“Sul ponte fiume Sangro bandiera nera” fu l’inno ufficiale della formazione della
“Maiella”, soprattutto dopo il suo scioglimento a Brisighella (Ravenna) il 15 luglio 1915.
Storicamente, questa formazione fu atipica: nata a Chieti nell’ottobre del 1943,
organizzata e comandata dall’avvocato E. Troilo, fu riconosciuta come corpo ausiliario
di volontari dell’esercito italiano. Addirittura, Badoglio in persona avrebbe voluto
incorporare questi volontari nell’esercito ma i partigiani, pur di non prestare giuramento
alla casa reale, preferirono operare come formazione indipendente, comunicando e
rispondendo alle direttive degli alleati tramite gli ufficiali di collegamento.
120
La formazione Maiella fu l’unica brigata ad essere decorata con la Medaglia d’Oro al
Valor Militare.
Ecco il testo:
Il canto è molto breve (due sole strofe), e la sua struttura riprende molto quella della
versione originale.
Anche in questo caso viene messo in chiaro che i giovani caduti sono quelli appartenenti
alla formazione della Maiella.
Nel giro di qualche verso, inoltre, vengono citati alcuni tra i luoghi in cui hanno
combattuto i partigiani: il fiume Sangro, da cui prende il nome il titolo, le montagne
dell’Abruzzo e i monti della Romagna.
“Pietà l’è morta” rappresenta un’eccezione se paragonata alle altre analizzate finora
perché è d’autore, ma la ricchezza di contenuti e riferimenti storici è talmente importante
da dover essere presa in considerazione. Il canto fu composto in Valle Stura nel 1944 da
Nuto Revelli per un concorso bandito dal comando del II settore di Giustizia e Libertà.
41
Mercuri, Tuzzi, Canti politici italiani, vol. 2, p. 46.
Savona, Straniero, Canti della resistenza italiana, p. 437.
De Marzi, Canti del fascismo, p. 415.
121
Bisogna tenere in considerazione due aspetti per poter capire bene il testo: il primo è che
Nuto Revelli era un soldato che aveva combattuto nelle fila del corpo di spedizione
italiano in Russia, nel 1943; ecco perché ci sono ben due riferimenti a quella disfatta.
Il secondo è che, per lui, la tradizione alpina del 1915-1918, anche solo per la dimensione
collettiva che la caratterizza, trova una sua continuità anche durante la guerra partigiana.
Detta in altri termini, gli alpini e i partigiani sarebbero simili per tante cose, a partire dal
sacrificio estremo. 42
Ecco il testo:
È morto un partigiano
nel far la guerra
Un altro italiano
Va sotto terra.
Laggiù sottoterra
Trova un alpino
Caduto nella Russia
Con il Cervino
Ma prima di morire
Ha ancor pregato
Che Dio maledica
Quell’alleato.
42
Lanotte, Cantalo forte, pp. 70-71.
122
Ma un altro combattente
Oggi è risorto.
Combatte il partigiano
La sua battaglia
Tedeschi e fascisti
Fuori d’Italia!
Tedeschi e fascisti
Fuori d’Italia
Gridiamo a tutta forza
“Pietà l’è morta!”.43
I tre protagonisti di questo canto sono: gli alpini, i partigiani e i nazifascisti. In questa
versione si ipotizza una situazione in cui un partigiano muore: durante la guerra del 1943-
1945 non c’era nulla di più reale. Il partigiano, giovane e appartenente a quella “meglio
gioventù che va sottoterra», non è solo nel sottosuolo: trova la compagnia dell’alpino,
uno di quelli della divisione Cervino impegnata nella campagna di Russia, morto sul Don.
Nella quarta strofa sembra quasi che tra i due morti sia iniziato un dialogo e l’alpino
sembra rispondere ad un’ipotetica domanda, che potrebbe essere “Quali sono state le tue
ultime parole prima di morire?”.
In questa strofa, e in quella successiva, Revelli fa parlare l’alpino per far sentire anche la
sua voce, è un modo per raccontare la sua testimonianza della guerra del 1942-43. Il
soldato della Cervino afferma di aver chiesto a Dio di maledire quell’alleato che ha
lasciato lui e i suoi compagni a morire sul Don. Nella strofa successiva al traditore viene
dato un nome: è il governo tedesco. È qui che si intravede chiaramente un altro punto di
vista dell’autore, quello della continuità tra la guerra dell’alpino e quella del partigiano.
È come se Revelli volesse render chiaro ai nazisti che la crisi sentita tra le file dell’esercito
nella guerra di Grecia, prima, e nella guerra di Russia, poi, e che era culminata con
l’accusa di tradimento nei confronti del governo dopo l’8 settembre 1943, ha portato ad
43
Romano, Solza, Canti della resistenza italiana, pp. 100-101.
Mercuri, Tuzzi, Canti politici italiani, vol. 2, pp. 102-103.
Aldo Sala, Canti d’Italia dal Risorgimento alla Resistenza, Bergamo, Edizioni Carrara, 1977, pp. 98-99.
Savona, Straniero, Canti della resistenza italiana, pp. 336-337.
De Marzi, I canti del fascismo, p. 421.
Lanotte, Cantalo forte, pp. 70-71.
123
una battaglia contro la Germania che non si esaurirà con la morte degli Alpini, ma verrà
continuata anche dal partigiano. L’unica differenza è che il partigiano ora ha ben in mente
qual è il suo obiettivo: liberare l’Italia dai fascisti e dai nazisti. L’ultima frase del canto
racchiude perfettamente il periodo che va dall’ascesa alla quasi caduta ufficiale del
fascismo: la mancanza di umanità.
7. Conclusione
124
Julia: esiste infatti una versione, creata da questi ultimi, in cui viene messo in risalto il
sacrificio della loro brigata; «del sangue degli alpini s’è fatta rossa».
Il canto di Bassano, quindi, nonostante fosse considerato tra quelli disfattisti, si prestò
bene ad essere riutilizzato concentrando la seconda parte su alcune parole chiave:
sacrificio, sangue, commemorazione (tricolore), vendetta.
La versione creata durante il periodo della Repubblica di Salò, probabilmente subito dopo
la firma dell’armistizio dagli alpini della Julia, indica simbolicamente una prima rottura
tra gli alpini e il governo fascista. Già durante la campagna di Grecia, infatti, i soldati
provarono un senso di sfiducia e si sentivano traditi da chi li aveva abbandonati e mandati
al macello senza curarsi di loro, ossia Mussolini e la sua schiera di seguaci.
Per di più, era quel periodo in cui il dittatore voleva assolutamente dimostrare alla
Germania nazista che anche il suo esercito era forte e ben temprato come quello tedesco,
a dispetto dell’opinione, più ricorrente, che vedeva le fila militari italiane come
rappresentanti di un paese capace tanto di vincere quanto di perdere facilmente.
Nel canto, però, la crisi tra Mussolini e i suoi soldati sembra risolversi nell’ultima strofa:
il giorno della vittoria, metafora per indicare tempi più rosei, si canterà Giovinezza, una
delle colonne sonore del fascismo.
Anche da parte della Resistenza questo canto fu riadattato diverse volte. Tutte le versioni
composte tra il 1943 e il 1945 sono basate più o meno sullo stesso schema: subito si
ricorda il luogo in cui è avvenuta la battaglia, poi si ricordano i compagni scomparsi e/o
il comandante di una determinata brigata; infine si promette che i morti verranno
vendicati e che arriverà il giorno in cui l’Italia sarà liberata. Ciò che probabilmente
sconvolge di più è la totale assenza di sentimenti di nostalgia e di disperazione: l’unico
sentimento di amore che viene provato è quello per la patria, non quello per la morosa o
la mamma. Addirittura, in un canto la morte viene definita come sorella, quasi fosse un
elemento necessario da affrontare per raggiungere l’esito agognato, ossia la liberazione
dell’Italia dal nazifascismo. I valori che vengono messi in risalto sono: l’amore per la
patria, il desiderio di vederla liberata, la vendetta di coloro che sono morti.
Non è un caso se Nuto Revelli intitola la parodia da lui creata “Pietà l’è morta”:
dall’ascesa del fascismo fino alla sua caduta, violenza e guerre hanno eliminato dalla
popolazione (e dal canto) ogni traccia di umanità.
125
Se si vuole trovare un filo rosso che collega il ponte di Bassano a tutte le versioni della
seconda guerra mondiale, si potrebbe dire che ciò che unisce tutte le varianti sopra citate
è il tema del dolore: un argomento che, ancora una volta, viene affrontato in modo diverso
a seconda del contesto storico. Nel canto originale, infatti, il tema del dolore è genuino:
gli alpini e le loro fidanzate si rattristano perché sono consapevoli che non si rivedranno
più. Nella versione fascista e anche in quella della Rsi il dolore è quello provato dai
superstiti nei confronti dei compagni scomparsi, mandati al macello dal governo: ma a
questo lutto si reagisce solo con la speranza di tempi più rosei e con la promessa di
commemorare chi non c’è più, affinché il suo sacrificio non sia avvenuto invano.
Nelle versioni della resistenza il dolore è provato sia per i compagni che per alcuni
comandanti e, in questo caso, gli unici ingredienti che sono in grado di lenire la sofferenza
che provano sono l’idea di vendetta e la promessa di vedere la patria liberata.
Fino ad ora sono giunte, grazie alle registrazioni sul campo, numerose testimonianze di
canti nati nel mondo delle mondine. Queste donne di campagna lavoravano nelle risaie
con turni di lavoro lunghissimi, concentrati un periodo relativamente breve, di circa
quaranta giorni.44 Molte delle mondine erano ragazzine, avevano tredici/quindi anni e
tutte insieme venivano reclutate, caricate sulla tradotta e trasportate verso le campagne
della pianura piemontese e lombarda.
La prima cosa da fare, appena arrivate, era sistemarsi nello stanzone in cui di solito ci
dormivano venti donne e riempire con il fieno il pagliericcio che, da quel momento fino
alla fine del lavoro, sarebbe servito come giaciglio e delimitare ad un’estremità una
cassetta di legno che, per la mondina, rappresentava il tesoro più grande (serviva, infatti,
anche come cassaforte). Il lavoro era molto duro. La risaia veniva suddivisa in pertiche e
in ognuna di esse c’erano sei/sette donne (a volte anche dodici) disposte in file parallele.
44
Castelli, Jona, Lovatto, Senti le rane che cantano. Canti e vissuti popolari della risaia, Roma, Donzelli,
2005, p. 126.
126
L’abbigliamento era composto di solito da maglia, gonna o pantaloni tagliati/arrotolati
sopra il ginocchio, calze di lana/nylon (anch’esse sopra il ginocchio) e manicotti al
braccio, fermati al polso e alla spalla con elastici o pezzi di spago per evitare di ferirsi
durante la monda; niente scarpe. L’operazione di monda consisteva nell’estirpare le erbe
infestanti che venivano passate di mano in mano dal centro della fila fino alle estremità e
poi gettate nei canali di scolo laterali. Queste erbe potevano essere sia grosse che sottili e
quella più dura da strappare veniva chiamata giavòun: era complicata da estirpare perché
aveva le radici, bisognava sradicarle da sotto e a volte erano talmente dure da richiedere
l’intervento degli uomini.
Tra le varie sfide affrontate dalle mondine c’era quella di difendersi dalle bestie. Frequenti
erano gli incontri con le bisce: le più coraggiose la afferravano per la testa, la facevano
roteare due/tre volte e poi la scagliavano all’indietro. Le altre bestioline che minavano il
lavoro della monda erano: tafani, moscerini, sanguisughe, grilli-talpa, cervi volanti e
topini d’acqua. Ma soprattutto, c’erano le zanzare, quelle invisibili, che costringevano le
mondine a darsi numerosi schiaffi sulle braccia e sulle gambe per tentare di proteggersi
da quel nemico invisibile, ma onnipresente e tormentoso.
Altra operazione importante era il trapianto, che consisteva nell’andare a togliere le
piantine giovani e trapiantarle nel fango di un campo prosciugato (aquarôl).
Una volta finiti i quaranta giorni, le mondine si avviavano nuovamente verso la tradotta
con la cassetta in spalla, i soldi nascosti nel seno e i sacchi di riso in mano.45
La dimensione del canto nelle risaie era fondamentale: esso non era un elemento
marginale, ma era parte integrante dell’ambiente.
La prima caratteristica da sottolineare è la sua dimensione collettiva: come ricordato
prima, le mondine lavoravano sempre in gruppo ed era impensabile che una cantasse da
sola senza che le altre la seguissero.
I canti venivano insegnati a chi non li sapeva: in questo modo le mondine trasmettevano
(forse inconsapevolmente) il loro patrimonio canoro alle generazioni successive, ed è
45
Nunzia Manicardi, Il coro delle mondine. Immagini e canti dalle risaie padane con fotografie di Enrico
Pasquali, Modena, Il Fiorino, 1998, pp. 29-31.
127
anche grazie a questo continuo passaggio di canti di generazione in generazione se oggi
è possibile conoscere quello che cantavano.
In particolare, alle mondine più giovani venivano insegnate le parole, la modalità di
esecuzione (soprattutto, le ragazze dovevano imparare a riconoscere la voce solista, che
a volte coincideva con l’aria), il motivo per cui si cantava una determinata canzone e
l’obiettivo da raggiungere.
Dal punto di vista esecutivo, il canto era diviso in due o tre parti; alcune donne fanno la
voce più alta, le altre eseguono la seconda voce e le terze fanno “da pedale”, ossia da
basso.
In genere, l’inizio del canto era affidato alla prima voce, che eseguiva le prime strofe da
sola; dopo le prime parole entravano anche le altre voci. Le seconde attaccavano, dal
punto di vista musicale, una terza sopra/sotto alla melodia principale mentre la terza agiva
da bordone; entrambe queste voci si muovevano allo stesso ritmo della prima. La mondina
che faceva la prima voce non era solo quella con l’estensione canora migliore, ma anche
quella che generalmente era più istruita. Il canto, infatti, non poteva essere improvvisato
in qualunque momento della giornata: bisognava saper scegliere il momento adatto e la
prima voce aveva la responsabilità di dover scegliere la canzone giusta al momento
giusto, oltre che avere prontezza di spirito, memoria e humor.
Il canto serviva ad alleviare le fatiche del lavoro e a rendere sopportabili le giornate che,
altrimenti, sarebbero state insopportabili. Cantare, inoltre, aveva anche la funzione di
segnalare la propria presenza e di far sentire la voce delle mondine, sia nel senso letterale
del termine che in quello metaforico: un modo per esprimere i loro sentimenti e le loro
opinioni/proteste.46
È solito associare il lavoro di monda a quello della naia: in effetti, molti canti militareschi
sono stati riutilizzati dalle mondine e sono stati adattati al loro lavoro.
Uno dei canti che meglio rappresenta l’accostamento e la grande somiglianza tra i due
mondi è quello de “La giornata del soldato”: mettendo a confronto questa versione con
46
Castelli. Jona, Lovatto, Senti le rane che cantano, pp. 215-220.
128
quella elaborata dalle mondine è possibile rendersi conto che le giornate delle donne in
risaia e degli uomini al fronte erano simili in tante cose.
Questo è il canto che meglio riesce a descrivere la giornata del soldato ed è talmente
chiaro che chi lo ascolta non può non associare alle parole immagini precise.
Ecco il testo:
1.
Alla mattina bonora, oilè,
si sente una trombetta, oilà
sona la sveglia in fretta
e chi si veste e chi si lava,
chi si prepara per l’istruzion.
2.
Dopo tre quarti d’ora, oilè,
si sente l’aduntata, oilà
si esce in camerata
e zaino in spalla, fucile in mano
e la borraccia e il tascapan.
3.
Quando giù nel cortile, oilè,
comincia l’istruzione, oilà
si formano i plotoni
in sull’attenti, dest’riga, fissi,
un gran silenzio bisogna far.
4.
Com’è composto il rancio, oilè
riso e patate crude, oilà
minestra con verdure
e su allegri cari compagni
che mosche e ragni dobbiam mangià!
129
5.
Poi alle cinque in punto, oilè
sento sonà l’avanti, oilà
si sorte tutti quanti
e senza un soldo, senza tabacco,
si batte il tacco per la città.
6.
E alle nove in punto, oilè,
sento sonà il silenzio, oilà
sergente d’ispezione:
«Fate silenzio, o marmittoni,
se no vi sgnacco alla prigion!»
7.
Poi passa una mezz’ora, oilè,
piove che Dio la manda, oilà
si pianta lì la branda,
le scarpe in mano, salta la barra,
la sua morosa si va a trovà.
8.
A mezzanotte in punto, oilè,
torni nello stanzone, oilà
tenente d’ispezione:
«Dove sei stato o marmittone?
Sta consegnato per trenta dì!».47
Il testo è molto lungo ma rende bene l’idea di come doveva essere la giornata di un soldato
durante i momenti della vita di caserma, luogo in cui ai combattenti veniva concessa la
possibilità di rimanere lontano dal fronte, recuperare le forze e fare addestramento in vista
del prossimo turno in trincea.
47
Griffini, I canti del fante, p. 20. Il testo riporta solamente la I, la III, la V e la VI strofa.
Colantuoni, Canti di trincea, pp. 30-31. Il testo presenza alcune lievi differenze rispetto alla versione
riportata sopra; manca la IV strofa.
Baj, Canti di guerra patriottici, p. 24. Anche qui il testo presenta alcune lievi differenze rispetto alla
versione citata sopra e manca la IV strofa.
Associazione Nazionale del Fante, Canta che ti passa, pp. 25-26. Il testo presenta alcune lievi differenze.
Martelli, Ta-pum, pp. 55-59.
Savona, Straniero, Canti della grande guerra, vol. 1, pp. 148-149. L’altra versione del testo è riportata nelle
pagine 150-151.
130
La sveglia suona molto presto: alle cinque e mezza si sente la tromba che suona e i soldati
si preparano per l’istruzione. Appena sono pronti, i combattenti si avviano verso il luogo
dell’adunata e, prima di uscire dalla stanza, si premurano di prendere quattro cose
indispensabili (soprattutto le prime due): lo zaino, il fucile, la borraccia e il tascapane.
È giunto il momento dell’istruzione e, da buon regime militare, è previsto un gran
silenzio: gli unici rumori che si sentono sono quelli provenienti dalle scarpe dei soldati
che si radunano per formare i plotoni.
Il canto passa dalla descrizione dell’istruzione a quella del rancio. Il pranzo è semplice e
povero: riso e patate, più in generale minestra con verdure, probabilmente molto
annacquate; come contorno, invece, ci sono gli insetti. Questo è un riferimento abbastanza
esplicito alla cattiva qualità del rancio nelle caserme.
Alle cinque di pomeriggio, arriva il momento di riposo: i soldati vengono congedati e
lasciati liberi per la città; ma senza soldi e senza tabacco non possono fare molto, quindi
vagano per le strade senza una meta.
È giunto il momento di andare a dormire: i soldati fanno confusione, parlano tra loro, ma
basta la minaccia del tenente d’ispezione a riportare l’ordine; i combattenti non hanno
certo voglia di finire in prigione o essere puniti per non aver obbedito.
Già alle nove e mezza i soldati sono stanchi di stare fermi: sembrano quasi annoiati, visto
che piove e non si sa cosa fare. Come rianimare dunque la serata? Qualche temerario,
preso dai sentimenti e da spirito di iniziativa (mista a ribellione), decide di andare a
trovare la morosa: un’avventura degna di nota, dal momento che deve prima di tutto
evitare i controlli, raggiungere l’amata e tornare indietro facendo attenzione a non essere
scoperto. Probabilmente qualcuno c’è anche riuscito, ma il protagonista del canto sembra
non essere stato sufficientemente attento e, per aver disobbedito agli ordini, viene punito
per un mese.
La descrizione della giornata del soldato proposta dal canto è probabilmente un po’ più
rosea rispetto alla vita che conduceva effettivamente un soldato di caserma, ma le prime
strofe sembrano essere abbastanza fedeli alla realtà.
È interessante segnalare anche la versione del canto in voga durante la seconda guerra
mondiale. Le due versioni sono molto simili, solo che in quella degli anni Quaranta viene
citato il momento della colazione (pane e caffè nero) e non c’è nessuna traccia dello
spirito d’iniziativa del soldato che si ribella agli ordini per andare a trovare la morosa.
131
Neanche durante la notte il combattente riesce a riposarsi: i lineamenti del suo volto sono
sempre contratti e rigidi, come quando va in combattimento; inoltre, vicino a lui c’è
sempre il suo fucile, già pronto per essere usato in caso di bisogno.48
Anche la giornata delle mondine è intensa, e il testo del canto riesce a restituire un quadro
abbastanza fedele della realtà:
A mezzogiorno in punto
lor dicon or la zuppa
noialtre tutte in truppa
curom al caldiron
curom al caldiron.
48
I canti degli italiani, p. 43.
132
col nostro buon lavoro
che stanche siamo già
che stanche siamo già.49
Già nella prima strofa si “respira” aria di caserma militare: il capo va a chiamare le donne
per l’adunata, proprio come quando il tenente fa l’istruzione ai suoi soldati. Il testo lascia
intendere che il momento che separa il risveglio dalla colazione è occupato dal lavoro: in
pratica, si lavora nei campi prima e dopo aver consumato il primo pasto della giornata.
La colazione avviene in fretta: è sbrigativa, anche perché dopo mezz’ora le donne devono
riprendere le loro attività nei campi; il testo, purtroppo, non fornisce altre indicazioni utili
sul pasto. Dopo una mattinata passata a lavorare (come nella versione della Grande
guerra, anche in questo caso non si fa menzione delle fatiche subite dalle povere donne),
arriva il momento del pranzo. In questo caso le mondine sembrano mantenere una loro
dignità: in truppa, probabilmente in modo ordinato, si avvicinano al calderone che
contiene il loro rancio, ossia una zuppa. Il testo non lo dice, ma è possibile immaginare
che anche il pranzo delle mondine fosse composto, come quello dei soldati, da riso e altre
verdure (patate ma non solo); oltretutto, lavorando in risaia era impossibile non mangiare
del riso. Le lavoratrici passano la pausa pranzo tutte insieme e ne approfittano per cantare:
un bel modo di riposare e occupare i rari momenti liberi delle loro giornate; il canto faceva
bene all’anima. Tuttavia, anche il momento destinato al riposo purtroppo finisce e le
mondine sono costrette a riprendere il lavoro nei campi. Alle sei di pomeriggio la giornata
si avvia verso la fine: le donne hanno finalmente concluso la loro quotidiana dose di
lavoro e ritornano alle camerate, stanche più che mai.
Non vi è alcun cenno, come invece nella versione de “La giornata del soldato”, al
momento in cui le donne sono tutte radunate nella camerata, ma è probabile che non
fossero nello spirito di cantare o di chiacchierare ma andassero a dormire, anche perché
il giorno dopo si sarebbe ricominciato il lavoro daccapo e le mondine dovevano
assolutamente recuperare le energie.
8.5. Il fazzolettino: il collegamento tra le mondine e la resistenza
49
Stefano Storchi, Gino Tosi, Il canto nell’area guastallese, «L’Almancco» (Reggio Emilia), 10, 1987, pp.
115-124.
Castelli, Jona, Lovatto, Senti le rane che cantano, p. 144.
133
Il repertorio canoro delle mondine sarà stato pure in debito con quello militare, vista la
somiglianza di regime tra la naia dei soldati e quella delle donne della risaia, ma a sua
volta venne riutilizzato dagli eserciti e, durante il periodo della Rsi, anche dalla resistenza.
È possibile che i partigiani abbiano usato i canti delle mondine perché li avevano sentiti
cantare quand’erano a casa, le mogli glieli avevano in qualche modo trasmessi, e durante
il periodo di lotta utilizzavano le loro canzoni per riadattarle, ancora una volta, al contesto
storico in cui si trovavano a vivere.
L’esempio più calzante che collega il canto delle mondine con quello partigiano è quello
intitolato «Me lo doni quel fazzolettino», più noto come «Amor dammi quel
fazzolettino»: in questo caso, più che un “filo rosso” si ha un “fazzoletto verde”, visto che
durante la resistenza la canzone veniva intonata dai reparti delle Fiamme Verdi.
«Me lo doni quel fazzolettino» è un canto che manifesta nuovamente una trasformazione
di valori popolari tra la fine della Grande guerra e la fine della Rsi.
“Me lo doni quel fazzolettino” è un canto popolare sia nel senso che è nato a livello
popolare, probabilmente proprio tra i campi di riso, sia che ebbe una diffusione così ampia
da non riuscire a individuare una zona di genesi.
Ecco il testo:
134
C’è chi dice: l’amor non è bello;
Forse son quelli che non lo san far!50
Il tema principale è l’amore: la ragazza chiede al suo innamorato se può andare alla fonte
a lavare il suo fazzoletto; una classica e vecchia tecnica di corteggiamento femminile, che
però sembra avere avuto il suo effetto, visto che il ragazzo concede l’oggetto da lei
richiesto. Quanta felicità e quanta premura! Ogni passaggio è descritto con molta cura.
Per prima cosa il fazzolettino va lavato e la ragazza, mentre strofina con energia, pensa
in continuazione all’amato. Una volta lavato, la fanciulla stende il fazzoletto sul ramo di
rose, in modo che il vento lo asciughi. Probabilmente nemmeno il fiore scelto è casuale:
la rosa è il fiore che è da sempre (e continua ad esserlo ancora oggi) associato agli
innamorati. La parte finale prevede che il fazzolettino venga stirato: anche durante questa
fase la ragazza si prende cura dell’oggetto dell’amato come se fosse una reliquia; è come
se, baciandolo, volesse lasciare impressa per sempre una parte di sé, così che il fidanzato
si ricordi di lei ogni volta che lo usa.
Il momento più bello è sicuramente il sabato sera: è il giorno che la giovane innamorata
attende con impazienza perché potrà finalmente rendere il fazzoletto, e quindi rivedere il
suo amore. È molto probabile che i due giovani amanti si incontreranno e si lasceranno
andare a dolci carezze; ovviamente sempre di nascosto dai genitori, che molto non
approverebbero il comportamento dei figli. Qualcuno dice che l’amore non è bello, ma
agli occhi di un’adolescente profondamente innamorata (forse per la prima volta) questo
non sembra possibile: anzi, la ragazza sostiene che chi dice così non ha mai provato
amore/non ha mai avuto una relazione.
Come accennato sopra, durante la resistenza il canto venne riutilizzato dalla brigata delle
Fiamme Verdi.
Ecco il testo:
50
Giuseppe Di Genova, Gian Carlo Montanari, Canti popolari. La tradizione fra parole e musica in area
geminiana, Modena, Il Fiorino, 1999, p. 92.
135
tutto bel verde di vivo color?
Si intuisce fin dalla prima strofa che non vi è traccia di quell’amore spontaneo e genuino
provato dalla protagonista del canto citato prima. Si provi ad immaginare la scena. Un
giovane partigiano e una ragazza si incontrano e la giovane chiede come mai indossi quel
fazzolettino verde. Il ragazzo mette subito in chiaro che lui è un combattente della
Resistenza (in modo molto ironico si definisce un ribelle) e che appartiene alle Fiamme
Verdi. La fanciulla rimane colpita e tenta di corteggiarlo usando la stessa tattica citata
prima: gli chiede se può darle il suo fazzoletto, così da lavarlo e ridarglielo, approfittando
dell’occasione per rivederlo. Purtroppo, questa volta il fazzoletto non sembra condurre
all’effetto sperato: il partigiano è talmente convinto della causa per cui combatte da non
volersene separare.
Questo però non impedisce alla giovane di continuare a conquistarlo e, per convincerlo,
sfodera quindi l’arma di seduzione che spesso ha fatto cambiare idea agli uomini: è
disposta a concedersi la sera stessa pur di ottenere il suo fazzoletto e, quindi, il suo amore.
Il canto si conclude così e il finale aperto lascia spazio alla fantasia: la ragazza avrà
ottenuto il fazzoletto o avrà subito una cocente delusione?
In un’altra versione la vicenda si conclude con esito positivo e tragico allo stesso tempo.
Ecco le strofe in aggiunta a quelle citate sopra:
51
Lanotte, Cantalo forte, p. 159.
136
Lo darò sol per mio ricordo,
se combattendo poi morirò.
Il giovane le promette il fazzoletto, sì, ma solo nel caso in cui morirà, così da lasciarle un
suo ricordo. La ragazza è rattristata, ma sembra accettare la sua condizione: in cambio,
promette che lo laverà con le lacrime e chiede al giovane di non lasciarla; è meglio avere
il ragazzo in vita e con il fazzoletto da lavare che non il giovane morto e il fazzolettino
da bagnare con le lacrime. L’amore del ragazzo sembra essere solo per le idee in cui crede
e nemmeno le proposte di una fanciulla lo distolgono dal suo obiettivo.
9. Conclusioni
In questa seconda parte del capitolo, sono stati presi in considerazione due canti
appartenenti al mondo delle mondine, ovvero «Alla mattina buon’ora» e «Amor dammi
quel fazzolettino».
Il confronto tra questi testi e altri due provenienti rispettivamente dal mondo militare e
dalla Resistenza, ovvero «La sveglia del soldato» e «Perché porti quel fazzolettino»
intende dimostrare la reciproca influenza di questi mondi. Nel primo caso, infatti, il
soldato e la mondina affrontano la giornata in modo molto simile: entrambi si svegliano
presto, il rancio, libera uscita e, soprattutto, il riposo. Il ritmo è scandito in modo
metodico, non è quasi concesso il tempo di pensare e, soprattutto, viene restituita a chi
legge/ascolta una dimensione oggettiva, che non lascia spazio ai sentimenti.
Nel secondo caso, invece, la dimensione affettiva è presente, anzi: l’amore è il tema
dominante dei due canti. Tuttavia, come nel caso delle varianti di «Monte Canino», i
sentimenti presi in considerazione nel primo testo (composto probabilmente anche in anni
precedenti alla prima guerra mondiale) e quelli presenti nel secondo testo indicano un
mutamento di valori, oltre che un rispecchiamento del contesto sociale in cui il canto è
52
Romano, Solza, Canti della resistenza italiana, p. 144.
Sala, Canti d’Italia dal Risorgimento alla Resistenza, pp. 102-103.
Savona, Straniero, Canti della resistenza italiana, p. 331.
137
stato prodotto. La versione “contadina” di «Amor dammi quel fazzolettino» rappresenta
l’amore innocente e adolescenziale, in cui la ragazza escogita uno stratagemma per poter
rivedere il fidanzato, lontano da occhi indiscreti. La variante della Resistenza, invece,
rispecchia pienamente i sentimenti dei combattenti antifascisti tra il 1943 e il 1945, anche
se forse un po’ forzati: l’amore provato dal partigiano non è nei confronti della ragazza
ma della patria; non c’è spazio, dunque, per la vita affettiva.
138
Capitolo 4. La leggenda del Piave: storia e varianti di un canto d’autore
Nei capitoli precedenti sono stati presi in considerazione alcuni canti ottocenteschi e
novecenteschi al fine di dimostrare quanto il contesto storico e sociale abbia influenzato
la trasformazione testuale delle canzoni, pur mantenendo intatta la melodia.
Questo capitolo, invece, verrà dedicato interamente ad un canto (e alle sue trasformazioni,
ovviamente) che continua ancora oggi a vivere attraverso le generazioni, un motivo che
viene associato immediatamente alla Grande guerra: è la “Leggenda del Piave”, scritta
dall’autore napoletano Giovanni Gaeta sotto lo pseudonimo di E. A. Mario.
Una prima parte verrà dedicata a una breve sintesi della vita dell’autore; seguirà poi
un’analisi della simbologia dedicata ai fiumi e il racconto delle tre battaglie del Piave tra
il 1917 e il 1918, fondamentali per contestualizzare ed analizzare il canto. Verranno infine
prese in considerazione tutte le varianti che sono state scritte sull’aria del Piave; ciascuna
di esse verrà collocata nel tempo e nello spazio.
Noto da sempre con lo pseudonimo di E. A. Mario, Giovanni Gaeta fu l’autore non solo
della Leggenda del Piave, ma anche di numerose altre produzioni altrettanto importanti,
come il canto dedicato al Milite Ignoto.
Il compositore nacque a Napoli, rione Vicaria, il 5 maggio 1884 da Michele Gaeta e Maria
della Monica.
La nascita di Giovanni Gaeta è associata ad una leggenda: si dice infatti che il bimbo,
appena nato, fosse ricoperto di peli a tal punto da sembrare più il diretto discendente di
un primate che non di un essere umano: ovviamente, questo richiamò l’attenzione
dell’intero vicinato. Un giorno, però, la folta copertura sparì, rivelando un bambino dalla
carnagione bianca e rosea.
Il bambino rivelò molto presto una spiccata intelligenza. Prima che compisse l’età per
andare a scuola, a Giovanni venne fornita una prima istruzione dalla sorella Agata. La
ragazza aveva conseguito il diploma e avrebbe voluto continuare i suoi studi iscrivendosi
all’università, ma si scontrò con la netta opposizione dei genitori.
139
La sorella maggiore fu la prima insegnante del piccolo Gaeta e in quel periodo il
ragazzino si dimostrò molto sveglio: imparò l’alfabeto molto velocemente e con piacere.
Giovanni studiò volentieri solo fino a quando fece lezione con Agata: quando si iscrisse
a scuola, infatti, cominciò a sentirsi come in carcere e minacciò la famiglia di non volerci
più andare. Solo l’intervento dello zio Agostino, un fratello del padre, contadino
analfabeta la cui funzione all’interno della famiglia era prevalentemente quella di baby-
sitter, riuscì a convincerlo del contrario. L’autore dedicò a questa storia una poesia
intitolata “Zi’ Austino”.
L’istruzione dei figli sembra essere stata presa molto seriamente dai coniugi Gaeta:
entrambi i figli maggiori, Agata e Francesco, avevano tenuto gli studi superiori, l’una
brillando e l’altro deludendo. Il piccolo Gaeta decise di iscriversi all’Istituto nautico per
poter diventare un capitano di lungo corso. Tuttavia, i tempi erano cambiati e le rendite
provenienti dal negozio di famiglia non erano sufficienti a coprire le spese per le esigenze
quotidiane. I Gaeta affrontarono la crisi aprendo due negozi: Maria iniziò a gestire una
merceria, Michele un negozio di barberia.
Giovanni continuò a studiare al prezzo di grandissimi sacrifici: per risparmiare, prendeva
in prestito i libri che gli servivano e ne copiava solo le parti più importanti; inoltre era
sempre pronto ad aiutare i compagni più svogliati che ricambiavano il favore pagandolo
o donandogli qualche abito che non indossavano più.
Quando smise di andare a scuola, il ragazzo cominciò a guadagnare qualche lira aiutando
il padre nel suo negozio1: fu proprio lì che il giovane entrò in contatto per la prima volta
con la musica. Un giorno un cliente dimenticò un mandolino nel negozio e, grazie anche
all’aiuto del manuale di musica regalato dal giornalaio Don Michele (da sempre amico di
famiglia e molto affezionato al ragazzo), imparò presto a suonarlo.
Lo strumento appassionò il ragazzo a tal punto da cominciare a creare versi e musica
insieme. Tuttavia, il giovane voleva che le sue creazioni fossero firmate con uno
pseudonimo e fu così che decise di adottare la firma, con cui sarebbe diventato noto, di
E. A. Mario. Stando alle testimonianze, la E deriverebbe dal suo secondo nome, Ermete;
la A, invece, starebbe per Alessandro, in onore di Alessandro Sacheri, il direttore de «Il
Lavoro» al quale aveva spedito una sua composizione su Mazzini in occasione del
1
Carmelo Pittari, La storia della canzone napoletana. Dalle origini all’epoca d’oro, Milano, Baldini
Castoldi Dalai, 2004, pp. 309-313.
140
centenario della sua nascita. Un dibattito è ancora in corso riguardo al nome Mario: le
opzioni possibili sono due. Secondo una prima corrente di pensiero, Mario era il nome
con cui si firmava la giornalista polacca conosciuta a Bergamo e con la quale sembra
esserci stata una certa intesa. Un’altra corrente, invece, crede che Giovanni abbia voluto
omaggiare Alberto Mario, marito della scrittrice inglese J. Meridon White e «grande
mazziniano […] cavaliere della democrazia».2
Nel 1902 Giovanni trovò occupazione presso l’ufficio postale della sua città e vi rimase
impiegato anche durante gli anni della guerra: in quanto ultimo figlio di madre vedova,
egli fu esentato dal servizio militare. Nonostante la lontananza dal fronte, l’amore per la
patria, l’ansia per l’esito della guerra e la necessità di scrivere canzoni che rincuorassero
l’animo dei soldati non gli impedirono di entrare in contatto con i luoghi della guerra.
Il suo lavoro, infatti, permise al ragazzo di recarsi nelle prime linee come postino e,
tramite il suo inseparabile compagno di viaggio e di vita (il mandolino), cantava ai soldati,
con i quali aveva nel frattempo stretto amicizia, canzoni di guerra. I suoi canti, composti
da parole e musiche semplici e di immediata e facile memorizzazione, non solo
entusiasmavano gli amici, ma parlavano anche di lui e delle sue idee di giustizia e libertà.
Fu proprio su uno di quei moduli per telegrammi che, la notte tra il 23 e il 24 giugno
1918, scrisse di getto la “Leggenda del Piave”, che sarebbe diventata la sua composizione
più nota. Nel 1921, invece, scrisse la canzone dedicata al Milite Ignoto, in occasione della
cerimonia della tumulazione della salma.3
La notorietà è un privilegio difficile da ottenere e anche da gestire: per questo ci vuole
anche un po’ di fortuna, ed è proprio quella che Gaeta non ottenne.
La sua “Leggenda” lo aveva reso famoso oltreoceano, ma anche truffato: al poeta giunse
infatti notizia che un certo Mario, emigrato italiano e mutilato di guerra, che abitava a
New York, si spacciava come l’autore della famosissima canzone sul Piave. Il vero Mario,
deciso a combattere e vincere la battaglia contro l’impostore anche in nome di tutti gli
altri artisti truffati, si imbarcò senza esitazione nell’ottobre del 1922 sul «Conte Rosso»,
diretto a New York.
Avvertimenti, minacce e una riuscita aggressione, dalla quale fortunatamente riuscì a
salvarsi, non furono sufficienti a fermare Gaeta dalla sua missione di smascherare il falso
2
Ivi, pp. 318-319.
3
Ivi, pp. 330-331.
141
Mario: ci riuscì, ma fallì il suo intento, più volte perseguito negli anni successivi, di
ottenere un risarcimento dal falso autore. L’America, però, gli permise di incontrare
persone di ogni tipo, tra cui anche il fotografo, ritrattista e collaboratore di W. Disney
Alfredo Melina.4
Sempre negli anni Venti il compositore mise in piedi una casa editrice a Milano e trasferì
la sua famiglia a Varese; tuttavia, una serie di coincidenze e scelte sbagliate lo portarono
presto in gravi difficoltà finanziarie, tanto che fu costretto, negli anni Trenta, a trasferirsi
con la moglie e le figlie a Napoli, in una casa che fungeva anche da sede della casa
editrice.
L’ultimo periodo della vita del poeta fu molto tormentato: nel giro di tre anni, infatti,
vennero a mancare sia la suocera che la moglie e la morte di quest’ultima lo distrusse a
tal punto che si ammalò, perse la voce e morì il 24 giugno 1961.5
2. Il fiume: simbologia
Dal momento che il protagonista della Leggenda del Piave è un fiume, e anche in alcune
sue varianti il corso d’acqua continua ad essere il filo conduttore del canto, è interessante
analizzare in sintesi la storia del rapporto tra l’uomo e il fiume e i sentimenti che ha
provato per lui.
Un mito molto antico e molto noto legato al fiume è quello del dio egizio Osiride e del
fiume Nilo. Osiride venne infatti ucciso dal fratello Seth e il suo corpo venne smembrato
e gettato nel Nilo; fu riportato in vita grazie a Iside, sua sposa, che raccolse i pezzi e li
ricompose. Tuttavia, Osiride venne nuovamente ucciso dal fratello e la moglie e la sorella
Nefti ricomposero nuovamente il corpo, mummificandolo: questa operazione garantì a
Osiride l’immortalità e il regno dell’Oltretomba, che governò insieme alla moglie.
Questo mito, come tanti altri legati ai fiumi, contiene un principio vitale della società
fluviale: l’idea di circolarità. In effetti, spesso si associava la circolarità delle acque a
quella del sangue nel corpo umano. Inoltre, il mito della morte e della rinascita delle acque
aveva l’effetto di garantire stabilità.
4
Ivi, pp. 338-339.
5
Ivi, pp. 344-345.
142
Accanto all’idea del fiume circolare, associato al ciclo sanguigno vitale, esiste quella
lineare, che spinge la storia a valle: in questo senso, ad acquistare valore è la direzione
del fiume e l’idea che ci sia una nascita e una fine, ma non una rinascita; nel corso dei
secoli su questa idea si sono fondate le immagini della vita/morte degli imperi/nazioni e
dell’alternarsi di periodi di pace e di guerra.
In sintesi, nelle culture orientali e mediorientali il fiume veniva considerato come un
circuito chiuso sia in senso temporale che geografico, nel senso che i corsi d’acqua
nascono (nascita), si gettano nel mare (muoiono) e ritornano ad essere sorgenti.
Nelle culture occidentali, e l’Impero Romano d’Occidente rappresentò, in questo senso,
il massimo esponente, il fiume era rappresentato come una figura lineare: il corso d’acqua
serviva come via di comunicazione, di commercio, ma anche di trasporto delle truppe,
ecc.
L’elemento più interessante da sottolineare in questa nuova concezione del fiume è il
rapporto tra l’uomo e l’acqua. Mentre nella cultura orientale l’essere umano era
sottomesso alla forza dell’acqua e nutriva così tanta ammirazione, e allo stesso tempo
timore, nei confronti di quell’elemento naturale da adorarlo e costruirci attorno miti, nella
cultura occidentale l’uomo piegava la natura al suo volere. In particolare, l’acquedotto
era il simbolo che rispecchia pienamente il nuovo stato del fiume, non più ammirato o
temuto ma piegato alle esigenze umane. Inoltre, già nei testi latini era presente l’idea di
storia lineare: in questo senso, il fiume veniva immaginato come una linea che portava
l’impero dalle origini alla sua massima espansione.
Sempre nella cultura occidentale, il sentimento nei confronti del fiume aveva una doppia
faccia: da una parte, esso trasmetteva un senso di stabilità e sicurezza; dall’altra, quando
qualche esploratore non conosceva pienamente il corso d’acqua che stava navigando,
cominciava a provare un senso di paura e timore di rimanere in balia di acque
sconosciute.6
Se il fiume rappresenta la nazione (e ogni paese ha il proprio fiume sacro alla patria, a cui
vengono intitolate vie, ponti, edifici, ecc.), allora grazie alle sue caratteristiche sarebbe
possibile capire il comportamento di un popolo. Questo, almeno, era il pensiero di Botero
che, nel Seicento, operava una distinzione tra i fiumi a carattere torrentizio, più impetuosi
e violenti, e quelli pacifici delle Fiandre e dell’Europa orientale.
6
Simon Schama, Paesaggio e memoria, Milano, Mondadori, 1997, pp. 264-267.
143
Rimanendo sempre nell’ambito della penisola italiana, secondo lo scrittore seicentesco il
carattere turbolento del popolo italiano era dovuto alla violenza e all’imprevedibilità dei
fiumi che nascono sugli Appennini e sulle Dolomiti che corrono a buttarsi nel mare; la
loro impetuosità era tale da impedire quella che lui chiamava «viscosità», ossia la densità
e la tensione superficiale che garantisce al fiume il massimo traffico di armi, merci,
persone.7
Per concludere, c’è una frase riportata nel libro di Simon Schama che racchiude molto
bene il sentimento provato dagli uomini nei confronti del fiume e che, per la verità delle
parole, sembra adattarsi a qualsiasi contesto storico:
I fiumi possiedono, in misura maggiore rispetto a tutte le altre cose inanimate, un’apparenza di vita,
qualcosa che assomiglia al carattere. Sono a volte lenti, cupi, a volte furibondi e impetuosi, oppure
vivaci, danzanti quasi impertinenti.8
Il fiume Piave dovette la sua notorietà alle tre battaglie che lo videro protagonista e alla
canzone che seguì le tre vittorie.
Ma cosa rappresentava veramente per gli italiani quel fiume sacro alla patria? Prima di
ricordare più nel dettaglio le tre battaglie contro l’Austria-Ungheria e la Germania che
portarono alla vittoria dell’Italia e alla fine della guerra, è necessario accennare a grandi
linee l’atteggiamento dei soldati nei confronti di quel corso d’acqua.
Innanzitutto, il Piave era frontiera e fronte e, in questo modo, delimitava con sicurezza il
territorio da difendere. Il fiume era contraddistinto dalla mobilità: non era fisso, come le
montagne, ma in costante movimento e questo era visibile anche nei continui
cambiamenti di colore delle sue acque (dall’azzurro passavano ad essere grigie, poi gialle
e poi di nuovo azzurre).
Soprattutto, il Piave era un elemento di rigenerazione mentale per il fante: il corso
d’acqua, infatti, consentiva al soldato di non esalare, almeno per qualche giorno, l’odore
della morte proveniente dai numerosi cadaveri insepolti, e gli restitutiva il senso della
vita. Per usare termini già citati nel paragrafo precedente, il fiume era una zona viva e
7
Ivi, pp. 288, 334.
8
Ivi, p. 362.
144
pulsante, un’arteria piena di flussi vitali. Anche il poeta e soldato Gabriele d’Annunzio
attribuiva al fiume la vita. Egli, infatti, diceva: «Vi sono in Italia altri fiumi viventi? Non
voglio ricordarmene. […] Avete inteso? Questo fiume … è la vera maestra della vostra
vita, la vena profonda nel cuore della patria. Se si spezza, il cuore s’arresta».9
Il sacro fiume della patria era, dunque, un corso d’acqua che veniva considerato dai
soldati vitale e vivente, arteria del territorio ed elemento mobile.
Quale fu il ruolo del Piave nelle tre battaglie che riportano il suo nome? Per capirlo è
necessario fare un passo indietro e accennare alla battaglia di Caporetto. Il 24 ottobre
1917 l’Italia subì la sconfitta più dolorosa di tutta la guerra: quel giorno in due punti ci fu
uno sfondamento di 30 km sul fronte lungo il corso dell’alto Isonzo, tra Plezzo e Tolmino.
Gli austriaci e i tedeschi avanzarono rapidamente e in modo inatteso e questo attacco
improvviso provocò scoraggiamento e panico generale, che si tradusse poi in fuga di
individui e di interi reparti. Ci fu lo sbandamento di centinaia di migliaia di uomini; il
senso di vergogna fu così forte che, in quel periodo, furono parecchi i casi di suicidio tra
i generali.10
La prima battaglia del Piave, nota anche come “battaglia d’arresto”, si svolse tra il 10
novembre e il 25 dicembre 1917.
Una delle prime conseguenze legate alla sconfitta di Caporetto fu la decisione, da parte
del capo del governo, di mettere a guida dell’esercito Armando Diaz. La prima scelta del
nuovo comandante fu quella di dislocare le truppe sulla linea Grappa-Piave. Il monte e il
fiume, infatti, avrebbero protetto Venezia e ristretto il fronte di 2/3 rispetto a quello
dell’Isonzo: questo avrebbe permesso alle truppe di gestire meglio la linea di
combattimento.
Le undici divisioni alleate inglesi e francesi, su suggerimento del maresciallo Foch,
furono poste vicino all’Adige e, dal 4 dicembre, quattro di esse furono schierate sul Monte
Tomba, sulla collina del Montello e sul Piave, fino a Nervesa. Il monte Grappa fu difeso
strenuamente dalle truppe della IV armata, mentre il Piave non fu un teatro molto attivo
in questa battaglia, se non quando, tra il 12 e il 17 novembre, la III armata del Duca
d’Aosta combatté sulla riva destra del fiume per cacciare le truppe austriache.
9
Fortunato Minniti, Il Piave, Bologna, Il Mulino, 2015, pp. 10-15.
10
Ivi, p. 21.
145
È importante non dimenticare anche il cambiamento che Diaz apportò alle truppe: il
comandante cominciò a rivolgersi ai suoi soldati sempre in modo affettuoso (senza che
questo gli impedisse di richiedere il loro sacrificio nel momento del bisogno) e li esortò
a combattere, nell’ordine, per la terra, la casa, la famiglia e l’onore. Inoltre, tra i
combattenti si era diffusa la sensazione di combattere una guerra diversa da quella
affrontata fino a quel momento per tre motivi. Il primo è che i comandi superiori
concessero maggiore autonomia alle divisioni, e queste ultime la concessero alle unità
minori. Il secondo è il maggiore appoggio reciproco tra le divisioni, scambiandosi i reparti
a seconda delle necessità. Infine, era cambiata la strategia di combattimento: veniva usata
una tattica di difesa elastica, che prevedeva la cessione del terreno seguita da immediati
contrattacchi.11
La battaglia del solstizio si svolse tra il 15 e il 24 giugno 1918. Durante i mesi trascorsi
tra queste due battaglie, l’umore dell’esercito era decisamente migliorato e si sentiva
pronto a reagire a qualsiasi attacco: oltretutto, le truppe si aspettavano l’offensiva
austriaca.
Il piano dell’Austria era quello di attaccare il tratto montano e la linea Piave-Grappa, per
un territorio di fronte di 130 km, passando per Bassano e Treviso; tuttavia, a causa delle
difficoltà di rifornire l’esercito, rimandò l’attacco a giugno.
In questo caso gli schieramenti furono tre: l’Italia (e i suoi alleati), l’Austria-Ungheria (e
i suoi alleati) e il Piave. Il fiume sacro alla patria, infatti, a causa della pioggia, rese
l’attraversamento delle sue acque a volte impossibile, a volte difficile, in ogni caso mai
agevole.
Le truppe austriache avevano costruito cinque ponti e undici passerelle tra Montello e
Intestadura, oltre a un ponte e tre passerelle sul Piave vecchio; inoltre, avevano adibito
quattro passaggi adatti per il transito dell’artiglieria, ma erano troppo pochi per garantire
l’efficienza dell’attacco. Tuttavia, la (inusuale) piena estiva del 17-19 giugno 1918
travolse/sommerse quasi tutti i passaggi: furono quasi tutti distrutti o dalle acque o dalle
artiglierie italiane, pochissimi furono quelli ricostruiti.
Tra il 20 e il 24 giugno si svolse la seconda parte della battaglia. L’elemento “naturale”
che si sostituì all’acqua fu il fuoco e l’Italia aprì nove passaggi sul Montello e altri quattro
tra Ponte di Piave e Intestadura.
11
Ivi, pp. 28-35.
146
Sul Montello ci furono cinque scontri intensi, meno sul Grappa e sulla riva destra del
fiume. L’Italia vinse grazie ad una resistenza organizzata.12
La terza e ultima battaglia che vide come protagonista i tre elementi coinvolti a giugno,
ossia Italia, Austria-Ungheria e Piave, si svolse tra il 24 ottobre e il 3 novembre 1918 ed
è conosciuta anche come “battaglia di Vittorio Veneto”. Il piano d’attacco era già pronto
dal 9 ottobre: il fronte interessato era la zona tra Montello e le grave di Papadopoli.
L’armata del generale Caviglia avrebbe dovuto superare il Piave, arrivare fino a Vittorio
Veneto, poi da lì proseguire per Belluno e Ponte di Piave. Alla sua sinistra ci sarebbe stata
la XII armata con quattro divisioni (una francese), comandate da Graziani, con l’obiettivo
di conquistare Cesen e la strada per Feltre.
Alla sua destra, invece, ci sarebbe stata la X armata con altre quattro divisioni (due
inglesi), comandate da Lord Canvan: nel loro caso, l’obiettivo era la Livenza.
L’ordine fu dato il 12 ottobre e doveva essere eseguito il 18; quel giorno, però, fu previsto
un secondo piano che prevedeva un attacco da parte della IV armata sul Grappa, con
l’obiettivo del solco che da Primolano conduce a Feltre.
Stavolta il Piave non fu da subito collaborativo, anzi! La piena del fiume danneggiò
gravemente sia Giardino che Caviglia: la divisione di quest’ultimo, infatti, si ritrovò ad
essere isolata sul Grappa e a combattere contro undici divisioni austriache più numerose
e il tiro offensivo delle artiglierie. Tra il 27 e il 29 ottobre gli italiani cercarono di
ricostruire i ponti che venivano costantemente distrutti dalle acque e dal nemico.
Poi ci fu una svolta: Caviglia decise di usare un corpo di riserva per aprire la strada alle
unità alleate ancora ferme al fiume, avviandolo a Sud per usare i passaggi della X armata;
indirizzò poi la riva sinistra del Piave verso Nord per prendere di fianco le difese nemiche,
sbloccando il passaggio principale alla Priula. Così avvenne e la battaglia proseguì sul
terreno. Inoltre, le truppe non austriache erano impegnate a fronteggiare moti di ribellione
da parte di undici divisioni e una quarantina di reggimenti.
Dal 29 ottobre il Piave concesse tregua agli italiani, consentendo ai soldati di gettare tutti
i ponti. Le truppe austriache abbandonarono il fronte del Grappa inseguiti dalla IV armata,
mentre la VII fu messa in moto sul basso Piave. L’ingresso delle forze italiane a Trento e
12
Ivi, pp. 59-68.
147
a Trieste fu una presa di possesso di carattere morale e giuridico da parte di pochissimi
uomini seguiti da reparti poco numerosi.13
Nelle tre battaglie che riprendono il suo nome, si potrebbe dire che il Piave fu passivo (o
comunque non molto attivo) nella prima, italiano nella seconda e austriaco nella prima
metà della terza.
La tesi di Fortunato Minniti è che, in realtà, il sacro fiume alla patria è sempre stato
neutrale: la piena fu il suo modo di dimostrare la sua contrarietà ad una guerra che
logorava entrambi gli eserciti, rimanendo quindi imparziale e non tenendo in
considerazione il colore delle uniformi dei soldati.14
Questa tesi sembra rispecchiare una caratteristica del fiume citata nel libro di Schama: «il
fiume non si lascia prendere, è lui che prende».15 Sì, perché il corso d’acqua è mobile:
per quanto uno provi a governarlo ed incanalarlo, alla fine agirà di propria volontà, senza
favorire intenzionalmente l’uno o l’altro schieramento.
Dopo aver accennato alle tre battaglie a cui La Leggenda del Piave fa riferimento, è ora
di prendere in considerazione genesi e analisi di questo canto.
«Ma cos’è quel brivido […] sottile che percorre le membra quando si sentono le note del
Piave?»: questo si domandava Mussolini durante un discorso tenuto a Cremona nel
1922.16
La canzone fu scritta di getto tra il 15 e il 22 giugno 1918 da Giovanni Gaeta sui moduli
ingialliti del servizio interno postale per cui lavorava; un cantante, poi, la diffuse tra i
bersaglieri e da lì si sparse in tutti i reparti, diventando ben presto il canto più apprezzato
e più noto. La quarta strofa, invece, fu scritta subito dopo la fine della guerra, tra il 4 e
l’11 novembre.17 Alcune parole furono modificate dall’autore su richiesta di Mussolini,
ma di questa vicenda si tratterà più avanti.
13
Ivi, pp. 86-92.
14
Ivi, p. 90.
15
Schama, Paesaggio e memoria, p. 318.
16
Caravaglios, Canti delle trincee. Contributo al folclore di guerra, p. 90.
17
Savona, Straniero, Canti della Grande guerra, vol. 1, p. 378.
Paolo Paci, Caporetto. Andata e ritorno, Milano, Corbaccio, 2017, p. 16.
148
Musica e parole furono improvvisate e, secondo Caravaglios, il fatto che La leggenda
fosse nata con gli stessi mezzi dei canti di guerra, ovvero semplicità, immediata
memorizzazione e improvvisazione, contribuì all’immediata diffusione tra le file
dell’esercito.18
In un’intervista rilasciata da E. A. Mario al giornale «Il Carroccio» di New York, l’autore
spiega la genesi del canto. Di seguito alcuni stralci della dichiarazione:
Così al sopraggiungere del maggio bellico, m’accorsi che il clima storico scompigliava il frasario
della canzone: amore e cuore parvero vocaboli fuori uso, troppo abusati dal liricume bastardo
diventato anacronismo; anche un mio modesto dramma personale, identificatosi nella trama e nei
personaggi col grandioso dramma circostante – una triplice andata a male, una guerra santa
dichiarata senza disporre d’efficienza bellica – non mi consentiva di scherzare con versi leggeri […]
Un ardito mi domandò, “a nome di tutto il 2° Reparto d’assalto, un inno sugli arditi” perché,
aggiunse, “siamo parecchi che sappiamo suonare il mandolino” […].
Un inno? Un po’ d’odiata rettorica, tanto di rettorica son lastricate le vie della storia! […] Che cosa
è, di solito, un inno patriottico? Un centauretto che ha della poesia togata e della faciloneria volgare,
e reca quasi sempre scolastiche declamazioni sulle glorie defunte: anche se chi scrive è preso da un
brivido di commossa umanità, la formola uccide il sentimento, e lo spirito di chi canta deve andare
di là dalla parola per non incagliare nella consueta giacitura del verso.
Ma i tempi incalzavano. Le mie notti di ostinato allineatore di aride cifre, che di mese in mese
diventavano meno promettenti, mi lasciavano perplesso: non riuscivo a volte neppure a fare la più
semplice operazione. Lasciavo la penna e domandavo al mandolino qualcosa per rompere quella
perplessità; ma l’estro, involto troppo a lungo negli agi della metrica usata, non si lasciava spoltrire.
E così, tra penna e plettro, era uno sciupio di tempo e di pazienza.
Quand’ecco, una notte, una frase rompere dalle otto corde metalliche: «Il Piave mormorava calmo
e placido al passaggio».
Un tempo di marcia che non risentiva né del ludo, né dell’affanno marziale, ma che non pareva
neppure di quelli fatti per rallegrare le sagre o per fare salamelecchi pentagrammatici alle Autorità;
e, intanto, un non so che d’insolito era in quel motivetto, perché a risuonarlo mi prese una rapida
concitazione.
Chiusi i libri di commercio, raccattai della carta per musica, vi tracciai una chiave di violino; e giù
a sgorbiare note! Quel facile motivetto pareva adatto a segnare il passo: non banda ma farfaretta,
non rumorosità polifonica ma giovialità contenuta; c’era come il soave fluire di un fiume all’ombra.
E mentre la mano tracciava a caratteri primitivi le note sul pentagramma, l’estro vi balbutiva dei
versi dissimili dalla poesia individuale, che aveva adombrato gli agitati anni della mia giovinezza:
18
Caravaglios, Canti delle trincee. Contributo al folclore di guerra, p. 81.
149
la strofa prendeva moto e colore da una luminosa visione e procedeva con quell’acconcia
disinvoltura che manca quasi sempre ai forzati mescolamenti di note musicali e di parole metriche:
«Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti, il 24 maggio…».
Dopo il ricordo di questo affettuoso consentimento del fiume liberato e liberatore, la strofa si snodò
più aspra, ma non contorta: aveva del bollettino da stato maggiore e dell’umile lettera informativa
dei soldati partecipi. Ed io mi accorgevo, difatti, che molte parole non erano mie: versificavo qua e
là, inconsapevolmente, una cara lettera del capitano ferito, scrittami dal fronte il 24 maggio, a poche
ore dalla prima occupazione.
Ripresi il plettro ed uno squillo seguì alla marcetta: «No! Disse il Piave. No! Dissero i fanti». Quel
fiume, che dianzi fluiva soave, pareva ad un tratto gonfiato dalle tempeste delle patrie fortune: era
un andare e venire di pattuglie che in una prima visione avevo scorte nell’atto di cantare. Ecco perché
allo squillo seguì uno stornello alla soldatesca ed a questo seguì un ultimo squillo che risolveva sulla
parola “straniero” il trittico dell’avanzata, della rotta e della resistenza. «Il Piave comandò: indietro
va straniero».
Fu notato un punto essenziale nella rassomiglianza fantastica di quella mia leggenda: il viatico
musicale che dava il tono alla visione; e forse perciò appunto i soldati, ai quali m’affrettai a mandarla
manoscritta con i miei elementari caratteri musicali, col loro spirito creatore la sparsero sull’ali dei
venti.
Mentre le canzoni edite continuavano ad impolverarsi negli scaffali per difetto di compratori, quella
musica e quelle parole manoscritte correvano dallo Stelvio al mare: preferii quel gratuito fervore
d’amanuense all’arido allineamento di cifre dei registri immiti.
E lo stesso giorno che la minaccia dell’usciere mise in pericolo l’esistenza della mia casa editrice,
ricevetti una cartolina dei soldati che mi promettevano “di confermare e cantare l’ultimo ritornello
nei giorni della riscossa”.
Quella cartolina riportò il sorriso sul volto amato della madre mia: la buona vecchia, anzi, quando,
tra il 9 e l’11 novembre 1918, io scrissi la quarta strofa della mia leggenda, e le cifre dei miei registri
parvero pantografate dal Bollettino della Vittoria, fece del mio mandolino un paliotto: vi legò un
nastro tricolore là donde le mie dita avevano espressa la prima volta la frase combattiva. E da quel
giorno non osai trarre da quello stesso strumento altri motivi per versi leggeri.
Sciolsi quel nastro soltanto nell’ottobre del 1921: per comporre la musica di Soldato Ignoto … 19
Una nascita miracolosa, dunque, quella della Leggenda. Le parole di E. A. Mario sono
così chiare e limpide che è quasi possibile immaginare la scena. Un uomo, preoccupato
per le sue finanze e per l’incerto esito della guerra, è chiuso nel suo polveroso, triste e
grigio studio e sente l’esigenza di comporre qualcosa di adatto alle circostanze belliche,
19
Caravaglios, Canti delle trincee. Contributo al folclore di guerra, pp. 82-86.
Savona, Straniero, Canti della Grande guerra, vol. 1, p. 376-377.
Viazzi, Giovannini, Cantanaja, pp. 178-179.
150
ma senza usare il tema dell’amore perché troppo spesso usato e abusato: l’occasione
arriva quando gli viene richiesto di comporre un inno per gli arditi.
Il poeta, tuttavia, non riesce a trovare le parole: più riflette e più aumentano le sue
preoccupazioni, che gli impediscono di compiere anche le operazioni più semplici.
Addirittura, l’uomo interroga il mandolino, chiede aiuto a quelle otto corde metalliche
affinché gli diano l’ispirazione.
Ma una notte, ecco l’illuminazione! Il suo strumento sembra essere deciso a collaborare
con il suo compagno e, su quelle corde, vengono improvvisate le prime note e le prime
parole del canto.
A questo punto, il più è fatto: E. A. Mario, nei giorni seguenti, non avrà altro pensiero se
non quello di comporre; il lavoro avrebbe aspettato.
Dopo aver introdotto il protagonista del canto, un fiume «calmo e placido» e definito dal
poeta «libero e liberatore», l’autore ritorna con la memoria e le parole ad una lettera scritta
da un capitano poche ore dopo l’inizio della guerra: ecco spiegato quel passaggio di fanti
il 24 maggio!
Il Piave, quel fiume così sacro per la patria, deve per forza essere alleato degli italiani:
all’invasione delle truppe corrisponde l’invasione del fiume. Non più un fiume tranquillo,
dunque, ma un corso d’acqua attivo, combattente, soldato.
Il poeta è soddisfatto del suo lavoro, comincia a trascrivere quei versi sui materiali
cartacei che ha a sua disposizione e li affida ai soldati affinché diffondano i suoi versi tra
i loro compagni.
Il successo è immediato e l’uomo è contento di sapere che la sua creazione si diffonde
velocemente dallo Stelvio al mare: il suo canto, seppur distribuito in modo gratuito, ha
una diffusione immediata, mentre le canzoni di altri autori subiscono il triste destino di
prendere polvere e ammuffirsi giorno dopo giorno nei registri.
Pochi giorni dopo la fine della guerra, quest’uomo si vede recapitare una lettera che non
porta notizie positive: la sua casa editrice rischia di chiudere. Tuttavia, il solo pensiero
che i soldati canteranno le sue strofe gli dà la forza per andare avanti.
Inoltre, il poeta decide di concludere il canto, così come si era conclusa la guerra, con
un’ultima strofa: la madre, da quel momento, considererà lo strumento dal quale ha avuto
origine il canto come una specie di cimelio, legando alle corde un nastro tricolore.
151
Un cimelio, però, non può essere usato in ogni occasione, ma solo in quelle speciali: ecco
perché E. A. Mario toccherà le sue metalliche otto corde solo in occasione di un altro
canto molto importante, anche se sicuramente meno noto rispetto alla Leggenda: quello
dedicato al Milite Ignoto.
Ecco il testo:
Il Piave mormorava
calmo e placido, al passaggio
dei primi fanti, il ventiquattro maggio:
l’esercito marciava per raggiunger la frontiera
per far contro il nemico una barriera ….
Muti passaron quella notte i fanti:
tacere bisognava andare avanti!
S’udiva intanto dalle amate sponde,
sommesso e lieve il tripudiar dell’onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero.
Il Piave mormorò:
“Non passa lo straniero”.
E ritornò il nemico
per l’orgoglio e per la fame:
volea sfogare tutte le sue brame …
Vedeva il piano aprico,
di lassù: voleva ancora
152
sfamarsi, e tripudiare come allora …
No! – disse il Piave. – No! – dissero i fanti
mai più il nemico faccia un passo avanti
Si vide il Piave rigonfiar le sponde!
E come i fanti combattevan l’onde ...
Rosso di sangue del nemico altero,
il Piave comandò:
“Indietro, và, straniero!”
Indietreggiò il nemico
fino a Trieste, fino a Trento …
E la Vittoria sciolse l’ali al vento!
Fu sacro il patto antico:
tra le schiere, furon visti
risorgere Oberdan, Sauro, Battisti …
Infranse, alfin, l’italico valore
le forche e l’armi dell’impiccatore!
Sicure l’Alpi … libere le sponde ….
E tacque il Piave: si placaron l’onde ….
Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,
La Pace non trovò
né oppressi né stranieri!20
20
Lino Carrara, Canti fascisti, Pisa, Tipografia F. Scimioni, 1923, pp. 6-7.
Inni patriottici ad uso delle scuole elementari, 1926, p. 3.
Una Brigata di fanti, Canta che ti passa, pp. 41-42.
Associazione Nazionale Combattenti Sezione di Saluzzo, Le nostre canzoni, Saluzzo, Tipografia Saluzzese,
1927, p. 5.
Segreteria Generale dei Fasci all’Estero, Inni e canzoni della patria e del fascismo, 1928, pp. 5-7.
94° Reggimento Fanteria II Battaglione, Inni patriottici e canti dei soldati, Fano, Tipografia Sonciniana,
1928, p. 3.
Associazione Nazionale Combattenti Italiani Federazione della Francia, 13° anno della Vittoria, Parigi,
Garagnani, 1931, pp. 5-6.
81° Reggimento Fanteria “Torino”, Inni e canzoni della patria, Roma, Tipografia Reggimentale, 1932, pp.
11-12. Manca la II strofa.
Fascisti Italiani all’Estero O. G. I. E., Inni e canzoni della patria fascista, Fasci Italiani all’Estero, anno XI,
pp. 13-15.
Associazione Nazionale del Fante Sezione di Palermo, Canti della Trincea, Palermo, Grafiche Sciarrino,
1933, pp. 4-5.
Comando della Divisione di Fanteria “Granatieri di Sardegna”, Inni della Patria e Canzoni dei reggimenti
della divisione di fanteria Granatieri di Sardegna, 1935, pp. 8-9.
2° Reggimento Genio Casale Monferrato, Inni patriottici, Casale, Tipografia F.lli Tarditi, 1935, pp. 10-12.
La seconda strofa appartiene alla seconda versione.
Giacomo Maria Lombardo (a cura di), Canti della patria, pp. 134-137. La seconda strofa appartiene alla
seconda versione.
Scuola Allievi Ufficiali Del Genio, Inni patriottici, Pavia, 1937, pp. 25-27. La seconda strofa appartiene
alla seconda versione.
153
«Il Piave mormorava calmo e placido, al passaggio dei primi fanti, il ventiquattro maggio:
l’esercito marciava per raggiunger la frontiera per far contro il nemico una barriera»: è
con questa frase che si apre il canto. In realtà, Mario modificò leggermente gli eventi a
lui contemporanei; nella prima strofa del canto, infatti, si trovano due imprecisioni, una
delle quali è in grado di ribaltare la realtà storica.
La prima imprecisione riguarda la data, il 24 maggio: quel giorno, l’esercito italiano
aveva già iniziato a combattere, non si stava trasferendo al fronte. Tuttavia, questa
informazione imprecisa è parzialmente giustificata perché lo stesso autore ammise di
essersi ispirato, per questi due versi, ad una lettera di un capitano ferito durante i primi
giorni di combattimento, in cui raccontava della marcia verso il fronte.
L’altra imprecisione di E. A. Mario, più seria, riguarda i versi che descrivono
l’atteggiamento dell’esercito nei confronti del nemico: «per far contro il nemico una
barriera». In realtà, i soldati italiani marciarono verso il fronte per attaccare l’Austria-
Ungheria, non per difendersi.
L’atteggiamento del Piave, in questa prima fase, è di calma: sembra dormiente e non
impedisce ai soldati italiani di attraversare le sue acque. Anzi, il mormorio delle sue onde
ha quasi il potere di tranquillizzare i fanti, ma anche di presagire la vittoria: da lì non
passerà nessuno straniero. Nella seconda strofa, quella che poi susciterà tanto scalpore
durante il governo di Mussolini, si parla della battaglia di Caporetto. Cadorna, principale
responsabile della “vergognosa sconfitta militare” di cui ancora oggi si parla tanto,
imputò la causa della sconfitta alla diserzione delle truppe italiane. L’inchiesta sulla
vicenda, cominciata poco dopo la fine dello scontro e conclusa otto mesi dopo, affermò,
P. N. F. Gioventù Italiana del Littorio comando Federale Alessandria, Canti di fede d’amore e di gloria,
Alessandria, Tipografia E. Grasso, 1937, pp. 15-16. La seconda strofa appartiene alla seconda versione.
Inni nazionali, pp. 14-15. La seconda strofa appartiene alla seconda versione.
Deposito del 366° Reggimento Fanteria, Inni patriottici, Modena, Società Tipografica Modenese, 1941, pp.
9-10. Manca la seconda strofa.
Sapori (a cura di), Canti della patria, pp. 165-168. La seconda strofa appartiene alla seconda versione.
Ufficio Propaganda della Milizia (a cura di), Canti legionari, p. 10. La seconda strofa appartiene alla
seconda versione.
Viazzi, Giovannini, Cantanaja, pp. 178-179.
Savona, Straniero, Canti della Grande Guerra, vol. 1, pp. 374-375.
Ridolfi (a cura di), Canti e poesie della Grande Guerra, pp. 72-73.
Bermani, E non mai più la guerra, pp. 106-107.
154
invece, che la battaglia di Caporetto fu persa a causa dell’incapacità del generale italiano
di prevedere, e di conseguenza affrontare, le mosse del nemico austriaco. Il «tradimento»
di cui si parla è riferito alla prima versione diffusa negli ambienti patriottici, ovvero quella
che accusava il fronte interno di diserzione e, quindi, considerava le truppe italiane come
le maggiori responsabili della sconfitta di Caporetto.
Nella prima parte della strofa il fiume è molto umanizzato perché è in grado di provare
gli stessi sentimenti che hanno provato i soldati immediatamente dopo la sconfitta: ira e
sgomento.
Il Piave non è ancora protagonista diretto degli eventi, ma osservatore sì: se le sue acque
potessero parlare, probabilmente sarebbero in grado di descrivere meglio di chiunque
altro le odissee dei profughi che, dal 27 ottobre 1917, invasero le città e i borghi in seguito
alla sconfitta.
Nell’ultima parte della strofa, il fiume è di nuovo umanizzato e sembra rispecchiare i
sentimenti provati dagli italiani, ovvero dolore e tristezza. In tre versi ci sono tre termini
che rimandano alla sfera del lutto: «violate sponde […] sommesso e triste […]
singhiozzo».
Gli ultimi due versi concludono la vicenda di Caporetto con un’esclamazione quasi
angosciante, «ritorna lo straniero», come a voler insinuare che la presenza dell’austriaco
nemico in suolo italico è intollerabile ed è ora di ricacciarlo.
Nella terza strofa arriva l’occasione. Si sa che più si conquista e più si vorrebbe
conquistare e a questa legge non sfugge l’Austria-Ungheria: ecco perché il suo esercito
intraprende un’altra battaglia contro il nemico, per conquistare altri territori italiani e
«sfogare le sue brame».
Stavolta, però, i soldati italiani sono determinati a non farsi sconfiggere e, insieme a loro,
è deciso anche il Piave: è in questa (e anche nell’ultima) strofa che diventa effettivo
protagonista del combattimento. In questo caso la battaglia a cui il poeta si riferisce è
quella del solstizio (giugno 1918), in cui il Piave ebbe quella piena insolita che distrusse
tutti i ponti austriaci.
È abbastanza chiara la similitudine tra il fante e il fiume: i soldati combattono, e così
fanno le onde del sacro Piave. Le acque del fiume ora non hanno più quel tono azzurro
che le contraddistinguono, ma sono tinte di rosso: è il sangue del nemico.
155
Per sottolineare, ancora una volta, che la presenza nemica in territorio italiano non è
decisamente ben accetta, il Piave conclude la strofa comandando al nemico di stare
indietro. In effetti, nella terza battaglia del Piave, l’ultima prima della fine dell’ostilità, il
nemico fu ricacciato indietro, fino a Trento e a Trieste: le truppe italiane entrarono in
queste due città il 3 novembre, firmando l’armistizio di pace il giorno dopo e “liberando”
i due territori dal controllo austriaco. Ecco perché, nell’ultima strofa, vengono citati
Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro e Cesare Battisti: erano tre irredentisti morti in nome
dell’idea di liberare alcune zone del territorio italiano dal controllo austriaco. È come se,
con la vittoria dell’Italia sull’Austria-Ungheria, E. A. Mario volesse rendere giustizia a
chi aveva combattuto ed era stato ucciso per rendere finalmente le terre irredente una
parte dell’Italia.
La sconfitta del nemico ha avuto come conseguenza la liberazione delle Alpi e anche
quella delle sponde del fiume: il Piave ora è tranquillo e non sente più la necessità di
ribollire; addirittura, viene messo a tacere. In questa ultima strofa (da ricordare, scritta
dopo la fine della guerra), l’ultima parola è affidata alla Pace, quasi fosse una presenza
che, dopo essere stata a lungo invocata, giungesse in Italia per controllare la situazione e
trovasse un paese libero da oppressi e nemici.
Una delle prime manovre che Mussolini fece appena salito al potere fu quella di
controllare tutti i mezzi di comunicazione di massa e i fenomeni artistici. La censura non
era nuova nella vita degli italiani: già durante la prima guerra mondiale alcuni articoli di
giornale venivano censurati per il loro contenuto. Tuttavia, durante il ventennio fascista
il fenomeno assunse dimensioni nuove, controllando la vita quotidiana delle persone
come mai prima di allora.
Per sottolineare l’importanza della censura in epoca fascista, è bene ricordare che venne
istituito un Ministero per la Cultura Popolare, dicastero istituito ufficialmente nel 1937,
ma attivo già dal 1925, quado operava sotto il nome di Ufficio per il controllo della
stampa. Il ministero aveva competenza sul contenuto dei giornali, sulla radio, musica e,
156
in generale, su qualsiasi forma di comunicazione o arte, così che l’immagine del regime
non venisse danneggiata da messaggi inappropriati.21
Nemmeno E. A. Mario fu risparmiato dalla censura. La sua Leggenda, dopo la fine della
guerra, entrò a far parte dei canti ufficiali della patria, tanto da essere usata in tutte le
manifestazioni commemorative, a partire dalla tumulazione della salma del Milite Ignoto,
fino ad arrivare ai funerali di Armando Diaz e Luigi Cadorna, rispettivamente nel 1928 e
nel 1930. Tuttavia, proprio perché così importante, non era tollerabile che si facesse
riferimento alla sconfitta di Caporetto in termini di tradimento.
Il dubbio, legittimo, che i responsabili della ritirata fossero gli ufficiali e non la truppa
era stato confermato dalla commissione d’inchiesta; ma un regime che intendeva
presentarsi alle altre potenze come forte non poteva accettare la sconfitta del 1917, a meno
di non volgerla a suo favore. D’altra parte, era altrettanto inconcepibile che fosse stato
l’esercito a tradire: che ne sarebbe stato, allora, dell’immagine dei soldati esemplari pronti
a sacrificarsi per la patria e per l’onore? Durante l’epoca fascista, vigeva più che altro la
tesi secondo cui la sconfitta di Caporetto era imputabile alle varie istigazioni del fronte
interno, all’interno del quale il sentimento prevalente era quello del disfattismo.
Nel 1922, infatti, il Piave venne preso da Mussolini come il punto d’inizio per la sua
ascesa politica che sarebbe culminata con la marcia su Roma. Ancora una volta, dunque,
al fiume sacro alla patria venne data una dimensione lineare che ricorda molto la
concezione dell’antico impero romano, che ragionava in termini di espansione.22
Per questo motivo, l’autore venne “caldamente invitato” a modificare i versi disfattisti
nella seconda e nella quarta strofa; già nel 1929 si ebbe la versione completa, che sarà poi
inserita nel volumetto dei canti patriottici ad uso delle piccole italiane.
Ecco il testo originale della seconda strofa, sopra citato; le parole che furono cambiate
verranno segnalate in corsivo:
21
Maurizio Targa, L’importante è proibire. Tutto quello che la censura ha vietato nelle canzoni, Viterbo,
Stampa Alternativa, 2017, pp. 110-111.
22
Savona, Straniero, Canti della Grande Guerra, vol. 1, p. 378.
157
venir giù, lasciare il tetto,
per l’onta consumata a Caporetto.
«Tradimento» e «onta» erano termini che di certo stonavano nel periodo fascista. Ecco
come venne modificata la strofa:
Indietreggiò il nemico
fino a Trieste, fino a Trento …
E la Vittoria sciolse l’ali al vento!
Fu sacro il patto antico:
tra le schiere furon visti: risorgere Oberdan, Sauro, Battisti!
Infranse alfin l’italico valore!
Le forche e l’armi dell’impiccatore
Indietreggiò il nemico
fino a Trieste, fino a Trento …
E la Vittoria sciolse l’ali al vento!
Fu sacro il patto antico:
tra le schiere, furon visti
risorgere Oberdan, Sauro, Battisti!
23
Caravaglios, Canti delle trincee, p. 91.
2° Reggimento Genio Casale Monferrato, Inni patriottici, pp. 10-12.
Scuola Allievi Ufficiali del Genio, Inni patriottici, pp. 25-27.
P.N.F. Gioventù Italiana del Littorio Comando Federale di Alessandria, Canti di fede, d’amore e di
gloria, pp. 15-16.
Inni nazionali, pp. 14-15.
Ufficio Propaganda della Milizia, Canti legionari, p. 10.
158
infranse, alfin, l’italico valore
L’onta cruenta e il secolare errore24
La fortuna e l’immediata diffusione di questo canto sono già state sottolineate più volte
nei paragrafi precedenti; tuttavia è importante ricordare un episodio che riguarda la
Leggenda perché mostra ancora una volta quanto il contesto storico sia importante
quando si intende ripercorrere la storia di un canto.
Fino all’8 settembre 1943 l’inno nazionale era stato la Marcia Reale: composto nel 1831
da Giuseppe Gobetti, era monarchico e continuò ad essere usato in alcune manifestazioni
ufficiali persino dopo il 1861, seppur «con evidente imbarazzo dalle nostre autorità
presenti», in attesa che venisse ufficializzato l’utilizzo del canto di Fratelli d’Italia come
nuovo inno nazionale. È necessario ricordare che questo inno nacque principalmente
come inno d’arma, ovvero fu concepito sin dall’inizio per essere suonato dagli strumenti
a fiato della fanfara militare. Negli anni successivi alla sua composizione, però, vennero
adattati alla musica diversi testi, ridondanti e pomposi, al fine di celebrare il sovrano.25
L’inno monarchico, però, in seguito all’armistizio dell’8 settembre, non era più adeguato,
anche perché la monarchia era «rea di aver affidato l’Italia nelle mani del fascismo», e
Badoglio decise di proporre come inno nazionale La leggenda.26 Se si rilegge il testo del
canto e lo si inserisce all’interno di quel contesto storico, è possibile notare la
straordinaria attualità delle parole scritte da E. A. Mario. Un elemento accumunava,
infatti, le due guerre (per quanto riguarda la seconda, in questo caso si prende in
considerazione la prospettiva di Badoglio): il fatto che si combatteva contro un nemico
(il cosiddetto straniero) che, fino a qualche mese prima di entrare in guerra, era alleato
dell’Italia.
24
Canzoniere del soldato, edizione P.N.F., pp. 16-17.
Canzoniere del soldato, pp. 36-40.
25
Michele Calabrese, Il Canto degli Italiani: genesi e peripezie di un inno, in «Quaderni del Bobbio», n.
3, 2011, pp. 110-111.
26
Maurizio Ridolfi (a cura di), Almanacco della Repubblica: storia d’Italia attraverso le tradizioni, le
istituzioni e le simbologie repubblicane, Milano, Mondadori, 2003, p. 148.
159
L’uso della Leggenda come inno nazionale rimase fino al 1946, anno in cui venne
ufficialmente sostituito dall’Inno di Mameli, in previsione della cerimonia del giuramento
delle forze armate in occasione dell’anniversario della fine della Grande Guerra.27
La prima parodia della Leggenda del Piave fu composta da Raffaele Offidani, in arte
Spartacus Picenus. Sotto il nome di La leggenda della Neva, Offidani cantò la rivoluzione
d’ottobre avvenuta in Russia ed è per questo che è necessario fare un passo indietro e
cercare sia di ricordare cosa avvenne in Russia nell’anno della rivoluzione, sia quale fu
la portata dell’evento in Italia (se non altro perché l’autore del testo era italiano).
Poco prima che la monarchia russa abdicasse, nella città di Pietrogrado si stavano
formando due governi che uscirono allo scoperto non appena il regime zarista collassò.
Il primo governo provvisorio era guidato dal principe G. E. L’vov, uomo di legge e
presidente dell’Unione panrussa degli zemstvo. L’vov e i suoi uomini erano più impegnati
nella politica estera (temevano, infatti, le reazioni degli alleati) che in quella interna: non
avevano, infatti, alcuna idea di come guidare le masse. La soluzione proposta fu quella di
redigere la costituzione di una repubblica democratica che andasse incontro al desiderio
dei contadini di possedere le terre in cui lavoravano e alle esigenze degli operai; allo
stesso tempo si sarebbero portate avanti le operazioni militari, confidando in una vittoria
degli alleati sulla Germania.
L’altro governo era quello del Soviet di Pietrogrado, il più importante fra i numerosi che
si andarono costituendo nella prima fase rivoluzionaria, composto in prevalenza da
menscevichi e socialisti-rivoluzionari. Il loro piano prevedeva una graduale vittoria sul
governo provvisorio, rifiutando ogni sostegno ad esso e spingendolo gradualmente verso
provvedimenti più radicali. Tuttavia, questo non avvenne mai perché il primo problema
con cui fare i conti era la guerra e, sebbene i menscevichi sostenessero una fine delle
ostilità senza vincitori né vinti, non avevano idea di come fermare il conflitto, né
auspicavano ad una rivoluzione socialista in tempi brevi. In questi mesi di turbolenza
politica i bolscevichi, nei Soviet, rappresentavano la minoranza.
27
Ivi, p. 166.
160
Nel frattempo, Lenin aveva appreso dell’abdicazione dello zar e decise di tornare in
Russia dopo un lungo viaggio su un treno dalle porte blindate; arrivò in patria il 3 aprile
1917. Una volta arrivato alla stazione di Pietrogrado, Lenin si accorse che nessuno pareva
rendersi conto della situazione politica e di come agire di conseguenza, mentre lui ne era
ben consapevole. In questi mesi in Russia coesistevano governo provvisorio e Soviet:
l’obiettivo doveva essere la presa di potere da parte del proletariato, guidato ovviamente
dai bolscevichi, così da trasformare la Russia in una società socialista; per raggiungere
questo scopo era necessario ottenere la maggioranza nell’appena convocato Congresso
panrusso dei soviet.
La grave crisi che stava affrontando il paese favorì la vittoria dei Soviet. La caduta dello
zar aveva lasciato pochi uomini della vecchia guardia al controllo dei villaggi e, in questa
situazione di grande incertezza e instabilità, essi non furono in grado di controllare, la
maggior parte delle volte, la folla rivoluzionaria. I contadini, infatti, approfittarono del
momento di debolezza della classe dirigente per appropriarsi delle terre, sia in modo
violento che in maniera più o meno pacifica. A volte, infatti, capitava che essi si recassero
nei campi e cominciassero ad arare le terre dei nobili come se fossero proprie; altre volte,
invece, si presentavano a casa degli aristocratici e chiedevano loro di andarsene (in modo
gentile). Di fatto, la conseguenza più immediata fu che i nobili si trasformarono da
padroni della terra a profughi in miseria e cercarono ospitalità nelle grandi città. Anche
in queste ultime era avvenuta una “rivoluzione dal basso”: gli operai delle fabbriche,
adesso, lavoravano otto ore, avevano salari più alti e comitati di fabbrica il cui principale
obiettivo era quello di assumere il pieno controllo del posto di lavoro.
A giugno la maggioranza nei Soviet era ancora menscevica e socialista rivoluzionaria,
ma il bolscevismo stava cominciando ad attirare nelle sue file sia i rivoluzionari che erano
all’estero sia i menscevichi dissidenti; fra questi Trockij. A luglio i soviet bolscevichi
organizzarono a Pietrogrado una dimostrazione armata che aveva l’intenzione di essere
una scalata al potere, ma furono fermati dal governo provvisorio e dai soviet di città;
Lenin emigrò clandestinamente in Finlandia, Trockij finì in carcere.
Il governo provvisorio tentò di tenere sotto controllo la situazione russa nelle campagne,
ma i tentativi si rivelarono tutti disastrosi; nel frattempo, nelle città i soviet crearono le
Guardie Rosse, le quali provocarono allo stesso tempo ordine e disordine.
161
Kerenskij, leader del governo provvisorio, si trovò costretto ad affrontare, oltre che le
folle rivoluzionarie, anche il malcontento all’interno dell’esercito: il malumore dei soldati
nei confronti della prima guerra mondiale ebbe come risultato un crescente crollo della
disciplina. Per risolvere la situazione, Kerenskij decise di sostituire L’vov con il generale
Kornilov, sperando che quest’ultimo riuscisse nell’impresa di riportare ordine
nell’esercito.
Tuttavia, Kornilov tentò di ristabilire disciplina e ordine non solo all’interno dell’esercito,
ma anche all’interno del paese: alla fine di agosto, il generale avanzò verso la capitale
insieme al III Corpo d’Armata di cavalleria, costituito all’poeca da musulmani del
Caucaso settentrionale. Kerenskji si rese conto che, da solo, il governo provvisorio non
sarebbe riuscito a fermare l’avanzata del generale e decise di chiedere aiuto
all’opposizione: ecco perché i leader del Soviet bolscevico uscirono di nuovo dal carcere:
a partire dalla seconda metà di settembre, il governo era in buona parte esautorato. Ora il
potere effettivo era in mano ai soviet: perlomeno, questi avevano l’effettivo controllo
della situazione a Pietrogrado e a Mosca. Determinante per gli sviluppi successivi fu
l’appoggio dei socialisti-rivoluzionari: questi ultimi, infatti, erano ben organizzati nelle
campagne, mentre i bolscevichi avevano una buona organizzazione solo nelle città. Con
i due leader di nuovo in libertà, i bolscevichi e i socialisti-rivoluzionari decisero che era
giunto il momento di agire.
Il 25 ottobre (il nostro 7 novembre) 1917 le Guardie Rosse si diressero verso il Palazzo
d’Inverno, a difesa del quale erano state poste qualche centinaia di difensori. Al segnale
dell’incrociatore Aurora, ancorato sul fiume Neva, le Guardie presero il palazzo,
incontrando scarsissima resistenza. Al Congresso panrusso dei Soviet i bolscevichi e una
parte dei socialisti rivoluzionari di sinistra presero il potere e la Russia venne proclamata
una Repubblica sovietica e socialista.28
Quale fu l’atteggiamento dell’Italia nei confronti della Rivoluzione d’Ottobre?
Sicuramente di immediata simpatia, almeno per quella di febbraio. Già nel marzo 1917,
quando i bolscevichi stavano faticosamente e lentamente avanzando verso il potere, i
socialisti italiani diedero il loro appoggio morale a quelli russi, certi che, nel giro di poco
28
Paul Bushkovitch, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin, Torino, Einaudi, 2012, pp. 336-342.
162
tempo, sarebbe avvenuta in Russia quella rivoluzione del quale il proletariato sarebbe
stato non solo protagonista, ma anche vincitore.29
La Rivoluzione d’Ottobre, quindi, rappresentò per le masse italiane la possibilità di
realizzare una rivoluzione anche in Italia e, sebbene questo sentimento fosse presente
anche prima degli avvenimenti di ottobre, la Russia servì come modello da seguire per
ottenere la libertà dei socialisti italiani dalla borghesia.30
Raffale Offidani, in arte Spartacus Picenus, era un uomo che fin da giovane aveva
abbracciato l’ideale comunista.
Sul finire del 1918 Offidani si trovava in un ospedale a causa di una grave infermità di
guerra e, nella sua autobiografia, afferma che l’ispirazione della “Leggenda della Neva”
gli venne proprio durante questo periodo di ricovero.
Il suo vicino di letto, un operaio torinese, a quanto pare non smetteva di cantare la
Leggenda del Piave: così, al ragazzo venne in mente di contrapporre al battagliero Piave
la proletaria Neva, culla della rivoluzione. La parodia piacque così tanto all’operaio che
non solo volle trascriverla di suo pugno, ma una volta uscito dall’ospedale la fece
stampare su un foglio volante a Torino: il successo fu tale che il canto si diffuse anche
nelle più remote zone d’Italia e veniva eseguito continuamente.
La canzone, secondo Offidani, rappresentava agli inizi del 1919 i sentimenti dei proletari
italiani che speravano in una rivoluzione, anche se questa, diversamente da quanto
avvenuto in Russia, non arrivò mai.31 Nel canto vengono citate sia la rivoluzione
d’Ottobre sia la rivolta in Germania a cavallo tra il 1918 e il 1919. Ecco il testo:
La Neva contemplava
della folla umile e oscura
il pianto silenzioso e la tortura.
La plebe sanguinava
29
Gabriella Donati Torricelli, La rivoluzione russa e i socialisti italiani nel 1917-18, in «Studi storici»,
8(4), 1967, p. 728.
30
Tommaso Detti, La Rivoluzione d’ottobre e l’Italia, in «Studi storici». 15(4), 1974, p. 887.
31
Savona, Straniero, Canti della Grande guerra, vol. 1, pp. 380-381.
Emilio Jona, Sergio Liberovici, Franco Castelli, Alberto Lovatto, Le ciminiere non fanno più fumo. Canti
e memorie degli operai torinesi, Milano, Donzelli, 2008, pp. 90-92.
163
come Cristo sulla Croce
svenata dalla monarchia feroce
che non paga di forche e di Siberia
volle ancora della guerra la miseria ….
Ma sorse alfin un Uomo di coraggio
che infranse le catene del servaggio
e sterminò le piovre fino in fondo.
Quell’uomo fu Lenin
liberator del mondo.
La Neva trasportava
verso il Mar, da Pietrogrado,
il motto di Lenin “Chi è ricco è ladro”
e il motto volando
per i mari e continenti
destò dal sonno gli schiavi dormenti.
E valicò gli Urali, il Kremlino
e giunse sino a Monaco e Berlino …
Qui sventolando la Bandiera Rossa
“Spartaco” diè il segnal della riscossa.
E cadde. Ma alla notte, sulla Sprea
– qual immenso falò –
la salma risplendea.
La Neva commossa
alla Sprea vaticinava
che non invano “Spartaco” spirava.
La pura salma rossa
ingigantì la tormenta
e … “di denti di draghi fu sementa”.
Oh quanto ne fu di fertile il terreno
e non soltanto sulla Sprea e sul Reno!
Ben disse il duce degli Spartachiani:
“Malgrado tutto, sarà mio il domani”.
E l’eco ripetè tutta la Terra:
“Fra oppressi ed oppressor non pace mai, ma guerra!”.
164
non invano prometteva.
L’incendio all’universo si estendeva.
Minaccia il Po, il Tamigi,
il Danubio ed altre sponde.
Arrosserà del Tebro le acque bionde.
Spartaco ruggirà dalla sua fossa:
…. “Eserciti di schiavi, alla riscossa!”.
O sozza tirannia, da troppo langue
la folla prona, cui succhiasti il sangue.
O casta scellerata e maledetta,
è giunto anche per noi
il dì della vendetta!
Nella prima strofa la Neva viene presentata come osservatrice di una situazione sociale
che sembra provocarle dolore: il fiume, infatti, è dispiaciuto di vedere la popolazione
russa “serva delle catene della borghesia”. Il nemico in questione è la monarchia, che
continua a svenare la parte più povera della popolazione a causa delle continue guerre, e
non sembra avere alcuna intenzione di fermarsi. Alla fine della strofa entra in scena uno
dei protagonisti del canto, Lenin, considerato dai contadini russi e dall’autore del canto
«liberator del mondo»: fu lui a guidare la Rivoluzione d’Ottobre in Russia.
32
Spartacus Picenus, Canti comunisti, Milano, Edizioni del Calendario del Popolo, 1967, pp. 27-29.
Savona, Straniero, Canti della Grande Guerra, vol. 1, pp. 382-383.
165
Tra la prima e la seconda strofa viene lasciato intendere che la rivoluzione d’ottobre sia
andata a buon fine. La Neva, ora, non è più triste spettatrice delle sofferenze degli uomini,
ma assume un ruolo attivo: il suo corso d’acqua trasporta l’ideologia di Lenin anche in
altri paesi europei. D’altra parte, il fiume è spesso stato considerato una via di
comunicazione, e questo canto lo dimostra.
Il primo paese in cui il motto di Lenin approda è la Germania; vengono citate due città,
Monaco e Berlino. In quest’ultima città, tra il 1918 e il 1919, fu messa in atto una
rivoluzione da parte dei comunisti tedeschi che appartenevano ad un gruppo politico
chiamato “La lega di Spartaco”, guidata da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Durante
gli anni della guerra, gli appartenenti al partito misero in atto una serie di scioperi e
proteste volte, oltre ad affermare la propria ideologia, anche a manifestare il loro desiderio
di una pace imminente.
Tuttavia, nei primi giorni del 1919 ci fu la cosiddetta “settimana di sangue”: una serie di
scioperi falliti a causa delle divisioni interne al partito ebbe, tra le conseguenze, quella
del rastrellamento di Liebknecht e della Luxemburg, oltre che di altri politici che erano
attivamente coinvolti.
La sera del 15 gennaio Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht vennero arrestati,
probabilmente in seguito ad una denuncia, e condotti all’hotel Eden a Wilmersdorf, nel
cuore di Berlino. Dopo un breve interrogatorio, i due vennero condotti nel parco di
Tiergarten e uccisi; i loro corpi vennero gettati nel Landwehrkanal, il canale artificiale
che collega l’alto e il basso Spree (il cadavere della Luxemburg, in realtà, verrà ritrovato
solo a maggio dello stesso anno). Ecco perché viene citato il fiume Sprea come tomba dei
due capi del partito.33
Nella terza strofa si instaura un colloquio tra i due fiumi, la Neva e la Sprea. Il primo
fiume sembra consolare il secondo dicendo che Spartaco non è morto invano. Infatti, la
morte del leader comunista tedesco sembra aver scatenato reazioni anche in altri paesi,
stavolta al suono di un nuovo grido: «Fra oppressi ed oppressor, non pace mai ma guerra».
Il motto sottolinea l’incompatibilità di idee e di carattere tra oppressi ed oppressori, ossia
tra operai e contadini da una parte e borghesia/monarchia dall’altra: i due schieramenti
non potranno mai coesistere pacificamente, saranno sempre in guerra tra loro.
33
Gilbert Badia, Il movimento spartachista: gli ultimi anni di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, Roma,
Savelli, 1976, pp. 193-194.
166
La morte dei due dirigenti della lega di Spartaco sembra aver acceso una scintilla,
innescando una reazione anche negli altri paesi: come nelle strofe precedenti, più che
essere citati i nomi dei paesi vengono citati quelli dei fiumi. In particolare, vengono
nominati: il Tamigi (Inghilterra), il Po (Italia), il Danubio (Germania), Tebro (Tevere,
Italia). Come Lenin guidò la rivoluzione in Russia, così la lega di Spartaco convince il
popolo a liberarsi dalle catene della monarchia; è particolare il fatto che la rivolta sia
guidata da due persone decedute, ma l’ideologia che la anima è così forte che, a quanto
pare, nemmeno la morte riesce ad impedire questo percorso.
Nell’ultima strofa l’autore si rivolge ai suoi compagni ed esprime il suo pensiero. Egli,
infatti, sembra voler dire: Lenin, il grande liberatore e colui che per primo ha avviato la
rivoluzione, ci osserva per capire qual è la nostra situazione. Dimostriamo che anche noi
siamo in grado di liberarci dalla tirannia! Offidani esorta poi i compagni a prendere le
armi e ad attuare una repressione violenta nei confronti della borghesia, frantumandone
«il cuore ed il cervello».
Come molti altri suoi compagni in quel periodo, Offidani era seriamente convinto che il
regno della tirannia avesse i giorni contati e che presto sarebbe stato sostituito da quello
del proletariato italiano.
La Canzone della Neva e quella del Piave hanno alcuni punti in comune ma anche alcune
differenze. La prima somiglianza è che entrambi i fiumi, nella prima strofa, sono
spettatori o comunque attori non partecipanti: ciò che li rende umani, tuttavia, è la loro
capacità, attribuita dagli autori ovviamente, di provare sentimenti nei confronti della
situazione che li circonda. Il Piave prova «l’ira e lo sgomento», mentre la Neva assume
lo stesso atteggiamento della folla che osserva, «il pianto silenzioso e la tortura». Un altro
aspetto che li accomuna è l’idea di riscossa: entrambi, infatti, puntano a liberarsi dal
nemico, rispettivamente dal dominio austro-ungarico, per quanto riguarda il Piave, e dalle
catene della monarchia, per quanto riguarda la Neva. Dunque, nemico diverso ma stesso
obiettivo. Il terzo elemento comune è il colore delle acque: ogni battaglia causa dei morti
e, data l’importanza dei fiumi nei combattimenti, è normale che le acque si arrossino. In
questa prima parodia, il fiume che si tinge di rosso non è la Neva ma la Sprea; sempre di
un corso d’acqua si tratta.
La differenza principale tra il Piave e la Neva consiste nel ruolo che assumono all’interno
della battaglia. Il fiume italiano, infatti, è un combattente: le sue onde sono come i fanti,
167
combattono strenuamente per sconfiggere il nemico. La Neva, invece, partecipa in modo
meno sanguinario: più che soldato, il suo corso d’acqua è il mezzo di comunicazione che
trasporta le idee da un paese all’altro o, per meglio dire, da un fiume all’altro.
«Al termine della guerra 1915-1918 l’Italia otteneva, con i trattati di pace, il Trentino, la
Venezia Giulia, l’Alto Adige, la Dalmazia e le Isole del Dodecaneso. Non otteneva però
Fiume»: questa frase si ritrova su molti libri di storia ed è quella più adatta per introdurre,
in breve, l’argomento dell’impresa di Fiume guidata dal poeta Gabriele D’Annunzio (di
cui quest’anno è ricorso il centenario). In realtà, il problema di Fiume nacque già da prima
della fine del conflitto. Fin dalla seconda metà dell’Ottocento la questione
dell’irredentismo, ovvero della liberazione di alcuni territori italiani dal controllo austro-
ungarico, fu ciclicamente affrontata.
La causa del malumore italiano nei confronti della questione di Fiume risaliva al patto di
Londra: in quell’occasione la città istriana era stata posta sotto il controllo del regno dei
Serbi, Croati e Sloveni, nonostante che il territorio di Fiume fosse abitato in buona parte
da cittadini di cultura italiana.
La soluzione proposta da Sonnino e Orlando fu di stringere un patto con la Jugoslavia
proponendo uno scambio di territori: all’Italia sarebbe andata la città di Fiume, in
prevalenza italiana, mentre alla Jugoslavia sarebbero state cedute quelle terre abitate in
prevalenza da slavi, in Venezia Giulia e in Dalmazia, e che, tuttavia, erano state cedute
all’Italia nel trattato di Londra.34
Sonnino e Orlando cercarono di impietosire Wilson, il principale ostacolo politico per il
successo del piano, a loro modo: il primo mostrò una consapevolezza tragica della
situazione e affermò che avrebbe avuto il rimorso, in seguito al patto di Londra, di aver
danneggiato il suo amato paese. Orlando, invece, fece leva sull’arte della drammaticità:
si affacciò alla finestra di un appartamento che guardava su quello di Wilson, nel quale
sapeva che si stava svolgendo una riunione, e cominciò a lacrimare. A Wilson non sfuggì
34
Savona, Straniero, Canti dell’Italia fascista, pp. 40-41.
168
il gesto, ma non lo credette possibile fino a quando non vide il politico italiano asciugarsi
occhi e guance con un fazzolettino.35
Al di là dell’aneddoto, è importante considerare che una parte dell’esercito non fu
d’accordo con i volantini propagandistici lanciati dal governo e reagì facendo stampare
altri volantini considerati rinunciatari. Alla fine, però, venne mantenuta la formulazione
originaria del trattato di Londra e, nel settembre 1919, fu disposto l’ordine di ritirare le
truppe italiane da Fiume; una parte di esse, i granatieri comandati dal maggiore Reina,
furono destinati al Carso.36 Fu a questo punto della storia che entrò in scena Gabriele
d’Annunzio, comandante dei legionari di Ronchi. Il sentimento irredentista fu così forte
che Reina si convinse, dopo aver scambiato una corrispondenza con il poeta, ad entrare
nelle file dei ribelli.
La personalità del poeta-vate è sempre stata circondata da un’aura di leggenda e mistero,
e anche la partenza per la conquista di Fiume cominciò con una nota miracolosa. Si dice,
infatti, che il poeta fosse febbricitante il giorno prima dell’ingresso a Fiume, ma che
questo non fosse bastato a fermarlo è cosa nota. Dopo essere stato vistato da un medico,
che espresse il suo disappunto nel vedere le sue condizioni di salute, D’Annunzio chiese
a gran voce un motoscafo, mezzo veloce e potente, pienamente in linea con il suo
pensiero. Il poeta scrisse poi un articolo intitolato Italia o morte e, dopo aver inviato una
lettera a Mussolini in cui gli comunicò la sua volontà di partire nonostante la febbre
perché «ancora una volta lo spirito domerà la carne miserabile», chiese al futuro duce di
pubblicare l’articolo sulla «Gazzetta del Popolo», riassumendone il contenuto ma dando
intera la fine.37 Così, il 12 settembre 1919, i «Legionari di Ronchi», con l’implicito
consenso delle truppe del comandante Reina che avrebbero dovuto impedire la loro
avanzata e guidati da Gabriele D’Annunzio, occuparono Fiume: vi rimasero fino
all’approvazione del Trattato di Rapallo (dicembre 1920).38
35
Raul Pupo, Fiume città di passione, Bari-Roma, Laterza, 2018, p. 75.
36
Savona, Straniero, Canti dell’Italia fascista, p. 41.
37
Giordano Bruno Guerri, Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920, Milano,
Mondadori, 2019, pp. 62-65.
38
Savona, Straniero, Canti dell’Italia fascista, p. 41.
169
10. L’Inno dei Legionari di Zara
L’Inno dei Legionari di Zara fu composto sulla musica della Leggenda del Piave dai
legionari di Zara, all’epoca comandati da Millo: seguivano le orme dei legionari di
Ronchi. Ecco il testo:
La Cortellazzo muove
dritta verso la riviera
con un ardore d’anima guerriera.
Gli arditi tutti cantano
«La Giovinezza» in coro
al vento di levante tinto d’oro
ode la gente il canto dei fratelli
saluta gli argonauti novelli;
che levano il pugnale con vigore
offrendo a Zara l’impeto ed il cuore
Cantando forte le canzoni altère
e balzan dalla nave
l’eroiche fiamme nere!
Su la porta Marina
rugge il Leone di S. Marco.
S’illumina di Gloria tutto l’arco.
Una forza divina
170
leva il nome di Millo
nel suono vittorioso di uno squillo.
E marinai, fanti e granatieri
Si fondono ai prodi bersaglieri,
mentre l’anima fedele risuggella
il patto santo per la causa bella.
Tutti, si vuol portare l’impresa a fondo
a Spalato l’invitta
la Patria di Rismondo!39
Prima di analizzare il canto, è bene ricordare che il primo incontro tra il comandante Millo
e D’Annunzio si svolse il 14 novembre 1919. Prima di quella data, il comandante delle
truppe legionarie di Zara aveva già avuto modo di dimostrare le sue simpatie per il poeta,
che in quell’autunno divennero ancora più evidenti. D’Annunzio, infatti, sbarcò a Zara,
una mossa praticamente già prevista, e venne accolto da Millo con tutti gli onori. Dopo
un incontro riservato, il comandante invitò i suoi collaboratori a stringere la mano al
poeta. In un telegramma che Millo spedì a Nitti c’è scritto: «Ho dato la mia parola di
soldato che la Dalmazia del patto di Londra non sarà mai abbandonata. Le truppe
volontarie che accompagnano D’Annunzio restano alle mie dipendenze». Un atto di
ribellione nei confronti del governo, quindi, ancora più grave più grave di quello del
poeta: D’Annunzio, infatti, alla fine della guerra non era più un soldato ma un privato
cittadino; Millo, invece, continuava ad essere un ufficiale.40
La Cortellazzo presentata fin dal primo verso era una delle navi che parteciparono alla
spedizione di Zara guidata da D’Annunzio. Il bastimento trasporta arditi pieni di gioia e
preparati per la missione che stanno per affrontare. È curioso l’accostamento tra i soldati
e gli argonauti: questi ultimi, secondo la mitologia greca, erano degli eroi che, guidati da
Giasone, recuperarono il vello d’oro, il manto di un ariete dorato e alato il cui potere
magico era quello di guarire le ferite. Simbolicamente, quindi, si potrebbe dire che la
conquista di Zara è la nuova conquista del vello d’oro, solo che, al posto della pelliccia
dell’ariete, c’è una città. La partenza delle truppe che hanno conquistato Zara è
39
Asverio Gravelli, Canti della rivoluzione, Roma, Nuova Europa, 1926, pp. 74-75.
Savona, Straniero, Canti dell’Italia fascista, p. 51. Viene riportata solo la prima strofa.
40
Pupo, Fiume città di passione, p. 111.
171
accompagnata dal canto che tradizionalmente, in epoca fascista, è attribuito alla vittoria,
ovvero “Giovinezza”.
Nella seconda strofa, la fortuna agevola la nave e il suo viaggio sul mare procede senza
impedimenti, tanto che ad accoglierla a Zara c’è la Vittoria. I versi che seguono sono
un’esaltazione della fanteria, a cui finora quasi nessuno aveva mai dato troppo credito:
sono loro a coronare le imprese più audaci e la conquista di Zara lo dimostra, dato che sui
loro petti vengono appuntate le medaglie per il riconoscimento al valor militare.
All’inizio della terza strofa viene citato il Leone di San Marco perché Zara era stata a
lungo dominio veneziano, prima di cadere in mano agli austriaci: un altro modo, da parte
dei legionari creatori del canto, per ricordare l’italianità della città. La Cortellazzo
approda e viene accolta con tutti gli onori dall’allora governatore della Dalmazia Enrico
Millo, già citato sopra.
Nel settimo e nell’ottavo verso sono riportate le forze militari impegnate nella conquista
di Zara: marinai, fanti, granatieri e bersaglieri. Il canto si conclude ricordando la città
natale di un militare italiano, Rismondo, morto durante la prima guerra mondiale; in suo
onore venne costituito il battaglione dei volontari durante l’impresa di Fiume.
Sul contesto storico di questo canto non si hanno notizie, si sa solo che fu composto nel
1920 da un ignoto autore. Ecco il testo:
172
Ma giunse la riscossa, spiegò tutte le ali al vento,
e conquistò la piazza in un momento.
Ah! Quanta gente ha viste scappar via tremanti tutti
gli eroi dell’anarchia, gran farabutti!
Fascisti ovunque, sorti d’ogni terra:
giovani, vecchi e reduci di guerra!
Per la gran Madre Italia con furore,
schiacciavan le bestiacce che il terrore
spandevan per smorzar le loro brame:
ma il fascio comandò: “Le bestie nelle tane!”.
Nella prima strofa, il canto fa un evidente riferimento agli scontri tra i socialisti e i fascisti
avvenuti il Primo Maggio 1920, in occasione della Festa dei Lavoratori. Solo pochi anni
prima in Russia, come ricordato sopra, era avvenuta la Rivoluzione d’ottobre e Lenin
stava cercando di diffondere le sue idee in tutto il mondo: ecco perché nel terzo e nel
quarto verso viene detto che il bolscevismo marciava «per spezzare ogni barriera, per
togliere alla Patria ogni frontiera».
Dal momento che i comunisti e i socialisti italiani non potevano che essere d’accordo con
gli obiettivi del leader comunista russo, è normale che agevolassero la circolazione delle
sue idee: per questo vengono accusati, nel canto, di lasciare l’Italia in mano all’oppressore
e, cosa ancora peggiore, di diffondere idee menzognere e infami. Queste illusioni
vengono considerate dai fascisti «turpi» e questo li porta a considerare il bolscevismo
41
Savona, Straniero, Canti dell’Italia fascista, pp. 80-81.
Savona, Straniero, Canti della Grande Guerra, vol. 1, p. 379.
De Marzi, I canti del fascismo, p. 204.
173
«peggio dello straniero» probabilmente per due motivi: il primo è che il nemico
bolscevico ha un ideale di fondo, mentre lo straniero della prima guerra mondiale non
aveva altre motivazioni se non quelle legate alla conquista territoriale. Il secondo è che il
movimento bolscevico è interno all’Italia, non è un estraneo, e un nemico interno è ancora
più difficile da estirpare di uno esterno.
Nella seconda strofa si parla della vittoria del fascismo sul comunismo. Negli scontri,
infatti, a giudicare dal testo hanno vinto i fascisti e anche in tempi rapidi, visto che
conquistarono la piazza «in un momento». Il terzo e il quarto verso sembrano riprendere
la citazione della Leggenda del Piave riguardo ai profughi di Caporetto: «Ahi, quanta
gente ha vista scappar via». I fuggiaschi, in questo caso, sono gli anarchici, considerati
farabutti e per niente coraggiosi, visto che fuggono «tremanti». Contrapposti ai nemici
tremanti ci sono, ovviamente, gli eroi, in questo caso i fascisti: per sottolineare
l’efficienza e la numerosità dei combattenti, viene spiegato che a combattere in quelle
piazze c’erano persone di tutte le età, compresi i giovani, i vecchi e i reduci di guerra.
Nell’ottavo e nel decimo verso, l’epiteto per il bolscevico subisce una rapida escalation
negativa e denigratoria: ora il nemico non è più considerato un farabutto, ma
bestia/bestiaccia; un animale, insomma, nel senso più dispregiativo del termine.
I fascisti, quindi, in nome della Madre Italia, sono intenzionati a liberare l’affezionata e
materna patria dall’oppressore bolscevico rimandando gli animali dove più conviene,
ossia «nelle tane». All’inizio della terza strofa viene chiarito che le tane di cui si parla
poco sopra sono le camere del lavoro, ovvero le organizzazioni sindacali sorte già
nell’Ottocento che si occupavano di sostenere e difendere i lavoratori in caso di
disoccupazione.
Nel terzo e nel quarto verso si percepisce la delusione dei manifestanti socialisti di essere
stati sconfitti dai fascisti, ma anche la volontà di perseguire l’obiettivo; ancora una volta,
la sconfitta non è sufficiente per desistere qualcuno dal proseguire le sue battaglie. Alla
delusione viene contrapposto l’ardore che infiamma gli animi dei fascisti durante la
battaglia: l’autore del canto, infatti, esorta i combattenti a non avere pietà. Il testo si
conclude con i vittoriosi quasi ebbri di felicità, tanto che, per festeggiare la vittoria,
cominciano a cantare “Giovinezza”.
174
Il canto fu composto nel novembre 1921 per ricordare un episodio della resistenza
antifascista. L’episodio fu trattato dai giornali fascisti in una certa prospettiva, mentre sui
canzonieri dell’antifascismo è presentato in un altro modo. Ecco cosa venne scritto
nell’articolo uscito sul «Corriere della Sera» il 10 novembre 1921:
Stamane, in occasione dell’arrivo a Roma di squadre fasciste da varie località d’Italia, si sono
verificati incidenti, di cui anche gravi, che hanno portato a una dichiarazione di sciopero generale.
[…] I giornali, più tardi, hanno fornito i primi particolari degli incidenti. Come sempre accade in
casi simili, è ancora difficile stabilire la verità esatta del contenuto. […]
Sembra che, poco dopo il primo fatto, un altro treno, proveniente da Ancona, quando stava per
entrare in stazione portando a sua volta altri 500 fascisti, sia stato fatto segno ad una fitta sassaiuola
e che qualche sasso abbia colpito i fascisti in esso viaggianti. Una nutrita scarica di rivoltellate era
echeggiata altresì per l’aria, ed uno dei colpi, partito dal treno, ha raggiunto il macchinista Guglielo
Farinetti, di anni 46, appartenente al deposito di San Lorenzo. Trasportato d’urgenza all’Ospedale
di San Giovanni, è stato giudicato in grave pericolo e sottoposto alla laparotomia. Stasera il Farinetti
è morto».42
Il contenuto dell’articolo sarebbe quasi tutto giusto, se non fosse per il fatto che ad essere
infastiditi e presi a sassate (intervento poi sventato dalla Guardia Regia) furono i
macchinisti, non i fascisti. L’episodio diede inizio ad uno sciopero generale che si
concluse, qualche giorno dopo, con la cacciata dei fascisti dalla città. Ecco il testo:
42
Lo sciopero generale proclamato a Roma dopo conflitti tra fascisti e ferrovieri, in «Corriere della Sera,
10 novembre 1921.
175
“Combatti” proclamò: sciopero generale!
Sti quattro delinquenti co’ le facce come er sego
portavano la morte e il “me ne frego”;
anche noi ce ne saressimo fregati
se il governo come a lor ci avesse armati,
ma Roma è sempre stata bolscevica,
trionfa sempre, si, falce martello e spiga.43
Il canto è molto breve (due sole strofe) ma rispecchia perfettamente quello che avvenne
quel 9 novembre 1921 e le sue conseguenze. Nella prima strofa viene descritto l’omicidio.
La vittima viene presentata come un uomo onesto che va al lavoro per guadagnare il pane.
Tuttavia, il lavoratore si trova probabilmente nel posto sbagliato al momento sbagliato: il
treno che si ferma è pieno di fascisti armati fino ai denti. Un colpo di rivoltella colpisce
il poveretto, che infatti stramazza al suolo; alla neo-vedova non resta che confessare al
figlio che l’uomo ucciso in stazione è proprio suo marito.
Nella seconda strofa viene introdotta la conseguenza immediata dell’omicidio: lo
sciopero generale. I versi più significativi sono il quarto, il quinto, e il sesto. I fascisti,
infatti, vengono etichettati come coloro che portano morte e «me ne frego», motto che
Mussolini riprese apertamente da D’Annunzio (e pronunciato da quest’ultimo prima
dell’impresa di Fiume, quando ancora il governo italiano era in trattativa con gli alleati
per ottenere la città, abitata in prevalenza da italiani).
Il quinto e il sesto verso sembrano rispondere al fatto che i fascisti potessero girare armati
fino ai denti dicendo che anche gli antifascisti se ne sarebbero fregati (sottinteso, delle
conseguenze) se avessero avuto la possibilità di usare le armi in modo indisturbato. È
possibile che l’autore del testo fosse un comunista, dato che conclude il canto affermando
con radicale convinzione che «Roma è sempre stata bolscevica» e sottolinea il concetto
citando tre simboli del comunismo, ovvero falce, martello e spiga.
43
Savona, M. L. Straniero, Canti della resistenza italiana, pp. 69-70.
De Marzi, I canti del fascismo, p. 205-206.
176
13. La Diana del Giglio Rosso
Sempre nel 1921 (il mese è ignoto) venne elaborata un’altra parodia sull’aria della
Leggenda del Piave, stavolta a cura della Squadra “Giglio Rosso” di Firenze, che dà il
nome al canto.
La contestualizzazione di questa variante è molto difficile perché è semisconosciuta e, a
parte l’informazione sulla sua data di creazione e il luogo, non vengono fornite altre
indicazioni. Tuttavia, qualche motizia in più può essere ricavata a partire proprio dal titolo
del canto, nonché protagonista delle due strofe: il Giglio Rosso. Questo fiore era (ed è) il
simbolo di Firenze: ecco perché si sa che il canto fu composto nel capoluogo della
Toscana.
In epoca fascista, più precisamente tra l’inizio del biennio rosso e la seconda metà degli
anni Venti del Novecento, il simbolo del giglio rosso era associato a due elementi
strettamente connessi tra di loro: Puccio Pucci, all’epoca noto “moschettiere” del duce, e
la società atletica fiorentina.
Pucci, nato a Firenze il 12 aprile 1904, fu un atleta che aderì al fascismo quasi subito,
iscrivendosi infatti al P.N.F. nel 1921; dopo aver partecipato agli ottocento metri nelle
Olimpiadi di Parigi (1924), fu promosso come segretario della FIDAL, ovvero la
Fondazione Italiana di Atletica Leggera; fu anche (cosa più importante), componente di
una formazione squadrista denominata appunto “Giglio Rosso”.
La società atletica fiorentina, con cui Pucci aveva sicuramente stretti rapporti, dopo il
biennio rosso chiamò una delle sue squadre “Giglio Rosso”, probabilmente sia per
omaggiare il componente atleta che per rappresentare al meglio la città di Firenze.44
La stretta relazione tra Pucci e Mussolini permette di indagare, seppur a livello generale
e in modo superficiale, il collegamento tra sport e fascismo, soprattutto negli anni tra il
1919 e il 1921.
Le organizzazioni sportive esistevano ben prima dello scoppio della guerra: già nel 1906
venne fondato il primo organismo sportivo nazionale, ovvero il Comitato Italiano per i
giochi olimpici. Nel 1914 il Comitato si trasformò nell’acronimo CONI, ovvero Comitato
44
Maria Canella, Sergio Giuntini (a cura di), Sport e fascismo, Milano, Franco Angeli, 2009, p. 362.
177
Olimpico Nazionale Italiano e nel 1921 gli fu affidato dal P.N.F. il compito di occuparsi
di tutte le Federazioni Sportive, ruolo che venne poi confermato nel 1927.45
Una volta appurato lo stretto rapporto tra fascismo e sport, resta da capire come mai
questo movimento politico fu tanto interessato a collaborare con gli sportivi, specialmente
negli anni immediatamente precedenti la marcia su Roma.
Conviene citare la risposta pubblicata nel libro di Sandro Provvisionato perché
estremamente chiara e sintetica. L’autore, infatti, dice:
Ma da cosa deriva l’interesse del fascismo per lo sport? […] Il fascismo capì che una ferrea
organizzazione nel campo dello sport e la presenza dei suoi uomini nei posti-chiave avrebbe
facilitato un suo contatto di massa con le giovani generazioni, permettendogli allo stesso tempo di
concretizzare quell’idea di coraggio, ardimento e competizione di cui fino ad allora aveva infarcito
i suoi slogan politici.46
In altre parole, gli anni tra il 1919 e il 1922 erano quelli in cui il fascismo si stava
formando e necessitava dell’aiuto di tutti i mezzi possibili per ottenere consenso tra le
masse. Inoltre, la guerra era finita da poco, il linguaggio militare era ancora abbastanza
sentito tra coloro che avevano combattuto al fronte e si sentiva la necessità di una nuova
preparazione militare; non è un caso se proprio in quegli anni cominciò ad emergere
l’Opera Nazionale del Dopolavoro.
Il tentativo, quindi, fu quello di
Ecco il testo:
45
Sandro Provvisionato, Lo sport in Italia: analisi, storia, ideologia del fenomeno sportivo dal fascismo a
oggi, Roma, Savelli, 1978, p. 25.
46
Ibidem.
47
Felice Fabrizio, Sport e fascismo: la politica sportiva del regime, 1924-1936, Rimini-Firenze, Guaraldi,
1976, pp. 69-71.
178
Noi siamo i componenti
della squadra ardita e forte
l’insegna è «Giglio Rosso»
ardore e morte!
Non tremano gli ardenti
sguardi innanzi alle tenzoni,
ove portiam la forza di legioni.
Sventoli il gardaglietto, e tutti quanti
sempre gridiam concordi: Avanti! Avanti!
Sventoli il gardaglietto sempre in testa,
e la baldanza nostra mai s’arresta.
Il nostro più bel motto è sempre ardire!
Avanti il Giglio Rosso! – O vincere o morire!
Il canto, anche in questo caso molto breve, manifesta la chiara intenzione di presentare
questa squadra. Stando a quanto dice il testo, l’insegna della squadra è un Giglio Rosso;
i suoi componenti compiono le azioni al grido di “Avanti!” e il loro motto è “Vincere o
morire”: niente di più fascista, insomma, dal momento che entrambe le esclamazioni sono
parte della colonna sonora di espressioni del fascismo.
48
Carrara, Canti fascisti, p. 24.
Savona, Straniero, Canti dell’Italia fascista, pp. 125-126.
De Marzi, I canti del fascismo, pp. 182-183.
179
Nella seconda parte viene accennato il momento della nascita della squadra, o meglio, del
simbolo del giglio rosso. Il fiore, infatti, sarebbe stato raccolto “simbolicamente” sul
corpo di un compagno morto in battaglia: gli altri membri della squadra, per omaggiarlo
e ricordarlo, gli promisero che avrebbero portato il giglio sempre con loro. Il testo accosta
le fiamme dell’ardore alla schiuma del mare: entrambi questi elementi hanno la
caratteristica di divampare/dilagare velocemente.
Sempre rimanendo sul tema del fuoco viene sottolineato come, ancora una volta, la morte
di un compagno sia in grado di far scattare in chi è ancora vivo una scintilla di ardore (e
rabbia, forse) che lo porta a combattere con più determinazione di prima. La canzone si
conclude con una formula tipica dei battaglioni militari: i combattenti sono disposti a
morire per la propria squadra.
Il canto, molto probabilmente, veniva cantato per svegliare i soldati. Dare la “diana”, da
cui prende nome il canto, significava appunto dare la sveglia, che di solito coincideva con
la comparsa della stella di Venere, chiamata anche Diana, nelle prime luci del giorno.
49
De Marzi, I canti del fascismo, p. 53.
180
Dopo due anni fatti dai sicari al parlamento
riuscirono alla fine un lieto evento.
Della titana forza repugnante costruzione
mandavano in frantumi la nazione.
Giacomo Matteotti deputato socialista
credea opportuno mette tutti in vista.
Un giorno avrebbe tutto risvelato
se i traditori non l’avessero spiato,
ma non poteva uscire in quel momento
perché l’hanno soppresso col vile tradimento.
La prima strofa del canto intende mettere in risalto la serie di violenze commesse da parte
dei fascisti, culminate poi con l’omicidio del protagonista del testo. Matteotti viene
presentato come colui che è perfettamente cosciente della situazione politica a lui
contemporanea, è al corrente delle scorrettezze politiche e delle violenze commesse dai
fascisti, che hanno condizionato pesantemente l’esito delle elezioni. Proprio perché è
dotato di una morale e un senso civico forte, il politico italiano decide di denunciare questi
fatti all’opinione pubblica, ma non fa in tempo a dire a tutti come stanno le cose perché
viene ucciso.
La seconda strofa intende accusare gli assassini di Matteotti; l’autore/gli autori non
risparmia/risparmiano nessuno, vengono fatti i nomi di quanti erano implicati nel
rapimento e omicidio. Tuttavia, non sempre una pianificazione di omicidio va come
50
Savona, Straniero, I canti della resistenza italiana, p. 54.
De Marzi, I canti del fascismo, p. 206.
181
prevista e quella «cosa assai imperfetta» allude alle condizioni pietose del cadavere al
momento del ritrovamento, pestato affinché il corpo potesse entrare nella buca ed essere
sepolto dalla terra. Il fatto che venga citato il carcere di Regina Coeli lascia intendere che
il canto sia stato composto poco dopo gli avvenimenti, quando si pensava che i colpevoli
sarebbero rimasti in prigione e non ci si aspettava, di certo, che sarebbero ritornati in
politica.
Quando si parla di dittatori degli anni Trenta del Novecento, tre sono i nomi che
immediatamente riaffiorano nei ricordi: Benito Mussolini, Adolf Hitler e Francisco
Franco, rispettivamente leader del fascismo, del nazismo e del franchismo.
Al momento del tentato golpe dell’estate 1936, Franco era il capo di Stato Maggiore
dell’esercito spagnolo; viste le sue convinzioni dichiaratamente opposte al regime
democratico, era stato spedito a comandare le truppe di guarnigione dell’Africa spagnola.
Non sarebbe dunque azzardato dire che il Marocco fu il luogo di nascita del franchismo:
le truppe spagnole da lui comandate, infatti, occuparono Tetuan e Ceuta e si imbarcarono
per la Spagna; fu così che ebbe inizio la guerra civile.
Sin dall’inizio dei combattimenti Franco ottenne il sostegno tanto di Mussolini quanto di
Hitler: entrambi i dittatori fornirono truppe durante tutta la guerra civile. La Russia,
invece, sostenne il governo democratico con alcuni contingenti. Le truppe italiane e
quelle tedesche erano opposte per quantità e qualità. Mussolini, infatti, inviò circa
trentamila Camicie Nere, che erano appena rientrate dalla guerra d’Etiopia, e un nutrito
numero di contadini che erano in procinto di partire per l’Africa Orientale. Tuttavia, il
soccorso inviato da Mussolini, seppure pronto ad entrare in campo fin da subito, era mal
addestrato e poco equipaggiato.
Hitler, invece, operò esattamente in modo contrario. Le truppe inviate dal regime nazista
per sostenere la guerra civile spagnola erano assai meno numerose rispetto a quelle
italiane, ma decisamente più agguerrite e, soprattutto, più preparate.
Il 29 settembre 1936 Franco venne proclamato capo dello Stato spagnolo, gli venne
attribuito il titolo di caudillo e il suo governo rivoluzionario venne ufficialmente
riconosciuto da Italia e Germania il 18 novembre dello stesso anno.
182
I combattimenti cessarono del tutto nel marzo 1939, quando Franco istituì ufficialmente
un sistema autoritario basato sul partito unico della Falange espanola tradicionalista. Dal
punto di vista della politica estera, la fine della guerra civile spagnola rappresentò per
l’Italia un momento fondamentale: due mesi dopo la fine delle ostilità, venne firmato a
Berlino il patto d’acciaio, che sanciva un’alleanza militare tra il governo fascista e quello
nazista; un’alleanza a cui Hitler mirava da tempo.
Come in altri avvenimenti, anche in questa occasione i soldati manifestarono il loro
appoggio o il loro disappunto alle operazioni belliche spagnole cantando. La maggior
parte delle canzoni era a favore della guerra: ad esempio, “Aquila Legionaria”, “Avanti
falangisti!” o, ancora, l’”Inno della Fanteria Spagnola”.51
Ci furono, naturalmente, anche i canti antifranchisti come quello scritto sull’aria della
Leggenda da alcuni membri della Brigata Garibaldi, in cui venne espresso tutto il rancore
nei confronti di una guerra sanguinosa e che stava lasciando a terra migliaia di vittime
innocenti. Ecco il testo:
I.
Nel luglio, sciagurato, novecentotrentasei,
Udimmo un grido d’oltre i Pirenei;
Dall’orizzonte nero ch’annunciava l’uragano
Levossi, tra un bagliore, un pugno umano.
Risposero Picelli ed Angeloni,
Nannetti e mille, mille, onesti e buoni,
In nome dell’Italia e le sue genti
Risposero: «Fratelli siam presenti!»
E son partiti risoluti in core
Sui fronti di Madrid
Respinger l’aggressore.
II.
Il popolo aggredito, sulle strade insanguinate
Prepara resistenze e barricate;
Si vide, allor, passare un battaglione alla riscossa
51
De Marzi, I canti del fascismo, pp. 83-85.
183
Cantavano fra lor “Bandiera Rossa”;
Son italiani, sono fieri e saldi
Gli eroi della “Brigata Garibaldi”
Ed han giurato che non passeranno
I mercenari inviati dal tiranno.
Coperti di gloria d’eroismo
Cancellano laggiù
I delitti del fascismo!
III.
E cadono sul campo, d’ogni parte, tra le schiere
Chi per infamia e chi per il dovere.
L’Italia i suoi Caproni inviato ha tra le file insorte
Su donne e bimbi, a seminar la morte.
«Vi siete offerti con prodezza rara
Garibaldini del Gaudalajara.
Avete detto al mondo con valore
Qual è d’Italia il vero e proprio onore;
e date il vostro sangue all’ideale
Causa di libertà
Dell’Internazionale».52
La prima strofa è molto chiara ed è talmente precisa che sembra quasi di poter immaginare
la scena. Nel luglio 1936 gli antifascisti italiani sentono un grido d’aiuto disperato dal
paese oltre i Pirenei, ovvero la Spagna. Nel terzo e nel quarto verso gli ignoti autori del
canto utilizzano la metafora luce/oscurità per esaltare l’eroicità degli antifascisti: in una
nube nera, che preannuncia l’arrivo di un uragano (la guerra), i combattenti portano luce
(quindi pace).
È importante notare anche il doppio significato attribuito alla parola «pugno»: da una
parte, infatti, indica quei mille e mille compagni garibaldini che partono alla volta della
penisola iberica; i nomi citati poco dopo, ovvero Picelli, Angeloni, Nannetti, sono nomi
di volontari italiani antifascisti morti durante la guerra civile spagnola. D’altra parte, però,
non bisogna dimenticare che il canto è stato composto dal battaglione della Brigata
Garibaldi, le cui idee di fondo erano basate sull’ideale di pensiero comunista; il pugno è
52
Mercuri, Tuzzi, Canti politici italiani, vol. 2, pp. 28-29.
De Marzi, I canti del fascismo, pp. 362-363.
184
il saluto comunista e diventa, quindi, un modo per chiarire a quale corrente politica si
appartiene. I volontari della Brigata rispondono all’appello dei democratici spagnoli e
sono pronti ad andare a Madrid per combattere contro franchisti, nazisti e fascisti.
Nella seconda strofa, la Brigata fa ufficialmente il suo ingresso trionfale in scena. Le
strade sono bagnate di sangue di civili, i quali tentano il più possibile di costruire barricate
e opporre resistenza: l’unico gruppo paramilitare che può avanzare cantando “Bandiera
Rossa” (altro indizio, a proposito, che permette di identificare la brigata come comunista)
è appunto la Brigata Garibaldi.
La prima cosa che fanno gli italiani del canto, appena arrivati in suolo spagnolo, è
tranquillizzare i cittadini locali dicendo: “Fratelli, noi ci siamo”. Il secondo passo è una
promessa: gli eroi giurano di sconfiggere il nemico, intendendo nello specifico gli altri
soldati italiani inviati da Mussolini a sostegno del governo di Franco. Liberando i cittadini
spagnoli dall’aggressore, gli antifascisti intendono simbolicamente liberare anche gli
italiani dal fascismo: è come se Madrid rappresentasse il campo della battaglia finale tra
comunismo e fascismo, in cui è ammessa solo la vittoria della prima; vincendo, i delitti
commessi fino ad allora dal governo fascista verrebbero riscattati.
Nella terza strofa viene fatto capire che la battaglia provoca perdite non solo alla brigata,
ma anche alle file dell’esercito fascista. I soldati, però, cadono per motivi diversi (questa
è una prospettiva ovviamente di parte): gli antifascisti cadono per l’onore, i fascisti per
infamia. Probabilmente, un fascista avrebbe detto l’esatto contrario. Il paragone tra uomo
e animale nel senso più dispregiativo del termine è usato anche in questo caso: i comunisti
venivano definiti «bestie» dai fascisti in senso generale; in questo caso l’animale preso
come riferimento è quello della capra, probabilmente intendendo il fatto che coloro che
aderivano al fascismo sottostavano alle direttive del governo in branco, senza opporre
resistenza. Bovidi o umani, resta il fatto che i soldati inviati dal governo Mussolini
uccisero migliaia di vittime innocenti, tra cui donne e bimbi.
Gli ultimi versi si riferiscono alla battaglia del Guadalajara, avvenuta tra l’8 e il 23 marzo
1937, che si concluse con la vittoria repubblicana. I combattenti della Brigata Garibaldi
parteciparono attivamente alla battaglia a sostegno del governo repubblicano. I
garibaldini hanno pagato con il loro sangue il prezzo di dimostrare al fascismo di
rappresentare l’unica e vera Italia valorosa e per affermare la loro idea di libertà.
185
17. La guerra tra Russia e Germania (1941-1943).
Nel canto “La leggenda della Neva” il fiume, definito anche “culla della Rivoluzione
Sovietica” era prima spettatore e poi attore.
Per capire la trasformazione dell’atteggiamento della Neva nei confronti della sua città è
bene ricordare brevemente cosa avvenne tra il 1939 e il 1943. In seguito alla rivoluzione
d’ottobre, Lenin si dimise per problemi di salute e salì al potere Stalin. Il nuovo leader
sovietico e i suoi collaboratori erano sempre più convinti che gli altri paesi si sarebbero
uniti in nome di un’alleanza antisovietica, oppure che la Russia sarebbe stata attaccata da
una singola nazione. Quest’ultima convinzione derivava dall’idea di Lenin che la Grande
Guerra fosse il risultato della concentrazione di un immenso capitale nelle mani di pochi;
in altre parole, che il capitalismo si trovasse nella fase più recente dell’imperialismo. Il
risultato di questa corsa per la conquista dei territori fu la divisione del mondo tra i grandi
imperi, con la conseguenza che chi aveva perso la guerra (Germania) aveva voglia di
suddividere di nuovo i territori.
Fino al 1933 la minaccia sembrava provenire dalla Gran Bretagna perché, all’epoca, era
la principale potenza egemone. Sulla base di questa sensazione, Stalin aveva previsto uno
scenario di guerra in cui la Russia sarebbe stata invasa dalla Polonia e dalla Romania,
coadiuvate da una partecipazione inglese e, forse, francese. I tempi, però, stavano
cambiando: quell’anno, in Germania, salì al potere Hitler.
Fino ad allora, la potenza sovietica aveva sempre considerato il dittatore tedesco come un
politico di passaggio alla guida di un governo abbastanza instabile; certo, aveva eliminato
nel giro di pochi mesi il Partito comunista e socialista tedesco, ma questo non garantiva
un governo solido. Tuttavia, la Notte dei lunghi coltelli del 1934 servì a Stalin per
prendere coscienza del fatto che la Germania poteva diventare una nazione pericolosa
dalla quale era necessario stare in guardia.
Così, l’ingresso nella Società delle Nazioni della Russia servì come tribuna da cui
declamare a gran voce la necessità di unirsi, insieme ad altre potenze, per sconfiggere
Hitler; il quale aveva, per inciso, fatto uscire la Germania dalla SDN proprio l’anno prima.
La Russia cominciò a stringere una serie di relazioni diplomatiche con Francia e
Cecoslovacchia; tentò anche qualche negoziazione con l’Inghilterra, ma gli accordi
furono insoddisfacenti.
186
Nel frattempo, la potenza sovietica nel 1935 era detentrice di uno degli eserciti più potenti
al mondo: in quegli anni, infatti, aveva prodotto più di quattromila carri armati
estremamente sofisticati, così come aerei molto moderni e tecnologicamente avanzati. Il
paese era convinto, infatti, che le guerre successive avrebbero avuto bisogno di mezzi
veloci e blindati e bombardamenti aerei a lungo raggio. Unico limite di questo esercito
era la scarsità numerica.
Nel 1939 la Russia cambiò improvvisamente strategia. La Polonia, infatti, era filotedesca
e questo significava un controllo da parte della Germania sugli aiuti che la potenza
sovietica avrebbe inviato alla Cecoslovacchia. Inoltre, la Russia veniva guardata con
sospetto dalle altre potenze europee, specialmente dopo la sconfitta del regime
repubblicano spagnolo, al quale il paese sovietico aveva mandato aiuti, e la vittoria del
regime franchista. Dal momento che con l’Inghilterra non si poteva stringere un accordo
antitedesco, il 23 agosto 1939 la Russia firmò con la Germania il patto Molotov-
Ribbentrop.
Quando, il primo settembre di quell’anno, Hitler invase la Polonia, Stalin si affrettò ad
inglobare i territori orientali polacchi, oltre che controllare la Lettonia, la Lituania e
l’Estonia. L’alleanza con Hitler non impedì a Stalin di spiare gli atteggiamenti del novello
alleato, né di nutrire dubbi sul suo operato. La Russia era dotata di un ottimo sistema di
spionaggio, ben superiore a quello tedesco, ma l’interpretazione delle mosse del dittatore
nazista erano sbagliate. Stalin, infatti, sottovalutò il governo nazista, considerandolo
probabilmente come una versione tedesca del fascismo o come un movimento radicale di
estrema destra, e non capì mai fino in fondo la sua visione; inoltre, era convinto che nei
piani di invasione ci fosse prima la Gran Bretagna.
Alle prime luci del 22 giugno 1941, invece, Hitler invase l’Unione Sovietica con
l’operazione Barbarossa, in onore dell’imperatore/guerriero tedesco vissuto nel
Medioevo. L’esercito russo era qualitativamente e quantitativamente inferiore rispetto a
quello tedesco: quest’ultimo vantava molti alleati e un’organizzazione militare e tattica
impeccabile, mentre il primo era molto confuso, disorganizzato e decisamente inferiore
numericamente rispetto al nemico.
Tuttavia, i russi ebbero dalla loro parte il clima. Sia nel 1941 che nel 1942 ci fu il
cosiddetto Grande Inverno, ovvero una stagione invernale dalle temperature così fredde
da far morire congelati i soldati. Gli eserciti russi erano abituati a questo tipo di inverni
187
e, di conseguenza, anche le loro armi erano state costruite in modo che non si
ghiacciassero e potessero essere sempre usate.
L’esercito tedesco (e alleati), invece, non era per niente abituato al freddo russo e, oltre a
uccidere soldati, impediva alle armi di funzionare. Nel 1942 la situazione si ribaltò: le
perdite tra le fila tedesche furono rovinose e questo permise all’esercito sovietico di
ricostituirsi e avvalersi di una produzione bellica che la Germania non sarebbe mai
riuscita ad eguagliare. Da quel momento, Hitler cominciò a perdere la guerra contro la
Russia.53
Raffaele Offidani decise di raccontare a suo modo le tragiche condizioni di vita del popolo
russo durante la guerra del 1941-1943 e, proprio come aveva fatto per la prima Leggenda
della Neva, utilizzò l’aria della canzone di E. A. Mario per creare una “Seconda Leggenda
della Neva”.
L’opuscolo in cui si trova pubblicato il canto uscì clandestinamente nel 1944 e venne
riedito nel 1950. Ecco il testo:
I.
La Neva contemplava
la gloriosa Leningrado
rinovellar la fosca Pietrogrado.
Dove imperavan ieri
la barbarie e la galera
fluttuava la sovietica bandiera,
e sopra il dispostismo e la nequizia
trionfava sfolgorante la Giustizia.
Dov’eran schiavi i figli del lavoro
nasceva del lavoro l’era d’oro.
Potea la folla venerar commossa
la salma di Lenin
là, nella Piazza Rossa.
53
Bushkovitch, Breve storia della Russia, pp. 414-425.
188
II.
Ma un dì la Patria Rossa
Fu assalita a tradimento,
subì dell’invasione ogni tormento.
Gli eserciti fascisti
vi piombarono spietati
compiendovi i delitti più efferati.
Città e campagne venner devastate
e le creature inermi massacrate,
volendo i crudelissimi aggressori
spegnere il faro dei lavoratori
distrugger dalle basi il Comunismo
e della Russia far
un feudo del fascismo.
III.
E la città più illustre
la più bella e celebrata,
l’eroica Leningrado fu accerchiata.
Eserciti feroci
la bloccaron d’ogni lato
e incominciò l’assedio più spietato.
(Erano gli assediati sei milioni
più fieri e coraggiosi dei leoni …)
E il nemico le dava baldanzoso
di Pietroburgo il vecchio nome odioso,
già presumendo d’esserne il padrone,
ma la città gridò:
– Ti sbagli assai, buffone! –
IV.
Poi l’acqua della Neva
per due inverni si gelava,
ma l’infernale assedio non cessava …
Due milioni eran morti
per la peste e per la fame,
e più il nemico inferociva infame.
Ruggivano migliaia di cannoni
e piovevan le bombe e gli spezzoni.
189
Il freddo era a cinquanta sotto zero
e la città un immenso cimitero.
«Morremo tutti, sì, da comunisti
– gridavan tutti in cor –
ma non sarem fascisti».
V.
Soffriron gli scampati
le più tragiche emozioni,
ma conservando i cuori di leoni.
Chiedevan invano pane
alle donne i lor bambini
e il piombo ne squarciava i corpicini.
Rapiva il morbo alle madri dolenti
e gli ultimi figlioletti ancor viventi,
nel mentre che gli sposi lor, soldati,
spiravano nel gelo dissanguati
«Meglio è morire tutti comunisti
--- si ripeteva ancor ---
che vivere fascisti!».
VI.
La Neva con angoscia
tanto scempio contemplava,
ma Leningrado, invitta, non crollava.
Lottavano feroci
con i sassi e con i denti
i pochi cittadini ancor viventi.
Vegliava ognor sulla Bandiera Rossa
l’anima di Lenin fiera e commossa,
e tanto sangue non fu invan versato
chè un dì il nemico venne ricacciato.
La Neva del fascismo fu l’avello.
Restaron vincitor
la Falce ed il Martello.
VII.
Compì l’Armata Rossa
nel difender la sua terra,
190
prodigi mai veduti in altra guerra.
Le donne, i bimbi e i vecchi
si mutarono in guerrieri
per ricacciar gl’infami masnadieri.
(E lo Stato Maggiore proletario
batteva il suo invincibile avversario!)
La Storia mai non ebbe eroi gloriosi
come quei comunisti portentosi.
Narrandone l’omerico eroismo
la Storia esalterà
la Russia e il Bolscevismo.54
La Neva che Offidani presenta del canto sembra essere un altro fiume rispetto a quello
presentato nella versione del 1918/19.
Nella prima strofa la “culla della Rivoluzione russa” contempla soddisfatta il suo operato.
«Fosca Pietrogrado» e «Leningrado»: sono due termini che indicano la stessa città ma
con nomi diversi in tempi diversi. Pietrogrado, infatti, era il nome della città al momento
dello scoppio della prima guerra mondiale; dopo la morte di Lenin, nel 1924, fu
ribattezzata Leningrado per omaggiare il leader della rivoluzione russa (con questo nome
rimarrà fino al 1991, quando tornerà ad essere San Pietroburgo). La Neva, dunque, viene
presentata come testimone di questo cambiamento: dalla triste Pietrogrado si passa alla
gloriosa Leningrado; l’accostamento di termini contrapposti non è casuale, serve a
sottolineare lo splendore della città dopo la rivoluzione russa.
Nella prima strofa viene presentato uno scenario di situazione sociale tranquilla: dopo la
rivoluzione e la costituzione del nuovo governo comunista, per una ventina d’anni non ci
furono guerre a livello internazionale/mondiale.
La seconda strofa si riferisce al momento in cui l’Unione Sovietica venne attaccata, il 22
giugno 1941. Il motivo per cui Offidani sostiene che la potenza sovietica venne attaccata
dagli eserciti fascisti, mentre non cita quelli nazisti, è che l’Italia era alleata della
Germania all’inizio della guerra, per cui l’autore si propone di analizzare lo scenario
bellico dal suo punto di vista, ovvero di un comunista che soffre per la situazione in cui
si trova la patria della rivoluzione proletaria e accusa l’esercito fascista di essere, se non
l’unico, sicuramente uno dei maggiori responsabili. L’autore sostiene che l’Italia invase
54
Spartacus Picenus, Canti della libertà, Roma, Toto Castellucci, 1950, p. 1.
191
la Russia con lo scopo di fascistizzarla; tuttavia, per raggiungere questo fine il prezzo da
pagare fu molto alto e migliaia di innocenti morirono nelle campagne e nelle città.
Nella terza strofa viene presentata una città accerchiata da ogni lato, apparentemente
senza alcuna speranza di vittoria. Ma il popolo sovietico, a quanto pare, è dotato di una
tempra forte, per cui mette da subito in chiaro che non intenderà perdere la guerra senza
prima avere combattuto. Anzi, il verso finale «ti sbagli, assai, buffone» lascia presupporre
la vittoria del paese: in effetti, il canto fu composto dopo la fine della guerra tra Russia e
Germania, quindi si potrebbe quasi dire che viene anticipato, alla fine della strofa,
l’epilogo della battaglia.
La quarta strofa è tra quelle che meglio restituisce a chi legge/ascolta lo scenario sociale
dell’epoca. «Poi l’acqua della Neva per due inverni si gelava»: si riferisce ai Grandi
Inverni del 1941 e del 1942, che causarono morti da entrambi gli schieramenti. Come
ricordato sopra, però, i russi erano più abituati ai loro freddi, quindi reagirono meglio; i
tedeschi e i loro alleati, invece, si trovarono completamente colti alla sprovvista. Tuttavia,
questo non impedì ad entrambi gli eserciti di continuare a combattere: la situazione,
infatti, si risolse solamente nel 1943.
Il freddo, però, non mieteva vittime solo tra i soldati: anche gli abitanti delle città e delle
campagne vennero duramente colpiti dalla situazione bellica e dal gelo. Fame, peste e
armi erano dunque le tre principali cause di morte in quegli anni. La frase che
probabilmente colpisce di più in tutta la strofa è: «Il freddo era a cinquanta sotto zero e la
città un immenso cimitero». La città, più che essere presentata come un campo di
battaglia, viene presentata come un luogo di morte, un cimitero appunto, dal quale però
alcuni cittadini hanno ancora la forza di “risorgere”, combattendo fino all’ultimo secondo
e disposti a morire pur di non essere assoggettati al giogo nazifascista.
La quinta strofa sembra essere una sorta di ripetizione di quella precedente: si sottolinea
la situazione sociale di quell’epoca ma in modo più specifico. Dal sesto verso in poi si
riesce bene ad immaginare la scena. Per prima cosa vengono citati i bambini: a causa
della fame, provano a chiedere alle madri qualcosa da mangiare ma non fanno in tempo,
forse, nemmeno a formulare la richiesta che i loro «corpicini» vengono distrutti dal
piombo delle bombe. Quando non vengono distrutti dalle bombe e dalla fame, i bimbi
vengono colpiti dalla peste. Le madri, tristi e silenziose, sono costrette ad affrontare un
192
doppio dolore: da una parte, la perdita dei figli; dall’altra, la perdita dei mariti che stanno
combattendo in nome dell’ideologia comunista e di non essere conquistati dai fascisti.
Nella penultima strofa, la Neva assiste allo scenario bellico sempre più sconsolata e
impotente, mentre Leningrado cerca di resistere sempre di più, dimostrandosi ancora una
volta invincibile e incrollabile.
A vigilare sull’azione dei cittadini sovietici c’è la statua di Lenin e sembra quasi che la
sua anima sia in grado di influenzare il corso della guerra perché, ad un certo punto, la
situazione si capovolge. Se, all’inizio del canto, Leningrado veniva indicata come
cimitero del popolo russo per sottolineare la condizione di svantaggio della potenza
sovietica al momento dell’invasione tedesca, ora viene ribadita la superiorità della Russia.
Se a morire ora sono i tedeschi, c’è bisogno di un nuovo cimitero: questo viene
identificato con la Neva.
Gli ultimi due versi della strofa sottolineano la vittoria della potenza sovietica: a vincere
fu il comunismo, chiamato con il simbolo tipico di questa corrente di pensiero «Falce e
Martello».
L’ultima strofa descrive l’epilogo della guerra. Ormai la Russia è sicura di vincere e
questa nuova convinzione ha il potere di incitare non solo l’Armata Rossa (l’esercito
sovietico) a prendere le armi, ma anche donne e bambini. In altre parole, il paese pretende
un coinvolgimento attivo e totale della popolazione e anche le categorie che di solito
vengono considerate come deboli e bisognose di protezione (vecchi, donne e bambini)
ora devono impugnare le armi per sconfiggere definitivamente l’avversario.
Come nella Leggenda del Piave, anche in questo caso il canto si conclude citando una
presenza allegorica: nella versione di E.A. Mario era la Pace, qui è la Storia.
Nell’ultima strofa, questa figura viene presentata come la vera testimone degli eventi che
coinvolsero la potenza russa tra il 1941 e il 1943 e le viene affidato il ruolo omerico di
cantore: in questo modo è in grado di narrare ed esaltare, come solo un aedo poteva fare,
le gesta eroiche della Russia e del Bolscevismo.
193
19. Vincenzo Moscatelli: partigiano e leggenda
194
i primi nuclei partigiani di Valsesia. Dopo la fine della guerra entrò in politica; morì a
Borgosesia il 31 ottobre 1981.55
Una caratteristica tipica delle formazioni partigiane fu la creazione di miti e leggende
attorno ad eventi e, soprattutto, capi delle brigate. Se di solito ciò avveniva a liberazione
avvenuta, non era però raro trovare questo fenomeno applicato in contemporanea agli
eventi.56
Così avvenne per Moscatelli. Le leggende su di lui cominciarono a fiorire già dal
momento della lotta partigiana, a partire dagli avversari, i quali pensavano che Moscatelli
fosse tornato da Mosca in Italia in aereo per diffondere le idee sovietiche che avrebbero
portato alla conquista del potere. In questo caso un elemento di verità c’è: l’uomo non
sapeva pilotare un aereo, ma dal 1927 al 1930 aveva studiato a Mosca. Un altro mito, che
verrà citato anche nel canto, è quello dell’auto. La vettura è simbolo di velocità, ma anche
di qualcosa che è inafferrabile. Anche in questo caso ci sono elementi di finzione e di
verità. È vero che Moscatelli guidò un’auto durante l’occupazione di Gozzano e
Borgomanero nel settembre 1944, ma è altrettanto vero che l’immaginario popolare
pensava che sulle macchine sfrecciassero solo i capi partigiani e le loro compagne.
Altre due leggende sono diffuse attorno alla figura di questo capo partigiano. Una
riguarda l’abilità di Cino nel travestirsi da prete o da ufficiale tedesco a seconda delle
occasioni; Moscatelli assicurerà, poi, di non aver mai fatto nessuna delle due cose.
L’ultima, ma non per questo meno importante, è la leggenda secondo cui il capo della
Brigata Garibaldi possedesse il dono dell’ubiquità. Così, se qualcuno affermava di aver
visto Moscatelli in un certo territorio, qualcun altro tentava di dimostrare la sua presenza
in un luogo che si trovava al capo opposto!57 Tuttavia, come riporta bene il giornale
partigiano «La Stella Alpina»:
No, Moscatelli non è un mago, non ha nemmeno i piedi così grossi come risulta da un’informazione
confidenziale fatta alla Questura di Novara. Moscatelli è un operaio, aveva poi un laboratorio, ha
moglie, due bambine e a far la guerra s’è messo perché a cacciare i tedeschi, a farla finita coi fascisti
era dovere di ogni italiano. E Moscatelli questo dovere l’ha imparato con i suoi compagni di tanti
55
Ricordo di Cino Moscatelli, Vercelli, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea
nelle province di Biella e Vercelli, seconda edizione, 2011, pp. 1-6.
56
Filippo Colombara, Il fascino del leggendario. Moscatelli e Beltrami: miti resistenti, «L’impegno»,
16(1), 2006, p. 1.
57
Ivi, pp. 37-39.
195
anni, nel lavoro antifascista clandestino, in esilio, nei lunghi anni di carcere. S’è messo a far la guerra
e s’è messo a farla sul serio. I suoi uomini lo amano, lo ammirano.
C’è un segreto: un figlio del popolo che conduce la guerra popolare, che conosce, che vuole essere
il primo nel rischio e nel sacrificio. Non è invisibile come dicono in giro, non è nascosto nella
caverna come dicono i fascisti (che fra l’altro un giorno hanno vuotato un cinematografo di Novara
con la speranza di trovarcelo).58
Moscatelli era, quindi, solo un capo partigiano che sapeva come essere seguito, amato e
la sua prontezza di spirito e la volontà di combattere sempre tra le prime file per dare
l’esempio contribuì alle numerose leggende fiorite intorno alla sua persona.
20. Il rastrellamento del 23 dicembre 1943 e l’attacco al ponte della Pietà il 5 aprile
1944
Come ricordato sopra, due sono le azioni citate nel canto che è bene ricordare brevemente:
il rastrellamento del 23 dicembre 1923 a Borgosesia e lo scontro di Quarona nell’aprile
del 1944. Protagonista, in entrambi i casi, degli scontri era il 63° battaglione del
Tagliamento, che si era costituito a Roma dopo il 25 luglio. Il 22 dicembre il battaglione
arrivò a Borgosesia e, dopo una notte passata ad interrogare gli ostaggi, il giorno seguente
fucilò dieci ostaggi contro il muro della chiesa di Sant’Antonio, a Borgosesia; una volta
compiuto il loro “dovere”, i fascisti si allontanarono dal borgo.59
Tra i nomi dei dieci morti spicca quello di Giuseppe Osella: oltre ad essere uno dei
compagni che liberò Moscatelli durante il suo terzo arresto, la sua morte ha a dir poco
dell’incredibile. Osella fu arrestato dalla Tagliamento il 22 dicembre 1943. Era un
personaggio molto conosciuto e infatti, quando uscì di casa trascinato dalla polizia, cercò
qualche volto amico che potesse salvarlo, ma nessuno fece nulla. Il giorno dopo il
partigiano venne fucilato insieme agli altri compagni. Secondo un testimone oculare,
Osella non morì al primo colpo: la scarica di proiettili sembrava averlo risparmiato. Non
fu così però la seconda volta: ricevette così tanti proiettili in corpo che non uccidere il
58
Leggende su Moscatelli, in «La Stella Alpina», 1(4), 30 novembre 1944.
59
Pietro Secchia, Cino Moscatelli, Il Monte Rosa è sceso a Milano, Torino, Einaudi, 1958, pp. 132-134.
196
bersaglio sarebbe stato impossibile. Finita la scarica, il comandante del plotone ordinò ai
suoi di cessare il fuoco e di andarsene.60
Il secondo scontro tra i nazisti e i partigiani citato nel canto è quello dell’attacco al ponte
della Pietà (Quarona), il 5 aprile 1944. Dopo la morte di un giovane combattente, Attilio
Musati (da cui prenderà il nome l’omonima brigata),61 il comandante della brigata
“Strisciante Musati”, ovvero Pietro Rastelli detto “Pedar”, decise di vendicare il
compagno aprendo il fuoco sui nemici.
I rastrellamenti al contrario iniziarono già alla fine di marzo e, siccome ci si aspettava che
i tedeschi avrebbero presto chiamato rinforzi, alcuni uomini della brigata si appostarono
al ponte della Pietà, in attesa del momento più opportuno per colpire. L’occasione arrivò
quando i partigiani sentirono improvvisamente il rumore di un automezzo: era un plotone
della legione Tagliamento. I combattenti iniziarono subito a sparare e, dopo una serie di
scambi di raffiche, ci fu una vittoria totale da parte degli antifascisti, mentre i fascisti
rimasero tutti a terra.
L’azione fu considerata un vero e proprio successo, dal momento che i partigiani erano
riusciti ad uccidere i tedeschi e a recuperare armi dalle vittime in modo perfetto; anzi, la
loro azione fece cessare i rastrellamenti per due giorni.62
60
Cesare Bermani, Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini della Valsesia, vol. 1, tomo 1,
Borgosesia, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e
Vercelli, 2000, pp. 55-57.
61
Brigata degli Eroi, in «La Stella Alpina», 10 gennaio 1945.
62
Secchia, Moscatelli, Il Monterosa è sceso a Milano, pp. 219-220.
197
Ma chi nel sangue si sentì italiano
Con Moscatelli andò a fare il partigiano
198
Che lo vendicherà coi suoi tranelli
Già è pronta l’arditissima brigata
E tende una magnifica imboscata
La squadra di Rastelli non perdona
E ne uccide venti a Quarona
Il colpo è grosso e mette in movimento
Tutte le autorità della Tagliamento
La prima strofa, come stile, è molto simile all’originale Leggenda del Piave. Nel primo
verso abbiamo un fiume, il Sesia, che assiste tranquillo al passaggio dei combattenti: in
questo caso, però, non sono fanti bensì partigiani.
Ecco spiegato il motivo del «24 maggio»: si riferisce a quello del 1944. Come ricordato
nel capitolo precedente, quella era l’ultima data concessa ai partigiani per tornare sotto le
armi fasciste. I protagonisti del canto, però, scelgono di intraprendere la via della
Resistenza, in nome di un dovere morale di difendere la patria: decidono di seguire
Moscatelli, appartenente alla brigata Garibaldi operante nella zona libera della Valsesia.
La seconda strofa parla del rastrellamento di Borgosesia: il 23 dicembre 1943 Giuseppe
Osella e altri undici partigiani vennero fucilati. I fascisti lasciarono il borgo non prima di
aver ucciso altri innocenti e saccheggiato il territorio, “minacciando” la popolazione di
attenderli perché sarebbero ritornati nuovamente.
Si sa che il nemico, quando promette di tornare indietro per attaccare, lo fa senza esitare
e, infatti, nella terza strofa si lasciano intendere i rastrellamenti avvenuti a Varallo e
Camasco nel 1944, come strascichi delle rappresaglie avvenute l’anno prima. Tuttavia, in
63
Lanotte, Cantalo forte, pp. 182-183.
199
questi versi inizia ad emergere un personaggio che causerà non pochi problemi ai fascisti
e ai nazisti: si tratta di Pietro Rastelli, detto Pedar, che tese al nemico più di un’imboscata.
Nella quarta strofa viene citato il momento in cui Moscatelli, alla guida di un’auto, si fa
«beffa» dei nemici: si riferisce alla battaglia avvenuta a Gozzano tra il 7 e l’11 settembre
1944. Il testo lascia intendere che in quei giorni si svolge un’attività abbastanza comune
ai tempi della resistenza: lo scambio di prigionieri. Un prigioniero tedesco o italiano per
uno partigiano aveva, infatti, il vantaggio principale di evitare sangue e rappresaglie, ma
non sempre questo era possibile.
Le ultime due strofe, infine, sono dedicate al ricordo della battaglia di Quarona, ovvero
l’attacco al ponte della Pietà, durante il quale vennero uccisi venti nazisti ad opera dell’86
brigata Strisciante Musati, di stampo garibaldino e guidata dal già citato Pietro Rastelli,
e i conseguenti rastrellamenti da parte dei nazisti.
I giovani uccisi, però, affrontano la morte con serenità e, per sottolineare la convinzione
delle loro idee e l’ardore con cui hanno aderito alla causa, muoiono chiamando a gran
voce il nome di Moscatelli.
22. Conclusioni
La musica della Leggenda del Piave è stata un filo rosso che ha attraversato tutto il
Novecento ed è talmente importante e riconosciuta a livello nazionale da essere usata
ancora oggi nelle manifestazioni ufficiali di commemorazione dei cippi legati alle due
guerre. Tutte le varianti ricordate finora sono molto diverse tra di loro dal punto di vista
del contenuto, e ognuna di esse si inscrive perfettamente nel contesto storico in cui è stata
creata.
Tuttavia, più che sintetizzare le differenze, conviene forse concentrarsi su eventuali punti
in comune tra i testi. Probabilmente, l’elemento che collega tutte le varianti alla versione
originale del canto è la presenza di uno schema ricorrente.
Seppur con tutte le differenze del caso, è possibile notare che in ogni testo già nella prima
strofa viene chiarito che è presente un nemico da combattere.
Dopo la presentazione dell’eroe, che di solito appartiene alla corrente politica/di pensiero
dell’autore del testo, viene fatto cenno ad uno scontro in cui il nemico viene sconfitto;
200
nelle versioni più “oneste” si trova anche un riferimento ad una battaglia in cui a vincere
è lo schieramento opposto.
Il “mormorio” del Piave, in definitiva, servì da modello ad altri autori per narrare altre
storie del popolo italiano e fu un mezzo per esporre, ancora una volta, le proprie idee
politiche o il proprio pensiero come reazione ad un determinato avvenimento.
201
Conclusione
Dopo aver affrontato, in quattro capitoli, un percorso storico della società italiana fra
Ottocento e Novecento, è possibile giungere ad alcune conclusioni, più volte riprese nel
corso delle pagine precedenti.
Innanzitutto, se si vuole approfondire la ricerca a livello geografico, indagare sulle
relazioni commerciali e i trasferimenti dalle campagne di regioni confinanti permette di
comprendere le varianti linguistiche e di spiegare come mai lo stesso termine si ritrova
non solo in aree geografiche vicine, ma anche in territori non confinanti tra di loro. Se si
vuole, invece, indagare la dimensione collettiva del canto, l’esempio del rituale della
Merla può essere un punto di partenza per approfondire la presenza dei canti in altri
contesti sociali altrettanto importanti, ad esempio quello funebre. Il canto di tradizione
orale è risultato essere estremamente malleabile e in grado di adattarsi in modo
straordinario al “cantante” e al contesto storico-politico. Anzi, grazie ad esso è quasi
possibile sintetizzare il mutamento dei sentimenti provati dalle persone in questo modo:
nell’Ottocento e durante la Grande guerra i valori di riferimento per i soldati sono gli
affetti familiari e la patria; in epoca fascista l’amore viene sostituito dalla gloria e
dall’onore e, per la Resistenza, l’amore più sincero è quello provato nei confronti della
patria, che si vuole liberare dall’esercito nazifascista.
Quanti, tra i canti di tradizione orale, sono rimasti impressi nella memoria collettiva dopo
la fine della guerra? Pochi di essi sono stati trasmessi da chi ha combattuto durante la
seconda guerra mondiale ai figli o ai nipoti. Non è un caso se nei canzonieri pubblicati
dagli anni Cinquanta fino ad oggi, le fonti sono costituite da quelli che all’epoca erano
diretti testimoni degli eventi. Inoltre, anche quando si conoscono i testi dei canti oppure
si ricorda la musica, non si riesce a comprendere pienamente il significato se si separa il
testo dal contesto storico e politico in cui è stato composto. Per questo motivo, sarebbe
bene che a livello popolare si diffondesse maggiormente la conoscenza di queste vere e
proprie fonti che sono in grado di raccontare la storia d’Italia attraverso gli occhi di
contadini e soldati semplici. Utilizzare i canti per comprendere le azioni degli avi è un
altro modo per conoscere il passato del proprio paese. Il canto di tradizione orale, quindi,
potrebbe essere considerato come una specie di indicatore sociale, uno strumento in grado
di rilevare certe dinamiche sociali e culturali di una popolazione e acquista, valore e
completezza solo se integrato con il contesto storico e sociale in cui viene prodotto.
202
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